54118 Il deposito materiale rotabile della stazione di Asmara
Alle otto del mattino il sole dell'altopiano picchia già come un martello sui capannoni della stazione di Asmara. La scena sembra uscita da una macchina del tempo difettosa: una dozzina di uomini dai capelli bianchi, infagottati in tute da fatica rattoppate lavora intorno a una locomotiva. Accanto al fumaiolo una targa verde porta incisa la scritta "Società italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche, n. 2456, Milano 1937".
"Giulio, topo ruffiano, dove ti sei nascosto?". Il capodeposito Seium Baraki è orgoglioso di mostrare la sua autorità ed è felice di poterlo fare in italiano spedito, imparato sessant'anni fa alla scuola elementare Re Vittorio Emanuele III di Asmara. Giulio riemerge dalla caldaia della Breda, è piccolo e grinzoso, cammina a salti, come un motore che perde colpi, potrebbe avere ottant'anni, la pelle nera è ingrigita dalla fuliggine. Il capodeposito lo indica ridendo: "Il suo nome era Abraha Ikuar, ma gli italiani hanno cominciato a chiamarlo Abraha Giulio, alla fine è diventato Giulio e basta per tutti, anche per noi eritrei". L'omino piegato dall'artrosi deve aver sentito la storia un'infinità di volte, ma è ancora paziente: 'Si, gli italiani mi dicevano "Giulio, topo ruffiano, vieni qua, smonta, raschia, pulisci. Io non me la prendevo, era così allora... è così anche adesso".
54115 Una delle mastranze della squadra locomotive ad Asmara
Molte altre cose alla stazione di Asmara sono come allora, quando Seium e Abraha-Giulio erano ragazzi, quando l'Eritrea era la "colonia primogenita" e la ferrovia Massaua-Asmara, costruita da alpini e bersaglieri tra il 1897 e il 1911, era definita anche dalla stampa internazionale, critica e sospettosa delle tardive ambizioni coloniali italiane, "una stupefacente prodezza", un "miracolo dell'ingegneria".
Sui 117 chilometri del tracciato, per salire dal Mar Rosso ai 2400 metri dell'altopiano di Asmara, i progettisti italiani avevano dovuto piazzare 64 ponti e viadotti e 30 gallerie. Un'impresa epica da portare a termine a tutti i costi: "Ca costa l'on ca costa", come dicevano i soldati piemontesi che gettavano i binari su strapiombi da vertigine e come ancora oggi si legge, scolpito orgogliosamente sotto l'arcata di uno dei ponti.
54427 Il ponte di Dogali, costruito sulla strada tra Aslmara e Massawa dai bersaglieri del Gen. Menabrea (vedi iscrizione)
Negli stessi anni i francesi costruivano una linea da Gibuti ad Addis Abeba e, siccome l'orgoglio coloniale imponeva che il "genio italiano" non potesse essere superato da quello francese, la nostra ferrovia non si fermò ad Asmara, ma avanzò ancora nell'interno fino a Cheren e poi ad Agordat e infine Biscia: altri 227 chilometri. Dall'Italia arrivarono le più moderne locomotive a vapore, costruite dalla Breda di Milano e dalla Ansaldo di Genova, meraviglie della tecnica che superavano il muro dei 35 chilometri all'ora. In pianura, naturalmente, perchè sulle curve in salita tra Massaua e Asmara si andava così a rilento che lo scrittore britannico Evelyn Waugh in "Scoop" descrisse i passeggeri che scendevano, coglievano more e avevano tempo di risalire sul convoglio arrancante. Quasi a rispondere all'ironia inglese dalle officine Fiat nel 1934 furono spedite a Massaua due Littorine, motore a benzina da 120 cavalli e velocità massima di 50 chilometri l'ora; il 19 ottobre 1934 il quotidiano "Roma" potè raccontare il viaggio inaugurale da Massaua ad Asmara: "I giornalisti, appena scesi a Massaua, prendono posto sopra una elegante e velocissina Littorina affidata alla perizia instancabile del Genio Ferrovieri che con una volata di tre ore raggiunge la capitale della Colonia Eritrea".
La ferrovia italiana continuò a funzionare negli anni Quaranta, attraversando la guerra mondiale. Gli inglesi, che presero Asmara il 1° aprile 1941, comunicarono che le autorità civili italiane sarebbero rimaste al loro posto, imposero alle auto di tenere la sinistra, come fanno i gentlemen a Londra, chiamarono Bristol un albergo costruito in puro stile imperial-fascista, senza alcun pudore smontarono e portarono via come preda bellica i macchinari di molte fabbriche italiane e la teleferica che risaliva da Massaua all'altopiano (finita nelle Indie). Breda, Ansaldo, Littorine continuarono indisturbate a compiere le loro acrobazie su un tracciato largo meno di un metro (scartamento esatto 95 centimetri) anche negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l'Eritrea fu annessa dall'Etiopia di Hailè Selassiè. Nel 1965 stabilirono il record, trasportando 446 mila passeggeri e 200 mila tonnellate di merci. Di ferrovieri italiani non ce n'erano più, ma si diceva sempre "rotaie, scambio, caldaia, tubi...". ´Certo - spiega il capodeposito Seium Baraki - l'italiano è meglio: scrivi acqua e dici acqua, in inglese invece, scrivi water e devi dire uotar, non va mica bene per far andare i treniª.
Poi, una mattina del settembre 1975, una Ansaldo si fermò in una nube di vapore nella calura umida della stazione di Massaua. Non sarebbe risalita più verso l'aria tersa e asciutta di Asmara. Dal 1962 l'Esercito di liberazione eritreo e le forze etiopiche si davano battaglia per una terra ingrata, proprio come alla fine dell'800 avevano fatto gli italiani di Baratieri e i guerrieri di Menelik, con la stessa feroce determinazione. E la ferrovia poco a poco si accorciò, poi scomparve: i soldati da entrambe le parti utilizzavano rotaie e traversine per rinforzare trincee e bunker. Quella guerra dimenticata durò trent'anni, la più lunga guerra d'indipendenza africana. Nel 1991 il regime di Addis Abeba guidato dal "negus rosso" Menghistu crollò. Nel 1993 l'Eritrea ebbe l'indipendenza.
Il governo del presidente Isayas Afeworki, composto da ex guerriglieri che dopo la liberazione hanno cominciato a seguire corsi universitari per corrispondenza, pensò di ricostruire la ferrovia coloniale, esattamente com'era. Un progetto fuori dal tempo, troppo costoso, irrealizzabile, sentenziarono gli esperti statunitensi e britannici; i sauditi offrirono di acquistare come ferraglia le vecchie locomotive in pezzi. Il governo di Asmara andò avanti da solo. Perchè? "Voi italiani sapevate costruire strade e ponti, ma non sapevate che quella ferrovia sarebbe diventata un simbolo della nostra sovranità nazionale: ora, ricostruirla da soli, utilizzando un mucchio di ferraglia arrugginita, proverà a tutti la determinazione della nostra gente", spiega Ammanuel Ghebreselassie, il giovane ex guerrigliero che coordina la ricostruzione.
54104 Uno dei cantieri per la ricostruzione della strada ferrata trea Asmara e Ghinda
Così, nel 1995 ai contadini e agli ex combattenti fu ordinato di raccogliere il materiale disperso sui campi della guerra dei trent'anni. Incredibilmente, rotaie e traversine con il marchio Ilva Savona ricomparvero, portate da una catena umana consapevole di partecipare alla rinascita di una nazione. I combattenti smobilitati cominciarono a stendere le rotaie sull'antico tracciato, metro dopo metro, partendo da Massaua. "Abbiamo fatto settanta chilometri, siamo quasi a Ghinda, la stazione di metà strada", dice Ammanuel. Ma il "quasi" significa settimane se non mesi di fatica bestiale. Ora i lavori sono tra Mai Atal e Damas, in un paesaggio lunare, fatto di pietre, cespugli spinosi e qualche cammello; si va avanti di pochi metri al giorno, tutto a forza di braccia: un binario lungo nove metri pesa tre tonnellate.
54097 La stazione di Ghinda, attuale capolinea del tratto in funzione: Ghiunda-Massawa
Ma per rimettere in moto le Breda, le Ansaldo e le Littorine, ormai fuori produzione da decenni, determinazione e forza non potevano bastare. Il governo ha richiamato in servizio gli unici uomini al mondo capaci di smontare e rimontare a occhi chiusi quel materiale d'epoca: i ferrovieri "residuati" dell'epoca italiana. Hanno risposto all'appello in poco meno di cinquanta: il più giovane ha settant'anni. Ma la volontà e la memoria sono ancora forti.
Quando Abraha Ikuar Giulio cominciò a lavorare come calderaio all'officina della stazione di Asmara, era il 1935. Sulla ferrovia viaggiavano 38 treni al giorno, carichi di uomini e materiali per la conquista dell'Etiopia. Seium Baraki arrivò dopo, alla vigilia della guerra mondiale che avrebbe messo fine in pochi mesi all'Africa Orientale Italiana. "Sono qui dal 1940, dal tredici, tre novecentoquaranta" scandisce con precisione da impiegato modello. "Mi assunse Oreste Maranzana, bolognese" ricorda, sicuro che il nome del suo vecchio capo non possa essere sconosciuto in Italia. E deluso nel constatare che gli italiani d'oggi non si conoscono tutti tra di loro e non hanno memoria di un ferroviere coloniale come Oreste Maranzana da Bologna; si consola mostrando gli attrezzi dell'officina, restituiti all'antica efficienza. "Pressa, ghiera, tornio, paranco, puleggia, incudine", elenca in italiano, come se Oreste Maranzana lo stesse ascoltando e giudicando.
54469 Un vecchio tornio della ditta "Morini e Bossi" di Milano, nell' officina della stazione di Asmara
Il mago delle Littorine è Teknè Kiranè, 73 anni. Ne ha rimesso insieme pezzo per pezzo due e quasi litiga con il capo Seium, quando chiediamo se davvero possono assicurare che le macchine sono efficienti. "Questa è pronta", dice Teknè indicando la Littorina n. 2, la stessa che quella mattina di ottobre del 1935 entusiasmò l'inviato speciale del "Roma" (manca solo il fascio littorio dal frontale); Seium batte un pugno su una Ansaldo del 1929 e sentenzia: ´Non è solo pronta per lavorare, sta lavorando"; Teknè non rinuncia all'ultima parola: "Lavorerà quando ci sarà il binario" e sembra seccato con quelli che faticano lungo il tracciato, troppo lenti a risalire con traversine e rotaie da Massaua fino all'altopiano. A Teknè non sembra motivo sufficiente per il ritardo la grande pioggia dello scorso autunno, che ha spazzato via in due punti la massicciata appena rifatta, nè il conflitto di confine scoppiato a maggio con l'Etiopia, che ha portato le bombe anche su Asmara. Un'altra storia difficile da capire questa guerra, i veterani della lotta d'indipendenza sono ripartiti verso il fronte senza fare domande, senza protestare. Come se la macchina del tempo capricciosa che decide la storia dell'altopiano eritreo avesse deciso di richiamare in vita i battaglioni di ascari che si facevano massacrare per conquistare a un re d'Italia lontano, che non avevano mai visto, qualche chilometro in più di terra e sassi.
La Breda non parte. Pistoni e stantuffi restano inerti sotto il sole. La squadra dei ferrovieri decide di spingere: niente. Sembra impossibile che quei vecchi carichi di artrosi possano spostare quintali d'acciaio e ghisa. "Dio ti mandi un cancher secco" dice Seium, quasi fosse un'implorazione. La vecchia vaporiera ha un sussulto, sbuffa vapore, marcia da sola. Oreste Maranzana da Bologna sarebbe soddisfatto.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]