FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
I BAMBINI DI MADAME CARR (1998) >Maria Grazia Cutuli
50091 Maria Grazia Cutuli a colloquio con Rosamond Carr
Come ogni mattina Rose Carr si sveglia poco dopo l'alba. Attende che la bruma si sollevi dal giardino. Poi getta un occhio alle sponde del Kivu. Riconosce la fila di palme che delimita la spiaggia, le siepi di bougainville e la sagoma scura dei vulcani che, a cavallo della frontiera, marcano gli sconfinati territori dell'ex Zaire. Quel lago che si apre davanti alla sua casa, nascosto appena da magnolie secolari, è uno dei più belli d'Africa. E anche dei più insaguinati. Sulle sue rive imputridiscono al sole cadaveri trascinati dai fiumi, macabri detriti della guerra infinita tra hutu e tutsi che si combatte in Ruanda. Ma la "dame" americana, come la chiamano nel Paese dove è rimasta famosa per la sua vecchia amicizia con l'etnologa statunitense Dian Fossey, in 85 anni di vita e in 50 di avventure nel cuore del continente, non ha mai perso l'ottimismo. E anche oggi, qui a Gisenyi, una delle prefetture più pericolose, a nord-est del Paese, l'anziana signora spera in una giornata tranquilla. Senza attacchi di ribelli, senza stragi, senza altro dolore.
Rose Carr si veste con cura, dolcevita panna, gonna kaki alla caviglia, un paio di orecchini ai lobi. Poi beve il suo té. E' magra e sembra più alta della sua statura, per quell'andatura eretta con cui si muove mettendo a posto libri, lettere, foto sugli scaffali. La signora aspetta che Sembagari, il suo uomo di fiducia ruandese, porti qui i bambini, gli orfani raccolti in questi ultimi anni, i piccoli sopravvissuti di un'odissea cominciata con il genocidio del 1994 e mai finita. Con loro l'anziana americana divide ogni giorno l'ansia e la paura di un Paese traballante e avvelenato. Alla loro sopravvivenza ha consacrato l'ultima tappa della sua avventura coloniale, approdata quasi per caso a una missione umanitaria che ha fatto di lei una piccola madre Teresa d'Africa. L'orfanatrofio che Rose, abbreviativo di Rosamond, ha creato quattro anni fa, si chiama Imbabazi che in kinyarwanda significa "amore materno", ma anche "dolcezza", "compassione". Ospita 200 bambini. "Una goccia nel mare", dice la signora, se si paragona ai 300 mila orfani del Ruanda. Ma è comunque un piccolo aiuto. Un piccolo progetto solitario, senza grossi finanziamenti, senza grandi strutture, sorretto solo da donatori privati, da una rete di amici, soprattutto stranieri, che madame Carr ha costruito in questi anni.
50112 Rosamond Carr nella sua villa di Gisenj
La villa coloniale nella quale Rose Carr si è trasferita da qualche mese per sfuggire alla guerriglia ha una facciata bianca e un grande giardino che si affaccia sul lago senza muro di cinta, riparato solo da siepi basse di rose e di banani. Il fidato Sembagari tarda ad arrivare. Ma madame Carr sa come dominare le attese. Seduta in giardino si lascia prendere dai ricordi, come succede ogni volta che accoglie ospiti dal lontano occidente. Racconta, nel suo inglese raffinato, la sua Africa, le illusioni e i sogni di una generazione partita per le colonie alla ricerca di fortune facile e di emozioni epocali. "La seconda guerra era finita da poco - dice - L'Europa era distrutta e segnata da un trauma profondo. Io ero nata nel New Jersey, ma avevo sposato un inglese malato d'Africa. Un mezzo artista che aveva vissuto in Uganda producendo cortometraggi naturalistici. Nel '49 partimmo assieme spostandoci da una frontiera all'altra, attorno alla zona dei Grandi Laghi per filmare gli animali. Era bello, era eccitante, ma pensavamo che dopo un po' saremmo tornati a casa. Invece il caso decise altrimenti".
Rose si alza e va a cercare delle foto: "Ecco qui. Un giorno rimanemmo fermi con la jeep. Non avevamo soldi in tasca, a parte degli assegni. Ci aiutò un italiano incontrato per strada, Luigi Imeri. Cambiò gli assegni in franchi congolesi e diventammo a amici. Qualche mese dopo ci propose di andare a lavorare nella sua piantagione di piretro nella regione del Masisi, nel Congo belga". Rose sorride quando ripensa all'entusiasmo di quegli anni, ma anche alla fatica per raggranellare un po' di soldi e riuscire alla fine a comprare una quota della piantagione. "Il mio matrimonio purtroppo cominciava a non funzionare. Io avrei voluto dei figli, mio marito no. Nel '55 ci separammo", continua la signora. Ma, assicura: "Senza tragedie. Lui ripartì per l'Inghilterra e io restai qui. Continuammo a scriverci per anni, da buoni amici. Ma non ci siamo mai più rincontrati. E' morto da poco...".
Comincia la seconda tappa della vita africana di madame Carr. Nel 1960 il maresciallo Mobutu sale al potere in Zaire con un colpo di Stato e nazionalizza le piantagioni. Rosamond passa in Ruanda, compra una casa a Mutura nella zona di Gisenyi, nord-ovest del Paese, sotto il vulcano Karisimbi. E nel 1967 incontra Dian Fossey, partita a sua volta per il parco del Virunga alla ricerca degli ultimi gorilla di montagna. "Dian arrivava anche lei dai Congo. Aveva passato mesi a cercare i bestioni da quella parte, ma non era riusciti a individuarli. Ci siamo conosciuti a una cena nella capitale, a Kigali. Mi accorsi subito che era una donna inflessibile e determinata. L'unica cosa che aveva in testa erano i gorilla. Quando si trasferì vicino a Gisenyi cominciò a visitarmi spesso e casa mia finì per diventare un punto di passaggio anche per i primi turisti che si avventuravano sulle montagne".
Un'altra foto mostra delle coltivazioni di fiori: sono le serre che danno da vivere a Rosamond Carr negli anni successivi, quando la nuova strada asfaltata costruita da Gisenyi alla capitale le permette di rifornire ambasciate, ministeri, hotel del nuovo Stato che nel '64 ha proclamato l'indipenza dai belgi. Dian Fossey, nel frattempo ha scovato i suoi gorilla. Rimane sulle montagne a studiarli per oltre vent'anni. Ma nell'86, l'assassinio. L'etnologa viene trovata morta nel suo rifugio sui vulcani. "Fu l'ultima volta che salii al rifugio - racconta madame Carr - per il suo funerale. Chi l'ha uccisa? Son venuti centinaia di giornalisti a chiedermelo. Potrebbero essere stati i bracconieri, come si dice. Ma anche lo studente americano che era andato a fare uno studio da lei...Tutte le ipotesi sono possibili". Di quell'amicizia, a madame Carr sono rimaste come ricordo una ventina di lettere di Dian e il film "Gorilla nella nebbia", dove appare, interpretata da un attrice, tra le coltivazioni di fiori, sullo sfondo della sua tenuta. "La differenza tra la Fossey e me è che lei amava gli animali, io invece sono rimasta in Ruanda perchè amo la gente".
Madame Carr prende respiro. La scorsa primavera ha avuto due brutti attacchi di malaria. Si è rimessa, ma le hanno detto di riguardarsi. Un'ultima tazza di te e finalmente ecco arrivare i bambini. Sembagari, un ruandese sulla settantina, radi capelli bianchi, si avvicina solo un attimo, poi si perde nel giardino a potare i fiori. Una schiera di ragazzini invade il vialetto e si sparpaglia sull'erba, seguendo gli ordini delle assistenti, le vedove che Rose Carr fa lavorare nel suo orfanatrofio. Alcuni dei bambini hanno pochi mesi di vita, altri sono più grandicelli, superano i 13 i 14 anni. Si muovono mesti, con i visi rischiarati appena dai sorrisi timidi che rivolgono a quella nonna "muzungu", cioé straniera, corsa in mezzo a salutarli. "Adesso voglio parlare solo di loro", dice Rosamond.
50118 Rosamond Carr con alcuni dei suoi bambini
I bambini, appunto. Il loro arrivo risveglia altre memorie, la tragedia del genocidio, l'incubo del conflitto etnico. Il 1994. Per l'esattezza il 6 aprile, il giorno in cui il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, di etnia hutu, muore in un attentato aereo. "La notizia arrivò via radio e lì capii che qualcosa di terribile stava per succedere", dice l'anziana signora. L'indomani le fazioni hutu più estremiste dell'esercito, del partito e della guardia civile del Presidente danno il via ai massacri: 800 mila vittime stimate tra i tutsi e gli hutu moderati in soli tre mesi. "L'ambasciata americana ordinò l'evacuazione di tutti i cittadini statunitensi - racconta Rosamond - Anch'io venni portata in Burundi e da lì imbarcata per gli States. Ma una volta a casa, cominciò il peggio: non riuscivo a dimenticare nè a sottrarmi a quel bombardamento d'immagini che arrivavano dal Ruanda". In Tv, Rosamond riconosce i luoghi dove ha vissuto, le sembra quasi di rivedere i suoi amici, i suoi vicini, i suoi conoscenti nelle montagne di cadaveri filmati dalla Cnn. Ad agosto, dopo che la calma è ritornata con la vittoria dei tutsi, la signora riparte per l'Africa. "Mi trovai davanti un immenso scempio. Anche le mie proprietà erano state saccheggiate e distrutte. Con l'aiuto di Sembagari mi rimboccai le maniche. E fu lì che mi venne l'idea: creiamo un orfanatrofio". Il primo bambino arriva il 26 dicembre 1994 e gli altri subito a ruota, portati fino ad oggi da altre organizzazioni umanitarie."Ogni volta è una gioia e nello stesso tempo un grande dolore - racconta Rosamond - Ognuno di questi bambini ha vissuto tragedie che anche un adulto farebbe fatica a sopportare. Ricordo una femminuccia: i miei uomini l'avevano trovata nella boscaglia, aggrappata alla schiena della madre uccisa il giorno prima. La piccola poteva avere un anno e mezzo. L'abbiamo messa sotto cura. L'abbiamo nutrita. Ma continuava a piagnucolare, un lamento continuo, notte e giorno. E' morta senza che potessimo fare niente". Altri tre bambini zairesi di etnia bahunde, arrivati nel '96 con la marea di profughi che rientravano in Ruanda, sono ancora qui. Invano un'amica di Rosamond, Nicole Merlo, una belga nata e cresciuta nel cuore dell'Africa, vedova di un italiano, ha cercato di rintracciarne le famiglie in Zaire. "Le informazioni dei ragazzini erano vaghe e quello che era successo dopo il genocidio aveva sconvolto interi villaggi anche dall'altra parte della frontiera - dice Rosamond - E per quanto Nicole conosca tutti in questa zona, non è riuscita a rintrovare nessuno dei familiari". Lo scopo dell'orfanatrofio è anche questo: scoprire se ci sono ancora parenti in vita disposti a riaccogliere i bambini. Ma le ricerche sono sempre lunghe e complicate. Talvolta si concludono con successo, altre volte non approdano a nulla. "Mi viene in mente - dice ancora madame Carr- un ragazzino che chiamiamo il Comandante. Posso dire di averlo visto crescere. Ormai ha 14 anni. Capita spesso che sparisca. Dice di volere cercare i suoi parenti. Ogni volta tremo perchè so che rischia di andare a ingrossare le fila dei bambini dei tanti bambini di strada di questo Paese. Invece dopo qualche giorno, lo ritrovo sempre dietro la porta, a chiedermi di ospitarlo ancora e di aiutarlo".
Rosamond sa che l'emergenza in Ruanda non è ancora finita. Nel '94, dopo le stragi, comincia la fuga di un milione e mezzo di hutu verso lo Zaire. Nel '96, l'attacco delle armate di Kabila costringe i rifugiati a rientrare in Ruanda. L'esodo si lascia dietro un esercito di bambini soli che hanno perso i genitori lungo il cammino o li hanno visti morire massacrati dalle milizie. Subito dopo nel Paese si intensifica la guerriglia, alimentata da quegli hutu che erano stati autori del genocidio e che con il rientro dei profughi hanno perso il loro retroterra in Zaire. E Gisenyi è una delle prefetture più infestate. L'esercito filo tutsi ancora oggi continua a rispondere agli attacchi dei ribelli, sterminando a sua volta la popolazione civile hutu. Anche l'orfanatrofio di madame Carr non ha vita facile. Sorto all'inizio a pochi chilometri dal campo di Mudende, dove si sono rifugiati i "banyamulenge", cioè i tutsi zairesi, a loro volta scappati dallo Zaire, rischia di diventare un bersaglio. "A gennaio scorso, dopo che gli hutu attaccano per l'ennesima volta il campo lasciandosi dietro centinaia di morti decido di evacuare i bambini. Troppo pericoloso". Gli eventi le danno ragione. Nella spirale di violenza che si innesca tra la popolazione, anche le proprietà della signora americana vengono prese di mira. Nel marzo scorso, 12 morti e 20 feriti tra i lavoratori e i guardiani. Comincia la peregrinazione. Rosamond si sposta nella stessa villa in cui si trova adesso, messa a disposizione dalla Bralirwa, la società che produce la birra ruandese. I bambini vengono ospitati presso un'edificio religioso. "Adesso finalmente abbiamo trovato quella che potrebbe essere una soluzione definitiva", dice madame Carr. "Un dormitorio che ha accanto una scuola elementare. Manca quasi tutto dentro. Dobbiamo costruire le cucine e i magazzini per i viveri. E anche la retta è abbastanza alta per le nostre possibilità". Ma la rete di solidarietà che Rosamond è riuscita a creare rimanendo sopra le parti, senza lasciarsi coinvolgere dalla dolorosa spaccatura tra hutu e tutsi, è forte. Nell'orfanatrofio lavorano una ventina di persone. Tutto attorno ci sono medici pronti ad assistere i bambini, insegnanti disposti ad accoglierli a scuola, suore che aiutano giorno e notte madame Carr. Adesso nel giardino di fronte al lago Kivu, i piccoli orfani giocano in cerchio. Hutu e tutsi senza distinzione. "Non ho paura per me, ma per loro", dice la signora rattristandosi. Ma è solo un attimo. Uno dei bambini si mette al centro. Gli altri battono le mani. Poi si danno il cambio. Rose Carr li guarda con tenerezza: "Un piccolo passatempo. Oggi che è domenica". E malgrado tutto, qui in Ruanda si riesce a sorridere ancora.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]