DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
STORIES by Gian Micalessin


CHADOR E TELEFONINI (1999)
>Gian Micalessin
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53036 Giovani donne a Tehran

Chador e tacchi alti, ayatollah barbuti e vetrine di cybercafè. Antenne satellitari nascoste sui tetti. Masse di donne in nero che sfilano nel cimitero dei martiri. Ristoranti pieni zeppi fino alla mezzanotte di giovedì. Una preghiera del venerdì divenuta appuntamento di routine, ma ancora affollata. Giovani con le Nike allineati davanti alle sale dove si proiettano i film della nouvelle vague cinematografica iraniana. Farmacie dove trovi esposte scatole di preservativi di tipi e forme diverse. Fast food che all’ora di pranzo hanno sostituito il tradizionale kebab. Telefonini appoggiati ai tavoli dei bar dove i ragazzi si danno appuntamento. L’Iran è, da due anni, un caleidoscopio di immagini violente e contrastanti. Un turbinio di contraddizioni che lascia il visitatore occidentale confuso e frastornato. Come nella rivolta di questi giorni è difficile identificare una logica o un fine precisi. L’impressione è quella di società risvegliatasi all’improvviso, una società alla spasmodica ricerca di un nuova identità. Per rendersene conto basta trascorrere una giornata con una giovane rampolla di quella che un tempo era la patria dello chador. Di chador Samaneh ne ha solo uno. Lo tira fuori ogni mattina alle sei. Se lo butta addosso e mentre fuori incomincia a far giorno corre con la sua piccola utilitaria verso il lavoro. Il lavoro ufficiale, quello per il governo. Samaneh ha 26 anni si è laureata da poco. Di mattina fa il medico in un piccolo villaggio rurale. Assiste gli abitanti del villaggio e una piccola comunità di profughi afghani mandati fin qui dal governo. Alle tre del pomeriggio Samaneh rimonta in macchina piega il chador e lo butta sul sedile. Ora indossa un velo che gli copre i capelli. Sotto è rimasta in jeans e con un lungo maglione. Alle cinque Samaneh è nell’ambulatorio che gli ha aperto il padre. "E’ qui che riesco a guadagnare qualche soldo, il governo non ti passa una paga ti passa un sussidio, con quello non ti compri neanche i libri per l’aggiornamento". Lavora con i pazienti della borghesia di Teheran nord, Samaneh, con quelli che possono permettersi di far meno dei servizi sociali. Ma il lavoro per lei non è tutto. Alle sette quando posa lo stetoscopio e spegne le luci dell’ambulatorio si attacca al telefono. Una sfilza di numeri di cellulari, una sfilza di amici e amiche con cui organizzare la serata. E soprattutto il passaparola "Ci sono pasdaran in giro?". Se non ci sono posti di blocco nessun problema. Samaneh indossa le scarpe con i tacchi, tailleur e pantaloni. Sopra ci butta un spolverino nero e leggero, sostituto elegante e raffinato dello chador. Poi la serata può iniziare. Via a casa d’un amico. Qui si sono dati appuntamento gli altri. Ragazzi e ragazze stretti intorno ad un televisore con i video musical-satellitari di Mtv. I veli sono appesi assieme agli spolverini. Mezz’ora per decidere cosa fare poi si scende verso un ristorante. Uomini in una macchina donne in un’altra. "Così se ci fermano non abbiamo nulla da spiegare". Al tavolo del ristorante ragazzi e ragazze si ricongiungono. Un po’ come a tutti gli altri tavoli di questo locale dove le rigide regole della repubblica islamica sembrano stemperarsi con il passare delle ore e l’accendersi dello spettacolo. Ai tavoli ci sono attrici del nuovo cinema iraniano, parvenù degli affari con grisaglie occidentali e orologi d’oro, figli della buona borghesia di Teheran. Qui ogni sera la repubblica degli ayatollah sembra un ricordo lontano. Soprattutto quando il cantante di turno intona Ey Iran e cento bocche lo seguono. "E’ una vecchia canzone nazionalista – ti spiega Samaneh – per vent’anni nessuno l’ha mai cantata oggi sta ritornando di moda, come tutte le cose di prima della rivoluzione. Non perché rivogliamo lo scià, ma per un senso di riscoperta del passato. Forse perché per la prima volta i nostri genitori hanno incominciato a raccontarcelo">


53032 "Il cantante di turno intona Ey Iran e cento bocche lo seguono"

Samanah, con il velo che gli scopre i capelli, ama le spiegazioni innocenti, ma Ey Iran in questi mesi è diventato qualcosa di più di un canto malinconico. E’ l’inno dell’Associazione degli Studenti Nazionalisti Iraniani uno dei gruppi meno controllati fra le decine di organizzazioni che si muovono nel campus di Teheran. Una di quelle organizzazioni che neanche il presidente Mohammed Khatami può dire di controllare. Ma l’Iran di oggi è anche quello dei villaggi rurali dove, grazie ai programmi di alfabetizzazione gestiti dagli ayatollah, centinaia di migliaia di donne e uomini hanno imparato a leggere e scrivere. E negli stessi villaggi i servizi sociali del governo organizzano corsi per il controllo della natalità. Sotto il controllo dei mullàh si insegna l’uso della pillola e del preservativo. L’Iran di oggi è quello di Elnaz, 16 anni, che infagottata nel suo chador nero ascolta Khatami al palazzetto dello Sport, scoppia in lacrime dalla commozione e ti dice "i miei coetanei in occidente hanno tutto, ma non sanno cosa farsene, noi abbiamo poco, ma sappiamo sognare". Ma i sogni guardano soprattutto al futuro. Nei quartieri degradati della periferia sud di Teheran - dove vivono i figli dell’Iran povero - ragazzi e ragazze trascorrono i loro pomeriggi ciondolandosi intorno alle panchine, separate, dei giardini pubblici. Ti raccontano di non aver mai sentito nessuno a casa spiegargli la storia della rivoluzione. Sappiamo che c’è stata ma nulla di più. – ti spiega Sasan maglietta di Michel Jackson nascosta sotto il giubbotto di pelle- mio padre mi dice sempre "ero povero prima, sono povero anche adesso". Io voglio qualcosa di diverso. Voglio non dover nascondere questa maglietta. Voglio poter sperare in qualcosa di diverso, anche se non so esattamente in cosa".




WATCH OUT FOR THOSE TWO (August 21, 2000)
>Gian Micalessin
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56116 Father Berton, italian, with a few of his children in Lakka (Freetown), where he runs his own charity, St. Michael Children's Welcome Center. Here, he has hosted more than 1300 children, mostly rescued from the "bush", since 1997


56421 Father Biguzzi, bishop in Makeni

Watch Out for Those Two
A special report from Sierra Leone. In the inferno
of an ongoing war, the encounter with Father Berton
and Bishop Biguzzi, who spoke at the Meeting in Rimini.
“As missionaries, we are here because we chose
the missionary life. We are here to be with people.”

BY GIAN MICALESSIN

The jeep moved slowly forward through the silence of the gutted houses, the sticky heat of a driving rain, the sickly sweet smell of rotting garbage. Masiaka is not on the front line, but almost. The rebel outposts are only about ten kilometers away. The rebels make it even here every so often. They attack, shoot, and disappear again.
At the roadblocks, the soldiers were drunk and irritable. Their uniforms were torn, their eyes troubled. Suddenly, we were surrounded. In the center was the jeep, a trembling driver, the photographer Raffaele Ciriello, and yours truly. All around, a masnada of ragged uniforms, machine guns, sharks’ teeth necklaces, screaming voices, the acrid stench of sweat. “No snap, no snap.” “No photos, no photos.” They wanted the roll of film, our money, maybe something else. It was time for our magic formula. “Italians, Italian friends of Father Berton and Bishop Biguzzi.” The crowd calmed down, the screaming stopped. An officer came up. “Italians, friends of Bishop Biguzzi and Father Berton? Welcome, no problem, no problem. I studied at the seminary with Bishop Biguzzi.”
This is the way it always is in Sierra Leone. Whatever happens to you, say these two names: Father Berton and Bishop Biguzzi. There is no doubt that you will get out of whatever situation you are in. The power of the Church, miracles of religion? No. It is simply the strength of having spent thirty years among the people, opening schools, building dispensaries, staying to do what they could when the United Nations, humanitarian organizations, and diplomats were all climbing on airplanes to flee the country. Bishop Giorgio Biguzzi is the hardest bishop to catch in all of Africa. Like a spinning top in a cassock, he goes everywhere, heedless of wars and danger, morning to night. One day you follow him to Mile 91, a crossroads where 70,000 refugees are gathered together and lacking everything. The next day, when the guerrillas attack right there at Mile 91, the Bishop is already in Guinea to visit refugee camps. The next day still, he gets in the car at dawn and starts his round of the Care centers in the government zones. Kidnapped by rebels, held hostage, freed, captured again, freed again, Bishop Biguzzi moves about like a fish in water. Like a shepherd eternally looking for his flock. “What do you want,” he says, “it’s a missionary’s job to be with people. As missionaries, we are here because we made a Christian choice, to become involved in the lives of others. Our mission is evangelization. We are here precisely in order to be with people. When something happens, unlike businessmen or others, we cannot go away. Rather, at those times our function becomes more important. As long as there are people here, we are too. We are the same Church and we are, albeit of different races, brothers. I’m not the only one around here to have been through some hard times. We have to remember that in this country, more than half the population has had to abandon their homes. Missionary nuns have been kidnapped, Irish missionaries slaughtered, a Dutch volunteer killed with his whole family, many Italian missionaries kidnapped, and four sisters of Mother Theresa’s order lost their lives during the days of the rebel conquest of Freetown. Also out of respect for the sacrifice of these brothers, we cannot leave.”

The Lomè agreement
But the fact that this Bishop remains there—even after the rebels took over his diocese, after the destruction of care centers built in decades of labor and of hospitals that had been modernized and transformed to meet Western standards in the midst of the bush—has a significance that goes beyond religious witness. For good or ill, Bishop Biguzzi, with his experience, his knowledge of the people and places, and his acknowledged impartiality, has acquired also a political role. It is no coincidence that the Bishop of Makeni played a fundamental part in the negotiations that led, last summer, to the signing of the Lomè agreement. This agreement provides for the participation of the rebel forces in the administration of the country. For a few months, it brought some hope of peace to Sierra Leone. And it fell apart when the rebels took as hostages the UN peacekeeping forces who had been sent to make sure the disarmament plan was respected.
“I participated in the Lomè agreement as part of an inter-religious group that included Muslim leaders as well. I must say that everyone worked very hard. We were trying to put an end to the slaughter. We wanted to flush out the guerrilla leaders and see if we could come to some agreement. In the end the will to enforce the disarmament was just not there. The amnesty was granted, but the violence did not end. In the end, the rebels did not keep their word. Now, even if I am a man of the Church, I believe that the only way is to destroy their military potential. The government and the legal structures must be strengthened so they can capture these combatants who have behaved like criminals. In the last analysis, I do not think I am saying anything outlandish. It is necessary to act like any government acts when they send in the police to stop criminals. It has to be said that also the United Nations’ initiative was a great disappointment. Now it seems that the high levels of the UN want to learn from this bad experience in order to save what they can. They now seem determined to stay and defend the population. The hope is that the local army can manage to get stronger and wrest from the rebels control of the diamond-mining areas which they use to finance their war.”

The Pope’s ring
Then Bishop Biguzzi showed us his ring. “Do you see this? The Pope gave it to me when I was named Bishop in 1987. They have tried to steal it from me twice, but it always comes back.” The first time was a couple of years ago. That day, the wandering Bishop wanted to take custody of about a hundred child soldiers from a faction of the army that had passed over to the rebel side. “Suddenly a bunch of soldiers pointed their guns at me. They stole my wallet, ripped my crucifix from around my neck, and pulled my ring off. In the meantime, the cars disappeared. We had already commended our souls to the Lord. Then a soldier stepped forward. ‘I know you,’ he said, ‘you’re my Bishop, you gave money to my family so I could study. Don’t worry, I’ll help you.’ After a short while he came back with an officer. ‘Don’t worry,’ the officer said, ‘I’ve already had the one who stole your ring arrested.’ He made a soldier come over and questioned him in front of me. The poor man denied everything, lying, but in the meantime was feeling around in his pockets. He dropped something. The ring rolled on the ground and came to rest at my feet.”
The saga of the unstealable ring added another chapter last October. “Another missionary and I had gone to Makeni, my diocese. Suddenly a group of rebels came into the house. They shot a round of machine gun fire at the feet of one of the missionaries. I took my silver cross off my neck, but forgot about the ring. An instant later, one of them grabbed my hand. Two days later, one of the rebel commanders called me to come see him. It was darkest night, and going alone to their camp was not an entertaining endeavor. The commander offered me a beer and pointed to a poor wretch, naked and tied up like a salami. ‘We are not bandits,’ he said. ‘I found out who was responsible for the robbery. What do you want me to do with him?’ ‘There have already been enough dead,’ I answered. The poor man slunk away. The commander put the ring on the table. ‘You can take it,’ he said to me, ‘and go back to Freetown.’ In any case,” Bishop Biguzzi explained, smiling, “the help of Providence has a limit. After these two adventures, I always leave the ring at home.”

Father Berton’s children
Father Giuseppe Berton, 68 years old, with two heart bypasses and a calm, measured voice, can always be found in the same place. He stays there, at the Saint Michael Center in Lakka, isolated from the world and from the city, without a telephone, with no defense, surrounded by his children. There are a hundred and fifty of them. Maybe even more. Almost all of them are ex-soldiers. Father Giuseppe Berton was the first to discover their drama. “In 1997, the rebels of the RUF (Revolutionary United Front) came into Freetown for the first time. I remember truckload after truckload of children in uniform with rifles in their hands. I began to go around to the rebel headquarters. I would find a spot in the hospital for the wounded, and in exchange I would make them give me a child or two. If they gave me wounded children I would not give them back. The rebels kept up their end of the bargain. It suited them as well. Usually the weakest children are abandoned or killed. From then on, they started giving them to me.” In three years, Father Berton has given more than 1,300 child soldiers back to their families. “Those who have not found their parents or relatives,” he explained, “stay here with me in the center.” The center is a former Club Mediterranean site that was abandoned. Father Berton had it rebuilt. Now, among the bungalows on these golden beaches of the Atlantic, groups of children play and run. Father Berton knows them all, one-by-one. He knows that many have killed, tortured, fought. But he also knows that they were kidnapped at a very young age, drugged, and trained to fight.
“The child doesn’t cost anything… he wants to be promoted and so he always obeys. But above all, he doesn’t cost much. If he is drugged, he will shoot as much as an adult. They are low-cost cannon fodder,” he explains. “Many of these children were kidnapped, taken prisoner, and carried away from their families and villages when they were four years old. They trained them in their camps, they made them carry supplies, ammunition, and finally also to fight. A child in the end gets used to this life. Children like to show their courage. For this reason they are sometimes used as proper attack forces. In the end, they are the ones who suffer the most and pay for everybody. But we mustn’t think that they are all victims. At times, by dint of committing atrocities, they start to get used to it, to consider it a sort of game. Many of them in the time they spent with the guerrillas little-by-little changed their nature.” These are the most difficult cases, the ones that will be the hardest to retrain. Father Berton, faced with their cases, shakes his head, shrugs his shoulders, confesses he feels powerless. “Some of them,” he explains, “will never be recoverable. The work of drugs has gone too deep. Combined with an indoctrination of maybe five or six years, it has totally changed their nature. Obviously, we keep hoping and trying, but it is hard to be sure that we will get results. We often have cases of kids who cannot get free of drugs. They run away, trying to find some, and end up taking an overdose, and they become violent and dangerous. In these cases, recovery is very, very difficult.”
But Father Berton is also a practical man. He knows that by himself, he cannot go on, and that charity and assistance have a cost. And so he never neglects to tell his story to journalists. He never misses an opportunity to let the world know more about the tragedy taking place in this corner of the world, in every way and by every means. “Charity alone,” he says, “is not enough. When I was in Italy I went to meet Luciano Benetton. Whoever, like him, has used advertising to create a sensation should start paying attention to Sierra Leone. Here children are used to fight a war that has one sole purpose: control of diamonds. This is no longer a political conflict, it is not a civil war. It is a war between Liberia and Sierra Leone for the control of the diamonds. Liberia already some years ago claimed territory in the mining areas. Now Monrovia is hiding behind the screen of the RUF and is getting rich on the precious stones that it takes away from this country. Then these diamonds pass through the hands of the big companies who make a profit on them. This is not right. Companies must start asking themselves ethical questions; they cannot continue to pretend to be ignorant of what lies behind their business deals. During World War I, 90% of the dead were soldiers. Here, 90% of the victims are civilians. Men, women, and children have lost their lives or have had an arm, a leg, or a hand amputated. Those who kill and chop off hands are people who have been drugged and corrupted; they have become brutes. Those who stir all this up and feed this traffic with their demand are people who spend all day at a desk. They have to stop pretending that they don’t see, they must reflect and think that there are always two trays on the scales. On one side are the diamonds, on the other the lives of innocent people. This is the reason I went to see Benetton, to tell him that if he needs another sensational idea, I am at his disposal.”





ATTENTI A QUEI DUE (21 Agosto 2000)
>Gian Micalessin
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56116 Padre Giuseppe Berton, 68 anni, con alcuni dei suoi bambini a Lakka (Freetown) dove gestisce la propria struttura di assistenza, il St. Michael Children's Welcome Center. Qui ha gia' dato ospitalita' a piu' di 1300 bambini, perlopiu' fuggiti dal Bush


56421 Monsignor Biguzzi, vescovo di Makeni

Attenti a quei due
Reportage esclusivo dalla Sierra Leone. Nell’inferno di una guerra
sempre aperta, l’incontro con padre Berton e monsignor Biguzzi,
che ha partecipato a un incontro a Rimini. «Noi come missionari
siamo qui per una scelta di vita missionaria.
Siamo qui per stare con le persone»

DI GIAN MICALESSIN

La jeep avanza lenta attraverso il silenzio di case sventrate, il caldo appiccicoso di pioggia battente, gli odori dolciastri di rifiuti marcescenti. Masiaka non è la prima linea, ma poco ci manca. Gli avamposti ribelli sono a qualche decina di chilometri. Loro, i ribelli, di tanto in tanto, arrivano fin qui. Attaccano, sparano, riscompaiono. Ai posti di blocco i soldati sono ubriachi e nervosi. Hanno divise lacere, sguardi esagitati. All’improvviso siamo circondati. Al centro la jeep, un autista tremante, il sottoscritto e il fotografo Raffaele Ciriello. Attorno una masnada di uniformi a brandelli, fucili mitragliatori, denti di squalo appesi al collo, voci sbraitanti, lezzo acre di sudore. «No snap no snap». «Niente foto, niente foto». Vogliono il rullino, i soldi, forse qualcosa di più. È il momento della formula magica. «Italians, italian friends of father Berton and bishop Biguzzi». La folla si cheta, i mitra si abbassano, lo sbraitare si placa. Un ufficiale si avvicina. «Italiani, amici di vescovo Biguzzi e padre Berton? Benvenuti, no problem, no problem, io studiato al seminario con vescovo Biguzzi». In Sierra Leone è sempre così. Qualsiasi cosa vi capiti, pronunciate quei due nomi: father Berton e bishop Biguzzi. Sicuramente ve la caverete. Potenza della Chiesa, prodigi della religione? No. Semplicemente la forza di trenta anni passati tra la popolazione, aprendo scuole, costruendo dispensari, restando a prodigarsi quando Nazioni Unite, organizzazioni umanitarie e diplomatici salivano sugli aeroplani e scappavano. Monsignor Giorgio Biguzzi è il vescovo più inafferrabile d’Africa. Come una trottola in saio bianco gira, incurante della guerra e dei pericoli, da mattina a sera. Un giorno lo insegui a Mile 91, un crocevia dove si sono radunati 70mila profughi privi di tutto. Il giorno dopo, quando la guerriglia attacca proprio Mile 91, il Vescovo è già in Guinea per un giro nei campi profughi. Il giorno successivo monta in macchina all’alba e inizia un giro dei centri Caritas nelle zone del governo. Rapito dai ribelli, tenuto in ostaggio, liberato, ricatturato, riliberato, monsignor Biguzzi si muove come un pesce nell’acqua. Come un pastore alla eterna ricerca del suo gregge. «Cosa vuole - ti dice -, il mestiere dei missionari è stare con la gente. Noi come missionari siamo qui per una scelta di fede cristiana, di coinvolgimento con la vita degli altri. La nostra missione è l’evangelizzazione. Siamo qui proprio per stare con le persone, quando succede qualcosa, a differenza di uomini d’affari o altri noi non possiamo andarcene. Anzi proprio in quei momenti la nostra funzione diventa più importante. Finché ci sono le persone ci siamo anche noi. Siamo la stessa Chiesa e siamo, nella diversità razziale, fratelli. Io non sono l’unico da queste parti ad aver passato momenti difficili. Bisogna sempre ricordare che in questo Paese più della metà della popolazione ha dovuto abbandonare le proprie case. Ci sono state delle suore missionarie sequestrate, dei missionari irlandesi trucidati, un volontario olandese ucciso con tutta la sua famiglia, molti missionari italiani sequestrati e quattro suore di Madre Teresa che hanno perso la vita durante i giorni della conquista di Freetown da parte dei ribelli. Anche per rispetto del sacrificio di questi fratelli non possiamo andarcene».

Gli accordi di Lomè
Ma la permanenza di questo Monsignore, anche dopo la conquista da parte dei ribelli della sua diocesi, dopo la distruzione dei centri di assistenza costruiti in decenni di lavoro e degli ospedali pazientemente rimodernati e trasformati in cliniche di livello occidentale nel mezzo della boscaglia, ha un significato che va al di là della testimonianza religiosa. Nel bene o nel male monsignor Biguzzi con la sua esperienza, la conoscenza delle genti e dei luoghi, la sua riconosciuta imparzialità ha acquisito anche un ruolo politico. Non a caso il Vescovo di Makeni ha giocato un ruolo fondamentale nei negoziati che portarono, la scorsa estate, alla firma degli accordi di Lomè. Accordi che prevedevano la compartecipazione delle forze ribelli nella gestione del Paese. Accordi che per qualche mese portarono una speranza di pace in Sierra Leone. Accordi falliti quando i ribelli presero in ostaggio i caschi blu delle Nazioni Unite incaricati di far rispettare il piano di disarmo.
«Ho partecipato agli accordi di Lomè all’interno del gruppo interreligioso comprendente i leaders musulmani. Devo dire che tutti si sono dati molto da fare. Cercavamo di mettere fine alla carneficina. Volevamo far venire allo scoperto i capi della guerriglia e vedere se ci si poteva accordare. Alla fine non c’è stata la buona volontà di mettere in atto il disarmo. È stata concessa l’amnistia, ma non c’è stata la fine della violenza. I ribelli alla fine non hanno rispettato la parola data. Ora, pur essendo io un uomo di Chiesa, ritengo che l’unica via sia riuscire a distruggere il loro potenziale militare. Lo Stato e le strutture legali devono venir rafforzate in modo tale da potere prendere questi combattenti che si sono comportati da criminali. Bisogna agire come agisce qualsiasi Stato quando manda la polizia e ferma i criminali. Bisogna dire che anche l’esordio delle Nazioni Unite è stato molto deludente. Ora sembra che ai livelli alti dell’Onu si voglia far tesoro di questa brutta esperienza per salvare il salvabile. Ora sembrano decisi a rimanere e a difendere la popolazione. La speranza è che l’esercito locale riesca a rafforzarsi e togliere ai ribelli il controllo delle zone diamantifere con cui finanziano la loro guerra».

L’anello del Papa
Poi monsignor Biguzzi mostra il suo anello. «Vede, me l’ha regalato il Papa quando fui nominato Vescovo nell’87. Hanno tentato di rubarmelo due volte, ma lui torna sempre». La prima volta è un paio d’anni fa. L’errabondo Vescovo quel giorno vuole farsi consegnare un centinaio di bambini soldati da una fazione dell’esercito passata dalla parte dei ribelli. «All’improvviso un gruppo di soldati mi punta i fucili addosso. Mi rubano il portafoglio, mi strappano la croce dal collo, mi tirano via l’anello. Intanto le macchine sono sparite. Noi già raccomandiamo l’anima al Signore. In quel momento si fa avanti un soldato. “Io la conosco - mi fa -: lei è il mio Vescovo, ha dato soldi alla mia famiglia per farmi studiare. Stia tranquillo l’aiuterò”. Poco dopo torna con un ufficiale. “Non si preoccupi - dice il graduato -, ho già fatto arrestare chi ha rubato l’anello”. Fa venire un soldato, lo interroga davanti a me. Il poveretto nega tutto, mente, ma intanto rovista nelle tasche. Fa cadere qualcosa. L’anello rotola per terra e si ferma ai miei piedi».
La saga dell’anello inrubabile si ripete lo scorso ottobre. «Io e un altro missionario eravamo andati a Makeni, la mia diocesi. A un tratto un gruppo di ribelli entra in casa. Spara una raffica di mitra tra i piedi di un missionario. Io tiro via la croce d’argento dal collo, ma dimentico l’anello. Un attimo dopo uno di loro mi si attacca alla mano. Due giorni dopo, uno dei comandanti ribelli mi invita da lui. È notte fonda e andare da solo nel loro accampamento non è cosa molto divertente. Il comandante mi offre una birra e mi indica un poveretto, nudo, legato come un salame. “Non siamo banditi - mi dice -. Ho trovato il responsabile della rapina. Cosa vuoi che ne faccia?”. “Ci sono già stati abbastanza morti” rispondo io. Il poveretto se ne va. Il comandante mette sul tavolo l’anello. “Può riprenderselo - mi dice - e tornare a Freetown”. Comunque - spiega sorridendo monsignor Biguzzi - l’aiuto della provvidenza ha un limite. Dopo queste due avventure l’anello lo lascio sempre a casa».

I bambini di padre Berton
Padre Giuseppe Berton, 68 anni, due bypass al cuore, una voce pacata, lo trovi sempre allo stesso posto. Lui se ne sta lì, al centro Sant Michael di Lakka, isolato dal mondo e dalla città, senza telefono e senza difese, circondato dai suoi bambini. Sono centocinquanta. Forse più. Quasi tutti ex bimbi soldato. Padre Giuseppe Berton è stato il primo a scoprirne il dramma. «Nel 1997 i ribelli del Ruf (Fronte unito rivoluzionario) entrarono per la prima volta a Freetown. Ricordo camion e camion stracolmi di bimbi in uniforme con i fucili in mano. Iniziai a girare le caserme dei ribelli. Trovavo un posto in ospedale ai feriti e in cambio mi facevo dare qualche bambino. Se mi davano dei bimbi feriti non li facevo andar più via. I ribelli stavano al gioco. Faceva comodo anche a loro. Di solito i bambini più deboli vengono abbandonati o uccisi. Da quel momento incominciarono a darli a me». In tre anni padre Berton ha restituito alle famiglie più di 1.300 bambini-soldato. «Quelli che non hanno ritrovato genitori o parenti - spiega - li tengo qui nel centro». Il centro è un ex Club Mediterranee abbandonato. Padre Berton l’ha fatto ricostruire. Ora, tra i bungalow di queste spiagge dorate dell’Atlantico, corrono solamente frotte di fanciulli. Padre Berton li conosce uno ad uno. Sa che molti hanno ucciso, seviziato, combattuto. Ma sa anche che sono stati rapiti giovanissimi, che sono stati drogati e addestrati a combattere.
«Il bambino non costa niente… vuole essere promosso e quindi ubbidisce sempre. Ma soprattutto costa poco. Se viene drogato spara quanto un adulto. Si tratta quindi di carne da macello a poco prezzo - spiega -. Gran parte di questi ragazzi sono stati rapiti, fatti prigionieri e portati via dalle famiglie o dai loro villaggi quand’avevano quattro anni. Li hanno addestrati nei loro campi, li hanno costretti a portare vettovaglie, munizioni e infine anche a combattere. Il bambino alla fine si abitua a questa vita. Ai bambini piace dimostrare di aver coraggio. Per questo a volte vengono usati come vere e proprie forze d’avanguardia. Alla fine sono quelli che soffrono di più e pagano per tutti. Ma non pensiamo che siano tutti vittime. A volte, a furia di commettere crudeltà, incominciano ad abituarsi. A considerarle una sorta di gioco. Molti di loro durante il periodo passato con i guerriglieri hanno cambiato natura un poco alla volta». Sono i casi più difficili. Quelli che sarà più difficile rieducare. Padre Berton davanti ai loro casi scuote la testa, allarga le braccia, si confessa impotente. «Alcuni di loro - spiega - non saranno mai recuperabili. La droga ha agito troppo in profondità. Insieme a un indottrinamento di magari cinque, sei anni ha cambiato totalmente la loro natura. Ovviamente noi tentiamo e speriamo sempre, ma è difficile esser sicuri di ottenere dei risultati. Abbiamo spesso casi di ragazzi che non riescono più a staccarsi dalla droga. Scappano, vanno a cercarla, finiscono in overdose, ridiventano violenti e pericolosi. In questi casi il recupero è molto, molto difficile».
Ma padre Berton è anche un uomo pratico. Sa che da solo non potrà continuare. Che la carità e l’assistenza costano. E allora non trascura mai di raccontare la propria storia ai giornalisti. Non trascura mai l’opportunità di far conoscere meglio al mondo la tragedia di questo angolo di pianeta. In ogni modo e con ogni mezzo. «La carità - dice - da sola non basta. Quando ero in Italia ho voluto incontrare Luciano Benetton. Chi, come lui, ha usato la pubblicità per fare scandalo dovrebbe iniziare a occuparsi della Sierra Leone. Qui i bambini vengono usati per combattere una guerra che ha un unico scopo: il controllo dei diamanti. Questo non è più un conflitto politico, non è una guerra civile. È una guerra tra la Liberia e la Sierra Leone per il controllo dei diamanti. La Liberia già anni fa aveva reclamato dei territori nelle zone minerarie. Ora Monrovia si nasconde dietro il paravento del Ruf e si arricchisce con le pietre preziose portate via a questo Paese. Poi questi diamanti passano attraverso le grandi compagnie che ne ricavano profitto. Questo non è giusto. Le compagnie diamantifere devono incominciare a porsi dei problemi etici, non possono continuare a far finta di ignorare cosa c’è dietro i loro affari. Durante la Prima Guerra mondiale il 90% delle perdite era costituito da militari. Qui il 90% delle vittime sono civili. Uomini, donne, bambini che hanno perso la vita o a cui è stato amputato un braccio, una gamba, una mano. Chi uccide e taglia le mani è gente drogata, corrotta abbruttita. Chi fomenta tutto questo, alimenta con la richiesta questi traffici è gente che passa le giornate a tavolino. Dovrebbe smetterla di far finta di non vedere, riflettere, pensare che sulla bilancia ci sono sempre due piatti. Da una parte stanno i diamanti, dall’altra la vita di gente innocente. Per questo sono andato a trovare Benetton. Per dirgli che se ha bisogno di un’altra idea con cui far scandalo, io sono a disposizione».




SIERRA LEONE, UN SEMPLICE GIRONE DELL'INFERNO AFRICANO (28 Luglio 2000)
>Gian Micalessin
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56116 Padre Giuseppe Berton, 68 anni, con alcuni dei suoi bambini a Lakka (Freetown) dove gestisce la propria struttura di assistenza, il St. Michael Children's Welcome Center. Qui ha gia' dato ospitalita' a piu' di 1300 bambini, perlopiu' fuggiti dal Bush


56421 Monsignor Biguzzi, vescovo di Makeni

Sierra Leone, un semplice girone dell’inferno africano
di Gian Micalessin


Freetown. Cari amici, vorrei scrivervi dall’ “inferno della Sierra Leone”. Vorrei. Ma non lo trovo. Non vedo le fiamme, non vedo i dannati, non vedo i diavoli. O, meglio, li vedo qui come in qualsiasi altro luogo di questo Continente in decomposizione. Cinismo?. Forse. Purtroppo questo lavoro di scrivano delle disgrazie belliche è fatto di comparazioni, paragoni, raffronti. Emozionarsi va bene, ma con misura. Cominciamo dall’inizio. Segnali di vita dal paese più povero dell’universo. Arrivo a Freetown da Conacry, capitale della Guinea, tappa obbligata per tutti i viaggiatori in rotta verso la Sierra Leone. Conacry è un’icona dell’Africa del 2000. Strade con più buchi che asfalto, aria appiccicosa ammorbata da smog e rifiuti, masse di accattoni, pattuglie di poliziotti corrotti, case e palazzi marcescenti in veloce progressiva decomposizione. Se tanto mi da tanto la Sierra Leone deve essere molto peggio. In fondo mantiene, stabilmente, il posto di paese più povero dell’universo. Eppure Freetown è sostanzialmente una città intatta. Le distruzioni sono rare. Il degrado è nella media del continente africano. Ben oltre la media, invece, il numero di bimbi e ragazzi che in fila e in divisa guadagnano ogni mattina i portoni di scuole e licei. La gente ha volti sorridenti, facce gentili. Cerchi nei loro occhi quello stress da guerra che conosci e non lo trovi. Cerco i cinquemila mutilati che dovrebbero fare da contrappunto all’apparente tranquillità del paese. Ne trovo solo due. Un signore impiegato come usciere nella residenza del vescovo Giorgio Biguzzi e una mendicante in Kissy road, l’affollata via del mercato. Certo i mutilati vivono tutti in un piccolo villaggio nel cuore della città. Lì si sono riuniti i laboratori delle organizzazioni umanitarie che cercano di ricostruire un arto a questi disgraziati. I disgraziati comunque non sono cinquemila, ma 400. Se le cifre hanno ancora un senso vale la pena ricordarlo. 

Pallottole, morti e rovine: è l’Africa, bellezza. Viaggiamo al di fuori del paese. Troviamo strade impossibili, ingorghi inestricabili, gente stritolata sotto camion ribaltati su piste strette come sentieri, ponti ricostruiti con tronchi d’albero. Tutto tremendamente disagevole e drammatico rispetto all’Autostrada del sole. Ma nel resto dell’Africa non è che le cose vadano meglio. Certo: tutt’attorno ci sono guerra, distruzioni, profughi, bimbi soldato e la continua minaccia di attacchi della guerriglia. Eppure questo non è ancora l’inferno. O, meglio, è solo una parte di quell’inferno più grande che è oggi tutta l’Africa. Insomma non riesco a fare bene il mio lavoro. Non riesco a propinarvi quella melassa angosciante che da qualche mese campeggia sulle pagine dei giornali. L’impressione è che gran parte di noi giornalisti si trascini sulla coscienza un senso di colpa. L’aver dimenticato la Sierra leone quando lì c’era veramente l’inferno. Quando i ribelli del Ruf entrarono a Freetown e massacrarono la popolazione. Quando i media occidentali già sintonizzati solo e soltanto sul Kossovo si dimenticarono di voltare la testa. Ma c’è anche un altro sospetto. Che queste guerre siano trattate ormai alla stregua di collezioni di moda. Un anno va la Somalia, un altro la Cecenia e quello dopo non si parla se non di Kosovo. Quello successivo, infine, è tutto per la Sierra Leone. Allora questa deve essere orrenda tanto quanto le altre. Meglio se peggio. 

“Inferno Sierra Leone”. Istruzioni per l’uso. Il cocktail “Inferno in Sierra Leone” è semplice. Ha ingredienti e dose prefissate. Per iniziare un po’ di orrori commessi dai bimbi soldati conditi con lo sdegno per l’utilizzo di questi marmocchi birichini. Secondo le sevizie del Ruf. Bisogna metterci almeno un paio di testimonianze di civili senza più mani e piedi, spiegare che ce ne sono almeno cinquemila (è la cifra ufficiale per gli addetti ai lavori) e snocciolare un po’ di interviste. Terza tappa obbligata i diamanti insanguinati. Bisogna ricordare che, un tempo, il paese era uno dei principali produttori mondiali di diamanti. Poi, senza dare troppe spiegazioni, lanciarsi in una filippica appassionata contro la De Beers e le altre multinazionali dei diamanti. Quarta tappa il fallimento dell’Onu. Un fallimento, ricordiamocelo bene, non dovuto a corruzione e inefficienza, ma piuttosto al disinteresse delle nazioni occidentali. Stati Uniti in testa. E qui una frecciatina a Washington, cinicamente attestato sul suo rifiuto di pagare il proprio debito al Palazzo di Vetro in mancanza di riforme strutturali, ci va a pennello. Quinto, ma fondamentale, l’attacco a testa bassa all’Occidente e alla globalizzazione colpevoli di sfruttare le disgrazie e le guerre dell’Africa nera. Miscelare, mescolare bene, aggiungere un paio di frasi ad effetto e la melassa-buonista sull’Inferno Sierra Leone è pronta da servire. Io per questa volta vi risparmio il cocktai. Mi limito a parlarvi degli ingredienti. 

Quella pratica comune di arruolare fanciulli. I racconti delle gesta e degli orrori commessi dai soldati bambini fanno la loro comparsa sulla stampa internazionale nel gennaio 1999, qualche settimana dopo la conquista di Freetown da parte dei ribelli del Ruf. Da allora, però, tutti omettono un particolare fondamentale. La conquista della città avvenne per mano del Ruf e dell’esercito impegnato, a quel tempo, in uno dei soliti golpe. Oggi l’esercito è tornato dalla parte del presidente Kabbah e viene addestrato da consiglieri militari inglesi. I suoi ufficiali sono più o meno gli stessi. Nel gennaio ‘99 i soldati bambini non stavano solamente tra le fila del Ruf, ma anche in quelle dell’esercito e dei Kamajores, la milizia filo governativa creata dalle tribù del sud. In quell’occasione i bambini soldato si distinsero per efferatezza e violenza. Bruciarono case, tagliarono mani, uccisero. Quando esercito e ribelli si ritirarono e le truppe nigeriane dell’Ecomog rientrarono in città molti bambini-soldati vennero abbandonati dietro le linee. Per sottrarli alla vendetta quasi certa delle truppe nigeriane (che massacrarono forse più civili dei ribelli scambiandoli per questi ultimi) questi bimbi vennero messi in salvo da missionari e organizzazioni umanitarie. Iniziò così la saga dei racconti. 

I bambini africani non giocano alla guerra. Certo la vicenda di questi fanciulli, rapiti a cinque otto anni, utilizzati come schiavi-portatori, selezionati, addestrati, trasformati in combattenti spietati, imbottiti di droghe per renderli insensibili alla paura e agli orrori, è tremenda. Bimbi addestrati come cani da combattimento. Ma siamo sicuri succeda solo qui? La tragedia dei bimbi soldato si ripete da decenni in tutti i conflitti africani. Nel 1986 Musseweni conquistò Kampala alla testa di un esercito costituito per la maggior parte da ragazzini sotto i quattordici anni. Nell’Uganda del nord i bambini continuano a venir rapiti e mandati a combattere in Sud Sudan. Nella Repubblica Democratica del Congo tutti gli eserciti coinvolti hanno bimbi soldati. La ricetta è cinicamente semplice. Il bambino soldato vede la guerra come un gioco, non ha capacità di giudizio morale, è facilmente influenzabile. E’ un perfetto cucciolo da guerra, un marmocchio da addestrare e mandare a commettere i lavori più sporchi. Purtroppo, però, le storie dei bimbi soldato in Sierra Leone non sono più tragiche e crudeli di quelle di altre migliaia di fanciulli in divisa, sparsi tra le guerre del resto del continente. 

Sierra Leone. I buonisti chiedono più orrore. Cinquemila mutilati sono una bella cifra. Se ci fossero non potresti fare a meno di vederli. In Mozambico ricordo padiglioni di ospedali e centri di recupero pieni zeppi di bimbetti saltati sulle mine. Fanciulli senza più gambe, braccia, occhi. Cambogia e Afghanistan sono costellati di villaggi interi abitati da persone devastate dalle mine. La loro presenza agli angoli delle strade, nei campi, ai margini dei mercati, delle città è difficilmente ignorabile. In Sierra Leone c’è soltanto questo campo per mutilati gestito da Medici Senza Frontiere e da Handicap International. Da lì passano tutti i giornalisti, in una specie di obbligato tour dell’orrore. Dentro ascolti naturalmente storie orribili. Incontri una donna a cui hanno tranciato le gambe a colpi d’ascia, due sorelle mutilate di entrambe le mani, uomini senza più braccia, gambe, piedi. Ma sono le proporzioni dell’orrore a non esser devastanti. Fare i conti è sempre spiacevole. Soprattutto per quei disgraziati mutilati a colpi di machete. Eppure 400 è un numero 12 volte più piccolo di cinquemila. Saranno sottigliezze numeriche, ma fanno la differenza.

Sangue e diamanti. Una storia antica. La storia dei diamanti della Sierra Leone è molto complessa, intricata e antica. Molto di più di quanto non ci voglia far credere la retorica buonista alla ricerca perenne delle colpe delle multinazionali. Il primo diamante viene scoperto nel 1930. Cinque anni dopo le autorità coloniali concludono un accordo con la De Beers, assegnandole concessioni e diritti esclusivi di sfruttamento fino al 2034. Nel 1956 nelle zone diamantifere vi sono già 75mila cercatori illegali che sgomitano fianco a fianco per sottrarre pietre preziose alle concessioni De Beers. Il contrabbando fiorisce, la zona precipita in una situazione d’illegalità endemica. La via obbligata dei contrabbandieri passa già allora attraverso la Liberia. L’odore dei diamanti, l’ebbrezza dei traffici illeciti e levantini attira frotte di commercianti libanesi. La De Beers e il governo stentano a far rispettare le concessioni nonostante l’arruolamento di milizie anti-contrabbandieri. I commercianti di Anversa e Tel Aviv iniziano ad aprire uffici di acquisto a Monrovia e ad approvvigionarsi sul mercato liberiano. Chi ci rimette, a quel tempo, è sicuramente la De Beers titolare dei diritti legali di sfruttamento. 
La situazione peggiora nel 1968 quando sale al potere Siaka Stevens. Inebriato dal populismo di sinistra Siaka Stevens trasforma la questione di diamanti in una sorta di lotta post-coloniale contro i vecchi padroni delle risorse incoraggiando il contrabbando e limitando la concessioni della De Beers. Il passo successivo è la nazionalizzazione, nel 1971, della sussidiaria locale della De Beers titolare delle concessioni. 

Siaka Stevens. Terzomondismo e contrabbando internazionale. Dietro gli slogan terzomondisti di Siaka Stevens si nasconde un personaggio molto più pericoloso. Si chiama Jamil Mohammed ed è il primo ministro di Siaka Stevens. Vera eminenza grigia del malaffare Jamil, amico intimo dei contrabbandieri di preziosi, quest’uomo sarà il demiurgo di tutte le disgrazie della Sierra Leone. Jamil da mano libera ai contrabbandieri, partecipando lui stesso ai lucrosi commerci. Lentamente le quote di produzione ufficiale si assottigliano. Tra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta gran parte dei diamanti esce dal paese attraverso i canali illegali gestititi da Jamil e dalla confraternita libanese. Una parte di questi diamanti finisce con il finanziare le fazioni impegnate nel conflitto libanese. Tra queste soprattutto i militanti sciiti di Amal il cui leader, Nabih Berri, è un amico d’infanzia di Jamil. Intanto l’economia ufficiale del paese va a rotoli. Nel 1987 la situazione precipita e Jamil si ritira in un dorato esilio. Nel 1991 iniziano la guerriglia del Fronte Rivoluzionario Unito e i colpi di stato militari. A quel tempo il Ruf è, a tutti gli effetti, una guerriglia di sinistra ispirata da un gruppo di intellettuali radicali. In Liberia Charles Taylor, un ex mezzo criminale è alle prese con le truppe dell’Ecomog. Monrovia si è trasformata intanto in un ricettacolo di criminali internazionali, contrabbandieri e trafficanti di droga. Il Ruf accetta volentieri l’appoggio di Taylor e insedia i propri santuari in Liberia. In cambio dell’aiuto si impegna a cedere i diamanti o perlomeno a scambiarli in cambio di armi. Mentre i colpi di stato si susseguono il paese precipita nel caos e il Ruf dilaga. 

Gli interessi di Freetown in una guerra commerciale. La De Beers intanto si è già ritirata dal paese. L’ufficio di rappresentanza è stato chiuso alla metà degli anni ‘80. La De Beers ha aperto nel frattempo due uffici di acquisto nei paesi confinanti: uno a Conacry in Guinea e un altro proprio a Monrovia. La politica di questa multinazionale del diamante è primariamente quella di mantenere il controllo del mercato. Là dove non è possibile accedere alla produzione si accontenta di acquistare i diamanti grezzi e rimetterli sul mercato attraverso i propri canali. A rimpiazzare la De Beers in Sierra Leone arrivano le cosiddette “junior”, compagnie minori che operano nei luoghi in cui non è presente il colosso multinazionale. Le concessioni vengono divise principalmente fra tre juniors: la RexDiamond, la AmCanMinerals e la Diamond Works. Ufficialmente tutte e tre queste compagnie sono canadesi. Ma si tratta di nazionalità di comodo. Il Canada oltre a offrire attraenti sgravi fiscali a chi opera nel settore minerario, da accesso alla borsa titoli più attiva del settore. In verità Rex Diamond, AmCan e DiamonWorks sono aziende legate ai gruppi di commercianti di diamanti di Anversa e godono di solidi legami con il governo di Freetown. Il legale della AmCans in Sierra Leone è anche il presidente dell’“Ufficio Governativo per l’Oro e i Diamanti”. La RexDiamond nel 1998 acquista un nuovo elicottero da combattimento per conto del governo della Sierra Leone. La Diamond Work, infine, risulta intimamente legata, forse comproprietaria, di due “compagnie private” di mercenari: la “Executive Outcome” sudafricana e la “Sandline” inglese. Il governo della Sierra Leone “affitta” i servizi della Executive Outcome nel 1995. Grazie all’impiego di soli duecento mercenari e ai loro sofisticati armamenti l’Executive Outcome in una sola settimana respinge i ribelli dalla zona della penisola intorno a Freetown. In cambio una consociata della Diamond Work guadagna 25 anni di concessioni nell’area diamantifera di Kono, considerata la più importante del paese. Nel 1997 entra in gioco la Sandline che gestisce, con la benedizione del governo di Tony Blair, una controversa fornitura d’armi al governo, provvisoriamente in esilio, del presidente Tejan Kabbah.

Diamanti: nessuno è incolpevole (anche Tony Blair è nella lista dei cattivi). L’aneddotica ufficiale sulla Sierra Leone, si limita a ricordare la guerra dei diamanti gestita dal Ruf. La guerriglia controlla stabilmente i giacimenti più ricchi del paese nelle regioni nord orientali. Da qui il 70 per cento della produzione diamantifera della Sierra Leone è convogliata a Monrovia. Con quei diamanti vengono pagati armi munizioni e guerriglieri. Con quei diamanti la Liberia si trasforma, pur senza produrne, in uno dei massimi esportatori mondiali. Ma questo si sa. Dato per assodato che il Ruf e la Liberia stanno al primo posto nella lista dei cattivi bisognerebbe forse guardarsi attorno e chiedersi se c’è qualcuno degno di fargli compagnia. Bisognerebbe chiedersi se sia lecito o ammissibile che un’azienda diamantifera in stretto accordo con una compagnia di soldati di ventura finisca con il ritagliarsi un ruolo geopolitico in un angolo d’Africa. Chiedersi se un governo come quello di Tejan Kabbah sia legittimato a stringere accordi con compagnie rappresentate nel paese da funzionari governativi. Domandarsi se sia accettabile che attraverso queste compagnie passino le forniture di armi in arrivo dalla Gran Bretagna. Si può fare buon viso a cattivo gioco e accettare tutto se si tratta del male minore. Però bisogna saperlo. Prima di invitarvi ad essere scrupolosamente solidali, vorremmo farvi sapere che quel governo ha intrallazzato con i mercenari e distribuito concessioni a chiunque fosse in grado di dargli una mano. Con le buone o con le cattive. Con mezzi leciti o illeciti. Con i soldati delle Nazioni Unite o con quelli di ventura. Soltanto così capiremo che un po’ di sangue sui diamanti ci sarà sempre. E perché, a Natale, si devono acquistare soltanto quelli un po’ meno sporchi.

Kofi Annan e una strana (e costosa) missione Onu. In Sierra Leone vi sono circa tredicimila caschi blu. Sono stati raccattati in fretta e furia in India, Guinea, Ghana, Kenia, Nigeria e Giordania. Sono il contingente di caschi blu più numeroso e costoso fra le missioni Onu attualmente in corso. E anche il più inutile e fallimentare. Il trattato di pace che dovevano garantire è andato a rotoli. I ribelli controllano oltre metà del paese. I caschi blu sono stati presi in ostaggio. Hanno contribuito a ingrossare, con le loro armi e dotazioni, consegnate senza combattere, gli arsenali ribelli, dotandoli di mezzi blindati, camion e jeep. Gran parte dei territori ancora in mano governativa sono difesi soltanto ed esclusivamente dalle milizie locali. I caschi blu, al di fuori di Freetown, sono un’entità fantasma. Non si vedono, non pattugliano, non fanno posti di blocco. In Sierra Leone, però si parla molto di loro. Si sussurra che questa missione sia stata fortissimamente voluta dal segretario dell’Onu Kofi Annan. Si ricorda come il presidente della Sierra Leone occupasse, prima di venire eletto, un posto di alto funzionario al Palazzo di Vetro. I dettagli dell’intervento Onu, si mormora, sono stati discussi da Kofi Annan e dal suo intimo amico, il ministro delle finanze della Sierra Leone James Jonaah. I due abitualmente trascorrono le vacanze assieme. Entrambi hanno sposato due europee. Le consorti sono amiche d’infanzia. Tra una cena di famiglia e l’altra, dicono le male lingue della Sierra leone, i due amiconi hanno anche trovato il tempo di organizzare questa inutile, costosa e disgraziata missione.




DIAMANTI INSANGUINATI (Luglio 2000)
>Gian Micalessin
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56052 Un minatore consegna al suo "monitor" un diamante appena trovato, nel Cheefdome di Badija (Sierra Leone sud-orientale)

I1 principio di tutto è una distesa di melma. Poltiglia di fango nel cuore della foresta pluviale. Pozzanghere ocra, uomini seminudi affondati nella palude, pale che scavano, mani che rigirano nei setacci, occhi che scrutano. Una mano si ferma, affonda nel setaccio. Due dita. ravanano tra acqua e pietrume. La palude si blocca. Le pale smettono di scavare. I setacci terminano di schiumare. Gli occhi sono tutti su di lui. Lui l'afferra, lo stringe, lo mostra. "Diamante" grida. "Diamante diarnante", rispondono gli altri.
Siamo, direbbe un redivivo Graham Green, al nocciolo della questione In "The hearth of the matter" (Il nocciolo della questione), romanzo ambientato in Sierra Leone, i tormenti dell'ufficiale britannico Scobie si svolgono sullo sfondo del contrabbando di diamanti e della guerra. Oggi dietro I tormenti dei sierraleonesi vi sono sempre loro: guerra e diamanti.
Non a caso la scorsa settimana il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha approvato la messa al bando per 18 mesi di tutti i diamanti della Sierra Leone privi di una garanzia d'origine certificata dal governo di Freetown. Dal 1991 a oggi la guerra tra le fazioni dell'esercito, le milizie locali e i ribelli del Ruf (Revolutionary united front - Fronte rivoluzionario unito) ha fatto 75mila vittitne. Due milioni di abitanti su quattro milioni e mezzo hanno perduto la casa. Cinquemila fra uornini, donne e bambini hanno subito la punizione prevista dalla guerriglia per i collaboratori del governo: il taglio di mani, braccia, gambe e piedi, a colpi di machete. Nei frattempo a Freetown si sono consurnati una mezza dozzina di colpi di Stato.
Cercare di comprendere le cause politiche di un simile disastro sarebbe superfluo. L'unico vero ineludibile "nocciolo delta questione" sono sempre e soltanto I diamanti. Diarnanti di cui tutti in Sierra Leone fanno le spese, ma di cui ben pochi beneficiano. Tanto meno il governo. Diarno un'occhiata alle statistiche. Negli Anni 70 la produzione di diamanti del Passe si misura in centinaia di migliaia di carati annui. Nel 98 il governo registra esportazioni per solo 8.500 carati.
Lo stesso anno Anversa, centro, mondiale del commercio di pietre preziose, contabilizza l' arrivo di 80mila carati di gemme sierraleonesi. Nei frattempo la confinante Liberia, le cui miniere non hanno mai superato i 150mila carati annui, si trasforma in una nuova Bengodi dei preziosi esportando oltre 2 milioni 600mila carati di diamanti. Come mai? Semplice, i giacimenti di Kouidu e Tongo, i più importanti della Sierra Leone, sono da anni sotto il controllo della guerriglia.
Appoggiati dal govemo del presidente liberiano Charles Taylor, i ribelli del Ruf cedono a Monrovia le pietre preziose razziate in cambio di appoggi e forniture di armi. Tuttavia la produzione delle miniere delle zone di Bo e Kenema dovrebbe superare gli 8500 carati annui. Sopratutto se ad Anversa ne arrivano 80mila. Dove finiscono I diamanti mancanti? Per capirlo basta arrivare a Bo, epicentro e cuore dell'industria mineraria governativa, 150 chilometri a est di Freetown. Qui le facciate di case e negozi sono ricoperte dalle enormi e colorate insegne dei trafficanti di preziosi.
Il messaggio, "We buy diamonds" (compriamo diamanti) campeggia a ogni marciapiede e a ogni angolo di strada. I "dealers", come li chiamano, qui sono una sessantina, quasi tutti libanesi. I territori del cercatori iniziano appena fuori città. Qui, in una specie di replica della corsa all'oro del Klondyke piccoli gruppi di 4 o 5 uomini dissodano rastrellano e setacciano la foresta pluviale. Lo schema è semplice. La maggior parte delle terre è di proprietà del capi mende, acerrimi nernici dei temnes e del limbas, le tribù dei ribelli del Ruf. I Mende costituiscono anche il nucleo dei kamajores (cacciatori), la milizia filo-governativa che nel Sud ha sempre arginato le invasioni dei ribelli.
Inevitabilmente gran parte delle licenze minerarie sono finite nelle mani del miliziani. "Sono un comandante dei kamajor - spiega candidamente Mohammed Oammu, 33 anni - ho combattuto contro i ribelli, ma non ho mai ricevuto una paga. Così mi sono fatto dare una licenza. Quando trovo un diamante do un terzo del valore al proprietario del terreno ed un terzo ai quattro uomini che lavorano per me.
In tutto ciò gli unici a guadagnarci sono I "dealers". "Non conoscendo il prezzo dei diamanti - ammettono candidamente Mohammed e compari - accettiamo quasi sempre le offerte che ci fanno I commercianti. La volta che ho guadagnato di più ho incassato seicento dolari. Forse ci fregano, ma che possiamo farci… Questo è l'unico lavoro che abbiamo". Ma nel folto della foresta pluviale si muovono, oltre ai reduci kamajores anche altri cercatori di fortuna. Sono minatori illegali provenienti dai Paesi vicini come il Ghana o la Costa d'Avorio. Oppure sernplicemente sierraleonesi lenza licenza. Per loro l'unica speranza è arrivare all'ufficio di un "dealer".
Finchè sono, fuori da questa porta - spiega Rodney Michael portavoce del trafficanti di Bo - rischiano di vedersi confiscato il diamante perchè non hanno la licenza. Io però posso acquistarli. La legge rni permette di farlo, indicando soltanto il nome anche fittizio del mio cliente. In questo modo le persone, sono incoraggiate a mettere i diamanti sul mercato legale… In fondo, le tasse sono molto basse, poco più del 4 per cento.
Lo stesso Rodney arnmette però che non tutti I suoi colleghi si comportano nello stesso modo. Un mediatore in contatto con cercatori illegali in grado di procurargli grosse partite a buon prezzo ha tutto l' interesse, a non rivelare alle autorità e ai kamajore l'attività del proprio cliente. Lo stesso vale per i diamanti sottratti dalle miniere sotto il controllo del Ruf. I lavoratori-schiavi impiegati dal ribelli, quando riescono a mettersi in saccoccia una buona quantità di pietre sottratte alla guerriglia, si affrettano a venderle nelle zone controllate dal governo. Ovviamente, visto il rischio, una registrazione della pietra è quasi impensabile.
"Il problerna di un diarnante - sussurra Rodney soppesando il mazzetto di preziosi che domani andrà a vendere a Freetown - è il suo vizio d' origine. Il certificato d'origine e il bando sulle pietre sospette, aiuterà questo governo e toglierà proventi ai ribelli. Ma un diamante nato illegale resterà illegale per sernpre".

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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