Postcards From Hell: Stories by Ettore Mo
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
AFGHANISTAN 2001, stories by Ettore Mo
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AFGHANISTAN 2001, Stories by Andrea Nicastro

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sabato , 15 settembre 2001
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Addio a Massud, leone del Panshir

Dalla cacciata dell' Armata Rossa alla sfida finale sui monti dell' Afghanistan
Ettore Mo

Dato per morto il capo della resistenza a sovietici e talebani, dilaniato dalla bomba di due kamikaze Addio a Massud, leone del Panshir Dalla cacciata dell' Armata Rossa alla sfida finale sui monti dell' Afghanistan Il leone del Panshir non ce l' ha fatta. Il suo corpo, straziato dall' esplosione del 9 settembre, ha ceduto dopo giorni di pena e d' agonia e si è irrigidito (due kamikaze si erano fatti passare per giornalisti e avevano fatto scoppiare un ordigno nascosto in una telecamera). Riesce difficile pensarlo nell' immobilità assoluta della morte: soprattutto per chi ha avuto il privilegio di poterlo seguire nella sua frenetica, instancabile attività di comandante e leader politico. Era già un mito, è vero, era una leggenda: ma un mito e una leggenda che si muovevano di continuo, sempre in difesa dell' Afghanistan, che voleva indipendente e sovrano. Libero dai russi, dal governo filosovietico di Najibullah, dai torvi signori della guerra come il suo rivale Heckmatyar e, infine, da i talebani. Se ci fosse qualcuno da contrapporre al principe del terrorismo Osama Bin Laden, non potrebbe essere che lui, Ahmed Shah Massud. Non s' era mai dimenticato, Massud, che il Dio dei musulmani è grande ma anche misericordioso: così infatti c omincia la loro preghiera. Due modi di interpretare il Libro Sacro: quello di Bin Laden porta alla distruzione e alla morte. Incontrai la prima volta Massud nel febbraio dell' 81, quando l' Afghanistan era da oltre un anno nella morsa dell' Armata Ro ssa. Già si parlava di lui come di un personaggio leggendario, che però si «negava»: infatti, a differenza degli altri capi militari delle sette fazioni impegnate contro gli «sciuravi» (i russi), non lasciava mai le sue postazioni in montagna per con cedersi un «riposo» a Peshawar, in Pakistan, dov' erano i quartieri generali dei partiti islamici della Jihad. Se volevi vederlo, dovevi scarpinare per giorni (o settimane) fin su nel Panshir. Così è stato anche la seconda volta che l' ho visto, nell a primavera dell' 84. A Peshawar s' era sparsa la voce che l' avessero ucciso o fatto prigioniero o, addirittura, che si fosse venduto ai sovietici. Nessuno ci credeva, naturalmente, ma c' era un solo modo per verificarlo: andare a trovarlo. E così m i misi in cammino col mio interprete e anche con un cavallo che avevo battezzato Taraki, il nome del primo presidente della Repubblica afghana schierata con Mosca. Una faticaccia. Anche per Taraki. Un mese di scarpinate: perché, quando si arrivava in un posto dove era stata segnalata la presenza del comandante, lui s' era già trovato un altro rifugio, qualche balza più in su, per sfuggire agli attentati. Finalmente lo trovai, seduto su una collinetta, una mappa tra le ginocchia su cui stava trac ciando itinerari con noccioline e uva passa. «Vous êtes le bienvenu», mi disse, in francese, abbozzando un sorriso. Stava bene, Massud, si stava preparando a fronteggiare quella che sarebbe stata l' ottava offensiva degli «sciuravi» nel Panshir. Altr o che morto! Come le sei precedenti, anche la settima era finita in un disastro per l' Armata Rossa, che era dovuta ripiegare verso la pianura, lasciando nella vallata e lungo il fiume carcasse di blindati e pezzi d' artiglieria. Era allegro, quella sera. Stavamo attorno a un focherello e lui raccontava, il basco sempre afflosciato sulla tempia sinistra, che gli «sciuravi» avevano battezzato la settima offensiva «Goodbye Massud». Godeva certamente della devozione assoluta dei suoi uomini, tutta gente della vallata (una delle più belle dell' Afghanistan) con cui aveva diviso l' infanzia, l' adolescenza, la giovinezza. A 16 anni era sceso a Kabul per studiare al liceo francese, con l' ambizione di proseguire, poi, gli studi di architettura. M a c' era stata, nel ' 78, la «Rivoluzione d' aprile», i comunisti avevano preso il potere, con l' aiuto di Mosca, che aveva cominciato a «colonizzare» il Paese mandando in avanscoperta i suoi «consiglieri», preludio all' invasione del 26 dicembre ' 7 9. Piantò in asso tutto, Massud, liceo e sogni accademici, tornò nel Panshir e attorno a lui si formarono rapidamente i primi nuclei di guerriglieri «mujaheddin» che avrebbero costituito la base del mini-esercito tagiko (l' etnia predominante nella v alle) tanto detestato dall' Armata Rossa e dalle sue colonne corazzate. Benché non avesse frequentato nessuna accademia militare, l' esperienza fatta direttamente sul campo bastò a fare di lui un brillante stratega. Dai 16- 17 anni, è sempre vissuto combattendo. L' ho sempre visto nei suoi (modesti) quartier generali improvvisati o dietro la prima linea e le rampe missilistiche. Non alzava mai la voce. Aveva molta cura della sua persona, sempre elegante, sempre a posto. La sua famiglia era un mi stero per tutti. Ma questo fa parte della cultura islamica. Sapevamo che era sposato, che aveva dei figli: ma questo ci doveva bastare. Spesso lo vedevi appartato, pensieroso, forse anche un po' triste. Ma non avrei mai osato fargli domande personali . Una volta però quando gli ho chiesto a bruciapelo se avesse mai pensato che i talebani, tanto numericamente più forti e, grazie al Pakistan, anche meglio equipaggiati, potessero sopraffarlo, mi ha risposto: «Oh sì... Ma prima dovranno passare sul m io corpo». Credo che spesso si sentisse solo ed era certamente angosciato dal fatto che la sua ostinata lotta solitaria suscitasse scarso interesse in campo internazionale. Ero a Strasburgo, l' anno scorso (l' ultima volta che lo vidi) quando venne a chiedere aiuto all' Europa. Bene, l' atmosfera era quasi d' indifferenza. «Come fate a non capire - mi disse un giorno - che se io lotto per fermare l' integralismo dei talebani, lotto anche per voi? E per l' avvenire di tutti?».



lunedi , 17 settembre 2001
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Discutete di Kabul la città senza pace che inquieta il mondo

Ettore Mo

La pace non si addice all' Afghanistan. Dopo il ritiro dell' Armata russa dal Paese, ci furono quattro anni di guerra civile fra il governo filosovietico di Kabul e i Mujaiddhin, i combattenti della Libertà islamici che avevano respinto e sconfitto i russi. Il 25 aprile del ' 92, Kabul ha finalmente un governo islamico democraticamente eletto, con a capo un professore, Rabbani (presidente) e il comandante Massud (ministro della Difesa). Non basta per pacificare gli animi. Altri due anni di confl itti interni, alimentati da un capo integralista e signore della guerra, Hekmatyar. Quando infine, quest' ultimo viene isolato e sconfitto, ecco che arrivano (autunno del ' 96) i Talebani. Chi sono costoro? Fino ad allora, nessuno ne aveva sentito p arlare. Sono studenti anch' essi, ma di teologia (analfabeti) delle scuole di religione rurali, lungo il confine tra Pakistan e Afghanistan. Sono afghani e il loro obiettivo è di rimuovere il regime corrotto di Kabul e instaurarvi una vera teocrazia. Si tratta, dunque, di una «guerra santa». In realtà, dietro c' è il megaprogetto di un oleodotto che dal Mar Caspio approdi sulle sponde pakistane dell' oceano Indiano. Inoltre, c' è l' aspirazione di Islamabad di estendere la propria influenza sull ' Afghanistan, da sempre considerato un Paese vassallo. Ai Talebani, che ha il riconoscimento di soli tre Paesi (Pakistan, Emirati Arabi ed Arabia Saudita), si oppone Massud, il leone del Panshir, che li combatte dalla sua vallata nel Nord-Est del Pa ese e che il 9 settembre scorso è stato assassinato. In Afghanistan ha trovato rifugio da anni il principe del terrorismo islamico, Osama Bin Laden, ritenuto responsabile dello spaventoso attentato agli Stati Uniti e di cui gli americani esigono ora la consegna immediata.



venerdi , 21 settembre 2001
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La bomba dei profughi afghani sul Pakistan

Sui muri i ritratti di Bin Laden. Ma anche i capi talebani mandano le famiglie al sicuro in Pakistan. Al valico nel deserto si ammassano 40 mila forse addirittura 300 mila fuggiaschi Le grida bellicose dall' altra parte della frontiera: «Morte agli Stati Uniti e a chi li sostiene»
Ettore Mo

La bomba dei profughi afghani sul Pakistan Sui muri i ritratti di Bin Laden. Ma anche i capi talebani mandano le famiglie al sicuro in Pakistan
DAL NOSTRO INVIATO
QUETTA (Pakistan) - Vent' anni appena sono passati dalla calata del «limitato» continge nte sovietico in terra afghana ed ecco che l' Afghanistan è tornato a travasare sul Pakistan fiumane di profughi, ansiosi di sfuggire all' imminente grandinata di bombe e missili che gli Stati Uniti potrebbero far piovere sul Paese dov' è nascosto Os ama Bin Laden. Sono molti i varchi e i Passi lungo il tortuosissimo confine afghano-pachistano: ma quello di Chaman - tra la provincia sud-occidentale di Kandahar e il Baluchistan - è stato sempre considerato uno dei più agevoli. La barriera in realt à interrompe una strada di oltre 300 chilometri che attraversa un unico deserto, diviso in due parti: per la geografia e per la storia, la sabbia dell' uno appartiene a Kabul, quella dell' altro a Islamabad. Nella confusione di questi giorni, nessuna verifica è possibile, ci sono anche limitazioni di movimenti imposte ai media, e non stupisce se i dati ufficiali stabiliscono che il flusso dei profughi attraverso il Passo di Chaman, dal 13 settembre a oggi, si aggira sui 40 mila, mentre i soliti testimoni oculari li fanno lievitare a 300 mila. Sempre troppi per Quetta, arcaica capitale del Baluchistan, e per i suoi assolati sitibondi dintorni. I negozi sono chiusi per uno sciopero di protesta che si protrarrà fino a domani (oggi per chi legg e), ma l' alveare del bazar funziona: dietro le bancarelle, tra i cesti di frutta e le spezie, e anche sui risciò variopinti che guizzano tra le pozzanghere sono molti i profughi afghani della «prima generazione», quelli che scappavano dagli «sciurav ì», i russi. Ora dovranno fare spazio ai nuovi compaesani in arrivo, minacciati dall' intervento punitivo degli Usa. La nuova ondata è un duro colpo, una mazzata, anzi, per un Paese già così povero e stremato come il Pakistan, che da oltre 20 anni de ve sostenere il peso di almeno 3 milioni di profughi, disseminati nei tanti termitai umani (disumani) che vanno sotto il nome di «refugees camps». Da Islamabad, l' alto commissario per i profughi dell' Onu, Yusuf Hassan, ha lanciato un appello al mon do. «Ma verrà spazzato via dal fragore delle bombe», è il commento (non cinico) di qualcuno. L' allarme della nuova ondata di profughi afghani venne dato pochi giorni fa, quando un treno in partenza da Chaman per Quetta fu preso d' assalto da centina ia di persone che avevano appena varcato illegalmente il confine, non sufficientemente presidiato dalle guardie di frontiera pachistane. Subito dopo, però, il Passo è stato meticolosamente sigillato da reparti dell' esercito e della polizia allo scop o di impedire che i più accaniti ed esagitati sostenitori di Bin Laden e dei talebani s' intrufolassero clandestinamente in Pakistan per perorarne la causa. Timore giustificato. Infatti, circa 15 mila afghani, provenienti da Kandahar (sede del govern o talebano e della sua guida spirituale, Mohammad Omar), s' erano dati convegno nel villaggio di frontiera di Weesh, in territorio afghano, e vi avevano inscenato una delirante manifestazione in omaggio ai talebani e a Bin Laden, agitando sopra le pr oprie teste fucili automatici Ak-47 e vomitando slogan letali contro gli Stati Uniti («morte all' America») e anche contro i vicini Paesi musulmani (leggi Pakistan) che osassero sostenerli: spettacolo ovviamente destinato agli spettatori schierati ap pena oltre il filo e ai doganieri. Un avvertimento per Islamabad. Ma tra i manifestanti, nel villaggio di Weesh, c' era anche una grossa percentuale di persone per niente animate da spirito eroico o battagliero: persone che pensavano solo a scappare, a salvare la pelle. E le guardie di frontiera (apprendiamo dalla cronaca pacata di un giornale) hanno chiuso tutte e due gli occhi quando si sono visti di fronte molte donne coi bambini in braccio. «La nostra cultura - ha detto un attivista politico pachistano impegnato nella zona - non ci consente di discutere, se una donna disperata cerca rifugio». Tra i fuggiaschi in cerca di salvezza sarebbero stati notati, al Passo di Chaman, anche un paio di comandanti militari talebani «assai noti» - tra cui un certo Hafiz Majee -, i quali, nonostante la lealtà ai loro leader carismatici, si sarebbero resi conto che «combattere gli Stati Uniti non era uno scherzo». Uno di loro, però, avrebbe mandato avanti la propria famiglia, contentandosi di far s osta a Spin Bodlak, un avamposto vicino al confine. Quale sia il feeling di Quetta e come reagisca la sua popolazione agli ultimi avvenimenti è difficile stabilirlo. Sui muri, nelle edicole e anche lungo i marciapiedi immondi delle strade fa spesso c apolino il ritratto di Osama Bin Laden: ma ciò non basta per trarne affrettate conclusioni. Domani, venerdì, è una giornata speciale di preghiera e riflessione e le moschee saranno strapiene. Come lo erano negli anni Ottanta, quando vi transitavano p er raggiungere il Passo Chaman e arrivare, in motocicletta, a Kandahar, allora assediata dall' Armata Rossa. La memoria di quelle giornate si fa più vivida quando leggo che il leader dello Hezb-i-Islami e superfalco della Jihad e della Resistenza Isl amica contro i sovietici, Gulbuddin Heckmatyar, annuncia da Teheran (dov' è in esilio da anni) che intende arruolarsi nell' esercito talebano per combattere gli Stati Uniti. «Il loro programma - ha detto - è di ridare il potere al re dell' Afghanista n Zahir Shah (detronizzato nel ' 73 e da allora residente in Italia, ndr) e ai suoi soci. Orrore». Il curriculum vitae di Gulbuddin non desta certo ammirazione. È sempre stato col più forte. Non ha esitato, dal ' 92 al ' 94, a combattere il governo l egittimo di Rabbani e Massud (suo eterno rivale) bombardando Kabul e facendo più morti che durante l' invasione sovietica. Nei primi anni Ottanta, Heckmatyar arruolò tra i mujaheddin del suo partito un giovane e ricchissimo arabo-saudita che voleva i mmolarsi per Allah nella lotta contro i senzadio dell' Armata Rossa: Osama Bin Laden. Stessa faccia. Stessi occhi. Stessa barba. Stesso profilo. Ettore Mo



sabato , 22 settembre 2001
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«Osama sarà sempre il nostro eroe invincibile»

Gli estremisti pachistani scendono in piazza per dire sì alla guerra santa. Quattro morti a Karachi. Gli imputati cristiani trasferiti al "sicuro". Scambio di accuse tra India e Pakistan
Ettore Mo

LA SFIDA AL TERRORISMO «Osama sarà sempre il nostro eroe invincibile» Gli estremisti pachistani scendono in piazza per dire sì alla guerra santa. Quattro morti a Karachi Davanti alla moschea di Quetta, duemila persone inferocite danno fuoco a un pupa zzo di stoffa con le sembianze di Bush. Ma un ragazzo assicura: «Più della metà sono studenti afghani ospiti del nostro Paese»
QUETTA (Pakistan) - Mezzogiorno di fuoco, ieri, a Quetta, davanti alla Jamay Mosque, una delle più grandi moschee della cit tà, sulla Masjid Road: ma invece che dalle pallottole, siamo stati frastornati per ore da un infernale crepitio di parole, che una folla di oltre duemila persone ha accompagnato con grida, esclamazioni di giubilo, ondeggiamenti di teste e di mani, ap plausi. Non si è però trattato di una sagra festosa. Come a Peshawar e a Karachi, dove quattro manifestanti sono stati uccisi, la gente è scesa in piazza per gridare la sua collera contro le minacce Usa: e anzi, dalla bocca di tutti gli oratori - un' infinità - che sono sfilati sulla pedana allestita davanti al tempio è uscita, unanime e perentoria, una dichiarazione di guerra all' America. Ma qui l' entusiasmo mistico-bellicoso della folla non è mai sfociato in episodi di violenza e le forze de ll' ordine, dislocate ovunque, non son dovute intervenire. Per il gran finale, il pupazzo di stoffa che avrebbe dovuto essere George Bush è stato ridotto in cenere in pochi minuti, tra l' esultanza generale. Subito dopo, sopra la miriade delle teste e dei turbanti affastellati, ecco spuntare un cartello con l' effigie del principe del terrorismo, Osama Bin Laden: e il cartello viene fatto ondeggiare e girare in continuazione perché tutti vedano gli occhi, la barba, il sorriso enigmatico-astrale di colui che gli ulema di Quetta già definiscono «il nostro eroe numero uno». Sotto le raffiche verbali degli oratori non finiscono soltanto gli americani, ma tutti i loro amici e sostenitori nel mondo, tra cui gli ulema (i sacerdoti islamici) non es itano a inserire lo stesso presidente pachistano, il generale Pervez Musharraf, reo di un indegno compromesso con gli Stati Uniti, per aver concesso loro lo «spazio aereo». L' intervento, applauditissimo, è assecondato da una selva di cartelli su cui sta scritto a chiare lettere: «No al trattato Bush-Musharraf. Respinto». E un altro oratore si spinge più avanti affermando (se è attendibile la traduzione del mio interprete) che «Musharraf odia il Pakistan». Sotto la rozza mannaia dei celebranti c adono molte teste, mentre quella di Osama Bin Laden e del mullah Mohammad Omar, guida spirituale dei talebani, vengono elevate all' onore degli altari: un processo di santificazione istituito sulle ceneri delle Torri gemelle di New York e del Pentago no, il terrificante crimine contro l' umanità che tutti sembrano aver dimenticato in queste latitudini asiatiche. Il muftì di Quetta, Massoom, ricorda alla gente ormai perdutamente inebriata davanti alla Moschea che a Kabul gli ulema afghani, riuniti attorno al mullah Omar, hanno proclamato la fatwa e che di conseguenza, se gli americani attaccheranno il sacro suolo dell' Afghanistan, non ci potrà essere alternativa alla jihad, alla guerra santa, contro gli Usa. La prospettiva non deve mettere p aura, interviene un altro oratore, perché «come 20 anni fa sconfiggemmo i russi, ora faremo altrettanto con gli americani». E se a una così intensa belligeranza verbale seguissero i fatti? Ma c' è un altro quesito più angosciante: fino a che punto, c i si chiede, l' incredibile delirio registrato ieri nella capitale del Baluchistan, come a Karachi e a Peshawar, riflette lo stato d' animo dell' intera popolazione pachistana? Mi sembra davvero una balsamica carezza l' opinione di uno studente di Qu etta, temporaneamente impiegato in un ufficio governativo, Mohammad Manzoor, 25 anni: «Vede - dice - la folla che lei vede oggi qui davanti è composta almeno per la metà da giovani afghani che studiano e vivono nel nostro Paese. Poi ci sono gli estre misti dello Jamiat-Islam, del mullah Rehman, che sono schierati coi talebani. Io credo che la maggioranza dei pachistani non voglia nessuna guerra: né con l' America né con nessun altro. Dobbiamo pensare anche ai nostri interessi economici, e non pos siamo dare un calcio agli Stati Uniti. Gli scalmanati, quelli che lei ha visto oggi in azione, sono il 5 o 6 per cento... Vengono allevati nelle madras, le scuole di religione, le stesse che hanno forgiato i talebani. E che sono finanziate dai ricchi sfondati come Bin Laden. Lì, insieme ai versetti del Corano, gli inculcano l' idea della jihad, vista come la soluzione di tutti i mali oltre che l' ingresso assicurato in paradiso». Gli avvenimenti dei prossimi giorni, attesi con ansia, saranno in grado di confermare o meno se questa valutazione della «realtà» pachistana corrisponde a verità. Ettore Mo OSTAGGI DEI TALEBANI Gli imputati cristiani trasferiti al «sicuro» Sarebbero stati spostati in luogo sicuro, per proteggerli da eventuali attacchi statunitensi, gli otto cristiani occidentali arrestati in Afghanistan in agosto con l' accusa di proselitismo, reato punibile con la pena capitale. Lo hanno reso noto le autorità australiane. Un noto avvocato pachistano, Atif Ali Khan, del foro d i Peshawar, ingaggiato dai familiari dei cristiani, ha ricevuto il visto di ingresso dal regime dei talebani e si accinge a raggiungere l' Afghanistan. Gli otto occidentali fanno parte di Soccorso internazionale adesso (Sni), che ha la sua sede in Ge rmania. Si tratta di due americane, due australiani e quattro tedeschi. I DUE GIGANTI D' ASIA Scambio di accuse tra India e Pakistan Fatalmente la crisi afghana si sta allargando a tutta la regione, coinvolgendo India e Pakistan. L' altro giorno, in un discorso alla nazione, il presidente pachistano Pervez Musharraf aveva dichiarato di essere stato costretto ad accettare le richieste di Washington, per evitare che l' India potesse trarre vantaggi dall' alleanza con gli Usa, «con l' intento di ar rivare a bollare il Pakistan come uno Stato terrorista». Ma la risposta non si è fatta attendere. Il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee ha ribattuto che Musharraf ha fatto questa dichiarazione per riaccendere il nazionalismo: «E' Islamabad che sostiene il terrorismo».



lunedi , 24 settembre 2001
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Ma il miglior rifugio per Osama sono i monti dell' Afghanistan

Ettore Mo

Ma il miglior rifugio per Osama sono i monti dell' Afghanistan
QUETTA (Pakistan) - «Vivo o morto», aveva detto giorni fa il presidente George Bush in uno dei suoi brevi infuocati appelli all' America e al mondo, sollecitando una rapida c lamorosa conclusione della caccia al principe del terrorismo, Osama Bin Laden, e presunto responsabile numero uno del «più atroce crimine contro l' umanità» di tutti i tempi. Non c' è bisogno di una taglia sopra la sua testa, come per Jessie James ne l Far West, per incentivare le migliaia di investigatori che dall' 11 settembre stanno indagando senza sosta, con accanimento, ma finora senza tangibili risultati. La supposizione che Bin Laden abbia lasciato il Paese o sia stato trafugato altrove (a d esempio attraverso lo stretto corridoio montano che lambisce, all' estremità, il territorio cinese) è stata accolta con scetticismo dai segugi più scaltri e meglio informati. Fino ad ora quasi tutte le piste confluiscono nel cuore tenebroso dell' A fghanistan, un Paese così ricco di anfratti, spelonche, caverne, cunicoli, canyon, voragini e miniere abbandonate che sembra fatto apposta per offrire rifugio permanente a un uomo in fuga. Come territorio prediletto di caccia, è stata scelta la zona attorno a Kandahar, capoluogo della provincia omonima sudoccidentale, che dall' autunno del ' 96 è la sede del governo talebano e del suo inclito capo, il mullah Mohammad Omar. È stato proprio quest' ultimo a convincere Bin Laden a lasciare Kabul, ci ttà insidiosa e politicamente equivoca, e a trasferirsi nella capitale del Sud-ovest, dove avrebbe trovato terreno fertile per il suo fervore di apostolo dell' integralismo. E in qualche modo tutto questo ha funzionato fino al mese scorso: ma dall' 1 1 settembre, le mura di Kandahar non son più bastate a proteggerlo, né le sue moschee, né le fittissime siepi dei suoi fioriti giardini. Prima ancora che il mullah Omar glielo consigliasse, Bin Laden ha messo al sicuro la sua famiglia in luoghi estre mi e a «prova di bomba», fuori dall' eventuale traiettoria degli ordigni punitivi di Bush: un gruppetto di sfollati Vip - vien suggerito con ironia -, di cui fanno parte le quattro mogli - l' ultima sposata recentemente - e la numerosa prole. Se è ri masto in zona, Bin Laden non deve essere troppo lontano dalla sua famiglia: ma nel tentativo di neutralizzare e prevenire le segnalazioni degli spioni, si sposterebbe di continuo, con moto perpetuo, da un nascondiglio all' altro. Ma non è improbabile che abbia scelto altri luoghi dove la sua presenza sarebbe meno sospetta. L' Afghanistan lo conosce bene (quasi certamente meglio della sua patria, l' Arabia Saudita) essendoci stato negli anni Ottanta per combattere contro i russi a fianco dei muja heddin; ed essendovi tornato nel ' 96, quando lo scacciarono - lui, il munifico finanziatore del terrorismo islamico - dal Sudan. La maggior parte dei capi-guerriglieri della guerra santa contro gli sciuravi, i russi, non sono più - come si dice - «s ulla piazza»: e se lo fossero, dubito che vogliano inginocchiarsi accanto a lui cinque volte al giorno per pregare Allah o spartire con lui, la sera, riso, montone e latte cagliato. Ahmad Shad Massud, il leone del Panshir, è morto assassinato due gio rni prima dell' attacco alla due Torri; il comandante Abdul Haq - altro vero eroe - peregrina da un Paese all' altro, in esilio permanente; il generale uzbeko Dustan, uomo per tutte le stagioni, è chissà dove; altri oscuri eroi della Resistenza ai so vietici si sono eclissati per sempre, senza medaglie. Il solo uomo che potrebbe tendergli la mano e oserebbe farlo è Gulbuddin Heckmatyar, ex leader dello Hezb-i-Islami (uno dei sette partiti della Santa Alleanza contro i sovietici), che dall' Iran - dove si trova - si è detto pronto a tornare e ad abbracciare la causa dei talebani. Accomunati dalla stessa indole, sono dotati, ambedue, di sentimenti gentili: quand' era studente di ingegneria a Kabul, durante il regime filosovietico, Gulbuddin (è stato lui stesso a raccontarmelo) portava in tasca la cartavetro per raschiar via il rossetto dalle labbra delle studentesse più audaci. Avendo amici ovunque, Bin Laden avrebbe potuto scegliere il rifugio da lui ritenuto più sicuro in ognuna delle t rentadue province dell' Afghanistan. Era a Jalalabad, nel Ningrahar, il 12 settembre del ' 96 quando i talebani la misero a ferro e a fuoco; ed era a Kabul, due settimane dopo, quando cacciarono il governo legittimo di Rabbani-Massud. Era a Khost, a fine agosto del ' 98, quando i missili americani colpirono un campo d' addestramento per ucciderlo e ne uscì illeso. «Vivo o morto», ha detto il presidente Bush. C' è chi suggerisce che, se lo vogliono vivo, la caccia all' uomo deve assumere ritmi pi ù veloci: e questo perché Bin Laden - 44 anni - non gode ottima salute. Afflitto da un mal di schiena che lo perseguita da anni, il finanziatore del terrorismo islamico cammina a fatica e deve appoggiarsi ad un bastone. Ma non basta. Ha problemi di b assa pressione e disturbi ai reni. Secondo notizie di cronaca impossibili da verificare, è stato necessario l' intervento urgente di un medico iracheno che si è precipitato in Afghanistan per assisterlo. Ha destato perciò sorpresa l' annuncio (se non si tratta di pura fantasia) che con tanti acciacchi il miliardario arabo-saudita abbia voluto inserire nel suo harem una nuova, incontaminata perla. Non diversamente dalla salute, anche il suo favoloso patrimonio economico - secondo fonti del più st retto entourage talebano - sarebbero in declino: al punto - scrivono i giornali - da non poter più accedere per mancanza di fondi alle organizzazioni finanziarie internazionali che hanno finora sostenuto il movimento integralista islamico da lui fond ato nel ' 98, Al Qaeda. Ma non si può escludere il sospetto che all' origine di queste voci vi sia il tentativo di sgretolare l' «invulnerabilità» e «sacralità» (per i suoi seguaci) del personaggio. Gli afghani in fuga da Kandahar non hanno molto da raccontare quando, esausti e bianchi di polvere, raggiungono il Passo di Chaman, dopo una marcia (più spesso a piedi) di 120 chilometri. Stanno ammucchiati sotto il sole per ore nella terra di nessuno mentre le guardie di frontiera pachistane esamina no i documenti. Solo chi ha le carte in regola, può andare oltre, appena fuori dalla minaccia della guerra. Solo qualche giorno fa, trecento profughi (in maggioranza donne e bambini) erano riusciti a superare in qualche modo, semiclandestinamente, la barriera e avevano trovato temporaneo rifugio in un «campo» di vecchi afghani, scappati negli anni Ottanta, durante l' invasione sovietica. Ma la polizia pachistana li ha snidati, caricati sui camion e poi scaricati nella terra di nessuno, a Chaman. Le donne piangevano, i bambini strillavano. Niente da fare. Tra le sue molte tragedie, il Pakistan ha anche questa. Ci sono già tre milioni di profughi nei termitai umani lungo il confine: e quei trecento, cui se ne aggiungeranno fatalmente altre ce ntinaia di migliaia nei prossimi mesi, erano già di troppo. A Chaman ero stato altre volte, negli anni Ottanta. Non era difficile passare la frontiera perché i militari pachistani davano man forte ai guerriglieri afghani, contro i russi. Il difficile era raggiungere Kandahar, perché l' unica strada era sorvegliata dalle truppe sovietiche ed esposta alle mitragliate dei Mig che la sorvolavano regolarmente. Per noi cronisti non esisteva altra soluzione che affrontare la crosta del deserto su una m oto, nel mio caso una Yamaha, guidata da uno spericolato mujaheddin. «Desert very big», mi aveva detto prima che mi mettessi a cavalcioni sul sellino: davvero grande quel deserto. E lo stato delle mie ossa, quando arrivai a destinazione dopo quindici -sedici ore di marcia, non era quello della partenza. Era il maggio dell' 86. Dopo sei anni e mezzo di guerra - aveva scritto - Kandahar era ancora, tra i grandi capoluoghi di provincia afghani, la città discola e impertinente che l' Armata Rossa non era mai riuscita completamente a soggiogare. Si trovava in una situazione di comproprietà militare tra le forze del regime (filosovietico) e i vari gruppi della Resistenza. La potevi visitare solo di notte, quando i russi si ritiravano nelle caserme di periferia e lei tornava in mano alla sua gente, ai mujaheddin. «Kandahar è nostra - dicevano -, almeno fino all' alba». Adesso è del mullah Omar, dei talebani, di Osama Bin Laden. E gli afghani se ne scappano via, per sempre.



lunedi , 01 ottobre 2001
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«Qui è sepolto un angelo, il suo nome è Massud»

Ettore Mo

BAZARAK (Valle del Panshir, Afghanistan) - Non so se quest' arida montagnola coperta di sabbia e cotta dal sole diventerà mai un luogo di culto per le popolazioni islamiche dell' Asia Centrale: certamente, la natura del territorio - con lo sbarrament o delle montagne, i fiumi vorticosi e un' arcaica rete di strade dissestate e impraticabili - non favorisce peregrinazioni e raduni di massa. Ma per gli afghani, di questa e altre regioni, la tomba di Ahmad Shah Massud resterà un simbolo imperituro d ella storia e della tragedia di un popolo o semplicemente il sarcofago-santuario dell' eroe che già all' inizio degli anni Ottanta chiamavano il Leone del Panshir. È una landa, questa, che ho a lungo frequentato e mi rammarico profondamente di non es sere arrivato per tempo ai funerali di Massud sulla collina Sarecha (appena a Nord di Bazarak, capoluogo del distretto omonimo), che hanno subito ribattezzato Salari Shahedan Hill, la collina del martire. Lo hanno messo a dormire in una fossa calda d i sabbia, su cui hanno steso un cumulo di zolle di terra erbose: ma si tratta di una sistemazione provvisoria perché la tomba verrà a trovarsi, alla fine, in una grotta circolare con le pareti rocciose: e tutt' intorno sorgeranno una moschea e una to rre e già si progetta di trasformare la montagnola, che sta in mezzo a un cerchio di consorelle più alte e imponenti ma senza un ciuffo d' erba, in un parco ossigenante di alberi, fiori e fontane. Su un cartello scritto a mano in lingua «farsi» si le gge: «Qui è sepolto un uomo che era come un angelo, seguilo lentamente. Il suo nome è Massud». Alla cerimonia di sepoltura, celebrata sette giorni dopo l' attentato a Kajabauddin, nel quartier generale del Comandante, c' era una folla enorme: un mare di gente anche nelle colline intorno. Un mare di gramaglie. La vedova e i sette figli, sei ragazze e un maschietto, il più giovane della brigata, 13 anni. Presente, naturalmente, la gerarchia dell' Alleanza del Nord, che si batte, dal ' 96, contro i talebani: il professor Buranuddin Rabbani, tutt' ora legittimo presidente dell' Afghanistan, il ministro degli Esteri dottor Abdullah (braccio destro di Massud e instancabile negoziatore), compagni d' arme nella quasi decennale Jihad, la guerra sant a contro i russi, come Abdul Sayaf. Ma non sono potuti venire all' appuntamento finale altri coraggiosi e, talvolta, discussi comandanti che, dopo averlo lasciato solo nella lotta contro i «guerrieri di Dio», gli si erano riavvicinati negli ultimi te mpi, mettendosi a disposizione del Leone del Panshir. Mancava il generale uzbeko Rashid Dostum, signore di Mazar-i-Sharif, che dal ' 79 in poi ha cambiato spesso di fede e di bandiera, alleandosi ora con l' uno ora con l' altro, forte di una banda di mercenari e proprietario dei pochi aerei da combattimento lasciati in eredità dai sovietici. Mancava il comandante Ismail Khan, ex governatore di Herat, che era scappato dalla prigione dove l' avevano rinchiuso i talebani e ora li combatteva sul fro nte occidentale, ai confini con l' Iran. Mancava, soprattutto, il comandante Abdul Haq, ramingo tra Dubai e l' Europa (giorni fa ho scambiato con lui una telefonata a Roma), che di Massud ha sempre avuto una grande stima. I russi lo temevano più di t utti. Per la sua specialità, lo chiamavano il dinamitardo. Se saltava una centrale elettrica, se cadeva un ponte, se bruciava un arsenale, potevi star certo che dietro c' era lui. Quasi sempre. Mentre da Teheran Gulbuddin Heckmatyar - l' irriducibile rivale-nemico di Massud - si agitava a favore dei talebani, dicendosi pronto alla Jihad se mai gli americani avessero attaccato l' Afghanistan, Ismail Khan, Abdul Haq e Dostum avevano cementato un' intesa con l' Alleanza del Nord che sarebbe dovuta sfociare in un' offensiva corale e decisa contro l' esercito di Kabul. Un' intesa che l' improvvisa, tragica morte del comandante tagiko del Panshir potrebbe aver messo a repentaglio, essendo venuta a mancare la guida unica, insostituibile. Nessuna s orpresa se, adesso, i mujaheddin dell' Alleanza sperano e contano molto sull' appoggio degli americani per assestare il colpo definitivo ai talebani del mullah Mohammed Omar. Reparti delle Forze Speciali degli Stati Uniti sarebbero già penetrati nel territorio afghano per scoprire la tana del lupo saudita, Osama Bin Laden. Solo gli ingenui possono aver pensato che l' eliminazione di Ahmad Shah Massud non sia collegata con gli attentati di Manhattan e Washington: se le responsabilità vanno cercat e nel plurimiliardario saudita e nel regime che per anni lo ha ospitato e protetto, non è assurdo che la prima vittima del folle progetto degli integralisti dovesse essere proprio l' avversario più agguerrito e irriducibile dei talebani. Come i pilot i degli aerei che hanno tranciato i grattacieli gemelli di New York e devastato il Pentagono, i due pseudogiornalisti arabi erano dei kamikaze. Ho ritrovato e parlato con alcune delle guardie del corpo di Massud - scelte per lo più tra i vecchi compa gni di scuola del Panshir -, gente dura, laconica, decisa, pronta a tutto per la difesa del «capo». «Ma come si fa - dice uno di loro, Rashid - a fermare degli omicidi che ti piombano addosso pronti a morire?». C' è come un tono di rimorso, nelle sue parole. Gli uomini del comandate tagiko sono ancora frastornati, allibiti, depressi. «Credimi - ha detto un giornalista dopo aver visto alcune riprese in tv del funerale -: erano come dei cani rimasti senza il loro capobranco. Smarriti, perduti». Or a che ripasso sulla strada nel villaggio di Jagalek e guardo la sua casa, lassù in alto - dove ci sono adesso una vedova e sette orfani - mi tornano alla mente i nostri incontri, dai primi anni Ottanta alla fine dei Novanta, quando l' Afghanistan era già, saldamente, nella morsa dei talebani. Fin dall' inizio, Massud si distingueva dagli altri comandanti in una cosa: non scendeva mai «a valle», non si faceva mai vedere a Peshawar (Pakistan) dov' erano acquartierati i sette partiti della Jihad, n on s' impicciava di politica. Il suo ruolo era quello del militare, e lui la guerra la faceva sul serio. Trecentosessantacinque giorni l' anno. Se lo volevi vedere, parlargli, dovevi scarpinare su fino al Panshir, come ho fatto, molte volte. C' era s olo un altro che gli somigliava in questo senso: Yunis Khal' s, capo di un gruppo piccolo ma bellicoso che operava nella sua provincia - Nangahar - e che potevi incontrare in un campo di papaveri, l' immancabile Enfield 33 sulle ginocchia. Snobbava i kalashnikov. A Peshawar imperava Gulbuddin Heckmatyar, leader dello Hezb-i-Islami, un superfalco, prediletto dell' Isi - i servizi segreti pachistani - e anche degli americani, che lo ritenevano il solo uomo capace di sgominare gli sciuravì (i russi ). Per questo gli affidarono la maggior parte degli Stingers - i missili terra-aria che cambiarono dall' 86 in poi le sorti della guerra - lasciando le briciole agli altri. Ripercorro la strada da Bazarak a Roha coi ricordi di quindici, vent' anni fa . Era il 1981, Massud aveva 27 anni. Sconquassato dagli scossoni del camion, che però mi aveva risparmiato dieci chilometri di mulattiera, mi trovai in una stanzetta sul fiume Panshir dove il Comandante stava impartendo ordini e spiegazioni tecniche. La voce era sommessa, ma non c' era dubbio che fosse un uomo di comando. La sua autorità, il suo prestigio si imponevano da soli, per pura forza interiore. Quando lo rividi, tre anni dopo, nell' aprile dell' 84, era già leggenda. Aveva respinto le c olonne corazzate degli sciuravì per ben sette volte. Vinse anche la settima offensiva che i russi avevano battezzato «Operazione goodbye Massud», decisi a toglierselo dai piedi una volta per tutte. «Si sono dovuti rassegnare a cambiar nome - mi disse con un sorriso amaro quel giorno di primavera in montagna - au revoir Massud». Pressappoco negli stessi anni, Osama Bin Laden si era arruolato nelle file dello Hezb-i-Islami di Heckmatyar e comandava il reparto degli arabi nella lotta contro gli inv asori e contro il regime comunista di Kabul. Poco si sa delle sue imprese belliche: ma è in quel periodo che il rampollo di un ricchissimo costruttore edile saudita comincia a sognare e a prefigurarsi un nuovo millennio forgiato sulla sharia e sulle leggi coraniche, dove non vi sia più posto per la cultura cristiano-occidentale, che per secoli ha dominato il mondo. Il suo fine, la restaurazione di una teocrazia islamica: fine che giustifica i kamikaze. «Noi amiamo la morte per la causa di Allah tanto quanto voi amate la vita». Le due torri e il Pentagono sono crollati sotto la spinta di questo ideale. Ahmad Shah Massud è sempre rifuggito da questo tipo di esaltazioni. Anche lui faceva parte di un partito fondamentalista - lo Jamiat-i-Islami -, ma la sua indole lo ha trattenuto nel solco della moderazione. Mentre i talebani mummificavano le donne nella burqa, togliendo loro la voglia di vivere, Massud osava ammettere che non avrebbe sollevato nessuna obiezione a una donna ministro in un suo eventuale governo. E due anni fa lanciò l' idea di un governo di larga base che non escludeva i talebani: non se ne fece nulla perché le condizioni poste da questi ultimi erano inaccettabili. Massud non è morto per la causa di Allah. Amava la su a vallata, la sua famiglia, la sua gente, i suoi soldati. Ho sempre avuto l' impressione che il suo sguardo, più che verso il cielo dei martiri e degli eroi, si posasse e indugiasse sugli uomini e sulle vicende di questa terra. A differenza di Bin La den, che è vivo e si nasconde, Massud è morto dilaniato per la causa di tutti. Ettore Mo Dall' università alla guerriglia LE ORIGINI Ahmad Shah Massud era figlio di un colonnello dell' esercito afghano di etnia tagika. Maturità al liceo francese e la urea in ingegneria al Politecnico di Kabul, era sposato e aveva sette figli (sei femmine e un maschio). Aveva 47 anni LA LEGGENDA Massud organizza il suo primo gruppo armato nel 1975. Nel 1979 i suoi mujaheddin combattono contro i sovietici che hanno invaso l' Afghanistan: Massud diventa il «Leone del Panshir». Nel 1992 entra a Kabul e diventa ministro della Difesa nel governo dei mujaheddin; lascia l' incarico nel ' 93 La trappola mortale LA RESISTENZA Dopo la presa di Kabul nel ' 96 da parte d ei talebani (gli «studenti del Corano»), Massud continua a guidare la resistenza, mantenendo con i suoi 15-20 mila uomini dell' Alleanza del Nord il controllo della regione nordorientale del Panshir LA MORTE Il Leone del Panshir è morto il 14 settemb re in seguito alle ferite riportate in un attentato suicida. Il 9 settembre due kamikaze si erano introdotti nel suo rifugio facendosi passare per giornalisti e si erano fatti saltare in aria grazie a un ordigno nascosto in una telecamera



mercoledi, 03 ottobre 2001
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Con i mujaheddin, davanti alle trincee talebane

I combattenti dell' Alleanza del Nord: «Aspettiamo il segnale d' attacco e marceremo su Kabul»
Ettore Mo

Con i mujaheddin, davanti alle trincee talebane I combattenti dell' Alleanza del Nord: «Aspettiamo solo il segnale d' attacco e marceremo su Kabul»
JABAL SARAJ (Afghanistan) - «L' ultimatum è stato dato: 48 ore. Se gli americani attaccas sero domani, noi siamo pronti. Potremo marciare su Kabul immediatamente. Ma la decisione spetta ai nostri leader». Così Saleem Khan, comandante delle prime linee sul fronte di Kapisa, a settentrione della capitale e della sua provincia, che dispone d i duemila uomini, tutti schierati in postazioni avanzate e pericolosamente esposti al tiro delle artiglierie nemiche: i talebani, infatti, sono appostati lungo la cresta frastagliata di una montagna e sparano dall' alto. La situazione, in realtà, sem bra calma su tutti i fronti (da quelli a Nord, del Badakhshan e del Takhar, a quelli del Panshir e della provincia di Parwan), ma se tacciono i cannoni, l' inquietudine, l' ansia e soprattutto la sensazione - quasi la certezza - che «il momento è arr ivato» serpeggiano tra le file dei mujaheddin dell' Alleanza del Nord, da sei anni in lotta contro i talebani. «Tutto può accadere nelle prossime ventiquattro ore», dice un altro comandante, Basir Khan, del fronte di Salang. In questo clima di frenet ica attesa, non manca la voce di qualche giovane ufficiale che ricorda Ahmad Shah Massud e sostiene che non c' è bisogno della «luce verde» di Washington per attaccare Kabul. Il quartier generale di Saleem Khan è una casona rettangolare a due piani, mezza squarciata dalle cannonate, le pareti come un formaggio gruviera, senza vetri alle finestre: intorno la campagna è fiaccata dal sole e sepolta nella polvere. Il comandante va e viene dalla prima linea (1.200 uomini) e dalla seconda (800) e ci i nforma che il morale dei suoi uomini è «alto». Non ha avuto perdite in questi ultimi giorni, ma i missili dei talebani hanno fatto vittime tra i civili nelle ultime ventiquattro ore: due morti e due feriti. «Purtroppo - dice - la gente non se ne vuol e andare, sono contadini legati alla loro terra, non li smuovono neanche le cannonate». Al fronte, tra i suoi uomini e i taleb c' è una distanza di duecento metri e i mujaheddin captano sulle radioline i messaggi del nemico e viceversa. Mi ricorda il primo capitolo di «Omaggio alla Catalogna» di Orwell, quando franchisti e repubblicani si scambiavano complimenti da una trincea all' altra. È restio, il comandante, a portarci in prima linea perché troppo rischioso. Ci rassegnamo perciò alla second a, dove però non troviamo uomini appostati con fucili e mitragliatrici: bensì una casupola-avamposto presidiata da pochi soldati e da un ufficialetto di 22 anni, Abdul Qader, che hanno piazzato sul tetto e nel cortile quattro mortai, per colpire il n emico, «lassù in alto». I mortai in realtà hanno tutta l' aria di essere a riposo da molto tempo e il fatto che l' avamposto sia abitato da famiglie con donne e bambini induce a pensare che il pericolo sia piuttosto relativo e che la seconda linea no n interessi poi così tanto ai talebani. Ma scontri ve ne sono stati - garantisce Saleem Khan, 33 anni, tre fratelli morti in guerra, tre ancora attivi su altri fronti - che avrebbero avuto vittime dall' una e dall' altra parte e hanno comportato la c attura di quindici talebani: «Una buona percentuale di loro - assicura l' ufficiale - erano pakistani... Però molti pakistani preferiscono uccidersi piuttosto che essere fatti prigionieri. Il 60 per cento dell' esercito nemico è costituito da arabi, ceceni, cinesi, pakistani, fondamentalisti d' ogni paese. Solo il 40 per cento è fatto di talebani. Ma il momento è maturo. Io sarò tra i primi e mi farò sentire. Ehi, gli griderò, sto arrivando». Nessuno vuol negare lo spirito bellicoso, la carica m orale e la lealtà dei mujaheddin. Ma la loro è stata sempre una guerra di posizione e di contenimento, spesso con episodi di eroismo e di scaltrezza militare e talvolta di brillanti soluzioni strategiche, quando le operazioni erano affidate a comanda nti di talento. Ma ora la scomparsa di Ahmad Shah Massud lascia un vuoto incolmabile nello Stato maggiore della resistenza e nessuno osa suggerire il nome di un ufficiale o di uno stratega che osi prendere il suo posto. Quando è stato chiesto a Salee m Khan come si possa rimediare alla scomparsa del Leone del Panshir, molto saggiamente ha risposto: «Possiamo solo vendicarlo». Sono in molti a pensare che la situazione scaturita dall' apocalisse dell' 11 settembre abbia favorito i mujaheddin nella loro lotta contro il regime usurpatore del mullah Omar e renda ora possibile la riconquista di Kabul. L' orgoglio dei più ardenti paladini dell' Alleanza del Nord a «voler fare da soli» è più che legittimo. Ma ripercorrendo l' itinerario della traged ia afghana negli ultimi nove-dieci anni, ciò che emerge alla fine è l' incapacità di trovare un disegno unitario, un' intesa corale per una soluzione comune. La conquista di Kabul, nell' aprile del ' 92, da parte della «Santa Alleanza» è avvenuta tra infiniti contrasti. E la stessa notte coi traccianti nel cielo che celebravano la vittoria sono scoppiate sanguinose sparatorie nei quartieri della capitale: preludio ai due-tre anni di «guerra» scatenata da Gulbuddin Heckmatyar contro il governo le gittimo di Rabbani-Massud. La situazione, allora, era molto confusa. Adesso, per i seguaci di Massud, il nemico è solo uno, ben visibile, identificato e dichiarato: i talebani. Ma gli esperti non esitano a sottolineare che, dopo l' invasione lampo de ll' Afghanistan e l' espansione fulminea nei due terzi delle sue trentadue province, l' assetto militare dei «guerriglieri di Dio» non è da prendere sotto gamba. Sono stati addestrati dai comandanti dell' esercito e dai capi dei servizi segreti pakis tani (Isi), sono bene equipaggiati, hanno armi moderne, compresi gli Stinger (munifico dono dell' America ai mujaheddin durante la guerra contro i russi), conoscono il territorio, essendo afghani. La sola cosa che gli è venuta a mancare, recentemente , è l' aviazione, dopo la drastica, repentina rottura del Pakistan con il regime del mullah Omar. Mentre il comandante Saleem Khan, come tanti altri, è in attesa del lampeggiamento della luce verde sul tetto della sua casa di Kapisa, non è ben chiaro per nessuno come sarà «concertato» - sempre che lo sia - l' intervento americano della guerra al terrorismo. Ma se l' attacco avrà per obiettivo i talebani - che per anni hanno ospitato e protetto Osama Bin Laden - non si vede come l' Alleanza del N ord non ne possa approfittare. I mujaheddin potrebbero fornire un formidabile aiuto strategico alle Forze speciali degli Stati Uniti impegnate nell' operazione per la conoscenza del terreno, in un paese che è difficile, indecifrabile, arduo da conqui stare e controllare, come ben sanno gli inglesi e i russi. In quanto ai vantaggi che potrebbero trarne i mujaheddin, è facile immaginarlo. Naturalmente, c' è già chi si chiede quali condizioni pongano gli americani per sostenere gli amici afghani nel la riconquista di Kabul. Ed ecco che rispunta la figura esile occhialuta del vecchio sovrano dell' Afghanistan, Zahir Shah, detronizzato nel ' 73 e da allora sempre vissuto in esilio in Italia, a Roma. Per molti, egli potrebbe essere il solo, l' unic o personaggio in grado di conciliare gli animi dopo quasi trent' anni di guerra e assicurare una sorta d' equilibrio al Paese. Ma è difficile credere che tale soluzione possa essere gradita agli uomini chiave dell' Alleanza del Nord, soprattutto ai v eterani che hanno combattuto con Massud per cacciar fuori, prima, l' Armata rossa e, poi, i talebani di Omar. Se tornano a Kabul, è per restarci. E niente sembrerebbe loro più normale che rimettere, non sul trono ma al governo, il professor Burhanudd in Rabbani, il presidente dell' Afghanistan che nel settembre del ' 96 i talebani spazzarono via insieme al comandante Massud, il grande tagiko del Panshir.



giovedi , 04 ottobre 2001
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Migliaia di talebani pronti a disertare

Il ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord: «Diecimila uomini passeranno con noi»
Ettore Mo

Abdullah, ex braccio destro di Massud: «Attaccheremo con gli americani. E a Kabul potrebbe scoppiare un' insurrezione popolare» Migliaia di talebani pronti a disertare Il ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord: «Diecimila uomini passeranno con noi» JABAL SARAJ (Afghanistan) - «Non sarà per stanotte, perciò dormite tranquilli... ma è questione di giorni!». Più esplicito non avrebbe potuto essere il dottor Abdullah, ministro degli Esteri dell' Alleanza del Nord, sull' imminenza dell' offens iva che i mujaheddin seguaci di Ahmad Shah Massud sono in procinto di scatenare contro i talebani, per rovesciare il loro regime e riconquistare Kabul. Lo ha annunciato nella mattinata di ieri (seduto comodo in giardino) per placare l' ansia e l' imp azienza dei tanti giornalisti che da giorni bivaccano in questa polverosa cittadina della provincia di Parwan, a meno di 100 chilometri dalla capitale. Si tratterà, ha lasciato capire, di un' operazione congiunta, con l' intervento aereo americano (c he darà il via alla guerra contro il terrorismo minacciata da Washington subito dopo la tragedia dell' 11 settembre scorso) e quello di terra delle truppe dell' Alleanza. Ci sono stati diversi incontri, dall' 11 settembre ad oggi, fuori dal territori o afghano, fra il ministro degli Esteri Abdullah e i rappresentanti e funzionari del governo Usa: durante i quali si è concordato un piano di «cooperazione militare e politica» fra gli americani e l' Alleanza del Nord. Sulla precisa natura di questa cooperazione, il diplomatico afghano, che è stato per anni il braccio destro e il negoziatore di Massud, ha glissato. A chi gli chiede se consista semplicemente in uno scambio di informazioni o nell' «unità» effettiva tra le due forze militari, si li mita a rispondere: «Abbiamo discusso anche di questo». Negli incontri, si è parlato di coordinamento e di aiuti militari ed economici: l' esercito dei mujaheddin (sono senz' altro meno dei 15 mila uomini ufficialmente dichiarati) manca di un equipagg iamento adeguato, di armi sofisticate e di un sistema logistico efficiente, come è chiaramente emerso nella sua tenuta nei sei anni di lotta contro i talebani, di gran lunga superiori anche numericamente. «Abbiamo bisogno di tutto quanto occorre per fare una guerra!», taglia corto il ministro, confermando però l' impegno dell' assistenza militare da parte dell' America. Ammette poi che negli anni passati i mujaheddin hanno ricevuto aiuti consistenti e continui da parte della Russia e dell' Iran. È la prima volta che questa ammissione viene fatta ufficialmente e scioglie una volta per tutte le perplessità di quanti si chiedevano come facesse Massud, con le sue sole forze, a respingere, nel Panshir, l' ondata d' urto dei talebani. Aiuti che, assicura il ministro, continueranno «per far fronte ai nostri nuovi impegni» e secondo le «nostre richieste». Non sono passati neanche quindici anni da quando i sovietici rifornivano di Scud il loro contingente per combattere i guerriglieri islamici mentre gli americani rifornivano questi ultimi di Stinger per abbattere i Mig e gli elicotteri russi nel cielo afghano. «Comunque - precisa il ministro -, sia ben chiara una cosa. Noi non accettiamo aiuti condizionati». Negli ultimi giorni, la situaz ione militare avrebbe segnato qualche punto a favore dell' Alleanza del Nord. Ci sono stati scontri, recentemente, nella provincia di Badghis, nel Nord Ovest, con vittime da ambedue le parti, ma i talebani sono stati respinti. E da tre giorni i loro jet non si sono più alzati in volo. L' altra notizia confortante per gli «uomini di Massud» è ciò che sta avvenendo tra le file dei talebani, abbandonati ultimamente anche dal Pakistan, dagli Emirati e dall' Arabia Saudita: «Grazie ai contatti che ab biamo allacciato - dice il dottor Abdullah -, sappiamo che dozzine di comandanti talebani sono pronti a passare dalla nostra parte con le loro truppe, oggi stesso. Non esagero se affermo che diecimila persone sono pronte a disertare». La riconquista di Kabul potrebbe inoltre essere facilitata dal fatto che, dentro la capitale, potrebbe scoppiare da un momento all' altro «un' insurrezione popolare», attizzata soprattutto dai giovani, insofferenti del regime del mullah Omar. In quanto al futuro as setto politico dell' Afghanistan, libero dagli integralisti, esso potrà essere deciso «quanto prima» dalla Shura, il Concilio nazionale composto da 120 membri, 60 dei quali proposti dall' Alleanza del Nord, i rimanenti in rappresentanza di altri part iti, movimenti, organizzazioni afghane. L' ipotesi, emersa nel recente incontro di Roma, del ritorno dell' ex sovrano Zahir Shah, in esilio dal ' 73? «Sarà la volontà del popolo a decidere», si affretta ad affermare il ministro, sorvolando su un ques ito che sarebbe comunque prematuro approfondire. Circa la possibilità che nel governo si faccia posto ai talebani moderati («ma questo è un termine che proprio non gli si addice»), il dottor Abdullah sottolinea che la scelta potrà essere fatta tra co loro che da tempo sono nella rete dei «nostri contatti». In caso di vittoria dell' Alleanza del Nord, che ne sarà dei leader talebani di Kabul? «Per i crimini commessi in casa li sottoporremo a regolare processo. Per i reati contro l' umanità li affi deremo ai tribunali internazionali». Infine, la domanda d' obbligo che non può mancare: che ne è di Osama Bin Laden? È scappato? È ancora qui? «Non date mai ascolto a quanto dicono i talebani... No, Bin Laden non è fuggito, è ancora in Afghanistan, l o so per certo. Dove esattamente? Non lo so. Ma credetemi. È ancora qui». Ettore Mo Gli oppositori I NUMERI L' Alleanza del Nord è la principale forza di opposizione ai talebani in Afghanistan. Unisce 13 partiti e movimenti, conta su 15 mila uomini a rmati anche con missili Stinger I LEADER Ai vertici Burhanuddin Rabbani, cacciato dal governo nel ' 96. Il comando militare era stato affidato al mitico Massud, ucciso in un attentato. Al suo posto ora c' è il generale Mohammad Fahim



venerdi , 05 ottobre 2001
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Mujaheddin e talebani pregano in trincea

Ma il generale dell' Alleanza non ha dubbi: «Siamo noi i veri musulmani, Dio ci farà prendere Kabul». «I nemici sono a due chilometri da qui. Per fronteggiarli abbiamo duemila uomini e cento comandanti». «Molti di loro stanno disertando. Gli arabi no, se li catturiamo non hanno scampo: li giustiziamo e basta»
Ettore Mo

JABAL SARAJ (Afghanistan) - «Siete pronti?». Stentorea, tuonante, la risposta unisona: «Sì, siamo pronti!». La danno un centinaio di nuove reclute, non ancora in uniforme, radunate in una specie di cortile con la rete per la pallavolo, che tra poco, fucile in spalla, raggiungeranno i compagni d' arme sul più vicino fronte. Le telecamere riprendono l' evento, inquadrando soprattutto la faccia, tonda e gioviale, del generale Babajan, che incita i neocombattenti e l i spedisce, seduta stante, alla guerra. Ogni giorno, da settimane, gruppi di ragazzi e riservisti partono verso questa o quella frontiera, mentre si è tutti coinvolti in un senso penoso d' incertezza e d' attesa, alimentato dai continui annunci che i giorni e le ore sono contati. Siamo all' aeroporto di Bagram, 60 chilometri a nord di Kabul, che negli ultimi sei anni è passato di mano tre volte, fra i mujaheddin e i talebani, e che ora è di nuovo sotto il controllo del generale Babajan: ha 42 an ni, un veterano della jihad, la guerra santa contro i russi, che ha combattuto a più riprese nelle province di Kandahar, Urzgan, Zabul, Wardak, fino al loro ritiro, nel marzo dell' 89. Non diversamente dagli altri comandanti che abbiamo avvicinato in questi giorni, Babajan sfoggia serenità e ottimismo e quell' aria paciosa e rassicurante che gli abbiamo visto in faccia un paio d' anni fa, al nostro primo incontro, proprio qui a Bagram. Lo seguiamo sulla torre di controllo del vecchio aeroporto ( costruito dai russi 45 anni fa) smantellato da tante battaglie, ma le cui due piste sono ancora in buone condizioni e praticabili. Nel soffitto della torretta c' è lo squarcio aperto da un rocket e dalle finestre senza un vetro l' occhio indugia su u na pianura polverosa che scivola fino ai piedi della montagna. «I talebani - dice - stanno a 2, 3 chilometri da qui, in direzione sud, sud-est. Anzi il loro avamposto più vicino è in quel villaggio che vedete laggiù, mezzo sepolto dalla polvere. Per fronteggiarli, io dispongo di duemila uomini e un centinaio di comandanti, che sapranno tenerli a bada». Non sarà facile. Come sugli altri fronti, il rapporto di forze non è favorevole all' Alleanza del Nord. «Contro i miei uomini - informa il genera le - ci sono non meno di cinquemila talebani, che sappiamo bene armati. All' inizio erano tremila, ma i rinforzi sono arrivati subito dopo la morte di Massud... Come sono sistemati? Ecco, sono disposti grosso modo su due linee: dietro quella più avan zata, ce n' è una seconda, che dovrebbe fare da sbarramento all' avanzata nemica, nel caso la prima fosse travolta. Ed è ciò che ci auguriamo». Se le parole dell' alto ufficiale afghano riflettessero la realtà, cadrebbe l' ipotesi (il sospetto) che i talebani avessero deciso, come strategia di difesa, di mimetizzarsi, sparpagliarsi, calarsi nelle trincee e i cunicoli naturali del terreno per sfuggire all' eventuale intervento aereo americano e ricompattarsi poi, in un fronte unico, contro l' ava nzata delle forze di terra. Se l' operazione dev' essere congiunta, sembra logico che l' aeroporto di Bagram, ammaccato ma ancora funzionante, debba essere utilizzato dagli aerei americani nella prima fase dell' offensiva. «Finora non c' è stato alcu n accordo in proposito - dice il generale con qualche esitazione -, ma è comprensibile. I talebani sono ancora troppo vicini alla pista e i jet sarebbero esposti ai missili. Un rischio troppo grosso. Prima bisognerà allontanare i talebani, metterli i n fuga, spingerli verso Kabul». Kabul è a solo 60 chilometri: ma lo era anche due anni fa, quando dai fronti sulla Strada Vecchia e sulla Strada Nuova verso la capitale i mujaheddin giuravano che l' avrebbero presa in un paio di giorni: una passeggia ta. Siamo a quel punto, generale? «Non c' è un piano per la riconquista di Kabul - risponde tranquillamente Babajan -: ma potete star certi che quando il nostro ministro della Difesa deciderà di farlo, noi saremo pronti. Insciallah. Con l' aiuto di D io, saremo in grado di difenderla. Torneremo presto a casa, vedrete». La preponderanza numerica dei talebani non sembra preoccupare il generale di Bagram: «Prima dell' attentato dell' 11 settembre su New York e Washington - spiega - i talebani ammass arono ingenti forze sul loro fronte; e subito dopo la morte di Massud scatenarono una grande offensiva, che però venne respinta. Bisogna tener conto che non sono una forza compatta: che nelle loro file ci sono molti arabi, ci sono gli uomini di Bin L aden, e ne abbiamo testimonianze inoppugnabili nei cadaveri trovati sul terreno dopo gli scontri e tra i prigionieri... «Tre giorni fa, un migliaio di talebani hanno disertato e sono passati, con armi e munizioni, dalla nostra parte, nei distretti di Laghman, Uruzgan, Herat. Ma erano talebani afghani. Gli arabi non disertano e non si arrendono. Sanno che, se li catturiamo, per loro non c' è scampo. Li giustiziamo e basta». Quando è l' ora della preghiera, i soldati di Babajan, come del resto tut ti gli altri, si inginocchiano rivolti alla Mecca. Ma lo stesso fanno i talebani dall' altra parte della barriera. Non sono musulmani anche loro? Non sono stati loro a scatenare una nuova jihad per restaurare a Kabul e in Afghanistan una vera, autent ica teocrazia? «Oh no, no - si schermisce il generale, ma senza irruenza -. I talebani non sono veri musulmani anche se sostengono che Dio sia dalla loro parte. I veri musulmani siamo noi. Noi abbiamo combattuto contro i russi dieci anni per difender e l' Islam e il nostro Paese. Il mullah Mohammad Omar non è un vero musulmano, e non lo è Osama Bin Laden...». Non oso e non ho l' autorità di contraddirlo: però dalle cronache degli ultimi vent' anni risulta che ambedue abbiano combattuto in Afghani stan contro l' Armata Rossa e che il mullah di Kandahar abbia perso un occhio in battaglia. Ma è per Ahmad Shah Massud l' ultimo ricordo del generale Babajan: «Due anni fa - racconta - qui c' è stata una battaglia che durò venti giorni, quando i tale bani invasero il distretto di Shamaly e presero l' aeroporto. Massud ordinò la ritirata per non sacrificare i suoi uomini e ripiegò sul Panshir. Qualche mese dopo però passò al contrattacco e si riprese Bagram».



lunedi , 08 ottobre 2001
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Afghanistan, il giorno più atteso e temuto

Un popolo ridotto in schiavitù ha vissuto un altro passaggio drammatico di una storia martoriata
Ettore Mo

JABAL SARAJ (Afghanistan) - Queste sono ore d' angoscia che l' Afghanistan ha conosciuto spesso negli ultimi 25 anni. Ma in questo caso, l' evento non è inaspettato. Dopo l' assassinio di Ahmad Sha Massud, il 9 settembre, e, due giorni più tardi, il catastrofico attentato terroristico a New York e a Washington, la reazione degli Stati Uniti per punirne i responsabili (Osama Bin Laden e il regime del talebani, che lo ha ospitato e protetto) era scontata. Ma adesso che il momento è venuto, non è p ossibile non avvertire un senso di trepidazione (non di paura) insieme a un brivido di sgomento. Corre anche qualche battuta scherzosa: coraggio, tra una settimana saremo a Kabul. I miei ricordi si rifanno al passato remoto: a quel 26 gennaio del ' 7 9 quando l' armata russa, agli ordini di Breznev, invase l' Afghanistan. Kabul si svegliò di soprassalto e col fracasso dei carri armati e dei cannoni che sferragliavano per le sue strade, mentre stormi di Iliushin e di Antonov tenevano ingombro il c ielo della capitale. Anche allora, l' intervento della grande potenza, che si proponeva di sostenere il vacillante regime filosovietico di Afizullah Amin e contenere l' ondata dell' integralismo islamico straripante dall' Iran di Khomeini, non era in aspettato. Proprio come adesso, gli afghani vissero giorni di angoscia. E non sapevano che gli «sciuravì», i russi, sarebbero rimasti quasi dieci anni. Ma l' esodo dell' armata russa (15 febbraio ' 89) non avrebbe restituito la pace all' Afghanistan: e rimase in preda a una sanguinosa guerra civile tra il sopravvissuto regime comunista di Najibullah e i mujaheddin, i guerriglieri della Jihad, decisi a restituire il proprio Paese alla cultura islamica. Ed ecco un altro momento di grande trepidazi one ed euforia per l' Afghanistan: è il 25 aprile del ' 92 quando i guerriglieri della Santa Alleanza (di cui facevano parte i 7 partiti islamici che per dieci anni avevano combattuto i sovietici) entrano vittoriosi a Kabul per instaurarvi, pochi mes i dopo, un governo islamico democraticamente eletto, di cui è presidente (lo è tuttora) Burhanuddin Rabbani, affiancato, al ministero della Difesa, dall' eroe della Jihad - la Guerra Santa - Ahmed Sha Massud, il leone del Panshir. Certamente sofferta (12 anni di lotta) ma non inaspettata la vittoria dei mujaheddin. Ero a Kabul, quel giorno, e ricordo molto bene l' entusiasmo e l' euforia di quelle ore: ma quasi subito cominciarono i dissidi tra i partiti della Santa Alleanza Islamica, che sfocia rono in scontri armati non effimeri che si sarebbero protratti per oltre due anni tra il leader dello Hezb-I-Islami, il superfalco Gulbuddin Hekmatyar, e i rappresentanti del potere legittimo, soprattutto Massud, il rivale di sempre. Per due anni, He kmatyar ha fatto cadere una pioggia di missili su Kabul devastandola e facendo più vittime, tra i civili, che durante l' invasione sovietica. Alla fine (tra il ' 94 e il ' 95) il governo di Rabbani e Massud riuscì a contenere e a isolare la furia dis truttrice e vendicatrice di Gulbuddin, che si trovò senza alleati e senza mezzi e dovette cercare scampo in Iran, dove si trova tuttora, in semi-esilio. Ma si illudeva chi avesse pensato a un Afghanistan rappacificato, intento a curarsi le ferite e a progettare un avvenire migliore. Perché, oltreconfine, erano in agguato i talebani, gli studenti di Dio educati e coltivati nelle madrasse, le scuole di teologia rurali, disseminate lungo la frontiera afghano-pakistana. È l' autunno del ' 96 quando, a metà settembre, varcano il confine e invadono, sotto il vessillo dell' Islam, le regioni sud-occidentali dell' Afghanistan, mettendo piede a Kandahar, che diventa la loro capitale. Li guida un mullah con un occhio solo, Mohammad Omar, il cui obiet tivo - afferma - è la rimozione immediata del regime corrotto di Kabul per instaurarvi una vera teocrazia. A fine settembre prendono possesso della capitale quasi senza colpo ferire e dopo poche settimane sono padroni dei due terzi del Paese. Dietro di loro c' è il Pakistan che li finanzia e li sostiene militarmente ed economicamente: e ci sono pure gli interessi di multinazionali e mastodontiche industrie petrolifere internazionali. L' ultimo atto dell' aberrante filosofia dei talebani è stata la distruzione delle statue di Buddha nella regione di Bamyan. Per l' Alleanza del Nord, che faceva capo ad Ahmad Sha Massud e che per anni ha opposto resistenza all' ingordigia territoriale dei guerrieri di dio trincerandosi nelle province settentri onali del Paese (Panshir, Badakshan), è venuto il momento dell' attacco frontale: e agli uomini di Massud non può certo dispiacere che si tratti di un' operazione coordinata con l' aviazione militare americana, che si propone la cattura del principe del terrore Bin Laden e la fine del regime perverso che gli ha consentito la realizzazione delle sue trame. «È un' opportunità unica per uscire da questa situazione», ha dichiarato il ministro degli Esteri e portavoce dell' Alleanza del Nord, dottor Abdullah. Ma è il tono di voce con cui ha pronunciato queste parole che ci ha particolarmente colpito: perché, alla fine, stava annunciando l' imminenza di un' operazione militare, di un' azione di guerra, non una festa di compleanno. Ora non vorrei sembrare cinico: ma a me (come, credo, a tanti altri) quell' annuncio - pensando alle tante sofferenze che i talebani hanno procurato all' umanità negli ultimi cinque anni - ha fatto piacere. La storia
ORIGINE Il nome Afghanistan compare nel terzo se colo prima di Cristo, ma l' area era abitata già da centomila anni



martedi , 09 ottobre 2001
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Al funerale di Ahmad, che è stato il primo a cadere

Colpito al petto nella trincea di Bagram: un soldato semplice del fronte anti-talebano la prima vittima della guerra al terrorismo Il primogenito Sayd, 10 anni, con un fiore scaccia le mosche dal corpo di suo padre Terreno piatto, senza un albero, un cespuglio. Solo la nostra buca e la loro, a 40 metri di distanza, con i fucili puntati
Ettore Mo

Tra i mujaheddin che hanno accompagnato al cimitero la salma del giovane combattente, 32 anni e cinque figli, ucciso in prima linea domenica alle 5 della sera Al funerale di Ahmad, che è stato il primo a cadere Colpito al petto nella trincea di Bagra m: un soldato semplice del fronte anti-talebano la prima vittima della guerra al terrorismo
JABAL SARAJ (Afghanistan) - La prima vittima della guerra al terrorismo, sulla linea del fronte, ha un nome e un volto: si chiamava Ahmad Rahim, 32 anni, lascia la moglie e cinque figli. Lo hanno sepolto ieri tra le tombe di sasso e i ciuffi d' erba secca nel cimitero del suo villaggio - Cheeneky - nel distretto di Syedkhid, provincia di Parwan. Era l' una del pomeriggio e il sole picchiava f orte quando l' hanno interrato. Gli uomini, più di un centinaio disposti su tre file, hanno pregato davanti alla bara avvolta in una coperta di lana. Le donne, tenute in disparte, recitavano litanie funebri: ma Yeena e Najela - le due figlie di 4 e 5 anni - piangevano a dirotto, sciogliendo la polvere sulle guance; e così il figlio più grande, Sayd Najim, 10 anni, mentre gli altri due seguivano la cerimonia sbigottiti. Né l' anziana madre, né la giovane moglie, Rokhashana (30 anni) hanno potuto assistere alla sepoltura. È stato un funerale qualsiasi, senza discorsi e scariche a salve, anche se il soldato semplice Ahmad Rahim meritava forse qualcosa di più del cordoglio della sua famiglia e della sua gente: perché, imbracciato il fucile poco più che adolescente, era corso a combattere gli «sciuravì», i russi, verso la metà degli anni ' 80; e quindi, temprato dall' addestramento sul campo, s' era arruolato, nel ' 96, tra le file dei mujaheddin per bloccare l' avanzata dei nuovi misterios i extraterrestri chiamati talebani. E uno di loro, l' altro giorno, l' ha ucciso. È accaduto sul fronte di Bagram (in località Asankhil), dove talebani e uomini dell' Alleanza del Nord si fronteggiano per assicurarsi l' eventuale controllo dell' aero porto militare, a 60 chilometri da Kabul e da tempo inattivo, che è attualmente presidiato dai mujaheddin del «generale» Babajan: un buon ufficiale, solo apparentemente folkloristico. Ahmad Rahim si trovava in prima linea da sei giorni insieme a un c entinaio di commilitoni, cui era stato affidato il non facile compito di neutralizzare ogni tentativo di sfondamento da parte delle forze nemiche, numericamente superiori e probabilmente anche meglio armate. «Domenica - racconta Mirg Haowsudin, solda to dell' Alleanza - mi trovavo accanto ad Ahmad, amico di vecchia data. Eravamo in sette, nella stessa trincea. I talebani erano schierati lungo una linea retta, proprio davanti a noi, a non più di 40-50 metri. Terreno assolutamente piatto: né alberi né cespugli. Niente. Noi e loro, e i fucili puntati, da ambo le parti. Ci scambiavamo fucilate ogni santo giorno: così anche domenica. A un certo punto, Ahmad ha lasciato partire una scarica, poi l' ho visto crollare di schianto in fondo al buco. È morto di colpo, fulminato. Un proiettile nel petto. Il mio orologio segnava le 5. Le 5 della sera». Dopo una sosta all' ospedale di Charikar, la salma di Ahmad Rahim ha preso la via di casa e alle 9 di ieri mattina è arrivata a Cheeneky. «Lo abbiamo lavato e profumato e rivestito com' è nel nostro costume - dice ora il suocero, Ahmad anche lui, gli occhi di un celeste sbiadito senza più luce - e poi lo abbiamo adagiato in questa bara». È una bara di legno grezzo, di color verdastro. Verde anche la coperta stesa sopra il cadavere. La faccia di Ahmad Rahim è avvolta da una pezza bianca che gli cade sulla spalla e che mostra, all' orlo, una macchia di sangue. Gli occhi sono semichiusi e, sotto le narici, il segno nero dei baffi, ben curati. Il suocero agita un fazzolettone per scacciare le mosche che imperversano attorno alla bara; e la stessa cosa fa ora il figlio, Sayd, ma agitando un fiore. Il portichetto davanti all' uscio di casa, dove è collocata la bara, è pieno di gente, gli amici più intimi, i parenti lontani, i contadini del circondario e anche tanta fanciullezza attratta, per la prima volta, dal mistero della morte. Prima che noi arrivassimo, c' erano anche tante donne, coi loro vestiti festosi e multicolori, con o senza b urqa, che erano venute a portare l' ultimo saluto e a piangere. Ma sono sparite di colpo, terrorizzate dalla presenza della macchina fotografica. Se c' è il paradiso per gli eroi, i suoi due fratelli che sono morti per la causa - uno nell' 86, combat tendo contro i russi, un altro nelle prigioni del leader filo-sovietico Babrak Karmal - troveranno un posticino per Ahmad Rahim. «Eravamo in cinque - dice il solo fratello sopravvissuto, mujaheddin anche lui, Sayed Rachman -, e solo uno è passato a m iglior vita per cause naturali. Da tempo, mi sono incamminato per il sentiero di Ahmad, anzi, l' ho imboccato ancor prima di lui. Non so quale sarà il mio destino». L' anziana madre piange e si dispera quando quattro uomini sollevano la bara e se la mettono in spalla per portarla al cimitero. La processione si snoda tra gli argini di orti e campi arsi dal sole e lungo un ruscello d' acqua verdastra. Sopra la bara, nella fossa, fanno scendere prima delle grosse pietre, poi sassi, poi palate di te rra calda bruciata. L' atmosfera è rovente. È l' una del pomeriggio, si respira a fatica. Il governatore del distretto di Syedkhid (250 famiglie), Abdul Shokoor, 44 anni, ha qualcosa da dire: «La fine di Ahmad Sha Massud - confida - ci ha sconvolti. C' era un solo modo di reagire, promettendo a noi stessi che avremmo continuato la sua lotta. Il nostro amico Ahmad Rahim lo ha già fatto, e ha pagato il prezzo più alto. Qui a Cheeneky non ne trovi uno che non abbia combattuto gli "sciuravì", sempre che abbia avuto l' età per farlo. E adesso i nostri "sciuravì" sono i talebani: i quali, puoi scommetterlo, faranno la stessa fine». Parere condiviso dal comandante militare di zona, Mowlana Sayed Khil, che recluta i giovani per spedirli al fronte, dopo un duro, rigorosissimo addestramento: «Per me è un errore - dice - sostenere che i talebani son tutti bravi soldati, motivati, decisi. Bisogna distinguere: quelli locali, gli afghani insomma, sono entrati in crisi e non mi meraviglia che si parl i di diserzioni di massa. Lo zoccolo duro è costituito dagli arabi di Osama Bin Laden o da stranieri - i pakistani, ad esempio - infettati dal morbo dell' integralismo islamico del santone di Kandahar, Mohammad Omar». Quasi certamente, è partito da l oro il colpo di fucile che ha fulminato il soldato semplice di Cheeneky, Ahmad Rahim e lo ha spedito di colpo dai suoi fratelli, in paradiso.



domenica , 14 ottobre 2001
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L' Armata del Nord: «Abbiamo atteso troppo»

Dopo 5 anni di trincea, la resistenza antitalebana scalpita per riconquistare la capitale. Ma Washington frena
Ettore Mo

L' Armata del Nord: «Abbiamo atteso troppo» Dopo 5 anni di trincea, la resistenza antitalebana scalpita per riconquistare la capitale. Ma Washington frena
JABAL SARAJ (Afghanistan) - I comandanti sono impazienti e altrettanto lo sono i mujaheddin, in fossati da mesi nelle trincee di Bagram e della piana di Shamaly lungo la prima linea del fronte settentrionale, a 40-50 chilometri da Kabul. Ufficiali e soldati del Fronte Unito dell' Alleanza del Nord, gli occhi puntati sul semaforo, sono in attesa della luce verde: il segnale che dia il via all' offensiva di terra per la riconquista della capitale e la fine immediata dei talebani. Ripresentandosi, dopo giorni di assenza, ai commandos dei quasi trecento giornalisti presenti a Jabal Saraj e non meno impazienti dei mujaheddin, il ministro degli Esteri e portavoce dell' Alleanza, dottor Abdullah, dice, con una certa esitazione, «è questione di giorni». Ma quando gli si chiede se può essere «più preciso», come lo era stato alla vigilia del bo mbardamento aereo americano, annunciandone l' imminenza, si schermisce: «No, non posso dire, come allora, "presto, molto presto"». Questione di giorni. È legittimo il sospetto che il ritardo delle operazioni di terra debba essere attribuito a Washing ton, la cui decisione è determinante nell' azione di coordinamento della guerra in corso in Afghanistan. Il ministro nega: «Nessuna pressione da parte degli americani - dice -. Il momento dell' attacco sarà deciso esclusivamente in base alla valutazi one della situazione militare. Se proprio volete il mio parere, posso dire che, per me, questo è il momento giusto». Secondo il ministro degli Esteri afghano, l' effetto del bombardamento aereo americano, cominciato la notte di domenica scorsa e giud icato da molti «debole e fiacco», ha avuto al contrario un «duro impatto sul nemico»: «Il danno per le forze dei talebani - conferma - è stato molto grave, sono state interrotte le linee di comunicazione, è saltato il piano logistico. I talebani hann o perso la capacità di reagire e il loro morale è a terra». Anche il fatto che gli aerei americani non abbiano ancora colpito le posizioni più avanzate dei talebani a nord di Kabul spianando la strada per un' immediata offensiva di terra, avverte il ministro, dipende unicamente da una valutazione strategica: smentendo così la voce di un segreto (incomprensibile) accordo tra Washington e il governo di Islamabad preoccupato di salvare i «suoi uomini» coinvolti nella guerra, a fianco dei talebani. Pakistani e arabi (seguaci di Osama Bin Laden) sono gli «stranieri» nell' esercito del mullah Omar e hanno recentemente costituito una base avanzata in Afghanistan, a Kuisafy, che minaccia da vicino l' aeroporto di Bagram, tuttora sotto il controllo dei mujaheddin. Ma l' aviazione americana non ha risparmiato nei giorni scorsi la prima linea talebana a Koh-Siah-Boz, in provincia di Takar, non lontano dalla città di Taloqan, per un certo tempo feudo di Ahmad Sha Massud, che è passata più volte da una mano all' altra. L' impatto, su questa postazione avanzata, sarebbe stato tremendo. Non vengono invece segnalati sviluppi nella zona di Mazar-i-Sharif dove il generale Rashid Dostum tiene sotto pressione, da tempo, «i guerrieri di Dio». Dopo par ecchi incontri con i comandanti militari, dall' 11 settembre scorso ad oggi, il ministro degli Esteri afghano ammette che «è sempre più difficile» tenerli a freno: e non stupisce che il loro stato di insofferenza si sia ancor più aggravato negli ulti mi tempi, quando è corsa voce che (anche in seguito a un' imperdonabile interferenza del presidente pakistano Musharraf) non sarebbe stato consentito ai mujaheddin - loro che da oltre cinque anni combattono i talebani - di sferrare l' attacco finale a Kabul. E questo, per impedirgli di acquisire, grazie al successo militare, una posizione preminente nel futuro governo afghano. In effetti, si può nutrire più di qualche dubbio sull' efficienza dell' esercito dell' Alleanza del Nord: e nel conto al negativo vanno messe certamente la mancanza di armi sofisticate e di una vera struttura militare. Ma il loro spirito di combattenti, come la loro lealtà e dedizione alla causa, sono fuori discussione. E, se li mettete in fila, assicura oggi un leade r politico che li ha sempre sottovalutati, quelli a Kabul ci arrivano: sempre che l' aviazione americana infligga colpi mortali al nemico (più numeroso e meglio armato) e fornisca la necessaria copertura. Sono appena reduce da un avamposto dei mujahe ddin, nel villaggio di Khalazay. Le trincee dei talebani sono a 300-400 metri, a protezione di villaggi che si chiamano Estarghech, Rayesh, Khoshab. Siamo nella zona piatta di Qarabagh, provincia di Kabul, che è là dietro la montagna azzurra, a 30 ch ilometri. Giorno e notte si spara. «Siamo qui da due anni - dice il comandante, Abdurasheed, che dispone di trenta uomini -, ma ci siamo stufati. È ora di levar le tende». La stessa cosa conferma il suo superiore, Haji Sheer Alam, che ha il controllo dell' intero distretto, 7.000 soldati, «ansiosi di partire». Un altro comandante, Neek Mohammad, ricorda che dopo la morte di Massud, «abbiamo ingaggiato una battaglia coi talebani che è durata venti giorni». «Ora però - aggiunge - siamo tornati all a normalità. Ed è triste. Triste perché il morale è alto e Kabul a un tiro di schioppo. Oh mi creda, non vedo l' ora di andarci. Penso proprio che l' ordine stia per arrivare. Questione di giorni, forse di ore». Stessa irrequietezza, stessa impazienz a mista ad ansia e ad euforia, a Rabat, uno dei tanti villaggi della piana di Shamaly, che ha ora assunto un ruolo permanente di avamposto militare nella guerra tra talebani e mujaheddin. Vecchi casolari coi muri di fango e paglia sono stati trasform ati in altrettanti fortini di difesa e di attacco lungo la «prima linea». Janagha, il comandante, 25 anni, mi porta sulla torretta del casolare, dove tirano sul nemico. Mi fa accovacciare dietro un parapetto friabile protetto da sacchi di sabbia e su bito la musica comincia. I talebani rispondono e i proiettili si conficcano nei sacchi e contro il muro. «Il reparto più avanzato - informa Kamel - è formato dagli arabi di Osama. Qualche volta i colpi si infilano. Due di noi ci sono rimasti, abbiamo avuto anche cinque o sei feriti». Trascorro la notte con loro, a Rabat. Sopra, uno dei più bei cieli stellati che mai abbia visto. I traccianti sono virgole rosse e subito si spengono. Ma laggiù, dietro la montagna, irrompono, per mezz' ora, vampate di luce. «Bombardano Kabul», dice il ragazzo dietro la mitraglia. Dice anche che è di Kabul, mi chiede se conosco la città e mi fa il nome di una via. Spara ancora qualche colpo (inutile) verso una macchia scura, che dovrebbe nascondere una trincea. «Chissà se trovo ancora la mia casa, quando torno», borbotta, infilandosi l' indice nell' orecchio frastornato.



giovedi , 18 ottobre 2001
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«Noi, talebani pentiti, cambiamo trincea»

I racconti dei soldati passati all' Alleanza del Nord: «Ci davano 100 dollari al mese, ma ci hanno ingannato» Nella nostra zona «gli arabi» erano circa 500. Ma non andavamo d' accordo, non ci piacevano. Specialmente dopo i festeggiamenti per la morte di Massud Dopo un periodo al fronte avevamo diritto a qualche giorno di riposo a Kabul. Ma dopo l' inizio dei bombardamenti americani, la capitale fa paura
Ettore Mo

«Noi, talebani pentiti, cambiamo trincea»
JABAL SARAJ (Afghanistan) - Centinaia, forse migliaia di talebani, secondo fonti locali, sono in procinto di disertare per unirsi immediatamente ai reparti militari dell' Alleanza del Nord, che hanno combattu to per più di cinque anni. Dei tanti che l' avrebbero già fatto, abbiamo appena incontrato una sparuta rappresentanza: dieci uomini che i mujaheddin lasciano liberamente circolare con le armi in pugno e che, anzi, esibiscono con orgoglio davanti ai m embri della stampa internazionale, come fossero un trofeo di guerra. L' incontro avviene in un casolare abbandonato e semidistrutto (distretto di Sayad, provincia di Kapisa), grondante di storia, residenza di un eroe delle guerre anglo-afghane dell' 800, il generale Mermasjedy Khan: e agli onori di casa provvede adesso il comandante di zona dell' Alleanza, Gul Mohammad, che ha reso possibile la defezione degli ex talebani. Che stanno seduti per terra, la schiena appoggiata alla parete, l' arma t ra le ginocchia. Nessuna emozione, nessuna tensione. Sembra di assistere a una rimpatriata tra vecchi amici. Il più anziano dei dieci (e anche il più basso di statura) è il comandante, Gula Jan, 35 anni: sta raggomitolato in mezzo a tutti ed è lui ch e risponde a tutte le domande. I due più giovani, Fareeo e Abdul Gader, hanno 17 anni: seguiti da Sayez Nazem e Neyazi, che ne hanno 18: gli altri dai 20 ai 30. Se si tien conto che al momento della defezione ognuno di loro aveva alle spalle cinque a nni di guerra, bisogna concludere che almeno quattro hanno trascorso l' adolescenza in trincea: un dato non eccezionale in Afghanistan, dall' 80 ad oggi. Il loro armamento è costituito da un bazooka, che il diciottenne Sayez Nazem tiene ritto davanti a sé, da due mitraglie leggere e due Rpg, uno dei quali in mano al giovanissimo Fareeo, che se l' appoggia alla guancia: il resto è munito di Kalashnikov, incluso il comandante. È stato quest' ultimo, nei giorni scorsi, a mettersi in contatto col ca po militare del distretto, Gul Mohammad, avvertendolo: «Siamo pronti». I dieci facevano parte della stessa unità, sul fronte di Sange Burida, dove passa la prima linea dell' esercito talebano. «Dopo l' assassinio di Ahmad Shah Massud - dice Gula Jan - ci sono stati combattimenti violentissimi tra le nostre truppe (eravamo circa 300) e gli avamposti dei mujaheddin. La morte del grande comandante tagiko è stata festeggiata su tutto il fronte dai soldati arabi e pakistani. Ma, proprio in quel momen to, noi talebani locali abbiamo capito che eravamo dalla parte sbagliata e che bisognava agire. Ed eccoci qui». Ma c' è una domanda che non può non essere fatta ed esige una risposta: come mai dei cittadini afghani si sono arruolati in un esercito ch e agiva per conto di un Paese straniero (il Pakistan) e li faceva combattere contro i propri fratelli? Com' è stato possibile, per cinque anni, mettere a tacere questo senso di colpa? «Oh certo - è la risposta -, ci siamo sentiti colpevoli, anche se troppo tardi, e per questo abbiamo disertato. Ma i talebani ci avevano illuso, ci avevano ingannato. Dicevano che i mujaheddin non erano veri islamici e che in Afghanistan erano ancora i russi a comandare». Durante la fulminea espansione in territori o afghano, l' esercito dei talebani s' è ingrossato e irrobustito grazie soprattutto ai reclutamenti forzati ma anche alle offerte di denaro e agl' ingaggi che gli ufficiali pakistani promettevano a contadini e disoccupati, assiepati come mendicanti lungo la strada. «La paga, per chi si arruolava - informa il comandante Gula Jan - era di 100 dollari al mese. Una somma, che i più non erano in grado di rifiutare». I mujaheddin dell' Alleanza del Nord percepiscono un decimo di quel compenso, 10 dol lari al mese. E ciò spiega, più d' ogni altra cosa, la rapidità dell' avanzata dei «guerrieri di Dio» che non hanno trovato resistenza e il collasso altrettanto repentino dell' esercito afghano, che ha perso, in pochi mesi, due terzi del territorio, la capitale e le altre grandi città. Il rapporto fra i reparti arabi (e pakistani) e i cosiddetti talebani locali non è mai stato buono e sarebbe molto peggiorato negli ultimi tempi: «Nella nostra zona di combattimento - dice il comandante - erano ci rca 500. Ma non andavamo d' accordo, non ci piacevano. Specialmente dopo la morte di Massud. Non è vero che fossero sempre loro in prima linea: c' eravamo anche noi, si faceva a turno. Ma ultimamente gli ufficiali non si fidavano più di noi locali... E ci tenevano dietro. Però abbiamo combattuto fianco a fianco, nelle stesse trincee. Ma il discorso non cadeva mai su Osama Bin Laden. Per noi era semplicemente uno che usava il nostro Paese per i propri fini». Dopo i bombardamenti dell' aviazione a mericana, la situazione è precipitata e c' è un grande sgomento tra gli stessi militari e la popolazione civile. «Dopo un certo periodo al fronte - dice Gula Jan - noi soldati abbiamo diritto a qualche giorno di riposo a Kabul. Ma lì si vive ormai in un clima di paura, di terrore. E la gente scappa, anche se non sa dove andare. Gli stessi talebani di stanza nella capitale vivono nel panico. Ma allo stesso tempo fanno man bassa su tutto, portano via le case alla gente». Dopo l' euforia dei primi anni, indubbiamente contrassegnati dalla supremazia dei talebani sul terreno militare, le cose stanno cambiando, e a favore dell' Alleanza: «Prendiamo gli armamenti - spiega il comandante -: non c' è dubbio che l' esercito del mullah Omar fosse megli o armato e meglio addestrato. Ma ora che il Pakistan ha cessato i rifornimenti, il rapporto s' è rovesciato. I talebani si sentono molto deboli e come tanti altri io credo che la loro disfatta è vicina. Si è parlato di migliaia di talebani pronti a p assare nelle file dei mujaheddin, come abbiamo fatto noi. Io vi posso garantire che è vero, che non è affatto un' esagerazione». Il comandante Gula Jan e i suoi nove uomini andranno presto ad appostarsi in una trincea che sta esattamente di fronte a quella che hanno appena lasciato e che è ora presidiata dai kamikaze di Bin Laden e di Omar. Ormai da un paio d' ore il cannone tuona sul fronte di Kapisa.



domenica , 21 ottobre 2001
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Kabul ventidue anni dopo aspetta sempre i liberatori

La notte del 26 dicembre del ' 79 i russi entrarono nella capitale afghana. Fu l' inizio di un lungo calvario che oggi si avvicina all' ultima stazione di ETTORE MO
Ettore Mo

Kabul ventidue anni dopo aspetta sempre i liberatori La notte del 26 dicembre del ' 79 i russi entrarono nella capitale afghana Fu l' inizio di un lungo calvario che oggi si avvicina all' ultima stazione
JABAL SARAJ (Afghanistan) - Quasi ventidue anni sono trascorsi da quando - la notte del 26 dicembre ' 79 - il «limitato» contingente dell' Armata Rossa entrava fragorosamente a Kabul. Svegliata di soprassalto e violata, com' era accaduto più volte in passato, la capitale afghana non ebbe neanche il tempo di reagire. Un' invasione pacifica, assicurava Mosca, per sostenere il locale regime filosovietico, «minacciato» dai capitalisti. Gli sciuravì - i russi - ci rimasero quasi dieci anni, alterando la fisionomia della città e dell ' intero Paese fino a renderli irriconoscibili. Vennero poi altri fatti e sconvolgimenti che videro la capitale sbalzata dalla guerra civile all' effimera euforia del ' 92 (per un redivivo governo islamico), dal conflitto fratricida innescato da Hekm atyar alla fulminea irruzione dei talebani. Col risultato che, ad ogni ritorno, la trovavi sempre più muta e straziata, una vera e propria discarica popolata da larve umane, storpi, donne e bambini inebetiti dalla fame che rovistano come cani nell' i mmondizia. In che stato sarà Kabul dopo gli ultimi avvenimenti, è penoso immaginare. Da un mese seguiamo a distanza (una sessantina di chilometri) il suo calvario, in attesa dell' attacco finale che, dopo l' intervento aereo americano, i mujaheddin d ell' Alleanza del Nord dovrebbero sferrare a giorni contro i talebani, suoi «padroni» dall' autunno del ' 96: attacco che - qualora non si trovasse, prima, una soluzione diplomatica per un allontanamento pacifico degli occupanti abusivi - comportereb be un ulteriore sconquasso fisico e il totale dissanguamento della capitale, già allo stadio terminale. Quando vi misi piede la prima volta, nel giugno del ' 79, Kabul non era già più la meta prediletta degli hippies e dei figli dei fiori che sniffav ano hashish in Chicken Street: l' anno precedente, la Rivoluzione d' Aprile aveva portato al potere un regime laico filosovietico e imposto alla gente, di colpo, una cultura nuova e totalmente aliena che costringeva gli afghani a un triplo salto mort ale della mente, dalla dottrina coranica alla filosofia di Marx e Lenin. Le donne (non tutte) vestivano all' occidentale e i cosmetici accendevano i loro volti, fino ad allora pallidi e schermati dal velo. Al Nuristan Bar dell' hotel Intercontinental , l' aperitivo più in voga era il «bloody Mary», succo di pomodoro e vodka. Sgomenti di fronte a questa fulminea inversione di rotta, i mujaheddin erano già sulle montagne, pronti per la lotta armata che avrebbe preso il nome di jihad, la guerra sant a: un pericolo, una minaccia che Mosca non poteva ignorare: ed ecco, tra Natale e Capodanno, il grande ponte aereo dei russi che dagli An-12 scaricano sulla capitale dell' Afghanistan migliaia di soldati, carri armati, missili, cannoni. I 600 mila ab itanti di Kabul assistono allibiti a questo massiccio dispiegamento di uomini e mezzi: si renderanno ben presto conto che l' Armata Rossa è venuta per restarci. Ciò che vediamo, quando ai giornalisti occidentali accorsi a Peshawar (Pakistan) viene co ncesso di fare una capatina di un paio di giorni oltre il confine, è una città spettrale, irrigidita a 1.800 metri nel gelo e nella neve. A una prima occhiata, la presenza dei russi appare discreta: qualche camionetta di pattuglia per le strade, poch i soldati ai crocicchi e davanti agli edifici pubblici. I carri armati sono stati occultati nei cortili e dietro le mura di cinta dei palazzi del governo. Ma tutto attorno, nella gelida periferia, si stanno scavando trincee giorno e notte. In sostanz a, hanno voluto farci vedere che «la casa è in ordine» e che, contrariamente a quanto sostenuto dalla propaganda occidentale, non si era trattato di un' occupazione armata, ma di una visita di cortesia che non sarebbe durata a lungo. Se ne andarono n el febbraio dell' 89: e il generale Gromov, capo della spedizione, fu l' ultimo a salutare il Paese dal ponte sull' Amu Darya. In tutti questi anni non ci fu mai concesso di rimettere piede a Kabul: per andarci, occorreva l' autorizzazione delle auto rità sovietiche, che passavano meticolosamente al setaccio ogni richiesta. E chi figurava nella lista degli amici dei mujaheddin, come il sottoscritto, e s' era avventurato clandestinamente in Afghanistan al loro fianco, per vedere «da vicino» la gue rra, non aveva chances. Dovevo contentarmi di adocchiarla da lontano, Kabul, da questa o da quella altura, come avvenne quella notte a Kuwisafi, quando mi indicarono una fioritura di luci sul fondovalle: «È laggiù, vedi - disse il mujaheddin -? Vedi anche quei traccianti rossi? Sono i nostri che stanno tirando sull' aeroporto». La guerra aveva già fatto un milione di morti ed erano circa due-tre milioni i profughi che avevano cercato scampo in Pakistan (soprattutto) e in Iran: ma durante il lung o soggiorno degli sciuravì, il danno alle strutture della capitale è stato limitato, se messo in confronto con le devastazioni degli anni successivi. E per questo il merito va attribuito alla coscienza dei guerriglieri islamici, preoccupati di non co involgere la popolazione civile, schierata dalla loro parte e ostentatamente ostile alla presenza sovietica. Kabul era diventata, per me, un' ossessione: sempre a portata di mano e sempre irraggiungibile. Non mi permisero di visitarla neanche durante l' esodo dell' Armata Rossa e se ho potuto in qualche modo vivere l' euforia di quelle giornate lo devo ai vibranti resoconti dei colleghi che ebbero il privilegio di essere presenti in carne ed ossa. Inaspettatamente, riuscii a rimettervi piede nel l' estate del ' 90 (erano passati più di dieci anni), grazie alla «magnanimità» del presidente afghano Najibullah, che aveva avviato un progetto di «riconciliazione» tra l' apparato e le forze del regime - sempre più deboli - e i partiti della Santa Alleanza islamica, sempre più forte. «È ora che mettiamo una pietra sopra il passato», mi aveva detto in un' intervista al ministero degli Esteri. Ma non ci fu riconciliazione. Kabul era circondata dai mujaheddin che ogni giorno aggiustavano il tiro delle artiglierie sugli obiettivi strategici: era tuttavia fatale e inevitabile che popolazione e abitazioni civili fossero coinvolte. L' eredità che l' Armata Rossa, andandosene, aveva lasciato ai governativi, in termini di armi e munizioni, era cos picua: ma anche la guerriglia s' era rafforzata e stava appianando le proprie divisioni interne. Quasi tutte le 32 provincie del Paese erano diventate campi di battaglia: e così le grandi città, Jalalabad, Kandahar, Herat, Mazar-i-Sharif. Difficile s tabilire quale fosse la più martoriata. Ma la palma del martirio, dopo quasi quattro anni di guerra civile, spettava decisamente, con tutti quegli squarci al centro e in periferia, alla capitale. Ricordo che un giornale inglese (mi pare il Daily Mirr or) aveva così titolato in quei giorni il reportage del proprio inviato: «C' era una volta Kabul...». Chi poi si fosse illuso che il ritorno al potere di un governo islamico avrebbe inaugurato un periodo di stabilità e di pace duratura, avrebbe dovut o ricredersi, immediatamente: e assistere, allibito, allo scoppio di un conflitto armato tra forze che, insieme, erano riuscite a sconfiggere una grande potenza (l' Urss) e ad abbattere, subito dopo, il regime ateo-illiberale che essa aveva sostenuto . È la mattina del 25 aprile ' 92 quando i reparti dei mujaheddin delle sette fazioni e gli uzbeki del generale Dostum, acquartierati attorno alla capitale, iniziano la marcia su Kabul, dove il regime di Najibullah sta rantolando. Agli elicotteri e a gli automezzi, in pista col motore acceso, il compito di trasportare le avanguardie della jihad nei luoghi fissati dal piano strategico per l' attacco finale. Col nemico alle corde e ormai rassegnato alla sconfitta, dovrebbe essere una passeggiata, u n gioco da ragazzi. Un clima euforico sembra aver contagiato tutti, dall' ultima recluta ai comandanti: meno Ahmad Shah Massud, che rimane assorto e pensieroso. Mi trovo con lui, nei pressi di Charikar, una sessantina di chilometri da Kabul. Tutti i suoi uomini sono schierati (se ben ricordo) su due file. Il comandante li passa in rassegna uno ad uno, li fissa negli occhi con severità, e ad ognuno ripete la stessa raccomandazione, che equivale a un ordine: «Siete i miei soldati - dice -. Comport atevi con onore. Trattate la gente con cortesia. Non tollero violenze, né stupri, né rapine. In caso contrario, sapete cosa vi aspetta». Prima che scenda il buio, la battaglia è già vinta e nella notte cominciano i festeggiamenti col canto ininterrot to delle armi automatiche mentre i traccianti bucano il cielo. Il presidente Najibullah, insediato nel maggio dell' 86 e successore di Babrak Karmal, sarebbe già in catene nello scantinato di un ministero e verrà sottoposto a processo per alto tradim ento. Il comandante Massud respinge le urla e le richieste dei più scalmanati, che lo vogliono subito sulla forca: è contrario ad ogni forma di giustizia sommaria. Ma la notte non è ancora finita e neanche la festa che in alcuni quartieri della città già cominciano risse e scontri a fuoco: ai mujaheddin dello Hezb-i-Islami, il partito guidato dal leader pashtun Gulbuddin Hekmatyar, non garba per nulla che il merito della vittoria venga attribuito, in gran parte, agli uomini dell' altra fazione f ondamentalista, lo Jamiat-i-Islami, che annovera tra i suoi membri il comandante tagiko Ahmad Shah Massud, il leggendario leone del Panshir. Il conflitto non si compone neanche quando il leader politico dello Jamiat, Burhanuddin Rabbani, viene eletto democraticamente presidente dell' Afghanistan, il primo presidente islamico dopo l' interregno comunista scaturito, nel ' 78 dalla Rivoluzione d' Aprile. Semmai, il riconoscimento fa andare su tutte le furie Hekmatyar, che aspirava a quel ruolo e no n si rassegna neanche quando gli viene offerta, su un piatto d' argento, la carica di primo ministro. Ormai, tra il leader dello Hezb-i-Islami e il team Rabbani-Massud è guerra aperta. L' Aventino su cui Hekmatyar si è ritirato si chiama Sharasiab, e d è una modesta collina a 25 chilometri da Kabul, polverosa e pelata, sulla cui sommità il superfalco Gulbuddin ha piazzato i pezzi d' artiglieria pesante, che gli sono rimasti in eredità dai tempi della jihad. Ed è proprio da questo bastione che, pe r circa due anni, egli accampa i suoi diritti di primogenitura rovesciando quotidianamente una pioggia di bombe e missili sulla capitale, facendo più devastazioni urbane - sostengono i suoi detrattori - di quelle inflitte nel decennio della presenza sovietica. Niente lo ferma nella sua furia distruttiva: neanche il pensiero che in quella città ha vissuto e studiato (ingegneria, al Politecnico) quando l' Afghanistan era ancora una monarchia. Il risultato di tanto assurdo accanimento, protrattosi a tutto il ' 94, fino a quando, cioè, Hekmatyar, esaurito l' arsenale, fu messo in condizione di non più nuocere, l' ho potuto vedere l' anno successivo, rientrando in dicembre a Kabul. Ovunque, cumuli di macerie, soprattutto al centro, nel quartiere degli affari e dei negozi: case e palazzi s' erano come accartocciati su se stessi e nel subbuglio della mente tutte quelle pietre sparse sulle strade e sulle piazze mi parvero un mosaico di schegge insanguinate. Era come se la città che tu credevi d' aver visto non fosse mai esistita: come non fosse stata altro che la proiezione di un sogno. Il governo islamico, scaturito dalle elezioni del ' 92, era ancora in carica, ma Massud - che ne era il capo effettivo oltre che ministro della Difesa - s ' era ritirato nel suo feudo di Sabal Saraj, dove si trovava quando (settembre ' 96) i talebani piombarono come falchi su Kabul per instaurarvi - dissero - una vera teocrazia, cioè il regno di Dio sulla Terra. Come negli anni 80, quando comandavano i soviet, non mi fu mai consentito di andare oltre il Passo Khyber per annusare il profumo di quel paradiso che sarebbe diventato l' Afghanistan, grazie all' avvento dei seguaci del mullah Omar: o per vedere quali altre immonde ferite avessero inferto alla capitale. In queste ore di angosciosa vigilia, mentre Washington e i vertici dell' Alleanza del Nord stanno coordinando il piano strategico per conseguire un obiettivo comune - l' eliminazione del regime dei talebani che ha ospitato e protetto Osama Bin Laden - il respiro di Kabul si fa sempre più affannoso: e sono in molti a chiedersi se e come sopravvivrà a questa ennesima violenza. Fino a poco tempo fa, sembrava scontato che l' offensiva e l' assalto decisivo alla capitale spettasse di diritto ai mujaheddin, che dal ' 96 combattono i talebani e che hanno perso recentemente in un attentato - il 9 settembre scorso - il loro grande capo, Massud. Era anche facile prevedere che sarebbe stato un assalto senza esclusione di colpi, di illi mitata veemenza e ferocia, e con spargimento di sangue innocente. Per evitarlo e rendere meno cruenta la conclusione del conflitto, i leader dell' Alleanza del Nord hanno deciso di bloccare i mujaheddin sulle montagne attorno a Kabul e nelle zone per iferiche, mentre a duemila poliziotti - appartenenti alle diverse etnie e opportunamente addestrati - verrà affidato il compito di penetrare in città e affrontare, con armi leggere, le guarnigioni nemiche. Una delicatezza che forse Kabul non s' aspet tava. Non vedo l' ora che tutto sia finito per correre ad abbracciarla. Ma non potrò scendere, come avrei voluto, all' Intercontinental (l' hotel dei ricchi, così definito al tempo degli sciuravì) perché - notizie dell' ultima ora - lo hanno bombarda to e distrutto. E sotto le bombe è probabilmente scomparso anche l' alberello che il collega del Messaggero, Pellizzari, aveva piantato vent' anni fa nel giardino dell' albergo.



sabato , 27 ottobre 2001
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Giustiziato dai talebani leader dell' opposizione

Abdul Haq era entrato in Afghanistan per conto dell' ex re. Gli elicotteri Usa avrebbero tentato di salvarlo. L' eroe della resistenza e le sue quattordici ferite
Maria Grazia Cutuli, Ettore Mo

Giustiziato dai talebani leader dell' opposizione Abdul Haq era entrato in Afghanistan per conto dell' ex re. Gli elicotteri Usa avrebbero tentato di salvarlo
DAL NOSTRO INVIATO
PESHAWAR - Era l' uomo dalle mille vite. Il mujaheddin sopravvissuto all a trincea. L' eroe dal piede perso su un sentiero minato. L' esule fuggito a Dubai. L' imprenditore diventato miliardario. Abdul Haq, comandante storico della resistenza antisovietica, era tornato in Pakistan a fine settembre, con un incarico molto p articolare: coordinare la rivolta delle tribù pashtun contro i talebani e preparare il ritorno del re in Afghanistan. La missione si è trasformata in una trappola. L' uomo dalle mille risorse, rispedito in prima linea dagli americani, è stato impicca to ieri pomeriggio in una caserma alla periferia di Kabul. Aveva 43 anni Abdul Haq, barba bianca, 100 chili addosso, una protesi al piede destro. I suoi modi erano affabili, la sua villa alla periferia di Peshawar sempre aperta ai giornalisti. «Ci so no diversi talebani pronti alla defezione - aveva detto durante l' intervista al Corriere una settimana fa -. Ma non è ancora il momento per intervenire». Mentiva? Il 21 ottobre il comandante ha passato il confine a cavallo, attraverso l' area tribal e con sette uomini di scorta. A Peshawar lo si sapeva. E si mormorava: «Ha preso le armi? Sta tentando di comprare i talebani?». Ieri la versione degli studenti coranici: Abdul Haq è stato catturato con un borsa piena di dollari e due telefoni satell itari ad Azra, nel distretto orientale di Logar. I signori di Kabul divulgano la loro versione: il comandante, accerchiato, avrebbe tentato di chiamare in aiuto gli americani. Pochi minuti dopo, ecco gli Apaches volteggiare in cielo. Si spara dall' a lto. Si risponde da terra. Sette feriti, tre talebani e quattro civili. Poi il prigioniero viene trascinato altrove con la sua scorta. Una corte di ulema, i giureconsulti dell' Islam, condannano a morte lui e un collaboratore come «agenti degli ameri cani». In un hotel di Peshawar, il fratello del comandante, Haji Mohammed, altro veterano della Jihad, dà altre spiegazioni: «Abdul Haq era partito in missione di pace, voleva incontrare la sua gente, i capi tribali delle province dell' est». Nessun satellitare, nessuna valigia piena di dollari. Il vecchio non sa ancora dell' impiccagione, lancia a un appello ai talebani perché lo rilascino. Poche ore dopo, nella villa dai pavimenti di marmo è un altro fratello, Daud Arsala, appena tornato dagli Stati Uniti, a scrollare le spalle: «Abdul ha sempre avuto dei contatti con i talebani. Questa era la sua seconda missione». Era stato scelto anche per questo, l' uomo dalle mille vite. Per le sue amicizie, per la famiglia alla quale appartiene, sig nori del distretto orientale di Niangharar, per la rete di relazioni che il suo clan si era assicurato. Era tornato da Dubai, dove viveva dopo che gli avevano assassinato la moglie e il figlio, con l' assenso di Washington e su chiamata del re. «Stia mo cercando di creare una struttura politica attorno all' ex sovrano sulla quale basare poi una struttura militare», aveva detto nell' intervista. «Prima di tutto dobbiamo negoziare». Aveva un piano: una grande rivolta nazionale. Oggi l' entourage de l re si dice scioccato. Ma dall' Afghanistan incalzano solo dichiarazioni di guerra. L' ultimo appello viene dal mullah Omar. Il leader supremo chiede ai musulmani di tutto il mondo tre giorni di mobilitazione a favore dei talebani. L' uomo dalle mil le vite ha sbagliato il momento: non è tempo di negoziare.
Maria Grazia Cutuli

AFIZULLAH AMIN Il 16 settembre 1979 il presidente afghano Mohamed Nur Taraki viene ucciso e al suo posto sale al potere Afizullah Amin, numero due del regime. La sua presi denza dura solo cento giorni: il 27 dicembre inizia l' invasione dell' Armata Rossa e Amin, sgradito all' Unione Sovietica, viene processato e giustiziato. Marxista ortodosso, era inviso a Mosca perché ritenuto troppo coriaceo, troppo duro con i ribe lli islamici, in una parola troppo stalinista
MUHAMMAD NAJIBULLAH Filosovietico, divenne presidente dell' Afghanistan nel 1987 e mantenne il potere anche dopo il ritiro dell' Armata Rossa (1989) fino al 1992, quando i mujaheddin presero Kabul. Anzich é scappare, restò segregato in un ufficio dell' Onu della capitale che divenne il suo rifugio-prigione. Quando nel 1996 i talebani entrarono a Kabul, Najibullah fu catturato, giustiziato e il suo cadavere fu impiccato nello stadio di calcio della cap itale
AHMED SHAH MASSUD Figlio di un colonnello tagiko e laureato in ingegneria al Politecnico di Kabul, in seguito all' invasione sovietica Massud si diede alla resistenza, guadagnandosi il soprannome di «leone del Panshir». Entrato a Kabul nel 1992 alla testa dei suoi mujaheddin, ne fu ricacciato dai talebani nel ' 96. Da allora ha continuato a combattere contro gli studenti coranici fino al 9 settembre, quando è rimasto ucciso in un attentato

JABAL SARAJ (Afghanistan) - La notizia della tragi ca fine di Abdul Haq mi raggiunge proprio qui, in questa polverosa borgata quasi all' imbocco della valle del Panshir, e a una sessantina di chilometri da Kabul, che è diventata il quartier generale dell' Alleanza del Nord da sei anni in lotta contro i talebani. Non ho bisogno di consultare appunti o i tagli di giornale per ricordare quest' ultimo martire e quest' ultima vittima dei fanatici seguaci del mullah Omar. Dopo Ahmad Sha Massud, eliminato da due kamikaze arabi il 9 settembre scorso, Ab dul Haq era uno dei comandanti mujaheddin che più ho stimato e che da tempo avevo collocato nella galleria degli eroi della guerra afghana. L' avevo incontrato nell' estate del ' 79, sei mesi prima dell' invasione sovietica, a Peshawar, la farraginos a città pakistana sulla frontiera con l' Afghanistan, dov' erano acquartierate le «sette sorelle», cioè i sette partiti islamici afghani che avevano dichiarato guerra al regime filosovietico di Kabul e che poi per dieci anni avrebbero combattuto le t ruppe dell' Armata Rossa, costringendole al ritiro nel febbraio dell' 89. Abdul Haq faceva parte dello Hezb-i-Islami, un piccolo gruppo che aveva rotto i ponti col partito omonimo, fortissimo, guidato dal superfalco della Jihad (la guerra santa) Gulb uddin Hekmatyar: il capo di questa frazione secessionista, numericamente modesta ma audace ed efficientissima nella lotta armata, era un' anziano leader islamico, Yunis Khalés, laconico e fatto di filo di ferro, la barba rossa fluente, sempre col vec chio Enfield a tracolla. L' ultima vittima dei talebani aveva cominciato molto presto la sua personale Jihad contro il regime scaturito, nel ' 78, dalla cosiddetta «Rivoluzione d' Aprile», che portò al potere il triumvirato comunista Karmal-Taraki-Am in. Abdul Haq frequentava ancora i banchi di scuola di Jalalabad da dove contava di trasferirsi alla facoltà di Agraria. «La mia ribellione scattò molto presto - mi raccontò un giorno nel suo rifugio montano di Tizine, 30 chilometri a Sud-Est di Kabu l -. Mi ricordo di un insegnante che approfittava di ogni lezione, fosse lingua o matematica, per inculcarci idee socialiste». E' ancora poco più che adolescente quando si tuffa nella lotta clandestina. Viene arrestato un paio di volte dalla polizia del regime, la Khalq. «Mi minacciarono anche di mettermi al muro - continuò a raccontarmi senza toni eroici -. Poi però dicevano: "E' ancora troppo piccolo, è un moccioso, non ci sarebbe neanche gusto". E mi davano uno scappellotto e mi cacciavano vi a. Fu un grosso sbaglio. Non sapevano, allora, che da grande gli avrei dato molto fastidio. Proprio come sto facendo ora». Abdul Haq non ha più tempo per la scuola e non sogna più un diploma come agronomo. Impara a fabbricare esplosivi, a maneggiare il fucile, a far pratica di agguati e di imboscate. Dice che i suoi cosiddetti «corsi universitari» li ha fatti prima nella sua terra, la provincia di Nangarhar (la stessa del suo capo, Yunis Khalés), poi in quella di Paktya, infine attorno e dentro Kabul. Paga caro il suo apprendistato di guerrigliero. Ha cicatrici su tutto il corpo, è stato ferito al naso, alla schiena, alla testa, al petto: «Quattordici in tutto», precisò quel giorno nel suo rifugio. Ma già allora aveva sotto il suo controllo 5 mila mujaheddin, ben addestrati e disciplinati e con un discreto equipaggiamento, che si dedicavano di preferenza alla guerriglia urbana. «Ma sono operazioni di estrema difficoltà - spiegava nei momenti di relax -. I rischi sono doppi o tripli. Ka bul, poi, è una fortezza, protetta da una triplice cinta umana con 35 mila soldati russi e afghani e una catena serrata di posti di blocco». Era molto robusto Abdul Haq. Spalle e braccia da lottatore, gambe come tronchi d' albero. Piuttosto schivo co me carattere, misurava le parole e muoveva poco la testa sul collo taurino. Ma aveva lo sguardo dei buoni. Era riuscito a creare dentro la capitale un' organizzazione underground ben oliata e scaltra, una rete di informatori camaleonti, pescati tra s olerti burocrati e funzionari governativi che facevano il doppio gioco, impiegati modello di giorno, agenti sovversivi di notte. Nel giro di due-tre anni, Abdul Haq era diventato il re dei dinamitardi e dei guastatori. Se la città piombava nel buio p er settimane e il telefono non funzionava; se bruciavano i depositi di carburante e i distributori di benzina, se c' era un blackout alla tv; se mancava la farina per il pane; se scoppiava una bomba durante il convegno dei marxisti parchamiti; se un giorno veniva rapito un illustre scienziato sovietico (Orimyuk, poi eliminato)... potevate star certi che dietro tutti questi «inconvenienti» c' era lui, sempre lui, Abdul Haq. «Il mio obiettivo - mi disse una volta quando lo andai a trovare, cosa ch e facevo spesso, nella sua villetta a due piani color ciclamino, vicino all' università di Peshawar - è sempre quello di colpire i russi là dove gli fa più male. Questa guerra che ci hanno imposto deve costar loro sempre più cara, in rubli e vite uma ne. Gli abbiamo distrutto strutture industriali e militari per miliardi di dollari». E' stato una minaccia vivente per le caserme di polizia, per le guarnigioni, per le fabbriche, i ministeri, le centrali elettriche come quella di Sarobi, i mulini e i silos, la sede della radio e della televisione, l' ambasciata sovietica, il quartiere residenziale dei russi a Mikrorayon, che ogni sera si chiedevano, prima di spegnere la luce sul comodino: «Che farà stanotte quel demonio di Abdul Haq?». Gli «sci uravì», i russi, cercarono anche di comprarlo. Era l' inizio dell' 83. Gli proposero una tregua, come avevano già fatto col leone del Panshir, Massud, strofinandogli sotto il naso una montagna di banconote. «Mi offrirono ventisette milioni di afghani - mi raccontò una volta - perché lasciassi perdere Kabul per qualche tempo. Erano infastiditi soprattutto dai nostri attacchi alle centrali elettriche e ai piloni della luce. Declinai l' offerta, naturalmente. E poi, quei soldi non valevano nulla, l i stampavano a tonnellate. Ma io già avevo in mente un progetto che li avrebbe messi in braghe di tela...». L' attacco al deposito di Kargha fu il suo capolavoro. Il deposito, 18 chilometri ad ovest di Kabul, nella Paghman Valley, era un superarsenal e e conteneva nidiate di missili terra-aria Sam 2 e uno stock micidiale di armi e munizioni che i russi provvedevano a rabboccare ogni mese. Esplose la notte del 27 agosto dell' 86, un botto tremendo che mandò in frantumi tutti i vetri delle finestre della capitale, mentre il cielo era avvampato di rosso, come per l' eruzione improvvisa di un vulcano. I ragazzi di Abdul Haq lo avevano colpito con una grandinata di missili terra-terra 107 mm. provocando un rogo infernale. Erano stati in molti ad attribuirsi il colpo, «quel» colpo. E lui li lasciava dire e sorrideva, divertito. L' ultima volta che l' ho visto, a Peshawar, fu dopo che aveva perso un piede (il destro, mi pare), saltando su una mina. Era di ritorno dalla Germania, dove lo avevan o operato. Disse, con un sorriso in quel suo faccione largo e gentile, «per camminare me ne basta uno». Ettore Mo



venerdi , 02 novembre 2001
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L' «Incompiuta» dell' Alleanza del Nord

Il governo dell' Alleanza lo ha ammesso: «Prendere la città non è più il primo obiettivo, lo faremo in un secondo tempo». Il comandante Khan: «Noi siamo pronti, ma non so se l' attacco verrà sferrato mentre è in corso l' offensiva a nord»
Ettore Mo

BAZARAK (Valle del Panshir, Afghanistan) - Fra le tante sinfonie di guerra, nessuna meglio di quella afghana, scritta a più mani e con mille inchiostri da oltre vent' anni, potrebbe arrogarsi il titolo di «Incompiuta». Gli ultimi clamorosi avveniment i (l' assassinio di Ahmad Sha Massud, l' attacco alle due Torri e al Pentagono e la dichiarazione di guerra al terrorismo da parte di Bush che ha avuto, come conseguenza immediata, la presenza militare americana nella regione) hanno indotto a pensare che si fosse giunti agli ultimi accordi: e che la sconfitta del regime dei talebani e la capitolazione di Kabul nelle mani dei mujaheddin dell' Alleanza del Nord fossero imminenti e siglassero la fine della più travagliata delle composizioni. Sinfon ia incompiuta come nell' 89, quando l' Armata rossa ripassò ingloriosamente l' Amu Darya, come nel ' 92 quando, sbaragliato il governo comunista di Najibullah, la santa alleanza islamica riprese il potere, come nel ' 95 quando il rivale di Massud, Gu lbuddin Hekmatyar, fu isolato e messo a tacere, e infine, come nel settembre del ' 96, l' autunno più triste degli ultimi anni del secolo che vide l' insediamento, ahimé non effimero, dei talebani. Giornalisti e team tv da tutte le parti del mondo si sono precipitati nelle regioni settentrionali dell' Afghanistan, rimaste fuori dall' orbita dei talebani che in sei anni sono riusciti ad assicurarsi i due terzi del territorio del Paese. Fino a 10, 15 giorni or sono molti di noi hanno coltivato la speranza di assistere all' ultimo capitolo della storia, da consegnare alla memoria dei nipoti: l' offensiva di terra e la riconquista della capitale, nel giro di 3, 4 giorni. L' attesa dell' evento è stata consumata tra difficoltà e disagi di ogni g enere, nel polveroso distretto di Jabal Seraj, all' imbocco della valle del Panshir che è diventata il quartier generale dell' Alleanza del Nord (nata sotto Ahmad Sha Massud) e allo stesso tempo la tomba delle nostre illusioni. Giornate trascorse nel l' ansia, tra una conferenza stampa e l' altra (monopolizzate in gran parte dal ministro degli Esteri Abdullah) e i falsi allarmi. Fino a quando è arrivata la doccia fredda. È stata innaffiata, a più riprese, dallo stesso dottor Abdullah e dal suo co llega, il ministro degli Interni Mohammad Qanonney, che recentemente ha detto: «Kabul non deve essere considerata al momento una priorità assoluta, anche se non bisogna escludere che continui a esserlo. Ma ritengo doveroso informarvi che l' attacco c ontro i talebani comincerà nel nord del Paese, nelle province settentrionali di Baghlan, Samangan, Kunduz e che gli obiettivi principali potranno essere le città di Taloqan e Mazar-i-Sharif. Se il Fronte unito dei mujaheddin riuscirà ad assicurarseli e a consolidare le sue posizioni, il vantaggio strategico sarà notevole nel proseguimento della lotta, anche per l' attacco su Kabul, che dovrebbe avvenire in un secondo tempo». Quasi certamente, a essere più deluso per questa decisione è il comanda nte Bismullah Khan, che ha sotto il proprio controllo il Fronte del Nord, la zigzagante prima linea dei mujaheddin a 40-50 chilometri dalla capitale, cui spetta l' offensiva finale. Siamo stati più volte in visita alle postazioni più avanzate dell' A lleanza, che fronteggiano le trincee nemiche a 200-300 metri di distanza, dove ufficiali e soldati sono egualmente impazienti. Fino a ora si sono dovuti accontentare di qualche sparatoria e di bivaccare giorno e notte, nella polvere e al freddo. Tocc herà a lui, a Bismullah Khan, guidare l' offensiva verso Kabul, e sarà forse lui il primo ufficiale a entrare nella capitale liberata dai talebani. A fatica si riesce a strappargli un' intervista, anche se è «sempre disponibilissimo», ma l' appuntame nto è rinviato di giorno in giorno. Quando, finalmente, si materializza davanti ai nostri occhi, si profonde in scuse come uno scolaretto che non è riuscito a fare il compito. Sui 40, bell' uomo, faccia serena, è nato a Roha, nel Panshir, a pochi chi lometri da Jangalek, il paese sull' ansa del fiume che ha dato le origini al massimo eroe afghano di questi tempi, Ahmad Sha Massud, sepolto lì vicino a metà settembre, sulla Collina degli eroi. «Quanto vi è stato detto - ammette Bismullah Khan - cor risponde al piano strategico che è stato concordato da qualche tempo. Le operazioni cominceranno a nord e non è possibile prevedere quando si concluderà. Quanto all' attacco su Kabul, aspetto che mi venga dato l' ordine del ministero della Difesa. No i siamo pronti. Non posso dire se verrà sferrato mentre è in corso l' offensiva nelle regioni settentrionali o successivamente. Ma nego che sia necessario l' appoggio dei reparti attualmente ingaggiati sul fronte di Mazar-i-Sharif, agli ordini del ge nerale Dostum, e tanto meno dalle forze di terra americane, come qualcuno ha avventatamente suggerito. Bastano i miei uomini, ve l' assicuro. Non ho proprio bisogno di nessun altro». Né le autorità politiche né tanto meno i militari sottovalutano la potenza offensiva dei talebani che dispongono di 50-60 mila uomini. Sono molto bene armati e nel loro arsenale c' è ancora una discreta quantità di Stingers che il principe del terrorismo e plurimiliardario arabo saudita Bin Laden ha acquistato a pre zzi maggiorati, sottraendoli agli americani che volevano ricomprarli. «Il Pakistan - dice Bismullah Khan - è ancora dietro i talebani, continua a sostenerli, militarmente ed economicamente. Anche se organizza delle sceneggiate come quella inscenata l ungo la frontiera afghano-pakistana dove sono state bloccate alcune migliaia di uomini, pakistani, che stavano per attraversare il confine e raggiungere i reparti dei talebani. Lo hanno fatto per mostrare agli americani che mantengono le promesse: ma in quello stesso momento altre migliaia di uomini varcavano clandestinamente la frontiera, che è lunghissima e non è presidiata». Il comandante Bismullah Khan assicura che si atterrà scrupolosamente alle disposizioni del suo governo (il governo dell ' Alleanza del Nord, di cui è presidente Burhanuddin Rabbani, eletto nella primavera del ' 92), secondo le quali i suoi uomini dovranno arrestarsi alla periferia di Kabul, in attesa che 2.000 agenti delle Forze speciali (Servizi segreti, si presume) assumano il controllo della capitale e provvedano allo sgombero degli occupanti abusivi col minor spargimento di sangue possibile. Nessuna meraviglia che il comandante non si faccia troppe illusioni, vista la presenza, sul campo, degli irriducibili s eguaci di Osama Bin Laden e del mullah Omar, vate dell' integralismo islamico. «Comunque - taglia corto Bismullah Khan -, loro, gli arabi, hanno poca scelta. O arrendersi, o combattere e morire. In quanto ai talebani locali, cioè quegli afghani che s i sono arruolati nell' esercito dei talebani per sbarcare il lunario... beh, quelli, non appena sapranno che noi abbiamo sfondato la prima linea e ci stiamo avvicinando alla capitale, se la svigneranno in fretta. Dove? Suppongo verso sud e sud-ovest, nella provincia di Kandahar, dove il Movimento ha basi ancora consistenti». Non sembrano esserci molti punti in comune tra la riconquista di Kabul, nel ' 92, quando i mujaheddin (Massud in testa) gli piombarono sopra trovando scarsa resistenza da pa rte degli uomini di un regime che era già alle corde, completamente barcollante, anche se poteva ancora contare (parzialmente) sull' aiuto di Mosca. «Adesso - dice il comandante - i talebani sono soli, benché il Pakistan continui ad assicurare il suo appoggio sottobanco, come ho detto prima. E l' America? L' America che ha contribuito alla creazione dei talebani attraverso il Pakistan adesso è contro di loro. Gli Stati Uniti hanno cambiato politica, noi no! Sì, è vero. Gli americani hanno dichia rato guerra al terrorismo internazionale ed è un fatto che una larga percentuale di quel terrorismo è annidato, grazie a Bin Laden e ai talebani, nella nostra regione. Ma anche il nostro comandante Massud aveva fatto lo stesso qualche mese fa a Stras burgo, quando aveva detto che i suoi mujaheddin combattevano contro il terrorismo: però nessuno gli ha dato retta. Parliamoci chiaro. Se non ci fosse stato l' attacco alle Torri gemelle e al Pentagono, l' America se ne sarebbe fregata dell' Afghanist an». La sinfonia resta incompiuta. Nessuna scadenza immediata è prevista per la capitolazione di Kabul e per lo sgombero dei talebani. Questa è stata un' annata infelice, per l' Afghanistan e ha avuto due grandi lutti. Tutti si augurano che né Massud né il comandante Abdul Haq, catturato nella sua provincia e giustiziato, siano morti invano. Ma l' inverno è alle porte e dopo la terra la neve contribuirà a cancellare il loro ricordo.



martedi , 13 novembre 2001
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Quando un giornalista rischia e perde la vita

Ettore Mo

La testimonianza Quando un giornalista rischia e perde la vita Sono appena rientrato dall' Afghanistan, dopo un soggiorno di oltre quaranta giorni, durante i quali ho seguito le ostilità tra i mujaheddin e le forze d ei talebani, che dal 1996 hanno il controllo sui due terzi del territorio del Paese. Ero di base (come si dice in gergo) a Jabal Saraj, nella provincia di Par wan, a una sessantina di chilometri da Kabul, dov' erano confluiti centinaia di giornalisti da ogni parte del mondo e dove l' Alleanza del Nord (creata da Ahamad Sha Massud) aveva schierato parte dei suoi uomini per sferrare l' offensiva di terra sulla capitale. Ogni giorno (e anche più volte al giorno) si andava in gruppo su questa o quel la postazione al fronte - all' aeroporto di Bagram o all' avamposto di Rabat o altrove - per osservare la situazione in prima linea e registrare quella che che, sempre in gergo, chiamavamo «la temperatura». Devo ammettere che raramente c' era di che impensierirsi, anche se le trincee nemiche erano situate spesso a duecento-trecento metri di distanza. I mujaheddin erano sistemati in casupole di fango nella pianura polverosa, a gruppi di dieci, dodici o quindici, e avevano l' aria molto annoiata. «Noi siamo pronti - rispondevano i comandanti quando gli si chiedeva quando sarebbe cominciato l' attacco -, aspettiamo solo l' ordine del nostro ministro della Difesa, il generale Fahim». Comandanti e mujaheddin erano impazienti e, quasi nella stess a misura, lo eravamo anche noi, che, invece delle pallottole, dovevamo sparare delle notizie ai nostri giornali: ma c' era poco da raccontare, tranne qualche scambio di fucilate fra una trincea e l' altra e qualche colpo di mortaio. Un dramma ancora più grave per i cameramen delle tv, sempre a caccia di immagini forti. Nessuno voleva fare l' eroe, ma era difficile evitare un senso di disagio quando si veniva vagamente indicati come «corrispondente di guerra»: disagio che rasentava la vergogna se qualcuno faceva riferimento alle immagini dello sbarco in Normandia e ai giornalisti al seguito del «giorno più lungo». La situazione sarebbe (di poco) migliorata per i nostri reportage dopo l' inizio dei bombardamenti americani che, svegliandoci ne l cuore della notte, ci costringevano a saltare sulla jeep per raggiungere le colline da dove contemplare la guerra aerea. Ma le bombe cadevano lontano, su Kabul, e si vedevano i bagliori delle esplosioni, dietro la montagna. La prima notte, tuttavia , corremmo un rischio non lieve: fu quando i fanali delle nostre macchine richiamarono l' attenzione dei talebani, che aprirono il fuoco, con buona mira. Un missile esplose a pochi metri dal nostro gruppetto. Ne uscimmo indenni. Neanche un graffio. M a non appena arriva la fase incandescente del conflitto, con la presa di Mazar-i-Sharif e l' assalto alle città del Nord, ecco le prime vittime. I nostri tre colleghi, uccisi in un' imboscata tesa dai talebani. Non ho a mia disposizione statistiche a ggiornate, ma la morte di questi ultimi reporter dovrebbe portare a 12 il numero di giornalisti, fotografi e cameramen periti in Afghanistan dall' invasione sovietica (26 dicembre ' 79) ad oggi. Un totale che può essere considerato «basso», se confro ntato con quello della guerra del Vietnam (mi pare oltre 150) e di altri conflitti più brevi ma più cruenti per i media. Ma facendo riferimento alle mie esperienze personali, penso di aver corso rischi maggiori in altri conflitti, per esempio in Cece nia o nel Libano. In Afghanistan (tranne un episodio nell' agosto del ' 94, quando un giovane collega afghano fu strappato fuori dalla macchina in cui viaggiavamo insieme e assassinato dai sicari del leader Hekmatyar, un sanguinario), il vero dramma per noi reporter consisteva in tutta una serie di difficoltà che occorreva superare per poter raccontare la vicenda afghana, apparentemente facile e invece molto complicata. La prima difficoltà era come entrare nel Paese e, una volta entrato, come de streggiarsi per seguire le fasi belliche. Chi, come il sottoscritto, voleva seguire la guerra dalla parte dei mujaheddin, doveva superare clandestinamente il confine pakistano-afghano, vestito da guerrigliero, e poi seguire a piedi, sempre a piedi, q uesto o quel gruppo (ce n' erano sette) di combattenti. Ricordo «passeggiate» o «escursioni» della durata di oltre un mese. Per me, l' Afghanistan è stato, soprattutto, fatica fisica. Lo è stato anche quest' ultima volta, quando ho deciso di raggiung ere dopo l' assassinio del comandante Massud i reparti dell' Alleanza del Nord nella Valle del Panshir. Gli elicotteri in partenza da Dushambè - capitale del Tagikistan - erano pochi e quei pochi presi d' assalto dalla truppa dei media, che a fine se ttembre annoverava più di 300 persone. Per giungere a destinazione ci si è dovuti rassegnare a un viaggio via terra - da Faizabad al Panshir - durato due giorni (14 ore per giorno in macchina) e attraverso un valico - il Passo di Anjuman - a 4.500 me tri. Anche il rientro è stato complicato e problematico: e solo un briciolo di fortuna ci ha risparmiato di rifare quel Passo a piedi e sotto una bufera di neve, come hanno fatto tre colleghi francesi (tra cui una donna). È un mestiere faticoso, il n ostro, e spesso uno si chiede chi mai glielo abbia fatto fare. Se poi capita quel che è successo l' altro giorno ai tre giornalisti, dalla parte di Mazar-i-Sharif, uno si sente ghiacciare il sangue e non ha più niente da dire: come è stato quella vol ta, in Afghanistan, nell' agosto del ' 94, quando hanno ammazzato il mio giovane compagno di viaggio e reporter della Bbc, Mirwaiz Jalil. Ettore Mo



mercoledi, 14 novembre 2001
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I mujaheddin, vincitori in guerra sconfitti in pace

La marcia degli eroi della resistenza ai sovietici, dal mistico Rabbani al superfalco Hekmatyar
Ettore Mo

I mujaheddin, vincitori in guerra sconfitti in pace La marcia degli eroi della resistenza ai sovietici, dal mistico Rabbani al superfalco Hekmatyar Adesso che i mujaheddin hanno ripreso Kabul e che potrei tornarci - dal momento che non ho mai avuto c ompromessi coi talebani -, mi chiedo chi vorrei rivedere e con chi sedermi in un angolo, tra i ruderi della città, per bermi una tazza di tè. So che vorrei rivedere, prima di tutti, il comandante Ahmad Shah Massud, ma dal settembre scorso è sepolto f ra le rocce del suo Panshir, sulla collina dei martiri, a nord di Bazarak; e mi piacerebbe anche scambiare quattro chiacchiere con Abdul Haq, il comandante dello Hezb-i-Islami di Yunis Khalés più noto come il dinamitardo, catturato e ucciso un mese f a dai talebani, che lo avevano incluso nella lista dei provocatori più pericolosi. Niente da fare anche per lui. Peccato. Però la lista dei sopravvissuti in venti e più anni di guerra, fossero protagonisti o comprimari, è lunga: e la memoria torna fa talmente agli anni della «preistoria» afghana, il ' 79, quando Peshawar, la caotica città di confine pakistana tanto amata da Kipling, era il covo e il rifugio dei partiti islamici che già combattevano, sulle montagne oltre frontiera, le forze del re gime filosovietico di Kabul: che solo sei mesi dopo avrebbero avuto il sostegno dell' Armata Rossa, piombata sulla capitale subito dopo Natale. Peshawar era l' unica porta d' ingresso, allora, per noi cronisti che volevamo seguire i mujaheddin e segu ire, mimetizzati, i loro avventurosi ed eroici itinerari attraverso l' Afghanistan. I partiti erano sette, tre fondamentalisti (i più agguerriti ed aggressivi) e quattro cosiddetti moderati, disposti a un compromesso con le filosofie e i sistemi occi dentali. Tra i leader s' imponeva subito Gulbuddin Hekmatyar, che arrogava a sé e al suo partito gran parte dei meriti della lotta armata già in corso sulle montagne tra i mujaheddin e i governativi del regime: suoi - sosteneva - erano i primi martir i, sue le prime vittime: un orgoglio e un' ambizione personale che lo avrebbero reso inviso al capi degli altri partiti e costretto, infine, a un isolamento senza via d' uscita. Burhanuddin Rabbani (eletto presidente dell' Afghanistan nel ' 92, caric a che ricopre, legittimamente, tuttora) era il leader dello Jamiat-i-Islami, uno dei più forti partiti della jihad - la guerra santa - e ricordo che aveva, benché neanche cinquantenne, un aspetto venerando, mistico e ieratico, la barba bianca ben rav viata e coltivata e la fama di gran teologo ed asceta, cresciuto ed addestrato in una delle più prestigiose università islamiche del Cairo: attributi notevoli ma che avrebbero scarsamente contribuito alla sua ascesa politica se non avesse avuto al su o fianco il leone del Panshir, quell' Ahmad Shah Massud che stava rintanato nella sua impenetrabile vallata e che mai sarebbe sceso a Peshawar. Se proprio volevi incontrarlo, dovevi scarpinare sulle mulattiere per settimane, fino al suo rifugio. C' e rano anche altri leader in quella polverosa periferica pakistana, che inalberavano i vessilli della jihad contro gli «sciuravì», i russi. Ma il ricordo di loro e dei loro volti si è, con gli anni, affievolito. Mi tornano in mente nomi come Gailani, c apo di un partito moderato, che vestiva all' occidentale e volava tra Londra, Parigi e New York, con seguito di moglie e figlie; e altri ancora come Mojaddidi, che non hanno lasciato traccia. Politici e capi spirituali son via via spariti nell' ombra per far posto ai comandanti militari: dal momento che sarebbero stati loro a decidere il destino dell' Afghanistan, prima nella lotta contro l' Armata Rossa, costretta al ritiro nel febbraio dell' 89, e successivamente nella guerra civile in città ( dall' 89 al ' 92 e dal ' 92 al ' 94) quando i mujaheddin si videro impegnati contro il regime comunista di Najibullah e si videro poi costretti a chiudere la partita tra le forze del governo di Rabbani-Massud e i ribelli di Hekmatyar che per due anni ha scagliato tonnellate di missili su Kabul, facendo più vittime e più danni che durante l' invasione sovietica. «Non c' è spazio per Hekmatyar in Afghanistan», ha detto qualche tempo fa il comandante Bismullah Khan, che qualcuno considera l' erede di Massud sul terreno militare, e che ha guidato l' offensiva di terra contro Kabul, nei giorni scorsi. E in effetti non si vede chi possa tollerare la presenza, nella capitale afghana, di un leader islamico che è responsabile delle sue maggiori e mo rtali devastazioni. Anche nelle sue più recenti dichiarazioni, il superfalco Hekmatyar non ha fatto mistero delle sue simpatie per i talebani e per Osama Bin Laden, dichiarando che se gli americani fossero intervenuti militarmente a sostegno dell' Al leanza del Nord non avrebbe esitato a schierarsi dalla parte del mullah Omar e del principe del terrorismo. Non vedremo a Kabul, in questi giorni, altri importanti condottieri della jihad come Ismail Khan e come il generale Rashid Dostum: impegnati, ambedue, sui rispettivi fronti domestici. Il primo è il liberatore di Herat, la capitale occidentale, che i talebani avevano occupato dopo il ' 96, espandendosi a macchia d' olio e con estrema rapidità sui due terzi del Paese: Ismail, governatore del la città, era stato arrestato e confinato in carcere: ma qualche mese dopo era riuscito a fuggire e, riorganizzate le sue forze, aveva costretto alla fuga gli occupanti abusivi. Ora, il grosso dei suoi uomini sarebbe in marcia verso sud-est, dove l' obiettivo è chiaramente Kandahar, roccaforte dei fondamentalisti islamici talebani di Omar e Osama Bin Laden. Dostum, il Tamerlano, sta godendosi il suo personale trionfo a Mazar-i-Sharif, di cui è padrone e signore. Ex ufficiale di Najibullah passat o alla resistenza islamica, il «generale» uzbeko è uomo totalmente inaffidabile, ma che in passato è stato molto utile alla causa dei mujhaeddin, tanto che Ahmad Shah Massud, pur detestandolo nel profondo del cuore, ne ha sollecitato, di quando in qu ando, l' alleanza. Ma a Kabul è difficile che si senta nostalgia di lui o dei suoi uomini: una banda di mercenari che, nel ' 92, piombarono come falchi sulla capitale per spartirsi il bottino di guerra.



martedi , 20 novembre 2001
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«Non dite che doveva tornare indietro Al suo posto avrei fatto la stessa cosa»

Ettore Mo

IL FUOCO E LA RAGIONE
«Non dite che doveva tornare indietro Al suo posto avrei fatto la stessa cosa»
Stamane (lunedì), sfogliando il Corriere, mi son trovato sotto gli occhi, a pagina 7, il reportage di Maria Grazia Cutuli sul deposito d i gas nervino nella base di Osama. Era datato Farm Hada, una località abbandonata dai talebani, appena fuori da Jalalabad. Trasmesso il servizio, s' era avviata in mattinata, col collega di El Mundo, verso Kabul. Dove non sarebbe mai arrivata. Voleva assolutamente rimetterci piede, perché nella capitale afghana si sarebbe dovuto concludere quello che certamente considerava il più ambito e importante servizio di guerra della sua carriera. In una certa misura mi sento responsabile della sua fine. Dopo il Vietnam, l' Afghanistan era stata per noi l' ultima guerra coloniale del secolo. Alla fine del ' 79, Breznev ci aveva mandato l' Armata Rossa per impedire che l' integralismo islamico dell' ayatollah Khomeini si espandesse oltre l' Amu Darya, nelle province musulmane dell' impero sovietico, e quel Paese nel cuore dell' Asia, quasi completamente sconosciuto, era diventato un dilemma della coscienza universale. Non si poteva restare con le mani in mano. Improvvisamente, un piccolo, inerme Paese veniva invaso da una grande potenza, l' Urss, allora la seconda del mondo. E nei mesi precedenti l' invasione veniva segnalata l' insurrezione di un popolo, quello afghano, che non tollerava il governo ateo e filosovietico instaurato dalla troi ka comunista - Karmal, Taraki, Amin - con la Rivoluzione d' Aprile del ' 78. Maria Grazia era una bambina quando, dal ' 79 in poi, ho cominciato a scarpinare per l' Afghanistan, in cerca - come si dice, senza retorica - di storie di guerra: una guerr a che non è finita quando, nell' 89, gli «sciuravì» - i russi - si sono ritirati, né nel ' 92, quando i mujaheddin hanno preso il potere instaurando un governo islamico, né nel ' 96 quando i talebani hanno occupato Kabul e i due terzi del Paese, né a desso, quando le forze dell' Alleanza del Nord si sono ripresa la capitale e le grandi città del settentrione, costringendo alla fuga i seguaci di Omar e di Osama Bin Laden. Ma chi vuol rimanere in periferia quando la città brucia? L' istinto non è u na cosa che s' insegna nelle scuole di giornalismo e quando la città comincia a bruciare è normale che ogni buon cronista voglia godersi l' incendio e le sue devastazioni il più vicino possibile, anche a rischio di scottarsi: da lontano, non è la ste ssa cosa, le cose viste col cannocchiale sono sfuocate, poiché, come diceva il grande Capa: non ci sono foto belle o brutte, ma solamente foto prese da vicino o foto prese da lontano. Tu l' hai preso troppo sul serio, questo Capa, mia dolce Maria Gra zia: avessi avuto un minimo riguardo per la tua salute e per la tua vita, ti saresti contentata di rimanere in periferia. Però io so - e tutti noi sappiamo - che non avevi scelta. E questo per rintuzzare il coro di coloro che, in nome del buonsenso, ritengono che, tutto sommato, ci sia un limite oltre il quale non si può andare, un limite che si può facilmente definire «rischio calcolato». Ma la difficoltà, in situazioni estremamente drammatiche, consiste proprio nel «calcolare» le dimensioni de l rischio: e in questa zona d' incertezza, lo devo ammettere, le emozioni, l' istinto hanno quasi sempre il sopravvento sulla razionalità. Nel caso di Maria Grazia Cutuli, si può pensare che, essendo stata a lungo nel «catino» periferico del Pakistan (Quetta, Islamabad, Peshawar) per poi spingersi fino a Jalalabad, città in una zona ancora infuocata del Paese, avrebbe avuto un bagaglio sufficiente di informazioni e di cose viste da giustificare un consuntivo finale sull' ultima fase della traged ia afghana. Evidentemente, non le bastava. A neanche cento chilometri c' era Kabul e solo con Kabul poteva finire la storia, che altrimenti sarebbe rimasta a metà. Io, tanto più vecchio, avrei fatto la stessa cosa. A piedi. Lo avevo fatto, in realtà, in anni lontanissimi, quando c' erano i russi che controllavano le strade. I mujaheddin me la facevano vedere, dalla montagna: è laggiù, mi dicevano, un giorno ci arriviamo, in carrozza. L' Afghanistan è stato fatica e sofferenza per tutti noi che, in qualche modo, abbiamo cercato di raccontarlo: la difficoltà dell' ingresso clandestino, i travestimenti, le camminate interminabili, la fame, la sete, il freddo, il caldo, la solitudine. E adesso, dopo tutti questi disagi e questa angoscia, mentre un regime ignobile e i suoi leader sono in disfatta, trovo incredibile che una giovane coraggiosa giornalista e i suoi compagni siano stati eliminati. Io faccio parte della vecchia guardia degli inviati del Corriere. Tutti i ragazzi che vogliono far e questo mestiere vogliono andare in guerra. Io cerco di sconsigliarli, anche se è vero che è più facile scrivere quando hai per le mani una storia grossa da raccontare. Io questo non l' ho mai detto a nessuno. Tanto meno a Maria Grazia Cutuli. Che però l' ha scritta. A modo suo. L' ultima volta.

All stories on this page copyright and courtesy of Corriere della Sera

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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with A. S. Massud
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