FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
RWANDA, IL SOGNO PERDUTO DELLA GIUSTIZIA (31 Luglio 2001) >Maria Grazia Cutuli copyright and courtesy of Corriere della Sera
50047 Beheaded victim on Kivu lake shore in Gisenj, Rwanda, 1998
Ruanda, il sogno perduto della Giustizia
Il «gemello povero» della Corte dellAja cerca i responsabili di 800 mila morti. «Ma le inefficienze sono un problema passato» Lentezza, corruzione, burocrazia: in 7 anni il Tribunale speciale dellOnu ha arrestato solo 48 persone
DAL NOSTRO INVIATO
ARUSHA (Tanzania) - Oltre il vetro arriva solamente la voce, amplificata dalle cuffie. Un uomo, nascosto dietro pesanti tendaggi, parla con tono sommesso. «L'ordine ci venne dato la mattina del 7 aprile, mentre eravamo al bar: andate, uccidete, sterminate tutti gli abitanti. Ci dividemmo in gruppi e cominciammo la caccia ai tutsi. Lungo la strada uno dei miei compagni tagliò il seno a una donna, poi leccò il sangue rimasto sul machete».
L'uomo è uno dei testimoni al processo contro Juvénal Kajelijeli, ex sindaco di un Comune del Ruanda. E' un hutu che accusa un altro hutu, davanti al Tribunale internazionale di Arusha, per uno dei massacri commessi tra aprile e luglio 1994 nel Paese africano.
Fuori dall'aula, le immagini trasmesse dalle telecamere a circuito chiuso diventano scene di un film muto. Lungo i corridoi che si snodano all'interno di tre palazzoni bianchi, collegati da balconate, si possono anche dimenticare le 800 mila vittime del genocidio ruandese, i racconti dei sopravvissuti, le smorfie degli assassini. Il Tribunale di Arusha - istituito dall'Onu nel novembre 1994 per giudicare gli autori delle stragi - più che un memoriale dell'orrore sembra un bunker kafkiano. Cemento e inferriate progettati da un architetto italiano, nel nord della Tanzania tra il monte Meru e le pendici del Kilimanjaro. Entri negli uffici e trovi funzionari di 80 nazionalità che si affannano con linee telefoniche disastrate, corrente elettrica garantita dai generatori, collegamenti Internet più che mai virtuali. Magistrati e avvocati si perdono tra cumuli di carte e procedure esasperanti. Lavorano in una città ricca di eucalipti, acacie, banani, ma priva di strutture. Suggestiva per i turisti che si avventurano nei parchi del Serengeti e del Ngorongoro. Meno per chi deve ricostruire le responsabilità degli estremisti hutu che guidarono i 100 giorni di sangue del Ruanda.
Il Tribunale, nato come struttura gemella della Corte dell'Aja per la ex Jugoslavia - con cui divide lo stesso procuratore Carla Del Ponte e gli stessi giudici dell'Appello - non ha avuto un decollo facile. Lentezza, corruzione, burocrazia: «il bilancio è deludente», denuncia un rapporto dell'International Crisis Group, centro studi con base a Bruxelles. In sette anni di attività la Corte ha arrestato 48 persone ed emesso solo nove verdetti. Una delle menti del genocidio, come l'ex ministro della Difesa Théoneste Bagosora, è in prigione da cinque anni in attesa di giudizio. Altri ricercati circolano liberamente in Congo, in Kenia, in Gabon, in Francia o in Belgio. Un bilancio deprimente per la giustizia internazionale. Oltre frontiera i tribunali ruandesi, che vanno molto per le spicce, hanno messo in galera 130 mila persone, ne hanno processate più di 3 mila, ne hanno fucilate 22.
«Operare in un Paese in via di sviluppo non ci ha certo aiutato - controbatte il portavoce Kingsley Moghalu -. Ma la storia delle inefficienze appartiene al passato». Negli ultimi anni sono stati arrestati ex ministri, militari, giornalisti, religiosi. Tre di loro hanno confessato, come l'italo belga George Ruggiu, accusato di aver incitato gli hutu alla strage. Cinque processi sono in corso, altri partiranno presto. Niente da invidiare all'Aja - sostiene -, nonostante gli staff più bassi, 800 dipendenti contro 1100, e il budget ridotto a 200 miliardi di lire annui. Il portavoce cita Jean Kambanda, premier ad interim in Ruanda ai tempi della mattanza: un «pesce grosso» che ha riconosciuto le sue colpe ed è stato condannato all'ergastolo. «Siamo stati i primi a emettere una sentenza contro un capo di governo per genocidio. E' un passo importante per chi giudicherà l'ex dittatore cileno Augusto Pinochet o l'ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic». Anche il numero dei detenuti dovrebbe aumentare: il procuratore Carla Del Ponte ha in serbo altre 130 incriminazioni. La «diplomazia» del Tribunale continua a trattare per ottenere l'arresto dei latitanti fuggiti in Africa, in Europa, negli Usa. E soprattutto in Italia, dove la mancata consegna di Athanase Seromba, un prete ruandese accusato di genocidio, rischia di creare un precedente inaccettabile. Forse i tempi stanno cambiando. Ma nei corridoi di Arusha pochi credono allondata riformatrice.
Si entra in procura, dove sono stati licenziati da poco sei funzionari per incompetenza, e si raccolgono lamentele sugli staff, insufficienti per far fronte ad altri processi. Si ascoltano gli avvocati e si sente parlare di procedure lentissime - «Il mio assistito è rimasto in carcere 18 mesi prima di sapere di che cosa era accusato», dice un legale britannico, Howard Morrison - di testimoni poco attendibili, di processi unicamente accusatori. Mentre i sospetti cadono anche sulla difesa. L'Onu ha appena condotto un'inchiesta su legali che avrebbero diviso gli onorari del Tribunale, dai 120 agli 80 dollari l'ora, con i clienti.
Neanche il raggruppamento degli imputati è servito a velocizzare i processi. Le tre Camere del Tribunale lavorano su più dossier contemporaneamente, ma saltuariamente. Alessandro Caldarone, un siciliano residente a Padova, capo della sezione che coordina gli avvocati e la sorveglianza delle prigioni, addebita le lentezze a un eccesso di garantismo: «La preoccupazione di tutelare i diritti dei detenuti ha fatto dimenticare il diritto numero uno, quello a un processo equo e rapido».
«Non siamo qui solamente per condannare - ripetono negli uffici di Arusha -. La Corte può anche emettere assoluzioni». Il caso portato come esempio, il proscioglimento di Ignace Bagilishema, un ex sindaco accusato di avere favorito il massacro di 45 mila hutu, non è il più felice. Una farsa kafkiana. Il Tribunale l'ha proclamato innocente a giugno, ma nessuno dei Paesi interpellati, Francia in testa, è disposto ad accoglierlo. Bagilishema resta ad Arusha, come sorvegliato speciale.
«Il prete ospitato in Italia è colpevole»
DAL NOSTRO INVIATO
ARUSHA - Furono quattordici giorni di cospirazione: dal 6 al 20 aprile 1994, per sterminare 2 mila tutsi, rinchiusi dentro la parrocchia di Nyange, un villaggio nell'ovest del Ruanda. La chiesa venne circondata dagli Interahmwe, le milizie hutu. Poi arrivò un bulldozer a rimuovere i corpi e spianare l'edificio. L'atto d'accusa del Tribunale internazionale di Arusha conferma i sospetti contro padre Athanase Seromba, il parroco ruandese ospitato in Italia dalla diocesi di Firenze. Il prete, assieme al sindaco Grégoire Ndahimana, all'ispettore Fulgence Kayishema e ad altri due esponenti del villaggio, è accusato di genocidio e crimine contro l'umanità: fu lui a consegnare le liste per rintracciare i tutsi fuggiti, lui a dare gli ordini ai miliziani.
Il rifiuto dell'Italia ad arrestarlo e consegnarlo a Arusha si è trasformato in un caso politico. Ad Arusha girano voci: padre Athanase Seromba potrebbe essere già fuggito in Camerun. C'è il Vaticano dietro il rifiuto dell'Italia? La Chiesa ha sempre accusato il Ruanda di manipolare le accuse attraverso «sindacati di delatori».
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]