DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
>PICTURE GALLERY
>AUDIO CLIP her last report from Peshawar [ Corriere.it ]
>VIDEO recovering the journalists' bodies [New York Times - Associated Press]
How colleagues journalist and friends >REMEMBER her
Pages from italian and international >PRESS
>REPORTS about the ambush
>STORIES we published >TOGETHER (her writings, my pictures)
>ALL THE STORIES
MARIA GRAZIA CUTULI - HOW THEY REMEMBER HER
Most stories courtesy and copyright Corriere della Sera

> Un Ricordo (Carlo Verdelli) - 19 Novembre 2001
> Il Fiore della Passione (Ferruccio De Bortoli) - 20
Novembre 2001
> Maria Grazia, Felice Solo Sui Fronti di Guerra (Barbara Stefanelli, Paolo Valentino) - 20 Novembre 2001
> «Non dite che doveva tornare indietro. Al suo posto avrei fatto la stessa cosa» (Ettore Mo) - 20
Novembre 2001
> «Aveva paura come tutti noi, non di più e non di meno» (Michela Mantovan) - 20 Novembre 2001
> Maria Grazia la ricordo cosi' (Fausto Biloslavo) - 20 Novembre 2001
>Miss Kigali (Il Foglio, 20 Novembre 2001)
> Un Vuoto in Squadra (Guido Santevecchi) - 21 Novembre 2001
> Il Pudore di Una Donna Che Amava i Margini (Francesco Merlo) - 21 Novembre 2001
> Maria Grazia, Morta per il Mio Afghanistan (Mohammad Zahir Shah, Former Afghan King) - 22 Novembre 2001
> Il Pianto di Monica Fuentes: Io Voglio Julio (Felice Cavallaro) - 23 Novembre, 2001
>La Commozione di Dan Rather (Maria Teresa Cometto) - 22 Novembre, 2001
>"La Sua 2Vita Spesa per un Mondo Unito" (Rania di Giordania) - 25 Novembre 2001


lunedi, 19 Novembre 2001
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UN RICORDO
Carlo Verdelli

C’è chi nasce per fare una cosa su tutte, quella cosa che ti chiama, al di là della ragionevolezza, della possibilità di farla. E’ una fortuna avere questo dono, dà un senso alla vita, un indirizzo, funziona come una bussola. Più sei vicino alla strada indicata dall’ago della bussola e più sei, se non proprio felice, in pace con te stesso. Più sei lontano dalla strada dell’ago, e più sei, se non proprio infelice, inquieto. Maria Grazia Cutuli aveva la fortuna di avere avuto il dono. Il suo dono era fare la giornalista. Correzione: non la giornalista genericamente intesa. La giornalista di esteri. Precisazione: la giornalista di esteri nei posti del dolore, delle ferite vive, nelle trincee più esposte sul male.
Aveva cominciato giovanissima in una tv privata di Catania, con la forza dell’ostinazione di molti giovani era riuscita ad avere un contratto alla Mondadori, al mensile Centocose , quello che in quel periodo regalava la notorietà a un’altra ragazza siciliana, più o meno coetanea di Maria Grazia, Lara Cardella, pubblicandole il racconto spedito per un concorso di inediti, Volevo i pantaloni.
Milano, la Mondadori, un mensile trendy. Uno normale si placa, è quasi arrivato, o perlomeno si sente arrivato per qualche tempo. Non chi ha il dono, o la maledizione. Maria Grazia scalpita, inquieta. L’ago della bussola punta altrove, lontano dagli articoli sulle diete o sulla beata gioventù degli anni Ottanta. Non si sa precisamente dove, non lo sa precisamente nemmeno lei, ma lontano.
Riesce a farsi trasferire al settimanale Epoca,per un periodo di prova da consumare in cambio delle ferie. Ci resterà, si batterà per andare in Somalia, in Bosnia, dovunque ci sia una guerra, una strage, una morte incombente da vedere, da sentire per sentirsi viva. Anche le ferie le passa così: non mi mandate al fronte? Ci vado a spese mie, nei miei giorni di vacanza, giusto per capire, per stare aggiornata, per non perdere i contatti, per l’istinto. Metadone.
Ma l’ago della bussola non dà pace, impazzisce quando Epoca subisce l’ennesima trasformazione della sua tormentatissima esistenza e diventa un settimanale di servizio. Maria Grazia riscappa, nel senso vero del termine. Si licenzia, al buio, senza garanzie e senza coperture, senza un marito che la rassicuri sul mantenimento. Parte con l’Onu per Kigali, Ruanda, cuore di tenebra dell’Africa dei massacri. Ci resta finché non le si prospetta una sostituzione ferie agli Esteri del Corriere. E accetta di lasciare l’Africa non tanto perché è il Corriere, ma perché sono gli Esteri.
Il resto è come uno si può immaginare un resto dopo un inizio così. Fino alla partenza per il Pakistan, i tartari del famoso deserto, la guerra più guerra. Maria Grazia parte e non ritorna. Il giorno del suo compleanno, venti giorni fa, pensando di farle una gentilezza, il giornale le propone di tornare. La prende quasi come un’offesa. Non ci abbiamo più riprovato. Anche perché stava scrivendo degli articoli bellissimi e felici.
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mercoledi, 21 novembre 2001
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Un vuoto in squadra

Guido Santevecchi

A firmare oggi l' editoriale del Corriere è la Redazione Esteri, dove Maria Grazia Cutuli lavorava

* UN VUOTO IN SQUADRA Verrebbe da dire che è un gioco di squadra, che la redazione è una squadra. Maria Grazia per la sua squadra degli «Esteri» del Co rriere ha corso molto e noi con lei. Ma perché correre? Non era, non è un gioco. Si corre perché l' importante è esserci, perché quello che si vede con i propri occhi offre spunti che non hanno prezzo, per se stessi e per i lettori. Chi ha scelto di fare il giornalista ha in mente, come tutti, diversi obiettivi, insegue sogni. Al primo posto, tra sogni e obiettivi, quello di poter informare, di avere la fiducia, la stima di chi legge. Per farlo, in redazione si studia, si legge, si ascolta, si c erca di capire. E poi di farsi capire. Non sempre ci si riesce. Si sbaglia, si recrimina, si soffre, si ribalta il lavoro una, due, tre volte al giorno. Si continua a correre, tutti insieme. Spesso senza firmare, senza essere riconoscibili all' ester no. Ma con la consapevolezza che il Corriere ha un obbligo di rigore, una tradizione da continuare. E poi qualcuno della squadra corre verso la prima linea di una crisi. Aumenta la soddisfazione, cresce la responsabilità. Ci si chiede se la realtà si a quella che si vede finalmente con i propri occhi e che magari mette alla prova le conoscenze frutto di studi e letture. Ci si chiede se si stia facendo il massimo sforzo per comprendere quello che succede sul «campo», fra gente di Paesi lontani e scomodi. In una guerra ci si interroga sul dolore che ci circonda, sulla propria umanità. Ci si chiede se sia opportuno cercare di dare voce anche a quelli che sono diventati «nemici del proprio Paese». E' successo in Somalia, in Kosovo, in queste set timane in Afghanistan. I giornalisti sanno che è importante cercare di mantenere la freddezza per dare conto di idee e azioni che in patria sono impopolari o minoritarie. Maria Grazia nell' «area calda» del Pakistan e poi dell' Afghanistan e i colleg hi negli uffici del Corriere hanno fatto del loro meglio per dare voce e volti anche a chi sembra tanto distante dalla mentalità e dai sentimenti italiani. Per essere il più possibile corretti e accurati, nel rispetto di culture e popoli lontani. Ma anche nel rispetto di noi stessi e della nostra civiltà. E' pericoloso correre alla ricerca di notizie? Uno dei colleghi ci ha fatto riflettere su una poesia di Philip Larkin, «coraggio è non spaventare gli altri». Maria Grazia non ci ha fatto pesare di essere arrivata in prima linea. E crediamo che non abbia cercato di impressionare i lettori con frasi a effetto. Anche nell' ultimo articolo, quello sulle fiale chimiche trovate in una base abbandonata di Osama Bin Laden, dentro l' Afghanistan, ha usato tutte le sue conoscenze, le sue esperienze, per raccontare con obiettività. E poi ha preso la strada per Kabul, per fare squadra anche lì, sapendo che dalla capitale un altro collega aveva mandato servizi ricchi e umani. «Vado per rendermi utile, da lì se serve ci si potrà muovere verso altre zone» aveva detto domenica notte. Si è commentato il servizio insieme, si è scherzato come al solito, ci sono state le ultime telefonate notturne con i colleghi più intimi. Queste parole al telefono satellitare da Jalalabad, al termine di una giornata di lavoro, solo queste, la redazione ha deciso di tenerle per sé. Tutto questo lo abbiamo scritto dopo aver ragionato, come facciamo ogni giorno, tra noi, sul lavoro. Ora vorremmo dire, solo con il cuore, che nel nostro stanzone c' è un vuoto immenso. E non crediamo che i bei ricordi lo potranno mai colmare. Guido Santevecchi, Paolo Lepri, Luigi Ippolito Matteo Persivale, Massimo A. Alberizzi Alessandra Coppola, Lorenzo Cremonesi Michele Farina, Andrea Nicastro, Orsola Riva
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martedi , 20 novembre 2001
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Il Fiore della Passione

Ferruccio De Bortoli

Il primo disperso italiano (una speranza esilissima c' è ancora) in questa maledetta e invisibile guerra è una nostra giornalista, Maria Grazia Cutuli, 39 anni. Non portava alcuna divisa se non quella, orgogliosa, della propria professione. E del Corriere. E' rimasta vittima di un vile agguato, sulla strada che porta da Jalalabad a Kabul, assieme a due colleghi della Reuters Harry Burton e Azizullah Haidari e all' inviato del Mundo. Ed è proprio co n Julio Fuentes che Maria Grazia domenica aveva fatto, rovistando da cronista di razza fra i campi abbandonati di Al Qaeda, una scoperta importante. L' esistenza di un deposito di gas nervino, la dimostrazione che Bin Laden le armi chimiche le ha, eccome. Articoli di ieri in prima pagina sul Corriere e sul Mundo. Volevamo una prova dell' utilità della stampa libera, che qualcuno disprezza e guarda (anche tra noi) con insofferenza? Eccola. Serve alle nostre incerte e dubbiose società occidentali saperla questa (e altre) verità? Sono indizi utili anche per la lotta al terrorismo? Sì? E, allora, considerate i giornalisti che svolgono con passione e onestà il loro mestiere, come hanno fatto Maria Grazia e gli altri, eroi discreti della nostra c iviltà, delle nostre democrazie. Fondate anche sulla libertà di stampa. Stracciata, derisa e presa a calci un po' ovunque. La libertà di stampa che in quei Paesi non c' è: sepolta da un enorme e medievale burqa. Di questa nostra libertà si sono servi ti i terroristi per diffondere i loro messaggi di morte, le loro disgraziatissime idee. Ma non c' è scoop che valga una vita. Nessuno. Noi non abbiamo elementi per ritenere che le domande poste da Maria Grazia e da Julio Fuentes (con Harry Burton) pe r scrivere il loro ultimo articolo possano averli messi ulteriormente in pericolo. Preferiamo pensare al caso, ai mille pericoli di una guerra combattuta anche da cattivi contro pessimi. Talebani? Banditi? Vorremmo dire bestie, alle quali forse abbia mo posto anche delle civili domande rispettandone persino le risposte. Maria Grazia è (lasciatemi ancora il tempo della speranza) una collega che ama il suo mestiere. Una passione professionale e civile che la porta da Catania, sua città natale, a Mi lano alla Mondadori; che la spinge a lasciare i settimanali per lavorare per l' Onu in Ruanda, testimone di un genocidio che molti in Occidente non vollero vedere; che la fa arrivare al Corriere. In cinque anni segue alcuni grandi fatti internazional i, dalla nave dei bimbi schiavi del Benin alle distruzioni dei buddha di Bamyan in quell' Afghanistan che le diventerà familiare. E fatale. Inquieta ma non imprudente. Appassionata ma non temeraria. Non avrebbe mai messo in pericolo la propria vita i nutilmente. A fine ottobre, per il suo compleanno, le proponemmo di tornare, dopo tante settimane. Disse di no, non c' era verso. «Volete farmi un regalo? Lasciatemi qui». Le arrivò in stanza, mandata dai colleghi, una torta pakistana, presumo pessim a. E una collega la sentì parlare con l' anziana madre: «Qui non si rischia nulla, poco più di un pellegrinaggio a Lourdes». Pietosa bugia, detta bene, da grande giornalista. Maria Grazia, scusaci per tutti i giorni di riposo che ti abbiamo fatto sal tare. Con te entusiasta di farlo. Ti abbracciamo, ovunque tu sia. fdebortoli@corriere.it
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martedi , 20 novembre 2001
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Maria Grazia, Felice solo sui fronti di guerra

Il coraggio di rischiare per raccontare le crisi del mondo: «Posti poco adatti alle donne? Allora ci vado». Un viso bello e tormentato. «Sapeva volgere il suo sguardo dove nessuno ha voglia di guardare». «Non vi preoccupate. Sto bene, sono serena. Ogni mattina mi sveglio e mi sento più forte»

Barbara Stefanelli, Paolo Valentino

Maria Grazia, felice solo sui fronti di guerra Il coraggio di rischiare per raccontare le crisi del mondo: «Posti poco adatti alle donne? Allora ci vado» Al telefono non riusciva a nascondere la sua felicità. Non era soltanto orgogliosa di essere uno degli inviati del Corriere della Sera sul fronte di questa nuova guerra. Maria Grazia era grata di essere lì, serena, a suo agio tra alberghi di confine, strade polverose, sveglie all' alba per cercare «una notizia o una storia». Era convinta perfin o di stare meglio in salute, lei che a Milano combatteva ogni giorno con piccole patologie metropolitane. «Sto bene, sono contenta: insonnia, ansie da single... Tutto sparito. Ogni mattina mi sento più forte». Maria Grazia Cutuli, una ragazza di Catania, un viso bello e tormentato, 39 anni compiuti pochi giorni fa. Si laurea in Filosofia nella sua città e subito comincia la lunga marcia per diventare giornalista. Prima collabora con La Sicilia, dove scrive di spettacoli. Poi conduce il te legiornale di Telecolor. Con un' ossessione: «Le donne non devono scrivere solo di moda, società e gossip. Io posso raccontare anche le guerre». Arriva a Milano alla fine degli anni Ottanta, assunta a Centocose. «Al colloquio in Mondadori, avevo il g iubbotto borchiato, gli stivaletti con la punta di metallo - ricordava ridendo -. Vedevo tutte le altre, settentrionali e minimaliste, che mi guardavano sospettose». «Ci conquistò con la grinta», dice il suo primo caporedattore. Una grinta che porta Maria Grazia a Epoca, settimanale dove ancora «si mandava la gente in giro», come dice Fausto Biloslavo, un collega e un amico per lei. Riesce finalmente a guadagnarsi la prima linea, spesso con la scusa di andare in vacanza. Bosnia, Congo, Sierra Le one, Cambogia, Afghanistan: per lei è veramente la miglior vacanza possibile. «Ci vado anche a spese mie, poi se trovo qualcosa la scrivo. Ho un buon contatto». Il servizio ce l' ha sempre, ed Epoca ci fa le copertine. Quando si tratta di partire per la Liberia dei massacri di strada, una persona di famiglia, Albina, un' altra ragazza dal temperamento appassionato ma dalla visione fieramente antica della femminilità, commenta preoccupata: «Maria Grazia in Liberia? Non mi pare posto per una donna ». Il commento le piace, e Maria Grazia lo ripete a ogni partenza: «Vado in Benin, neanche questo mi pare un posto per donne». Eppure Maria Grazia Cutuli è femminile, sensuale, sofisticata, tanto quanto è coraggiosa, tenace, testarda. In una telefona ta in redazione da Jalalabad scherza: «Quest' inverno niente shopping, spero di fare in tempo per i saldi». Quando comincia la crisi di Epoca, decide che lei comunque al fronte ci deve tornare. Fa prima un corso di peacekeeping alle Nazioni Unite e p oi va volontaria in Ruanda con l' Alto Commissariato per i diritti umani. Così la ricorda Salvo Lombardo, funzionario dell' Onu. «Ci siamo visti l' ultima volta l' estate scorsa nella nostra città. Entrambi catanesi, cittadini del mondo, amanti delle cause impossibili, ci siamo ritrovati in un ristorante a discutere di noi stessi e di ciò che amavamo di più: le questioni umanitarie, i rifugiati, coloro di cui quasi nessuno vuole più sentir parlare. Abbiamo ricordato la Cambogia, dove c' eravamo conosciuti nel 1992, ma subito siamo passati all' Africa, il suo tema preferito, quello che le è sempre rimasto nel cuore dall' esperienza ruandese. Non siamo mai stati d' accordo: mi rimproverava di non occuparmene abbastanza, di non amare l' Africa a sufficienza, di non capirla, di non avere fede. Aveva ragione. Diceva: è lì che bisogna essere. Per testimoniare». Nel luglio del 1997 arriva al Corriere, anche qui non senza rischi. Si dimette dalla Mondadori e accetta un contratto a termine alla redazione Esteri. Passerà un anno e mezzo prima dell' assunzione definitiva, nel 1999. Un anno e mezzo di titoli, didascalie, grafici, notizie in breve, che scopre di non saper fare e che vuole arrivare a dominare. A ogni costo, come sempre. «Quante righe devo fare? Solo trenta?». «Maria Grazia - ribatteva il caporedattore Guido Santevecchi -, trenta righe è sempre meglio di zero». «Ah, va beh, allora mi metto a scrivere». Scalpita, Maria Grazia. Fuma venti sigarette fra le proteste dei compagn i di banco. E fa il suo dovere. Rinuncia ai turni di riposo a ogni grande emergenza, rifiorisce quando finalmente tocca a lei partire per un servizio, «sempre troppo breve». Ritorna borbottando alla sua scrivania di via Solferino, aggiorna l' archivi o stipato nei suoi cassetti dove rimane appena lo spazio per una confezione di Chitosano e i biscotti dietetici. Quando proprio non resiste più, va in vacanza. Alla sua maniera. Quindici giorni in Ruanda, il Natale 2000 in stage a Gerusalemme, una se ttimana in Sudan sulle montagne Nuba. «Un posto - dice Salvo Lombardo - dove nessuno si sognerebbe di andare. Lei era felice di parlare dei Nuba, di poter scrivere del loro dramma, di volgere il suo sguardo là dove nessuno ha mai voglia di guardare». Milano non è mai stata la sua città. Forse perché quando è a casa, nel suo appartamento pieno di cimeli etnici, si rende conto di quanto sia alto il prezzo pagato a un lavoro vissuto come missione. Se gli amici le chiedono: «Maria Grazia, e l' amore ?», «Un disastro». Quando ha un fidanzato è un inviato di guerra, un fotografo, un osservatore internazionale. Custodisce una riservatezza antica, che le fa dire: «Io mi innamoro una volta ogni dieci anni». Il suo rigore, quasi prussiano, sembra scio gliersi al volante: tira fuori dal cruscotto cassette pirata, delle quali dichiara ufficialmente di vergognarsi, e si abbandona cantando il meglio di Gigi D' Alessio, i Pooh, Biagio Antonacci. Questo è stato l' anno della sua piena maturazione al Cor riere della Sera: la tragedia del Kursk, Israele e la nuova intifada palestinese, la nave dei bambini schiavi nel Benin, i tribunali internazionali di Arusha, la distruzione dei Buddha in Afghanistan, l' affare Dutroux in Belgio, fino alla partenza p er il Pakistan poche ore dopo gli attentati di New York e Washington. Islamabad, Peshawar, Quetta, Jalalabad, poi quella maledetta strada verso Kabul. Per tutti, al Corriere, la vera scoperta di questi mesi di guerra è stata Maria Grazia, la ragazza di Catania «sempre in posti poco adatti alle donne». Barbara Stefanelli Paolo Valentino AGGUATO AI GIORNALISTI REPORTER Nata a Catania, 39 anni, nel ' 97 andò come volontaria per l' Onu in Ruanda. «L' Africa è rimasta nel suo cuore» «Io m' innamoro u na volta ogni dieci anni». Una ragazza coraggiosa e testarda, quanto femminile e riservata
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martedi , 20 novembre 2001
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«Non dite che doveva tornare indietro. Al suo posto avrei fatto la stessa cosa»

Ettore Mo

Stamane (lunedì), sfogliando il Corriere, mi son trovato sotto gli occhi, a pagina 7, il reportage di Maria Grazia Cutuli sul deposito d i gas nervino nella base di Osama. Era datato Farm Hada, una località abbandonata dai talebani, appena fuori da Jalalabad. Trasmesso il servizio, s' era avviata in mattinata, col collega di El Mundo, verso Kabul. Dove non sarebbe mai arrivata. Voleva assolutamente rimetterci piede, perché nella capitale afghana si sarebbe dovuto concludere quello che certamente considerava il più ambito e importante servizio di guerra della sua carriera. In una certa misura mi sento responsabile della sua fine. Dopo il Vietnam, l' Afghanistan era stata per noi l' ultima guerra coloniale del secolo. Alla fine del ' 79, Breznev ci aveva mandato l' Armata Rossa per impedire che l' integralismo islamico dell' ayatollah Khomeini si espandesse oltre l' Amu Darya, nelle province musulmane dell' impero sovietico, e quel Paese nel cuore dell' Asia, quasi completamente sconosciuto, era diventato un dilemma della coscienza universale. Non si poteva restare con le mani in mano. Improvvisamente, un piccolo, inerme Paese veniva invaso da una grande potenza, l' Urss, allora la seconda del mondo. E nei mesi precedenti l' invasione veniva segnalata l' insurrezione di un popolo, quello afghano, che non tollerava il governo ateo e filosovietico instaurato dalla troi ka comunista - Karmal, Taraki, Amin - con la Rivoluzione d' Aprile del ' 78. Maria Grazia era una bambina quando, dal ' 79 in poi, ho cominciato a scarpinare per l' Afghanistan, in cerca - come si dice, senza retorica - di storie di guerra: una guerr a che non è finita quando, nell' 89, gli «sciuravì» - i russi - si sono ritirati, né nel ' 92, quando i mujaheddin hanno preso il potere instaurando un governo islamico, né nel ' 96 quando i talebani hanno occupato Kabul e i due terzi del Paese, né a desso, quando le forze dell' Alleanza del Nord si sono ripresa la capitale e le grandi città del settentrione, costringendo alla fuga i seguaci di Omar e di Osama Bin Laden. Ma chi vuol rimanere in periferia quando la città brucia? L' istinto non è u na cosa che s' insegna nelle scuole di giornalismo e quando la città comincia a bruciare è normale che ogni buon cronista voglia godersi l' incendio e le sue devastazioni il più vicino possibile, anche a rischio di scottarsi: da lontano, non è la ste ssa cosa, le cose viste col cannocchiale sono sfuocate, poiché, come diceva il grande Capa: non ci sono foto belle o brutte, ma solamente foto prese da vicino o foto prese da lontano. Tu l' hai preso troppo sul serio, questo Capa, mia dolce Maria Gra zia: avessi avuto un minimo riguardo per la tua salute e per la tua vita, ti saresti contentata di rimanere in periferia. Però io so - e tutti noi sappiamo - che non avevi scelta. E questo per rintuzzare il coro di coloro che, in nome del buonsenso, ritengono che, tutto sommato, ci sia un limite oltre il quale non si può andare, un limite che si può facilmente definire «rischio calcolato». Ma la difficoltà, in situazioni estremamente drammatiche, consiste proprio nel «calcolare» le dimens ioni del rischio: e in questa zona d' incertezza, lo devo ammettere, le emozioni, l' istinto hanno quasi sempre il sopravvento sulla razionalità. Nel caso di Maria Grazia Cutuli, si può pensare che, essendo stata a lungo nel «catino» periferico del P akistan (Quetta, Islamabad, Peshawar) per poi spingersi fino a Jalalabad, città in una zona ancora infuocata del Paese, avrebbe avuto un bagaglio sufficiente di informazioni e di cose viste da giustificare un consuntivo finale sull' ultima fase della tragedia afghana. Evidentemente, non le bastava. A neanche cento chilometri c' era Kabul e solo con Kabul poteva finire la storia, che altrimenti sarebbe rimasta a metà. Io, tanto più vecchio, avrei fatto la stessa cosa. A piedi. Lo avevo fatto, in realtà, in anni lontanissimi, quando c' erano i russi che controllavano le strade. I mujaheddin me la facevano vedere, dalla montagna: è laggiù, mi dicevano, un giorno ci arriviamo, in carrozza. L' Afghanistan è stato fatica e sofferenza per tutti no i che, in qualche modo, abbiamo cercato di raccontarlo: la difficoltà dell' ingresso clandestino, i travestimenti, le camminate interminabili, la fame, la sete, il freddo, il caldo, la solitudine. E adesso, dopo tutti questi disagi e questa angoscia, mentre un regime ignobile e i suoi leader sono in disfatta, trovo incredibile che una giovane coraggiosa giornalista e i suoi compagni siano stati eliminati. Io faccio parte della vecchia guardia degli inviati del Corriere. Tutti i ragazzi che vogli ono fare questo mestiere vogliono andare in guerra. Io cerco di sconsigliarli, anche se è vero che è più facile scrivere quando hai per le mani una storia grossa da raccontare. Io questo non l' ho mai detto a nessuno. Tanto meno a Maria Grazia Cutuli . Che però l' ha scritta. A modo suo. L' ultima volta.
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martedi , 20 novembre 2001
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«Aveva paura come tutti noi, non di più e non di meno»
Michela Mantovan

«Aveva paura come tutti noi, non di più e non di meno» dice Raffaele. «Sabato mattina eravamo davanti a una specie di albergo di Jalalabad, una topaia: aveva il suo burqa color carta da zucchero sulle spalle» ricorda Claudio. «Era Capodanno di due anni fa, a Gerusalemme. Lei entrò nel r istorante dove andavamo sempre: aveva un vestito carino, ma le scarpe erano un blocco di fango. Si guardò: "Avrei fatto meglio a mettere gli scarponi"» racconta Ferdinando. Maria Grazia Cutuli e i colleghi, gli amici, i capi al giornale. Dalla Bosnia al Pakistan, dal Ruanda alla Somalia, sulle tracce di vite altrui, di tragedie, di interviste, di possibili scoop. Su questo percorso ora si trovano le schegge della sua vita, affidate ai reporter come lei, al suo primo direttore, al fotografo freelance del primo viaggio in Afghanistan, all' ultimo collega incontrato.

«Gli scherzi sui rischi»
Raffaele Ciriello, 42 anni, fotografo freelance, l' aveva conosciuto nel ' 95, a Hebron, nei Territori palestinesi. «Maria Grazia allora lavorava a Epoca - racconta - e si era presa le ferie per andare in Afghanistan. Ci siamo rimasti 20 giorni: riuscì a parlare con il presidente Rabbani e, soprattutto, a intervistare Massud». Poi la Bosnia, il Ruanda, Sarajevo. E le cene a Milano, a casa di Raffaele e di sua moglie. «Una ragazza spiritosa. Quando stavamo su qualche jeep mezza distrutta o in cima a un carrarmato guidato da un mujaheddin, c' era una specie di rito tra noi. Giocavamo a immaginare il dispaccio sulla nostra morte. Maria Grazia rideva e mimava la scena del cronista che avrebbe letto la notizia: "... Dispersi due giornalisti. La Farnesina disporrà le indagini del caso per accertare la sorte di ..."». Non era facile, nel ' 95, parlare di Afghanistan. E pensare che ai giornali potesse interessare davvero. Maria Grazia ci contava, spiega Raffaele Ciriello. «Mi diceva scherzando "adesso torno, vado dal direttore e gli dico: direttore i Talebani... E lui, magari: I Tale che?"».

«Misurarsi su tutto»
E' stato Roberto Briglia, ora direttore generale di Mondadori, ad assumerla a Epoca. «Allora lavorava in un magazine, ma era molto insoddisfatta. Fece tanto che riuscì a ottenere uno stage da noi». Fare tanto, in quel caso, significò licenziarsi e sperare che quel periodo a Epoca si trasformasse in una assunzione definitiva. «Una ragazza determinatissima, le interessava fare qualunque cosa. Ricordo che andò per un servizio a Rimini, riuscì a comprare ecstasy in una discoteca. Quel pezzo me lo invidiarono in tanti, anche a Panorama. Era quasi ossessiva, andava dove la portava il cuore, davvero. Era disposta a misurarsi su tutto, sempre. Lei non voleva fare l' inviato in America, a Parigi, a Londra. Amava l' Africa, i Paesi come l' Afghanistan, il Pakistan. Alla fine lasciò il posto fisso da noi e decise di presentarsi al Corriere. Con quanta determinazione Maria Grazia si è costruita ed è andata incontro a questo destino...»

«Un posticino al Corriere»
Al Corriere c' è Antonio Di Rosa, vicedirettore (ora guida il Secolo XIX) con il quale ha un colloquio. Lui lo ricorda così: «Erano giorni difficili, quelli, per Epoca, dove allora Maria Grazia lavorava. Lei era una ragazza appassionata, espresse il desiderio di lavorare da noi. Aveva voglia di conoscere il mondo e di raccontarlo alla gente. Pensava di poterlo fare ancora meglio con un posticino al Corriere. L' unica cosa che potevamo offrirle era un contratto a termine, disse che avrebbe rischiato. Quella occasione era una sfida, che lei voleva vincere. Sapevamo quale era il suo coraggio, l' impeto nell' affrontare situazioni difficili, ad altissimo rischio»

«Una di noi, vecchio stile»
Rischiare, certo, ma «voglio che si scriva che Maria Grazia era una di noi, una vecchio stile, una ragazza saggia, che sapeva quello che faceva. E che lo faceva sempre ragionando». E' con Ferdinando Pellegrini, inviato del Gr, che Maria Grazia Cutuli ha passato uno dei suoi ultimi Capodanno, a Gerusalemme, con il vestito «molto carino», i capelli «pettinati benissimo » e quelle scarpe infangate. Ed è stato lui, meno di due mesi fa «a metterla su un taxi, a Gerusalemme, per andare all' aeroporto e partire per Peshawar. Il tassista era sempre lo stesso, quello che ci portava nei Territori, che schivava le sassate. Non voglio retorica, per Maria Grazia. L' ultima volta che le ho telefonato era ancora in Pakistan: "Mi annoio, da qui non riesco a capire cosa stia succedendo davvero, la guerra è da un' altra parte e io non sono là", mi disse». Esserci sempre, in q ualunque modo. Le ferie chieste per l' Afghanistan, l' aspettativa per lavorare con l' Onu. In Ruanda, Sierra Leone, Liberia, Sudan ad occuparsi dei rifugiati e vigilare sul rispetto dei loro diritti. E' li che l' hanno conosciuta i missionari italiani, che ora la piangono. Tante esperienze fatte, tanti trucchi del mestiere imparati.

«Rimane un cult, tra noi, quella volta che, nel ' 95, stavamo partendo da Kabul per tornare in Italia - racconta ancora Ciriello - e rischiavamo di restare a terra. Maria Grazia era in ferie, due giorni dopo sarebbe dovuta essere a Epoca. Eravamo riusciti a trovare un passaggio per Peshawar: due posti su un aereo della Croce Rossa. All' ultimo momento arrivarono due piloti che erano rimasti a piedi e dovevano r aggiungere il loro aereo. Ci dissero che avremmo dovuto cedere loro il posto. Maria Grazia era disperata: "Mi licenziano!". Le dissi: "Fai una scena". Lei incominciò a piangere, a pestare i piedi. "I must leave. I will be fired!", devo partire o mi silurano, strillava. Li convinse, partimmo»

«Voleva una possibilità»
Colleghi e amici, ovunque. Con qualcuno ha diviso giorni su strade polverose, con altri la scrivania in una redazione. Daniela Hamaui, ora direttore del magazine femminile D di Repubblica, l' ha conosciuta che era una giovanissima giornalista siciliana determinata a lavorare a Milano. «Ero caporedattore a 100 cose. Ci fu un colloquio, le presentai il capo del personale. Una ragazza particolare che mi colpì, tanto che sei mesi dopo, appena si era creata un' occasione, la chiamai a lavorare con noi. Fresca, entusiasta, ero sicura che sarebbe diventata brava». Colleghe, e amiche. «Uscivamo insieme, quando si aprì la possibilità di andare ad Epoca, anche solo per uno stage, le consigliai di farlo. Era una possibilità. Sono sempre stata convinta che presto o tardi Maria Grazia avrebbe avuto la sua possibilità. Cosa che è accaduta». Daniela Hamaui si commuove. Claudio Monici, inviato di Avvenire l' ha vista l' ultima volta sabato mattina a Jalalabad: «Quel burqa sulle spalle, sì, l' aveva sempre, ma non sempre era necessario indossarlo. Lei e Julio sono rimasti lì, volevano andare a Kabul. Io non me la sono sentita. Ho detto "ciao, torno a Peshawar". Questo è stato il nostro saluto».
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martedi , 20 novembre 2001
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«Maria Grazia la ricordo cosi'»

Fausto Biloslavo

Ci eravamo sentiti via telefono satellitare dalla valle del Panshijr, la roccaforte antitalebana. Lei era in Pakistan e scalpitava per entrare in Afghanistan. Allora abbiamo fatto una scommessa: vediamo chi arriva prima a Kabul. Maria Grazia Cutuli non vedrà mai la capitale afghana in mano ai mujaheddin, una banda di assassini ha fermato per sempre la sua corsa verso il servizio esclusivo, la storia dalla prima linea, il pezzo che ti inchioda al giornale.
Trentanove anni, trapiantata a Milano, aveva mantenuto un leggero e simpatico accento della sua terra, la Sicilia, che nel profondo del cuore amava.
L'ho conosciuta alla redazione di Epoca, un settimanale che non esiste più, ma mandava in giro i suoi giornalisti. Quando era costretta al lavoro di redazione soffriva e a lungo andare metteva il broncio. Per tornare a vederla sorridere il direttore doveva spedirla da qualche parte a raccontare una storia. Aveva iniziato il mestiere nel 1986 al quotidiano la Sicilia, per poi passare ad un settimanale regionale. Per il grande balzo a Milano aveva lasciato la famiglia, forse il suo unico punto di riferimento, a Catania. Al giornale della Mondadori, Cento cose, si è fatta le ossa, ma il balzo ad Epoca è stato l'inizio del suo sogno. Voleva diventare inviata di guerra, o comunque immergersi nei conflitti, attratta daal'umanità malata.
All'inizio ci guardavamo in cagnesco sospettosi l'uno dell'altro. Pensavo che fosse la solita lunatica giornalista con i paraocchi progressisti e lei mi considerava alla stregua di una mina vagante nei delicati equilibri di redazione. Mi sbagliavo e la prima volta che abbiamo cominciato a parlare seriamente ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d'onda. L'idillio è scoppiato in un ascensore della Mondadori e da quel giorno io ero "la mina vagante" e lei la "strafalaria" un termine delle sue parti per le ragazze un po' bizzarre, che mi aveva insegnato. Ovviamente lo usavo in senso affettuoso ed ero l'unico a poterlo fare senza ricevere un calcio negli stinchi.
Maria Grazia non era sempre una cascata di simpatia, ma nei momenti buoni diventava la giornalista più divertente della categoria. Più che il mestiere aveva nel sangue un'incomprimibile voglia di osare, scavare, vivere gli avvenimenti sulla propria pelle per poi raccontarli. Attraente, con un sorriso accattivante, quando cominciava ad agitare la chioma voleva dire che voleva qualcosa e l'avrebbe ottenuta a qualsiasi costo, nella vita, come nella professione. In Sierra Leone, dove era andata senza paura a raccontare uno dei peggiori inferni africani, si era fatta scattare una fotografia indimenticabile. In maglietta a maniche corte, con il volto stravolto, seduta a cavalcioni su una sedia nel giardino di un'ambasciata era l'esempio dell'inviata di guerra, con quel tocco di fascino che non guasta.
Una volta in Bosnia viaggiavamo assieme alla ricerca delle fosse comuni della spaventosa guerra fra serbi e musulmani. Gli esperti del tribunale de l'Aja avevano scoperto una delle più grandi, con centinaia di cadaveri. Maria Grazia stava male, con tanto di crampi allo stomaco. Per arrivare alla fossa bisognava marciare nel fango e la consigliai di aspettare in macchina, che poi le raccontavao tutto. Non l'avessi mai fatto: mi fulminò con un'occhiata offesa, si alzò a fatica e venne ad assistere al macabro spettacolo della riesumazione dei corpi dilaniati dalla guerra.
Quando Epoca iniziò a boccheggiare, piuttosto che piegarsi a lavorare in giornaletti di moda, che le garantivano una vita facile, ma poche soddisfazioni professionali, mollò tutto per la sua amata Africa. Andò in Ruanda con le Nazioni Unite, dove si era da poco concluso un terribile genocidio, sempre alla ricerca dell'umanità al limite.
Talvolta ha utilizzato le ferie per realizzare dei servizi che le piacevano. I talebani li conosceva bene, perchè coperta dal velo li aveva incontrati, durante un reportage in Afghanistan, che si era pagata da sola, prima ancora che conquistassero Kabul. Fino a quando l'ho frequentata viveva in un locale da single, ma la sua vera casa era la redazione. Da quando era entrata al Corriere faceva i turni massacranti serali, ma per gli Esteri, che erano la sua passione era pronta a sacrificare anche la vita privata. Si lamentava spesso della sua sfortuna negli affetti e Julio Fuentes, il collega ucciso con Maria Grazia, è stato uno delle croci e delizie della sua vita.
Ci eravamo persi di vista rincorrendoci, però, con gli articoli sulle stesse guerre, a caccia delle stesse notizie. Dovevamo vederci in Afghanistan, quando i fondamentalisti fecero a pezzi le statue dei Buddah, ma venni depistato in Macedonia. L'ultimo appuntamento, simile ad una sfida, era nella Kabul liberata, ma su una strada maledetta il sogno di inviata di guerra di Maria Grazia si è infranto per sempre.
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Il Foglio
20 Novembre 2001

Miss Kigali
Maria Grazia, una cronista testarda che amava raccontare la guerra e ballare sulla paura

Maria Grazia Cutuli è stata assassinata in Afghanistan, sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, a 90 chilometri dalla capitale in un posto orribile che si chiama Pouli-es-the-Kam. Maria Grazia era lì inviata dal Corriere della Sera e aveva trentanove anni. Era lì, da quelle parti, prima in Pakistan e infine in Afghanistan, dal giorno successivo all’attacco alle Torri Gemelle. Pare sia stata un’esecuzione. Secondo la ricostruzione di una televisione spagnola le hanno sparato alle spalle. Con lei sono stati uccisi altri tre giornalisti. Uno è Julio Fuentes, spagnolo, di El Mundo, di cui Maria Grazia parlava spesso. Erano stati anche fidanzati, Maria Grazia e Julio. Insieme, domenica, erano entrati in una delle più grandi basi militari di bin Laden, abbandonata dopo la ritirata dei talebani da Jalalabad. Lì hanno trovato una serie di fialette di Sarin, il gas nervino. Ieri il Corriere e il Mundo hanno pubblicato il racconto in prima pagina. C’è chi dice che con la loro inchiesta e con le loro domande abbiano infastidito il leader locale. Si chiama Younis Khalis, una vecchia gloria del Jihad anti sovietico, ed è l’uomo che dopo un lungo negoziato ha costretto i talebani a lasciare Jalalabad. I due giornalisti hanno scritto che Khalis nel 1996 diede a Osama ospitalità e il permesso di costruire la base sui suoi terreni. Secondo altri si è trattato di un’imboscata a scopo di rapina, in una terra di nessuno tra le più pericolose dell’Afghanistan. Su quelle montagne, a metà strada tra Kabul e Jalalabad, ci sono sia gli arabi di bin Laden sia i talebani scappati dalle due città. In fondo, conoscere il motivo della strage non conta molto: tutti e quattro i giornalisti sono morti. Questo conta. L’intrattabile miss Kigali Dei quattro, Maria Grazia Cutuli è quella che conosciamo meglio. Era di Catania. Il mese scorso aveva compiuto 39 anni. Lavorava alla redazione Esteri del Corriere della Sera. Si occupava di Africa, di Medio Oriente, di Balcani, di Afghanistan. Era la più grande esperta di madrasse, le scuole coraniche del Pakistan dove hanno, si fa per dire, studiato i talebani. Di lei sappiamo che era una donna tosta, tostissima. Sappiamo che era considerata una intrattabile, a tratti insopportabile. Maria Grazia si lamentava, si lamentava sempre, le sue lamentele erano leggendarie, e gli amici la sfottevano per questo. Non riusciva a restare chiusa in redazione a passare pezzi, come si dice nel nostro gergo, o a fare interviste al telefono. Era monomaniaca: raccontare la guerra, meglio la guerriglia, era la sua fissazione. Voleva sempre andare dove c’era un conflitto. Ci andava, poi. Ci riusciva. Perché era testarda da non immaginarsi. Poi tornava e sfiancava gli amici con i suoi racconti, e non smetteva di raccontare e lamentarsi, perché quando arrivava lì, fosse in Ruanda o in Medio Oriente, improvvisamente e felicemente si fermava tutto. Non si sparava più, si trattava improvvisamente la pace. I suoi colleghi dicevano che era meglio dell’Onu: arrivava lei e la guerra si fermava. Era contenta di questo. Ironizzava su di sé. A chi la andava a trovare a casa mostrava sempre le sue fotografie scattate in Ruanda – il Ruanda era la sua vera fissazione, ci tornava pure in vacanza. A Kigali arrivò proprio alla fine del genocidio tra hutu e tutsi. Per andarci si dimise da Epoca, dove lavorava; ci andò con un contratto a termine delle Nazioni Unite. Da lì scrisse anche per questo giornale. Era orgogliosa delle sue foto del Ruanda. Gli amici la prendevano in giro perché quelle foto raccontavano un Ruanda diverso da quello terribile della guerra civile. Quelle foto la ritraevano danzante su un magnifico prato all’inglese. Il machete aveva appena cessato di mozzare teste e lei, per scherzo e per esorcizzare la paura, quella sera, su quel prato, fu eletta Miss Kigali. Fare il giornalista di guerra, si sa, è pericoloso. Le parole contano meno delle armi da fuoco. Chi decide questa vita ne è perfettamente consapevole. Ed è felice. Maria Grazia aveva già rischiato la vita almeno un paio di volte. In Ruanda si salvò grazie a un febbrone che la costrinse a un ricovero all’ospedale di Kigali. La sua abitazione, quella notte fu attaccata e quattro suoi colleghi delle Nazioni Unite furono trucidati. In Sudan, sui monti Nuba, al seguito della guerriglia cristiano-animista evitò per un niente una smitragliata da un Antonov governativo. I suoi amici erano abituati a questi racconti, non ci facevano più caso. Per coinvolgerli, per fare fino in fondo il suo mestiere, lei raccontava loro queste immani tragedie in modo lieve. Per non annoiarli. Ci riusciva. Come quando andò a Sarajevo per Epoca. La città fu presa d’assedio e lei costretta a dormire per tre settimane nell’edificio della televisione bosniaca. Appena mettevi il naso fuori un cecchino prendeva la mira e sparava. Scrisse articoli bellissimi. A cena, un tocco mondano. Agli amici faceva credere che per lei la cosa peggiore era guardarsi allo specchio i capelli sformi.
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mercoledi, 21 novembre 2001
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IL PUDORE DI UNA DONNA CHE AMAVA I MARGINI

Francesco Merlo

Dev' essere stato per esigenze di retorica o forse per compiacerla e rispettarne il pudore, ma di sicuro, sui giornali di ieri, molti dei suoi amici, dei nostri amici, hanno glissato sulla squisitezza del viso di Maria Grazia, o hanno trattato con im barazzo la sua bellezza, la sua sensualità, la sua carnalità. Bellezza meridionale di terre generanti, come la Cardinale o la Cucinotta, Maria Grazia Cutuli esibiva anche un elemento nordico, il «maledettismo» delle bellezze diafane che sembrano attr aversate da un velo di gelo o da un' ombra di morte. Infatti, non si faceva in tempo ad apprezzarne il fascino mediterraneo e già si percepiva il freddo, la distanza tra l' anima e la bellezza. E, quasi sempre a sproposito, si attribuiva quella lontananza agli incanti perversi della sua generazione: la trasgressione, l' ideologia, l' intelligenza di ferro e, su tutto, la militanza più tenace, prima nei gruppi dell' estrema sinistra all' università di Catania, poi nel giornalismo «dell' an dare a vedere», impastato di curiosità e di quell' idea tutta siciliana che raccontare l' ingiustizia sia già risarcirla. Non fatevi ammaliare dalla retorica sentenziosa: in realtà non esiste un giornalismo migliore di un altro, ma solo giornalisti, che possono essere bravi o meno bravi. Si può discutere di un fatto o infilarsi dentro un fatto, purché non cambino la passione, l' onestà e la consapevolezza di influenzare e, comunque, modificare, raccontandolo, quel fatto. Alcuni credono che la pe nna esprima l' ordine di una grammatica, anche sociale, altri vogliono trasgredire proprio quella grammatica e si servono della penna come un jolly, uno sberleffo, un azzardo, altri ancora pensano che guerriero e giornalista siano fratelli gemelli di Polemos. Già al liceo Spedalieri di Catania, che fu la sartoria della sua vita, il liceo della bella gioventù che traligna, il liceo di tutte le sperimentazioni, didattiche e politiche, già allora Maria Grazia credeva, da siciliana, che la penna è u n bisturi. Sciascia (con Savinio) era convinto che Napoleone fosse un letterato mancato, che fosse diventato imperatore perché non era riuscito come scrittore. E dunque, viceversa, in Sicilia fa lo scrittore o il giornalista chi non è riuscito a dive ntare imperatore: «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato un esempio di quanto lontano sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fe de nella scrittura, dice "basta un colpo di penna" come dicesse "un colpo di spada" e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l' ingiustizia e il sopruso». E però, a differenza di tanti altri giorna listi, grandi e piccoli, mai Maria Grazia si metteva in mostra. Era meridionale anche in questo: stava bene solo nei luoghi di confine e di esposizione, ma non esponeva mai se stessa. Dove deve andare una penna-bisturi se non sulla ferita? E cosa dev e recidere una penna-spada se non l' ingiustizia? Rileggete i suoi bellissimi servizi, i più belli che lei abbia scritto: quelli dal Pakistan. Ci stava con un atteggiamento terzomondista ma con un' essenza antitalebana, contro il burqa ma con le ragi oni del burqa: è il pasticcio in cui ci riconosciamo in tanti italiani. Ma chi può dare logica ai pasticci se non un animale di razza, un giornalista di grande talento com' era appunto Maria Grazia, cresciuta tumultuosamente in una famiglia colta, in quieta e volterriana, padre e madre professori, la nonna nobile dei principi Paternò Castello di Bicocca, della quale portava lo stesso nome, Grazia, appunto: «una famiglia padrona», si dice in Sicilia. Di quella famiglia Maria Grazia aveva il tocco di classe della discrezione. E' vero che amava la marginalità, che era una donna da margine, come sono marginali il Mezzogiorno, il Mediterraneo e i Paesi che più amava, quelli che si affacciano alla storia. Ed è vero che non sopportava che si parlas se della sua bellezza, che per lei diventava tormento insopportabile dinanzi alle rovine del mondo, bellezza sporcata dalle sozzure della Terra. Per questo, e non per femminismo, spingeva pudore e discrezione sino ad arrabbiarsi con i colleghi che l' avevano eletta miss Kigali, proprio nell' inferno del Ruanda. E, come hanno raccontato ieri Barbara Stefanelli e Paolo Valentino, «quando aveva un fidanzato era un inviato di guerra, un fotografo, un osservatore internazionale». Ma li nascondeva tut ti. Ed era costretta, a volte, ad escogitare soluzioni alla Feydeau come, per esempio, l' estate scorsa, in un albergo di Gerusalemme, quando uno dei tanti che le facevano la corte, un collega della radio, la chiamò di notte inventando la notizia che , molto più di lui, avrebbe potuto sedurla: «Hanno ucciso Saddam Hussein, vengo subito nella tua stanza». Corteggiatissima, viveva gli amori come incidenti, affetti precari, giocati tutti su un clima di guerra, era di quelle che tendono a dilatarsi p er l' immensità dello spazio più che per la profondità. Caratteri di trincea come questo possono imbattersi nel barbaro assassino oppure nel grande amore, quello della svolta, la presenza matura che Maria Grazia cercava con passionalità e semplicità meridionali, come sanno solo le sue amiche più intime, e che le avrebbe consentito di restare acerba, un signore calmo e stanziale, saggio e appassionato principe della banalità (ci vuole una grande saggezza per ben convivere con la banalità), l' uom o che l' avrebbe stregata, l' uomo che era «nato per il giorno limpido, per la casa delle acque, per le navi del ritorno». Invece ha incontrato il talebano. E non è vero che era imprudente, solo non pensava alla morte perché mai pensa alla morte chi sempre sta «dentro». Maria Grazia conosceva bene quella linea di confine tra generosità e irresponsabilità che ora in suo nome bisognerebbe spiegare e insegnare nelle scuole di giornalismo, senza spargere di troppa sconsiderata eloquenza il rischio, il mestiere e la passione: non c' è coraggio senza prudenza, non c' è prudenza senza coraggio. E adesso che è morta ognuno può ricordarla come crede, in quel paesaggio che è la memoria. Nelle ultime foto per esempio è bella come un' afghana, lei che era araba nel nome, perché nello «uli» di Cut-uli c' è forse l' «alì», che è la sincresi di ibn allah, figlio di Allah, proprio come Bin Laden è figlio di Laden, e si è sempre figli di qualcuno prima di diventare qualcuno. Ma non può avere dubbi su q uale immagine conservare chi l' ha conosciuta ventenne, sul mare di Acicastello, con i capelli neri dai riflessi rossi che si aprono al vento, alle spalle le pietre basaltiche, il sole e la lava nera, versione femminile e siciliana del famoso «Viandante» di Caspar David Friedrich, che è l' icona romantica dei forti e dei solitari. Maria Grazia è ancora lì, di fronte al mare dove è nata, quel mare di roccia dura, mai addomesticato.
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giovedi , 22 novembre 2001
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La commozione di Dan Rather: «Silenzio in onore dei nostri fratelli e sorelle scomparsi»

Maria Teresa Cometto

LIBERTA' DI STAMPA La commozione di Dan Rather: «Silenzio in onore dei nostri fratelli e sorelle scomparsi» NEW YORK - Un minuto di silenzio in onore di Maria Grazia Cutuli e degli altri tre giornalisti uccisi in Afghanistan. Così è iniziata la cerim onia per la consegna dei Premi internazionali per la libertà di stampa, appuntamento annuale del CPJ (Committee to Protect Journalists, Comitato per la protezione dei giornalisti), la prestigiosa organizzazione indipendente e non profit fondata 20 an ni fa da un gruppo di giornalisti americani. Un minuto di raccoglimento, che ha fatto sentire gli oltre mille giornalisti e sostenitori del CPJ, riuniti martedì sera al Waldorf-Astoria di New York, ancora più vicini ai colleghi che hanno perso la vit a in Afghanistan e a quelli che continuano a rischiarla per fare il proprio dovere di cronisti. «Mai come quest' anno è chiara l' importanza della missione del CPJ - ha detto Tom Brokaw, il famoso conduttore televisivo della Nbc al quale è stata reca pitata una delle lettere all' antrace -. Siamo nati per onorare e aiutare i colleghi che combattono in tutto il mondo contro i governi autoritari e gli altri nemici del giornalismo indipendente. Mai come oggi la libertà di stampa è minacciata» . Ecco poi Dan Rather, l' anchorman dei notiziari Cbs la cui faccia è diventata ancor più popolare, rigata dalle lacrime, quando ha commentato in diretta il crollo delle Torri Gemelle. Ha chiesto un minuto di silenzio: «Pensiamo ai nostri fratelli e sorelle impegnati in Afghanistan per raccontare questa nuova guerra. I sette colleghi caduti dall' inizio delle ostilità sono nelle nostre menti e nei nostri cuori. Sono un esempio. I giornalisti sono sempre più un obiettivo della violenza, sempre pi ù in pericolo nello svolgimento del loro mestiere». Brokaw e Rather sono non solo fondatori e attivisti del CPJ: sono anche fra i maggiori finanziatori del comitato, che non accetta soldi dai governi, ma soltanto da privati.
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giovedi , 22 novembre 2001
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«Maria Grazia, morta per il mio Afghanistan»

«Maria Grazia, morta per il mio Afghanistan» L' ex sovrano scrive al Corriere. Ancora centinaia di messaggi dei lettori per la scomparsa dell' inviata C' è chi l' ha fatto con una vignetta, chi, dai banchi di scuola, ha scelto la storia di Maria Graz ia per scrivere un tema. Sono ancora centinaia le lettere, le email, i fax e i bigliettini inviati per l' assassinio di Maria Grazia Cutuli e dei giornalisti morti con lei sulla strada verso Kabul. Pochi hanno avuto la possibilità di conoscere personalmente l' inviata del Corriere, molti che ora la piangono e che per lei propongono premi o chiedono una immensa «standing ovation» in tutta Italia avrebbero voluto farlo. Tra i messaggi di cordoglio c' è anche quello inviato dall' ex re dell' Afghan istan, Mohammad Zahir Shah. Il sovrano in esilio condanna «il vile assassinio» di Maria Grazia e invita il popolo afghano ad «aiutare e proteggere i giornalisti» in l' Afghanistan. Un riconoscimento è venuto anche da Luca Cordero di Montezemolo, pres idente della Fieg. In questa pagina pubblichiamo una selezione dei nuovi messaggi arrivati alla redazione del Corriere: un lungo addio fatto di parole d' amore, di rimpianto e di elogio. Sul sito del Corriere (www.corriere.it) altre parole a lei dest inate. La condanna dell' ex re Sua maestà Mohammad Zaher Shah, l' ex re dell' Afghanistan, condanna il vile assassinio della giornalista Maria Grazia Cutuli e dei suoi colleghi con forza e indignazione. L' ex re esprime le sue condoglianze ai suoi fa miliari, al mondo della stampa e ai suoi colleghi. Maria Grazia Cutuli e i suoi colleghi hanno perso le loro vite nella missione di informare il mondo sulla tragica situazione in Afghanistan. Noi speriamo che i colpevoli di questo atto barbaro siano arrestati e condannati il più presto possibile e che venga instaurato uno stato di ordine e di sicurezza. Sua maestà chiede al popolo afghano di aiutare e proteggere i giornalisti che visitano il nostro Paese, onorando la nostra fama di ospitalità. A ncora una volta noi condanniamo questi deplorevoli atti di terrorismo. Mohammad Zahir Shah Ex re dell' Afghanistan Personalità limpida Una donna vera, una personalità limpida e chiara come il suo nome Maria Grazia, una donna coraggiosa con una forza d' animo straordinaria, un bagliore di pura luce contro la stupida bestiale, millenaria violenza armata degli uomini.
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venerdi , 23 novembre 2001
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Stretta alla felpa del marito, il pianto di Monica Fuentes: «Io voglio Julio»

Felice Cavallaro

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI ISLAMABAD (Pakistan) - «Io voglio Julio, io senza Julio non sono niente, io non vivo senza Julio, non può morire Julio. Troppi progetti avevamo, per lasciarmi, per morire così...». Chi può confortare Monica, la donna, la compagna, l' angelo di Julio Fuentes? Vivevano insieme da sette anni, da quando lei aveva vent' anni e per la prima volta nella sua vita s' era innamorata davvero. Una favola cominciata a Roma dove lui lavorava come «periodista» de El Mundo e lei scopriva lo stesso mestiere collaborando alla Cnn. Una favola soffocata ieri nella stessa Roma dove Monica ha riportato il suo uomo, caduto nell' inferno dell' Afghanistan con Ma ria Grazia Cutuli. Le lacrime di Monica segnano un viso di una bellezza che richiama quella di Maria Grazia, un po' eterea un po' mediterranea, capelli castani, i singhiozzi come ritmo affannato di una tragedia che è una frustata alla sua vita. «Mi d iceva che sarebbe tornato presto a Madrid, e io che lo conosco sapevo che avrei dovuto attendere almeno fino a Natale, ma non ci sarà mai più una festa, non andremo mai più nel nostro rifugio, nella casa sui monti di Picos de Europa». Chi può confort arla? Chi può restituirle i sogni e i progetti di tre anni fa, quando il direttore e fondatore del Mundo l' assunse alla redazione esteri, stesso settore del suo uomo? Chi può placare la tempesta del suo cuore davanti al corpo massacrato del compagno che ha sposato due anni fa? E' la tragedia parallela a quella dei fratelli di Maria Grazia, di Mario e Donata, giunti nel cuore della notte a Islamabad. Lei, Monica, era già arrivata il giorno prima al confine col Pakistan vedendo i poveri resti di Maria Grazia e del suo Julio con due proiettili al petto e uno alla nuca, il segno di un calcio sul mento tumefatto e una mano con le dita mozzate di netto. Quando nell' oscurità si spalanca il cancello dell' ambasciata italiana, accanto alle due bar e di legno chiaro c' è Monica che ha preceduto tutti, precipitandosi da Madrid, recuperando zaini, valigie, borse del suo uomo e della collega, anzi dell' amica italiana. Perché questa è anche la storia di una solidarietà profonda che legava Monica a tanti giornalisti del Corriere, dove Fuentes aveva fatto base per anni. Rapporti solidi, frequentazioni assidue. Pure con Maria Grazia, come ricorda Monica abbracciando Donata in questa tristissima notte di Islamabad: «Sono felice che Julio abbia la vorato negli ultimi giorni con tua sorella che sentivo per telefono da mattina a sera». Commozione profonda. Anche quando Monica prova a leggere l' articolo scritto mercoledì da Andrea Nicastro, l' inviato del Corriere a Kabul, un altro amico di tant e trincee. Ma piange a ogni riga, Monica, perché il ricordo va alla Cecenia di tre anni fa: «Eravamo tutti e tre in mezzo alle bombe. Giorni di terrore anche quelli. Momenti di angoscia smorzati da Andrea che, sotto il fuoco, ci vedeva innamorati e c i faceva coraggio: "Così lo potrete raccontare ai vostri figli". I figli che io e Julio non avremo mai più. E non potrò mai più raccontare niente perché la vita finisce qui». Si danna Monica, insaccata in una felpa tirata fuori dallo zaino del marito , stretta su se stessa, come cercando di sentire la morsa, la dolcezza, il calore di quelle braccia che non si muovono più: «Io dovevo esserci al posto di Maria Grazia. E ci sarei stata se non avessi lavorato negli ultimi anni nello stesso giornale. Quando ero alla Cnn partivamo insieme per i servizi. Adesso invece al Mundo mi tenevano in redazione». Ma al desk i colleghi sapevano che l' Afghanistan era roba sua: «Mi lasciavano almeno il compito di occuparmi delle pagine con gli articoli di Juli o. E controllavo per tutto il giorno le agenzie, le altre fonti di informazione confrontandole con gli articoli. Ci sentivamo dieci, venti volte al giorno. Con lui e con Maria Grazia. Perché lavoravano insieme. E spesso parlavo con lei. Fino a ll' ultimo scoop sulla fabbrica di gas dei talebani. Poi Julio, appena trasmesso il pezzo, richiamava. "Che te ne pare?". Filava tutto perfettamente, ma lui insisteva: "Taglia, cuci, inserisci. Fai tu"». L' ultima telefonata, ogni notte, era u n bacio e una invocazione di Monica: «Torna, gli ripetevo. Ma non posso rimproverarlo. Anch' io avrei fatto lo stesso. E per questo sono disperata in un mondo e in un mestiere che alza il rischio per chi racconta le guerre». Un tormento cominciato l' 11 settembre per Monica: «Due giorni prima Julio era finalmente tornato da una lunga trasferta in Macedonia e, per staccare, siamo corsi in macchina nella casa che aveva voluto costruire in Cantabria, sulla montagna, a Picos de Europa, un posto bell issimo, il nostro buen retiro. Senza sapere che sarebbe scoppiato il mio mondo. Julio corre, ci colleghiamo via Internet e poco dopo rifacciamo i bagagli per Madrid. Arriviamo al giornale e io mi propongo per andare in Pakistan, ma mi lasciano in red azione. Lui invece vola in Giordania pensando a un possibile attacco contro l' Iraq. Dopo tre settimane rientra, ma solo per qualche giorno. E riparte per l' ultimo viaggio della sua vita. Finita come la mia.
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domenica , 25 novembre 2001
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«La sua vita spesa per un mondo unito»

Rania di Giordania

«La sua vita spesa per un mondo unito» IL RICORDO DELLA REGINA di RANIA AL-ABDALLAH * Ho appreso con immenso dolore la notizia della morte di Maria Grazia Cutuli, uccisa mentre svolgeva la sua missione di giornalista, intesa ad allargare la comprensi one fra le culture e i popoli del mondo. Alla sua famiglia, ai suoi amici e a tutta la comunità del Corriere della Sera, rivolgo le mie più sentite e profonde condoglianze. La sua morte è una perdita per il mondo. Appena qualche mese fa, durante un i ncontro a Milano con la redazione e la direzione del Corriere della Sera, ho avuto il piacere di fare la conoscenza di Maria Grazia. Essendo una giornalista che aveva girato il mondo, aveva avuto modo di vedere con i propri occhi le tante barriere cu lturali e differenze politiche che dividono il mondo - e per questo non aveva permesso che ci separassero. Nelle nostre animate discussioni nel corso di quel pomeriggio, Maria Grazia aveva cercato in ogni modo di superare la distanza fra la sua parte di mondo e la mia. Si era sforzata di guardare le cose da ogni angolazione - un modo di fare che, secondo quanto mi è stato detto, era una sua caratteristica. Questa stessa dedizione alla verità l' ha spinta ad affrontare i pericoli dell' Afghanista n in questo periodo di guerra e di conflitti. Tragicamente, questo doveva diventare il suo ultimo viaggio. L' assassinio di questa giovane reporter piena di vita e di voglia di conoscere è un' ingiustizia senza senso. Ma io credo che, insieme con il nostro dolore, noi possiamo trovare sollievo nel suo nobile proposito - il lavoro di una vita per la pace, la tolleranza e la coesistenza. Il coraggio di Maria Grazia Cutuli impegna tutti noi al rispetto per l' eroismo di quei giornalisti che, da ogn i parte del mondo, continuamente affrontano i rischi di chi sta al fronte. Il suo efferato assassinio a sangue freddo ci spinge a fare di più per rendere il nostro mondo più sicuro e protetto. E la sua professionalità esemplare ci deve ispirare a seg uire e a continuare il cammino da lei intrapreso - affinché il mondo sia più unito, in umanità e comprensione reciproca. * Regina di Giordania
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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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