Postcards From Rwanda: Gitagata, la Prigione dei Bambini
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
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GITAGATA, LA PRIGIONE DEI BAMBINI (1998)
>Maria Grazia Cutuli

50249 Gitagata, uno degli ospiti

Emmanuel non aveva voglia di uccidere. Non capiva perchè avrebbe dovuto usare il machete contro i suoi vicini. Il fatto che fossero Tutsi per un bambino di 10 anni non significava granchè. E aveva tentato di dirlo al padre, lì nel villaggio, su una delle tante colline della periferia di Kigali. Ma il vecchio, un contadino che aveva passato la vita a zappare la terra e a guardare quelli più ricchi di lui che avevano vacche e tuguri migliori, gli aveva risposto: "Lo vuole la legge. Le autorità ci hanno detto di farlo. Se li uccidiamo avremo le loro case e il loro bestiame". E così Emmanuel, in quei giorni dell'aprile 1994, ha partecipato all'orgia di sangue scatenata in Ruanda dagli estremisti Hutu. Ha sacrificato gli anni dell'innocenza a un conflitto etnico manovrato da interessi a lui sconosciuti. E' diventato un "génocidaire", un fantoccio imbottito di odio, una recluta coatta di quei battaglioni della morte, comandati da ufficiali e politici del vecchio regime, che in soli tre mesi, dal 7 aprile ai primi di luglio, massacrano all'incirca 800 mila tutsi e hutu moderati.
Quando la pace è tornata sulle colline con la vittoria militare del Fronte patriottico ruandese, costituito da tutsi cresciuti e armati dall'Uganda, Emmanuel ha dovuto fare i conti con i fantasmi dei morti. E con la memoria dei vivi. Nel villaggio tutti sapevano chi aveva ucciso. E anche il ragazzo non è sfuggito all'accusa dei parenti delle vittime. Ha conosciuto le celle di una prigione, la lotta per conquistare un mezzo metro quadrato di spazio dove stendersi per dormire, la paura - come succede spesso - di essere violentato. Si è mescolato a quell'ammasso umano, costituito per la maggiore parte da ex assassini, di tutte le età, di tutti i ceti sociali, uomini, donne, ragazzi come lui, contadini e notabili, poveri e ricchi, tutti coinvolti nelle stragi, tutti in attesa di giudizi per il massacro del 1994.
Emmanuel però è stato più fortunato di tanti altri. L'anno scorso il suo nome è rientrato nelle liste di quei minorenni che sarebbero stati spostati a Gitagata, il centro di rieducazione a 40 chilometri da Kigali, creato apposta per i ragazzi accusati di genocidio. E da allora si trova lì. Ha 14 anni adesso, il fisico da bambino, uno sguardo da dannato. A Gitagata gli hanno detto però che c'è una speranza per il futuro: presto potrebbe tornare nel suo villaggio.
Emmanuel non è il solo ragazzino coinvolto nelle stragi. Attualmente, nel minuscolo Paese centrafricano, 2 mila e 600 minorenni sono accusati di aver partecipato al genocidio del '94. La maggior parte di loro aveva tra 14 e 16 nel periodo della mattanza, 150 maschi e 5 femmine erano sotto i 14. I più piccoli tra i 7 e gli 8 anni. Un dato epocale. E in qualche modo unico. In tutti i conflitti del Terzo Mondo, dall'Africa all'Asia al Sudamerica, i bambini sono sempre stati usati e ingaggiati come strumenti di morte, negli eserciti ribelli, nelle milizie irregolari, negli scontri tra fazioni. Ma con il Ruanda è la prima volta nella storia che alcuni ragazzini vengano accusati di quello che il diritto internazionale definisce un "crimine contro l'umanità". Di fronte a un'emergenza giudiziaria senza precedenti - nel Paese sono più di 130 mila i detenuti in attesa di giudizio per i massacri del '94 - il governo ha però accettato di sottrarre coloro che al momento delle stragi avevano meno di 14 anni ai rigori della "Legge organica", un testo varato nel '96 che prevede per i delitti legati al genocidio pene che vano dalla detenzione all'ergastolo alla condanna a morte. E' soprattutto l'Unicef, con il ministero della Giustizia ruandese e quello degli Affari sociali, a occuparsi di tirare fuori i monorenni dalle prigioni per affidarli al centro di Gitagata e tentare, lì dove è possibile, il recupero e il reinserimento nelle famiglie d'origine.
Il centro si trova a un'ora e mezza di pista da Kigali, nascosto tra i bananeti e i bambù. E' un caseggiato basso dalla facciata scolorita, circondato solo da un reticolato. Non accoglie più di 350 ragazzini.. Le camere sono soffocanti e malandate. I bambini sono costretti a dividere un letto in due. Ma rispetto alle infernali prigioni del Ruanda, Gitagata è un piccolo paradiso. Non ci sono guardie, non ci sono secondini e anche il cancello può essere facilmente varcato in compagnia degli assistenti sociali.
Né Emmanuel né gli altri compagni ammettono di aver ucciso durante il genocidio. All'inizio qualcuno l'aveva fatto. Ma poi tacere è stato un patto di sangue, un passa parola sommesso per difendersi dalle accuse ma anche dalle rappresaglie. Un altro ragazzo, Theoneste, 17 anni, ha parole vaghe per raccontare la sua storia: "Mi trovavo a Kigali nei giorni dei massacri. Mia madre lavorava al mercato. Avevo come ospite il bambino di una vicina - dice - Un giorno è scappato e la madre che era venuta a cercarlo a casa nostra mi ha accusato di averlo ammazzato. Ma non era vero". Theoneste rigira tra le dita una corona di rosario che porta al collo: "Mi hanno messo in prigione, eppure il bambino era vivo".
Maurice, 17 anni anche lui fa una smorfia e parla solo dei suoi turni in cucina: "Sono io che preparo mais e fagioli per gli altri. Nessuno viene mai a visitarmi, perchè mia madre è morta e mio padre è un contadino senza mezzi". Maurice passa il tempo in falegnameria: "Ma il legno è poco e non basta per far lavorare tutti quelli che vorrebbero imparare". Si stringono gli uni agli altri i bambini di Gitagata. Vagano per il campo come anime perse, barricate nella loro cieca ostilità per il mondo.
Appena fuori dalla recinzione del campo, in un ufficio spoglio e infestato dalle zanzare, il vicedirettore del centro Jean Baptiste Rudasingwa, un uomo alto e magro con baffi e un po' di barba, usa toni rassicuranti: "All'inizio arrivano qui impauriti, come bestie braccate. Ma sono giovani e riescono a superare presto il trauma - dice-. Provengono da tutte le classi sociali: abbiamo figli di contadini, di commercianti, di professionisti. E per la verità non tutti sono colpevoli di genocidio". I bambini trascinati nei baccanali di sangue del '94, quando le milizie impersevano sulle colline con i loro macabri gridi di guerra, hanno svolto i ruoli più diversi: parecchi hanno ucciso veramente, molti hanno stuprato, altri hanno commesso atti di vandalismo, o si sono limitati a rubare. C'è poi la categoria dei "cacciatori", quelli che andavano a cercare i tutsi, identificavano i loro rifugi e li indicavano agli squadroni della morte. E ci sono anche quelli che si occupavano di nascondere fucili e machete per conto degli adulti.
"La vera responsabilità -dice il vicedirettore - è dei genitori, dei familiari, delle autorità. Sono stati sempre loro a obbligare i più giovani a seguirli". Il recupero non è facile: "Cerchiamo di educarli alla coabitazione pacifica, al rispetto degli altri, ai diritti dell'uomo. I più piccoli frequentano una scuola elementare fuori dal campo. Agli altri tentiamo di insegnare un mestiere. Ma la cosa più importante è che riconoscano le proprie colpe. Solo a queste condizioni potranno tornare nei villaggi di origine".
L'uomo mostra un primo successo, registrato su un quaderno logoro: il caso di Innocente Maimaka, 15 anni, tornato in famiglia a maggio. "Innocente aveva ucciso alcuni vicini. Siamo riusciti a convicerlo a confessare e a chiedere scusa per le sue colpe di fronte all'intero villaggio. Quando siamo stati sicuri che sia la gente sia la famiglia erano disposti ad accoglierlo, l'abbiamo lasciato andare". Sono i 15 assistenti sociali che lavorano a Gitagata a svolgere la prima fase del lavoro: seguono i ragazzi, osservano i loro comportamenti, cercano di capire se sono veramente pentiti. Un'associazione ruandese esterna, Asoferwa (Association des femmes du Rwanda) si occupa del "tracking", la ricerca delle famiglie. "Non sempre è facile sapere chi siano i genitori o dove si trovino - dice ancora il vicedirettore - I bambini a volte danno indicazione vaghe. Altre volte hanno perso completamente i contatti. E quando si riesce a scoprire dove si trovano i parenti, comincia il lavoro più duro: convicere prima loro, poi il resto del villaggio ad accogliere i ragazzini. Un'opera che richiede mesi".
Una delle assistente sociali di Assoferwa, Vestine Mukandamtsa, una giovane donna di 26 anni dal sorriso generoso, racconta con tristezza le sue sconfitte: "Uno dei nostri ragazzi viene dalla prefettura di Butare, a sud di Kigali. Lo chiamano Nyabingi che nella nostra lingua, il kinyarwanda, significa diavolo. I vicini dicono che durante il genocidio ha seppellito viva della gente e poi ha danzato sulle teste delle vittime. Dicono anche che abbia violentato un'anziana. Lui non ha mai confessato. Ma il villaggio l'ha maledetto e non c'è nessuno disposto ad accoglierlo. I suoi genitori sono morti". Vestine ha anche una vittoria da ricordare: "Si chiama Donat Sebatna. All'epoca del genocidio: 12 anni. Era stato accusato ingiustamente, l'avevano scambiato con il cugino. Quando siamo andati nel villaggio, tutti reclamavano il suo ritorno. Il caso mi ha colpito molto: a scagionare il ragazzo è stato proprio un rescapé, un sopravvissuto al massacro, ed è la prima volta che succede".
Il genocidio in Ruanda è una ferita che sanguina ancora. L'odio etnico ha lasciato strascichi di vendetta e di paura. Anche nella stessa Gitagata, un'area con una forte presenza Tutsi, la realizzazione del centro era stata accolta in un primo momento con rabbia e diffidenza. La presenza di quei presunti assassini Hutu era stata per molti un insulto al dolore di chi é sopravvisuto e al sangue di chi é morto. "Adesso - assicura il vicedirettore - la gente ha cominciato a collaborare. I nostri ragazzi hanno creato una squadra di calcio che gioca le sue partite con la squadra del villaggio. A scuola gli insegnanti accettano che si mescolino con gli altri bambini. Facciamo di tutto per far capire che anche loro sono in qualche modo vittime di un orrore orchestrato da altri". Qui a Gitagata qualcuno sembra credere veramente a quella "riconciliazione nazionale" propagandata più a parole che nei fatti dal nuovo governo. Il vicedirettore lancia uno sguardo oltre la finestra. Verso Emmanuel, Theoneste, Maurice, verso l' infanzia che ha rischiato di annegare in uno dei peggiori genocidi del secolo. "Presto torneranno a casa - sussurra con un sorriso mesto - Il tempo risolve molte cose" Anche qui, nel mattatoio del Ruanda.

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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