FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
IO, DONNA GIORNALISTA, HO INCONTRATO I TALEBANI (1995) >Maria Grazia Cutuli copyright and courtesy of Corriere della Sera
46120 Alcuni dei Talebani che hanno "sequestrato" per alcune ore Maria Grazia Cutuli e l'autore di queste immagini all'interno della guarnigione di Maidan Shar
Accerchiano Kabul, pronti al massacro finale. Bombardano notte e giorno le sue case, i suoi mercati, le sue moschee. Hanno chiuso quasi tutte le vie di rifornimento. I Talibani, gli «studenti-soldati» delle scuole coraniche che dall'ottobre del 1994 a oggi hanno conquistato due terzi dell'Afghanistan, minacciano un lago di sangue: l'assalto definitivo alla capitale, difesa dalle forze del Jamiat-el-Islami, il partito del presidente ad interim Burhanuddin Rabbani, dove 750 mila abitanti vivono senza acqua, senza luce, con pochissimo cibo, barricati dietro montagne di sacchi antigranate. A Kabul lo scorso mese i Talibani hanno ucciso oltre 100 civili. Quaranta, tra cui 13 bambini, più 150 feriti, nella sola mattina del 25 novembre, quando il rombo sinistro dei loro jet ha annunciato l'esplosione di una decina di ordigni da mezza tonnellata l'uno.
Abbiamo raggiunto le loro postazioni sul fianco sud della città, oltre il quartiere di Cherasyab, prima che i soldati governativi nelle scorse settimane chiudessero il passaggio delle linee. Attraverso lande ridotte a cumuli di macerie, dopo una striscia di terra di nessuno che divide i due eserciti, appaiono ai bordi della strada i primi lanciagranate, qualche carroarmato, sacchi di munizioni nascosti alla men peggio. «Che ci fa una donna qui?» La sentinella si affaccia aggressiva all'interno del taxi. «Perchè l'avete portata?» Il tassista urla qualcosa e riesce ad andare oltre. Ma è già un segnale che l'incontro con i Talibani non sarà facile e che il fronte, apparentemente invisibile, è qualcosa di più di una demarcazione militare. Lo spartiacque tra due mondi: l'Islam «democratico» della capitale, sostenuto dal presidente Rabbani, di etnia tagika, che si è convertito a moderato per guadagnarsi i consensi occidentali, e l'Islam integralista degli «studenti-soldati», dell' etnia predominante pashtu, paladini di uno stato teocratico, per niente disposti ai compromessi con la modernità.
Dopo 16 anni di guerra (l'invasione russa prima, lo scontro tra le fazioni del mujihaddin a partire dal 1992 alla caduta del regime filosvietico di Najibullah), l'apparizione ancora misteriosa di questo esercito di stampo medievale, che combatte con il kalashnikov e con il corano, ma anche con i carriarmati, i missili e i Mig, rischia di trasformare l'Afghanistan nel più fondamentalista degli stati islamici. I Talibani si sono già fatti largo tra le popolazioni del sud, applicando alla lettera la sharia, la legge coranica: divieto per le donne di andare in giro, minacce della lapidazione, del taglio e della mano e del piede per i ladri, proibizioni per gli uomini di guardare la tivù, praticare gli sport, giocare agli scacchi. Ma il problema principale è che i 25 mila paladini di Allah, reclutati dalle «madrasse», le scuole coraniche fondate sia in Afghanistan, sia nel vicino Pakistan, dai mullah fuggiti durante l'invasione sovietica, non sono soli. Li finanziano anche se non ufficialmente, tanto il governo pakistano quanto quello dell' Arabia Saudita, che li hanno mandati allo scoperto per liberare dal controllo delle fazioni le vie commerciali dell'Afghanistan, snodo cruciale per i traffici d'oriente. Con un tacito lasciar-fare, secondo quanto si dice a Kabul, degli stessi Stati Uniti.
Gli studenti di Allah, partiti ad ottobre dell'anno scorso dal confine pakistano, hanno immediatamente conquistato Kandhar, la maggior città dell'Afghanistan meridionale, senza trovare resistenza da parte della popolazione che nelle zone del Sud è della loro stessa etnia pashtu. A marzo erano alle porte di Kabul. Dopo aver cacciato fuori dalla capitale i signori della guerra che si combattevano l'un l'altro, come Gulbuddin Hekmatyar, ex beniamino dei Pakistani, sospetto sostenitori di terroristi internazionali, il generale Dostom, l' uzbeko ex alleato dei sovietici, i capi delle fazioni sciite di etnia hazara, si sono trovate di fronte alle truppe governative del Jamiat-el-Islami, guidate dal comandante Massud, il leggendario «leone del Panshir», eroe della resistenza contro i sovietici.
Massud li ha ricacciati indietro, riuscendo a portare per qualche mese una parvenza di pace in città. Ma i Talibani non si sono arresi. A settembre hanno rilanciato l'offensiva, prendendo Herat, la maggior città dell'Afghanistan nord-occidentale. Trattando o comprando i comandanti militari delle altre fazioni, ad ottobre hanno ricominciato a bombardare la capitale, riconquistando terreno fino alla sua periferia. L'attacco finale sembra adesso inevitabile. Al punto che i governativi si preparano già a una ritirata nella valle del Panshir, già roccaforte della resistenza contro i sovietici.
Se a Peshawar, in Pakistan, dove Talibani hanno ufficio «mobile», semiclandestino che si contatta con un numero segreto via cellulare, i loro portavoce mostrano il volto politico, diplomatico del movimento, i visi in cui ci si imbatte alle porte di Kabul sono quelli rigidi dei soldati di campagna, poco propensi a convenevoli e formalità. Il comando è in una costruzione semi diroccata, nella quale si entra da un varco sul retro, tra le sterpaglie. I barbuti studenti di Allah, tutti con turbani in testa e gli Rpg, i razzi anticarro, montati sul fucile, accompagnano giornalista e fotografo dentro una stanza ingombra di materassi e carta straccia, mentre una sentinella controlla gli ospiti a vista dietro i vetri della finestra.
Il vicecomadante, Hafiz Neda Mohamed, un mullah sulla trentina vestito di bianco, accetta di rilasciare un'intervista, ma solo all'interprete afghano. «Grazie a Dio», dice subito, «abbiamo la sharia che non ci autorizza a parlare con le donne. E mi stupisco che da Kabul, dove dovrebbe esserci un governo islamico, ci mandino una femmina». Se qualche mese fa si poteva ancora parlare di trattative tra i Talibani e i governativi, adesso l'unica via possibile è quella delle armi. «Non ci fidiamo del presidente Rabbani, così come non ci fidiamo degli altri leader che si sono spartiti l'Afghanistan», spiega il vicecomandante. «Avevano promesso la pace. Li abbiamo visti andare alla Mecca, giurare sul sacro corano. E invece.... Dopo 16 anni, ancora guerra. Prima abbiamo dovuto combattere i sovietici, dopo abbiamo dovuto assistere allo spettacolo dei musulmani che si ammazzavano tra di loro. No, non c'è un solo atto islamico nel comportamento di chi governa questo Paese».
Quello che il giovane mullah, ex studente in una «madrasssa» di Karachi, in Pakistan, intende per «atto islamico» è presto chiaro: «L'ordine del Corano e dell'Hidith, la legge di Maometto, come è stata applicata dai quattro califfi alla morte del profeta... Un governo come quello dell'Arabia Saudita e del Sudan». Si corregge: «Volevo dire, un governo come quello che abbiamo instaurato nei territori controllati da noi. C'era la guerra prima, la gente non poteva spostarsi da un villaggio all'altro, banditi e fazioni dappertutto che taglieggiavano, saccheggiavano, trafficavano droga. I Talibani hanno portato la pace e l'ordine, grazie alla sharia».
Dell'aiuto del Pakistan, che ha già messo in allarme potenze come l' Iran e India, pronti a intervenire in supporto del governo di Rabbani, il vicecomandante non vuole neanche sentir parlare. «Questa è una falsità. Il Pakistan non ci aiuta affatto. E' il nostro clero, sono i nostri anziani, i nostri maestri che ci hanno comandato di combattere contro i traditori e gli assassini, incapaci di fare valere la legge islamica nel paese. Negli ultimi tre anni abbiamo visto gli uomini radersi la barba, fregarsene del Ramadan... E questo non può essere più tollerato».
E i dirittti umani, il rispetto delle libertà individuali? A parte le donne, per le quali i talibani prevedono solo i «diritti sanciti dalla sharia», dice il vicecomandante, e cioè la «libertà di parlare con i loro mariti e i loro parenti stretti, di studiare in scuole separate, di andare in ospedale, in ospedali separati, ma non certo di lavorare nei bazaar o negli uffici», anche per gli uomini c'è poco da divertirsi. Un tassista incontrato lungo la strada si lamentava, per esempio, di essere stato picchiato dai Talibani per aver trascurato di oscurare i vetri della sua auto con pezzi di cartone, mentre dava un passaggio a una donna. La cliente era coperta dalla testa ai piedi con la «burka», il mantello plissettato con una rete davanti agli occhi, ma nei territorio controllati dagli «studenti» questo non è sufficiente. Altri protestavano per i divieti imposti: «Niente partite a calcio», diceva un ragazzo, «Niente scacchi, solo preghiere». Il vicecomandante taglia corto: «Perdite di tempo. Non possiamo tollerare che in un Paese dove c'è tanto da fare e tanto da ricostruire la gente sprechi tempo in attività inutili. Pregare, studiare, combattere è il dovere di tutti».
In particolare dei giovani. Le «madrasse» in questi mesi hanno sfornato studenti-soldati a getto continuo per il ricambio delle truppe mobilitate nella crociata contro Kabul. Come Bismillah, uno dei giovani guerrieri che bivaccano al comando. Ha 18 anni, un turbante bianco, lo sguardo severo. Originario di Kandhar, racconta di essersi trovato a Kabul alla caduta del regime filosovietico di Najibullah, mentre le fazioni dei mujiahiddin si scagliano l'una contro l'altra: «Li ho visti rubare, saccheggiare, violentare le donne. Oh Dio, ho pensato, è questo l'Islam? Non voglio vivere in un Paese così».
Il padre, un mullah, l'ha mandato a studiare per due anni in una scuola coranica a Quetta, in Pakistan, dove i soldati di Allah hanno uno delle loro basi principali. «Ma poi ho sentito che i Talibani avevano cominciato la marcia verso Kandhar ed io mi sono precipitato alla frontiera. Passava una jeep, carica di militari. Sono montato su. Mi hanno dato un kalashnikov e qualche ora dopo ero con gli altri a combattere per conquistare l'aeroporto». Nessun addestramento, dice lui. «A sparare con il Kalashnikov o con l'Rpg non ci vuole molto. E poi, mi guida Allah». Si lascia tentare da una foto, ma il vicecomandante se ne accorge: «C'è altro da fare», urla. Fuori, lungo la strada che taglia la prima linea con l'esercito di Kabul, si alzano colonne di polvere. Uno, due, tre boati. C'è altro da fare appunto.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]