ASSAB, 17 Febbraio 1999 - Il grido stridulo dei corvi enormi e gonfi, che svolazzano a migliaia e si precipitano in picchiata sulla preda, è il simbolo sonoro di Assab, questa città immobile e deserta, attraversata dalle voci (forse immaginarie) di un imminente, massiccio attacco dell'Etiopia, che non riesce a distaccarsi dal passato.
Di fronte al container di metallo che è la sede della Croce Rossa Internazionale di Ginevra, su un capannone industriale con i muri di cemento, pieno di tubature di petrolio abbandonate, si legge ancora una scritta sbiadita in italiano che resiste da una sessantina d'anni: «Chi si ferma è perduto» grida a colossali caratteri il messaggio del Duce che nessuno ha mai pensato a cancellare.
Anche l'attacco aereo dell'Etiopia, in questo clima anacronistico, passa inosservato. Due sgangherati Mig vecchio modello, nel primo pomeriggio, lanciano due missili contro il serbatoio idrico di Harsillé, che rifornisce Assab, lontano 15 chilometri dalla città, mancando di parecchio l'obiettivo. E in serata si sentono altre sette esplosioni provenire dall'area del deposito d'acqua. La città reagisce ai bombardamenti con una calma che sfiora l'apatia: la vita continua con i ritmi letargici usuali. Più che la paura di una vera guerra con l'Etiopia, alla quale nessuno crede fino in fondo, la reazione che prevale nella gente è il fatalismo. Eppure già domenica scorsa l'aviazione di Addis Abeba aveva sganciato alcuni razzi contro il porto, peraltro senza provocare seri danni, e il governo di Asmara aveva avvertito che la rete idrica di Assab sarebbe stata probabilmente il prossimo bersaglio. Lungo il fronte del porto, le banchine dello scalo che una volta collegava l'Eritrea e l'Etiopia con gli scali più remoti (Trieste, Livorno, Fiume, Amburgo, Anversa, Kingston-upon-Hall in Inghilterra, Pusan in Corea e Yokohama nel Giappone) sono ferme e vuote. «L'unica merce che continua a esportare l'Eritrea è il sale. Lo vendiamo all'Emirato di Dubai», dice Ali Mohammed, uno spedizioniere che tiene sempre aperto l'ufficio ingombro di scartoffie anche se non ha più nulla da fare.
Una seconda voce dei commerci portuali di Assab, a parte le saline che dopo la partenza dei lavoratori etiopici funzionano solo al minimo regime, è stata ultimamente l'esportazione e l'importazione di persone. «Sì - ammette lo spedizioniere -, nei mesi scorsi abbiamo lavorato molto con i profughi. Con la crisi fra l'Eritrea e l'Etiopia, da Assab ne sono transitati a decine di migliaia. Ci siamo dovuti occupare dell'imbarco dei 52 mila eritrei che lasciavano l'Etiopia e dei circa 30 mila etiopici che hanno deciso di partire per Addis Abeba».
Adesso, mentre anche l'import-export umano va esaurendosi, il collasso dell'economia legata al porto diventa più drammatico. Ad Assab - che prima della guerra esportava navi intere di caffè, fagioli, tè e cisterne cariche di petrolio, importando dall'Europa macchinari, parti di ricambio, prodotti alimentari e auto usate - il traffico si è ridotto a un paio di piroscafi ogni mese. Sulle due strade principali, la maggioranza dei negozi resta chiusa. Nella sede dell'ex governatorato coloniale il sindaco di Assab, che conserva ancora il vecchio nome di «governatore», non dà udienza. «Con il conflitto qui c'è praticamente lo stato di emergenza», si scusa un funzionario. «Oltre alla raffineria che non funziona e al porto che è inattivo, abbiamo chiuso anche le scuole. La situazione è più sicura in prima linea».
Un viaggio di molte ore, fino a notte fonda, per arrivare a pochi metri dalle postazioni avanzate dell'Etiopia, ne è la prova. Il fronte di Burrie, a 71 chilometri dal mare, verso l'altipiano che incomincia dove finisce la Dancalia, non è una prima linea nel senso tradizionale militare. Per approdarvi si percorre l'unica strada asfaltata che da Assab corre verso l'altipiano in direzione dell'Etiopia. Poi si volta a destra, attraverso un deserto desolato - dove si vedono solo sassi, sassi e ancora sassi - e si respira un polverone sabbioso che si infila dappertutto.
Il terreno, con pochissimi sentieri relativamente sgombri dai macigni accessibili solo ai fuoristrada e ai cammelli, è inadatto per qualunque tipo di attività bellica moderna con automezzi pesanti o con blindati.
Ogni tanto in mezzo ai sassi, vedendo il polverone sollevato dai veicoli, sbuca qualche drappello di soldati con i sandali di plastica marrone, immancabile distintivo dell'Esercito di liberazione dell'Eritrea. Le armi sono poche e ben nascoste in mezzo ai sassi: qualche antico mortaio, qualche mitragliatrice, alcuni «howitzer» e pochi carri armati occultati in posizione difensiva fra la pietre.
La prima linea è un semplice muretto di pietre alto un metro e mezzo dietro il quale, facilmente individuabili nei puntini luminosi delle sigarette, si nascondono i soldati, comprese molte donne, alcune delle quali imbracciano il kalashnikov, e partecipano ai combattimenti come gli uomini e si muovono nel buio con l'agilità delle gazzelle saltellando fra i macigni. Le comunicazioni fra i reparti sono primordiali, essendo affidate soprattutto ai gesti e alla voce, data la mancanza in molti casi dei telefoni da campo.
Quando la notte cala, come nei tempi antichi, la guerra si interrompe per ricominciare di regola il giorno successivo. Ma le vittime di questo conflitto a bassa intensità non sono una finzione. Nel buio, con una caotica tenacia che raggiunge l'incoscienza, il colonnello Adem si ostina a rintracciare i rottami dell'elicottero dell'Etiopia abbattuto, perdendo e ritrovando la strada nei sentieri fino a quando, illuminata dalle torce, non compare la cabina di pilotaggio con i corpi rattrappiti e carbonizzati dei piloti. Il colonnello è evidentemente un uomo fiducioso.
Nel lungo e confusionario viaggio di ritorno, per dirigere con maggiore libertà di movimento la visita guidata dei cronisti, l'ufficiale affida a una telereporter la sua cartella portadocumenti, a una bionda giornalista di un quotidiano londinese la pistola d'ordinanza, a me un pesante binocolo da campo.
La curiosità, mentre il colonnello si attarda appollaiato su un altro veicolo mentre è impegnato a farsi spiegare dai soldati come si esce dai sentieri della prima linea, prende inevitabilmete il sopravvento. Apriamo la cartella con i piani di battaglia ma la curiosità è punita perché tutti i documenti «top secret» con gli schemi sono scritti in un (per noi) illeggibile tigrino.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]