FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
Il direttore del German Club di Kabul è un uomo abituato a sorridere. Un po' per carattere. Un po' per mestiere. Vestito sempre di chiaro, all'occidentale, la barba ben curata, l'immancabile radio trasmittente in mano, sorride quando accoglie i diplomatici che negli ultimi mesi hanno invaso le sue camere, quando prepara i pranzi per le delegazioni straniere, ma soprattutto quando mostra la piscina, la prima e unica pozza d'acqua a funzionare in città. «L'abbiamo rimessa a posto quest'estate. Certo, solo per gli stranieri...», dice il direttore. Ma è comunque un vanto per la capitale dell'Afghanistan, devastata da 16 anni di guerra, dove si vive ancora senza acqua corrente e senza luce, in quartieri disseminati di macerie, dentro case che non hanno più vetri, barricati dietro i sacchi di sabbia anti-granate. Si rabbuia solo il giovane direttore quando pensa a com'era ridotto il club, una costruzione bassa, oggi ridipinta di bianco, e alla fatica fatta per restaurarlo. «Piovevano missili da ogni parte. In certi giorni anche 40 o 50 al minuto. Ora finalmente va un po' meglio. Ma durerà?». Scaccia paure e ricordi con un gesto della mano: «Sì, sì... durerà».
L'ottimismo va di moda a Kabul. A dispetto delle bombe che di tanto in tanto arrivano dalle colline, sembrano tutti disposti a credere al miracolo della pace. La città ha vissuto uno strano destino. Quando infatti sono arrivati i russi nel 1979, Kabul, quartier generale dell'esercito invasore, era stata tagliata fuori dai combattimenti. La Jihad, la resistenza organizzata dai mujihaddin nel vicino Pakistan grazie al supporto delle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, si combatteva sulle montagne. La città era rimasta illesa anche dopo il ritiro sovietico, quando era salito al potere il leader filocomunista Najibullah. La rovina è cominciata invece nel 1992, con la caduta del regime e l'arrivo delle fazioni afghane, le stesse della Jihad, che, spaccate da rivalità e lotte intestine, si sono scagliate l'una contro l'altra. Quartiere contro quartiere, tribù contro tribù, in un groviglio di prime linee che ha trasformato l'antico crocevia di traffici e commerci di tutta l'Asia in un puzzle di territori off-limits, abbandonati dagli stessi abitanti, martellati giorno e notte dai boati sinistri delle artiglierie.
Per tre anni è andata avanti così. Poi, all'improvviso è apparso un nuovo esercito, quello dei Talibani, gli studenti soldati delle scuole coraniche, integralisti islamici finanziati dal Pakistan. In pochi mesi hanno conquistato un terzo dell'Afghanistan, raggiungendo le porte di Kabul. Sembrava la fine. Invece, in un certo senso, è stata la salvezza della capitale. I Talibani hanno spinto le fazioni più pericolose fuori dalla città, rimanendo soli di fronte alle milizie del Jamiat-el-Islami, il partito di governo del presidente Rabbani. Ma non hanno retto il faccia a faccia con i governativi che a marzo scorso in poche settimane li hanno cacciati oltre le colline (da dove sparano ancora), restaurando finalmente l'ordine a Kabul.
Gli aerei dell'Ariana, la compagnia di bandiera afghana, hanno così ripreso a volare sulla capitale afghana. Ogni giovedì ne parte uno da Peshawar, sul confine pakistano. Orario variabile. Quando atterra sul grande altipiano che sorregge la città a mille e 800 metri d'altezza, tra una corona di montagne dalle cime innevate, è già pomeriggio inoltrato. Non c'è più nulla tra i marmi del moderno aeroporto di Kabul. Non ci sono vetri, non ci sono banchi. Anche il nastro per i bagagli è un serpentone arruginito e divelto. Un tavolino improvvisato serve per il controllo dei passaporti, che a dispetto delle apparenze è attento e capillare. Se c'è qualcosa che funziona in Afghanistan è infatti la burocrazia, «specialmente quella lasciata in eredità dal regime filosovietico di Najibullah», dice con disappunto un giovanotto barbuto dall'aria professionale e compunta che si scopre poi essere una sorta di addetto alle pubbliche relazioni del nuovo governo. Si chiama Saber Latifi, ha 26 anni appena, ricordi di guerra alle spalle, (una fuga da bambino nella valle del Panshir, roccaforte dei combattenti del Jamiat durante l'invasione russa), ma ostenta anche lui una buona dose di ottimismo. L'entrata a Kabul, a bordo della sua Mercedes blu, è rallentata appena dal controllo sommario di un check point, uno dei quattro o cinque messi a vigilare i punti d'accesso strategici. Nella luce dorata del tramonto, l'illusione della normalità si consuma nella folla dei pochi quartieri rimasti in piedi, tra le ville dell'ex nomenklatura, edifici squadrati d'impronta socialista, e le scarse suggestioni asiatiche disegnate solo dai turbanti che gli uomini portano in testa e dai lunghi veli integrali delle donne, colorati di giallo, di azzurro, di indaco. Latifi mostra i negozi pieni di merci. Merci di ogni tipo: crema Nivea per le mani, Coca cola vera e Coca cola finta ( da quando è stato distrutto lo stabilimento di Kabul, il più grande dell'Asia meridionale, qualcuno si è industriato a produrla in casa), biscotti, sigarette, persino Nutella.
Ma al calare della notte, mentre si avvicina l'ora del coprifuoco e si accendono le prime lampade a petrolio sulle strade dissestate dalla granate, nasce un problema: dove dormire a Kabul. L'Intercontinental, un casermone dalla facciata sventrata e annerita, arenato su una montagnola in periferia, è quasi un relitto. Il German club è occupato dai diplomatici. Ci si arrangia in una guest-house governativa, una villa moderna nascosta da un muro di cinta. La luce bassa e fioca del generatore rischiara appena il moderato lusso dei divani di velluto, i separè di legno intarsiati, il bancone del bar. Il padrone di casa è una vecchia gloria della resistenza contro i sovietici, il comandante Muslim, unico sopravvissuto della sua divisione durante una delle più sanguinose offensive nella valle del Panshir, a nord est della capitale.
Ha pochi capelli, occhi chiari, la barba rossiccia, un fisico ben piantato sulle gambe da cow boy, e trentadue anni mal portati. «In guerra si invecchia presto», dice anticipando un ritornello frequente tra i combattenti di Kabul, generazione ingrigita precocemente in trincea. Da parte sua Muslim ha smesso di combattere. E da un pezzo. Oggi indossa a volte i jeans a volte la tunica afghana, ascolta rock 'n roll, guida jeep giapponesi e si occupa della sicurezza personale del comandante Massud, ministro della difesa, altra figura leggendaria della guerra contro i Russi. «No problem», ripete Muslim. «Adesso Kabul è comunqe una città sicura».
A rompere l'illusione di questa strana pace che si celebra in città a dispetto dei combattimenti che ogni giorno continuano da ogni parte dell'Afghanistan, è la luce dell'alba. Lungo le strade che qualche mese fa tratteggiavano le prima linee tra le fazioni, la capitale si perde in lande desolate, quartieri interi ridotti a macerie, mura bruciate che si alzano come tizzoni tra cumuli di pietra gialla, case sventrate affastellate sui fianchi delle colline. Qua e là quel che resta di sontuose ville neoclassiche testimonia l'antico e ambizioso progetto di capitale nuova, di stampo europeo, coltivato da re Amanullah dopo che la Gran Bretagna nel 1921 aveva riconosciuto l'indipendenza all'Afghanistan. Nel cuore della città vecchia, tra gli archi distrutti dell'ex bazaar, un tempo mercato delle mille razze e dei mille commerci, la geografia urbana si riduce a pura geologia. Crateri, avvallamenti, stratificazioni di detriti.
Anche se le artiglierie tacciono, camminare a Kabul è comunque un rischio. Una nuova guerra, quella delle mine, continua infatti a mietere una ventina di vittime al giorno. In città, secondo le stime ufficiali, ce ne sarebbero dalle 3 mila alle 10 mila. Nascoste dappertutto. Dentro le case, sui tetti, nei vicoli, tra le macerie. In tutto l'Afghanistan se ne contano da 10 a 30 milioni, seminate in parte dai russi, in parte dagli stessi mujihaddin. Ripulire la capitale è una scommessa che tiene impegnati oltre 500 «deminers», gli sminatori. Una spesa da 20 milioni di dollari per le agenzie dell'Onu, accanto alle quali lavorano, spesso in polemica e in contrasto sui metodi usati, gli ex ufficiali dell'esercito britannico di Halo Trust, associazione non governativa inglese. «Ne avremo almeno fino al Duemila», dice il loro coordinatore, Sam Mc Leod, uno scozzese con due imponenti baffi rossi, fisico da campione di rugby e viso bruciato dal sole.
46024 Sam McLeod, esperto di esplosivi, manager di Halo Trust a Kabul
I suoi uomini avanzano in coppia con il metal detector in mano e la visiera davanti agli occhi, camminando cauti in mezzo alle macerie. «Procediamo molto lentamente. Certo, più di quanto facciano i tecnici delle Nazioni Unite», spiega l'ex colonnello. «Ma è solo così che si assicura la bonifica del territorio». Parla da esperto, Mc Leod e con voluto cinismo: «Quando ero nell'esercito mi occupavo di esplosivi. Dal punto di vista militare non c'è dubbio: le mine sono le armi migliori. In gergo diciamo che sono le migliori sentinelle perchè non chiedono rancio nè paga mensile e vigilano sempre notte e giorno».
Da un'altra parte della città, all'ospedale Karte sè, struttura più volte bombardata, ancora miracolosamente efficiente, i medici che da tre anni cercano di tamponare l'emergenza la pensano in maniera diversa. In corsia accolgono i reduci della vera guerra, quelli colpiti da missili e granate. Ma negli ultimi mesi anche molti feriti dalle mine. Frabe, una ragazzina di 16 anni, sta seduta sul letto martoriandosi con la mano la gamba ridotta a uno spezzone tronco all'altezza del ginocchio. E' sola, in una stanzetta dalle parati azzurro cielo. «Stavo trasportando l'acqua quanda la mina è esplosa. E' stata dura arrivare fin qui. Non c'erano macchine in giro. Perdevo sangue. Poi finalmente è passato un taxi. Ho raccolto la gamba che si era staccata dal corpo e sono montata su».
La via crucis delle mine non finisce all'ospedale Karte sè. Per i sopravvissuti c'è un'altra tappa obbligata: il laboratorio di ortopedia della Croce Rossa internazionale.
46011 Alberto Cairo a Jade Maywand, Kabul
E' un italiano di 42 anni, Alberto Cairo, a occuparsi delle protesi per gli amputati. Nel suo centro, opitato vicino al Wazir Akbar Khan Hospital, un'ottantina di operai fabbricano piedi e gambe artificiali, ma anche stampelle e sedie a rotelle. Cairo ha il volto scavato, scurito dal sole, un'aria vagamente intellettuale datagli da un paio di occhialini rotondi. Ma maneggia con destrezza viti e bulloni, misura arti, prova e riprova le protesi, Ogni giorno passano da lui un centinaio di pazienti, una goccia tra le 200 mila vittime delle mine registrate in Afghanistan. «Conseguenza della pace», dice Cairo allargando le braccia con un gesto sconsolato. «La gente ha ricominciato a uscire di casa e questi sono i risultati». Per il momento il fisioterapista italiano è costretto ad operare dentro alcuni container. Il centro dove lavorava prima, quello di Alì Abad, costruzione in muratura, moderna, superaccessoriata, inaugurata dalla Croce Rossa nel 1991, proprio accanto all'università, è stato saccheggiato dalle fazioni.
La struttura esiste ancora. Appare in mezzo alla campagna, oltre una grande strada dove un temo passavano i tram. Gli sminatori di Halo Trust la utilizzano come propria base logistica, cominciando a bonificando proprio il terreno che la circonda. Anche perchè su questi stessi viali è ricominciato il passeggio dei primi studenti che si avventurano nel campus della vicina università. Nonostante la guerra abbia fatto scempio di aule e padiglioni, allievi e insegnanti hanno ripreso le lezioni come meglio possono. La biblioteca, un tempo moderna e fornitissima cattedrale della cultura a Kabul, oggi è solo un immenso salone annerito, dal pavimento coperto di vetri e montagne di libri gettati alla rinfusa. «Si sono persi almeno 50 mila volumi sui 200 mila catalogati prima della guerra», dice il direttore, Abdul Rasoul Rahim, mentre tenta un'estenuante classificazione. Il minimo che potesse succedere, visto che fino a qualche mese fa i mijihaddin avevano impiantato proprio qui una delle loro basi militari.
Fuori, al cancello che delimita il giardino, un ometto con in testa un lacero turbante bianco, saluta con cortesia i visitatori, autoqualificandosi come «Guardiano del sapere», anche se, aggiunge, all'università lo conoscono tutti con il nome di Zobet Malang, che significa «guardiano hippy». L'appellativo risale a una ventina di anni fa, prima dell'invasione sovietica quando Kabul era appunto una delle mete preferite dei figli dei fiori occidentali, attratti in Afghnistan dalle sue suggestioni asiatiche, ma sopratutto dall'hashish, il famoso «afghano nero», a ottimo prezzo e qualità. «Altri tempi», sospira il guardiano indicando le studentesse che passeggiano coperte dal velo. Altri tempi sì, se è vero quello che dicono gli abitanti di Kabul. Prima che la guerra riaccendesse i fervori integralisti del'Islam, le donne andavano vestite all'europea, in minigonna addirittura. Mentre ora sfilano senza volto, la maggior parte coperte dalla burka, il velo integrale che nasconde persino gli occhi, dietro una rete a maglie fitte. Le poche che si limitano a portare il velo sui capelli, non sfuggono nemmeno loro ai rigori coranici. L'Islam le vuole silenziose e sottomesse alle decisioni di genitori e mariti, più lontane possibili dai contatti con il mondo esterno.
In una delle due gelaterie aperte nelle nuove strade commerciali di Kabul per le donne è prevista una saletta a parte. Shobibi, una ragazza dal viso bianco e liscio come sapone, approfitta della sgualcita tendina color rosa confetto per appartarsi con il fidanzato. All'avvicinarsi degli estranei abbassa gli occhi e smette di parlare. E' l'uomo a raccontare di questi pochi attimi di intimità strappati al controllo della famiglia di lei. E di come si vive a Kabul, in questo debole e precario stato di pace: «Come essserne contenti? », dice lui che ai tempi di Najibullah faceva il comerciante, guadagnava un mucchio di soldi ed ora non ha più nulla. «Non vedete quanta povertà c'è in giro? Come vive la gente?»
Nella vicina Chicken Street, la strada degli hippy negli anni Settanta, qualche antiquario ha riaperto la sua bottega esponendo in vetrina copie rifatte della Gardner, le antiche teiere russe dell'Ottocento. Ma la maggior parte dei commercianti ha paura. Continua a spostare anticaglie e tappeti da una parte all'altra. Un po' in casa, un po'in negozio, ancora sotto l'incubo di possibili saccheggi.
46616 Chicken Street, Kabul, 1995
E anche se dappertutto si espongono merci a volontà, i bazar hanno ricominciato a funzionare, (c'è persino quello dei soldi, il «money market», una specie di piazza affari all'aperto in mancanza di banche), la gente continua a vivere con i sussidi delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie. I salari medi non permettono lo shopping: «si aggirano sui 10, 20 dollari al mese», dice un funzionario del World Food Programme, il programma alimentare dell'Onu.
Poco meno di un quarto di dollaro costa per esempio il biglietto d'entrata allo zoo. Sulla riva del fiume, proprio dove correva una delle tante prima linee che nei mesi scorsi laceravano Kabul, qualche belva è sopravvissuta alle bombe.
46112 Markàn, il leone per lungo tempo unico ospite dello zoo di Kabul
Ma non sono i due orsi, nè la spennacchiata acquila reale rincantucciata su un ramo, ad attrarre i visitatori. Piuttosto il malandato leone che sonnecchia in una fossa, ignorato dalla sua leonessa. C'è tutta una storia su di lui, un vero e proprio apologo degno di Esopo. Qualche mese fa, raccontano in città, un afghano è entrato nella fossa a sfidare l'animale, che sarebbe pure rimasto quieto se la gente attorno non avesse cominciato a fare il tifo per il temerario visitatore lanciando pietre e lattine. Un colpo di zampa e l'uomo è finito con la gola squarciata. Dicono che il leone ha pianto, pentito del suo istinto. Ma le lacrime non l'hanno salvato dall'ira di un parente della vittima, che qualche giorno dopo è andato a lanciare una bomba a mano proprio dentro la fossa. Dicono anche che subito dopo l'incidente si sono mobilitati la Croce Rossa, Medicine sans Frontiere, il personale degli ospedali. L'animale è rimasto comunque cieco. Una cicatrice sanguinolenta a forma di esse gli disegna ancora sul muso una smorfia tragica e dolente, ultimo segno della follia che si consuma a Kabul, capitale sospesa tra la pace e la guerra.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]