DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
>PICTURE GALLERY
>AUDIO CLIP her last report from Peshawar [ Corriere.it ]
>VIDEO recovering the journalists' bodies [New York Times - Associated Press]
How colleagues journalist and friends >REMEMBER her
Pages from italian and international >PRESS
>REPORTS about the ambush
>STORIES we published >TOGETHER (her writings, my pictures)
>ALL THE STORIES
I'm trying to make available ALL THE STORIES written by Maria Grazia Cutuli.
Big kudos to publishers Corriere della Sera-RCS and Arnoldo Mondadori Editore,
for allowing me to post here all the stories they hold copyrights for.
AFRICA - CORRIERE DELLA SERA
Copyright and Courtesy of Corriere della Sera


Map copyright and courtesy Fabio Sironi


090 Rwanda, 1998
With common friends and former colleagues from the UN mission

mercoledi, 22 agosto 2001
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Ruanda, un genocidio previsto

Rapporto americano rivela: «Il Pentagono sapeva che sarebbe finito in massacro»

Nonostante le informazioni in suo possesso, Washington votò per il ritiro delle forze Onu Ruanda, un genocidio previsto Rapporto americano rivela: «Il Pentagono sapeva che sarebbe finito in massacro» Le barricate non furono una sorpresa, la caccia al l' uomo nemmeno. Le stragi etniche che portarono alla morte di 800 mila tutsi e qualche hutu moderato, potevano essere fermate in tempo. Non era solo l' Onu ad essere stata inutilmente avvisata che in Ruanda si pianificava un genocidio. Anche Washing ton sapeva. E anche Washington preferì il disimpegno. Un rapporto, a lungo nascosto negli archivi della Sicurezza nazionale, rivela adesso l' indifferenza dell' amministrazione americana di fronte all' ecatombe preparata dagli estremisti hutu e qualc osa di più. Secondo il documento, un allarme arrivò all' indomani dell' attentato aereo in cui morì il presidente Juvénal Habyarimana, il 6 aprile 1994. Al sorgere delle barricate, un funzionario del Pentagono avvertì il sottosegretario alla Difesa F rank Wisner: «O si riesce a convincere le due parti (hutu e tutsi, ndr) a rientrare nel processo di pace o ci sarà un bagno di sangue che potrebbe estendersi anche al Burundi». Nel Paese si trovano 2.500 Caschi blu. Il loro comandante, il generale ca nadese Romeo Dallaire, lanciava messaggi disperati da tempo. Ma i diplomatici americani anziché insistere per un rafforzamento del dispositivo militare, si pronunciarono per un «ritiro ordinato» della Minuar, la missione dell' Onu. Gli estremisti hut u diedero il via alle stragi. Il 9 aprile il dipartimento di Stato Usa inviò un telegramma confidenziale con il quale ordinava alla missione americana presso le Nazioni Unite di impegnarsi per lo smantellamento del contingente multinazionale. Non c' era città, villaggio, quartiere dove le Far, le ex forze armate ruandesi, assieme agli Interahamwe, la Guardia presidenziale, non avessero trasmesso l' ordine di sterminio. Secondo l' amministrazione Clinton, invece, «non c' erano ragioni sufficienti » per mantenere una forza di pace. Il 21 aprile il Consiglio di Sicurezza dell' Onu votò a favore del ritiro. La Minuar sloggiò. Da lì al mese di luglio, 100 giorni in tutto, si consumò uno dei peggiori genocidi del secolo. Nuovamente gli Usa. Il 28 aprile 1994 - rivela il rapporto - Prudence Bushnell, vice assistente del segretario di Stato per gli Affari africani, telefonò al ministro della Difesa ruandese, il colonnello Theoneste Bagosora. «Sappiamo che l' esercito ruandese è impegnato in att i criminali, che sta sostenendo il massacro dei civili», diceva l' americana. Risposta del colonnello: l' uccisione dei tutsi è opera della popolazione. Nessun aiuto da parte del governo ad interim, controllato dagli estremisti hutu, che si era insta llato dopo la morte di Habyrimana. Prudence Bushnell è oggi ambasciatrice in Guatemala. Theoneste Bagosora - detenuto nel carcere di Arusha in Tanzania - è uno dei principali accusati del tribunale Onu per il Ruanda: la «grande mente» del genocidio. Perché gli Usa lasciarono il Ruanda al suo destino? La «sindrome somala», si disse all' epoca. L' intervento a Mogadiscio, i marines uccisi e trascinati nelle vie della città, il ritiro catastrofico del contingente Onu dalla Somalia all' inizio del 1 994, avevano tracciato una linea sull' era del «peace keeping». Si era spento l' ottimismo occidentale e vacillava anche l' idea di un nuovo ordine mondiale sotto garanzia americana. Ma in Ruanda qualcosa poteva comunque essere fatto e gli Stati Unit i si rifiutarono. Si discusse, per esempio, sull' uso di «Commando solo», aerei militari che avrebbero potuto bloccare le trasmissioni di Radio Milles Collines, l' emittente dalla quale gli estremisti hutu incitavano la popolazione a «riempire le tom be di scarafaggi tutsi». Frank Wisner bocciò la proposta: inutile e troppo rischioso. Nonostante il genocidio, la guerra fu vinta dai tutsi. Da un uomo in particolare, l' attuale presidente Paul Kagame, ex guerrigliero cresciuto in Uganda con corsi d ' addestramento negli Stati Uniti. Washington ha riallacciato presto i rapporti con lui: gli ha fornito intelligence e tecnologia tra il 1996 e il 1997 quando il Ruanda ha creato le armate di Kabila in Zaire per ripulire i campi dove erano fuggiti gl i estremisti hutu e defenestrare l' ex presidente Mobutu. L' operazione è riuscita solo in parte: Mobutu è stato cacciato ed è poi morto, ma la guerra non è finita. Continuano anche gli assalti dei miliziani hutu. Vecchie e nuove reclute. Proprio ier i l' Unicef ha annunciato che l' esercito ruandese ha «liberato» centinaia di ragazzini tra i 10 e i 18 anni, arruolati dagli ex «génocidaire». HUTU CONTRO TUTSI GENOCIDIO Il 6 aprile del 1994 l' aereo su cui viaggia il presidente hutu del ruanda, Juvénal Habyarimana, viene abbattuto. È l' avvio del genocidio. Le milizie hutu, con l' appoggio dell' esercito ruandese, cominciano lo sterminio sistematico della minoranza tutsi a colpi di machete (uccidendo anche migliaia di hutu moderati). Oltre 800 mila persone vengono trucidate in 4 mesi. LE ETNIE L' 84% dell' attuale popolazione del Ruanda è di origine bantu, gli hutu. I tutsi, pastori originari della Valle del Nilo migrati nell' Africa Centrale, sono il 14%. L' 1% sono twa, pigmei. I tutsi per secoli sono stati la casta dominante, fino al 1961 quando il re Kigeri V viene rovesciato e diventa presidente l' hutu Grégoire Kayibanda. Le rivolte tutsi falliscono, in migliaia vengono trucidati IL TRIBUNALE Il Tribunale p enale internazionale per il Ruanda, creato dall' Onu nel 1999 in Tanzania, persegue i responsabili del genocidio




mercoledi, 08 agosto 2001
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La Curia fiorentina: «Padre Seromba è pronto ad affrontare la giustizia»

«Le imputazioni contro il religioso manipolate da un gruppo tutsi vicino al governo di Kigali»

Ancora in Italia il prete ruandese accusato di genocidio La Curia fiorentina: «Padre Seromba è pronto ad affrontare la giustizia» Don Athanase Seromba non vuole sottrarsi al processo. Non è fuggito dall' Italia, ma si trova ancora nell' arcidiocesi d i Firenze. Il prete ruandese, accusato dal Tribunale internazionale di Arusha di genocidio e crimini contro l' umanità, sarebbe insomma pronto a comparire davanti alla legge. Parla a nome suo il portavoce dell' arcidiocesi di Firenze, Riccardo Bigi, in un testo inviato alla Misna, l' agenzia di stampa missionaria: «A tutt' oggi - recita il comunicato - don Athanase non ha ancora ricevuto nessun atto ufficiale d' accusa, e non conosce le imputazioni se non attraverso quello che è stato pub blicato sui giornali». Imputazioni faziose, secondo la Curia, basate su un rapporto di African Watch, un' associazione fondata a Londra da alcuni tutsi ruandesi, vicini all' attuale regime di Kigali. Padre Athanase è un hutu, accusato di aver cospira to e favorito la strage di 2000 tutsi che si erano rifugiati nella sua chiesa di Nyunde, un villaggio nell' Ovest del Ruanda. Contro di lui sarebbe montata dunque una campagna falsa e strumentale, come è successo tante altre volte nel Paese africano. Ma non è solo African Watch a puntare il dito contro il sacerdote. L' arcidiocesi di Firenze in questo si sbaglia: l' atto d' accusa contro padre Seromba, emesso dal procuratore generale del Tribunale internazionale Carla Del Ponte, è pubblico da un a quindicina di giorni. Sono 17 pagine, nelle quali si descrivono con ricchezza di dettagli le responsabilità del prete nella morte dei suoi parrocchiani. Come mai padre Seromba non ne sa nulla? La Chiesa parla di «persecuzione» subita in Ruanda, di 3 vescovi, 103 sacerdoti, 65 religiose e 47 religiosi uccisi nel Paese africano dal 1993 al 1994. Denuncia un regime abilissimo a manovrare i media, colpevole di «arresti arbitrari, detenzioni illegati, torture dei detenuti». Ricorda il processo a mo nsignor Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, prefettura nel sud del Paese. Pure lui sospettato di genocidio e poi scagionato a luglio dell' anno scorso. Anche il tribunale di Arusha è fazioso? Il «gemello» della Corte dell' Aja è accusato da molti di essere troppo sensibile all' influenza di Kigali. Ma è riuscito comunque ad arrestare altri religiosi fuggiti in Europa. Nel caso di padre Seromba, c' è uno snodo politico in più: il rifiuto del governo italiano ad consegnare il prete alla giustiz ia internazionale. Spiega al Corriere Adama Dieng, cancelliere del Tribunale di Arusha: «Tutti gli stati membri dell' Onu hanno il dovere di collaborare con noi. Eppure l' Italia sostiene di dover far approvare un apposito decreto in Parlamento». Un pretesto? O un impedimento giuridico? L' agenzia Misna appoggia la seconda ipotesi.




lunedi , 06 agosto 2001
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Ruanda, sui massacri il «giudizio del villaggio»

Il governo di Kigali vuole ripristinare la «Gacaca», il tribunale tradizionale dei «saggi»

DAL NOSTRO INVIATO KIGALI - E' il momento dell' autocoscienza, delle confessioni di massa, della verità ricostruita collina per collina, villaggio per villaggio, casa per casa. Sette anni dopo il genocidio, il governo del Ruanda, oberato da un compit o epocale - processare 115 mila detenuti accusati delle stragi - invita gli assassini ad ammettere le proprie colpe. Servirà a completare i dossier, ad alleggerire le pene, ma soprattutto a resuscitare la Gacaca, i tribunali tradizionali formati dai «saggi», dove toccherà alla popolazione emettere la sentenza finale. La giustizia verrà dal basso: chi ha ucciso dovrà confrontarsi con i parenti delle vittime, i testimoni dovranno parlare, i sopravvissuti dovranno raccontare quello che hanno subito da aprile a luglio del 1994. La Gacaca partirà l' anno prossimo, ma i preparativi sono in corso. Ogni settimana funzionari della procura percorrono a bordo di vecchie berline le piste di terra rossa che attraversano il Ruanda, su per le colline nebb iose, alla ricerca di prove e confessioni sui massacri in cui morirono almeno 800 mila tutsi e qualche hutu moderato. Uno di questi lavacri collettivi è il comune di Murama, cento chilometri a sud della capitale Kigali. Ci si arriva tagliando bananet i e campi di tè, tra casupole scalcinate, mandrie di buoi dalle grandi corna, mercati di campagna. Lungo la strada teschi ed ossa, esposti dentro a piccolo memoriale, ricordano che due mila tutsi furono trucidati nella zona a colpi di machete e basto ni. Il municipio è un edificio fatiscente costruito in cima a una montagnola. Sul retro si aprono i cachot, le prigioni comunali. Settecento hutu vivono ammassati in tre stanzoni maleodoranti, tra sporte di plastica che pendono dal soffitto e un buco per terra come latrina. «Quasi 600 hanno già confessato - dice Innocent Manzi, l' avvocato generale della procura -. Gli altri potrebbero farlo oggi». Il suo staff è arrivato alle nove del mattino per raccogliere le nuove deposizioni. Il primo a par lare è un anziano. Ha la voce atona e lo sguardo inespressivo: «Ho ucciso quattro persone», recita mentre la mano ricorda a gesti i colpi del machete. Gli altri, usciti dalle celle, aspettano su una radura. Visi cupi, piedi nudi nei sandali di plasti ca. Una trentina le donne. Un ragazzo si fa avanti. Si chiama Jean Damascène Ndagijimana, un crocefisso d' oro gli brilla al collo. Racconta: «Le autorità sono arrivate per la prima volta due anni fa a prometterci che se avremmo confessato saremmo st ati liberati prima. Ma c' è voluto del tempo per convincere tutti. Solo con l' aiuto di preti e pastori abbiamo cominciato a riflettere sui nostri peccati». Anche qui, come in altre prigioni del Ruanda, è stata organizzata una pre-Gacaca, un tribunal e interno, guidato da un comitato di 20 persone. «Molti avevano paura, ci si accusava e ci si minacciava a vicenda. Ma adesso siamo pronti a sostenere il giudizio del villaggio». Jean Damascène sembra un soldato, più che un genocidaire, un massacrato re. Con lo stesso zelo con cui nell' aprile ' 94 aveva obbedito alle autorità che gli ordinavano di massacrare i vicini, predica ora la necessità della «riconciliazione nazionale». L' avvocato generale lo guarda soddisfatto: «Abbiamo lavorato molto s ulle campagne di sensibilizzazione». I detenuti sanno che le pene previste per gli «esecutori» delle stragi disposti a confessare non superano i 15 anni. Considerato il periodo passato in prigione e la possibilità di scontare metà della condanna lavo rando a beneficio della comunità, molti di loro potrebbero essere liberati subito dopo il processo. Parecchi escono già per lavorare. Sia dal cachot di Murama, sia dalle prigioni centrali. I primi vestiti di stracci, gli altri con divise rosa confett o. La nomenclatura tutsi, stretta attorno al presidente Paul Kagame, è abile nella propaganda. Non si tratta di un regime illuminato. E' un gruppo di potere minoritario che ha gestito con durezza l' eredità del genocidio. Anche se la capitale Kigali è una città dalle aiuole in fiore e dai ristoranti affollati dagli staff umanitari, il Paese sprofonda nella miseria. C' è una guerra in Congo: gran parte della regione del Kivu è controllata dall' esercito ruandese. Ci sono le incursioni di migliaia di miliziani hutu lungo la frontiera. Ma la transizione democratica, chiesta dalle istituzioni finanziarie, impone formule più morbide rispetto al passato. Il Ruanda, che all' indomani dei massacri si era ritrovato senza magistrati, senza avvocati, con le prigioni straripanti e il clima avvelenato da vendette e delazioni, dopo aver processato 5.600 detenuti, ha così ripescato la Gacaca, dimenticata con l' arrivo dei colonizzatori belgi, trasformandola in istituzione penale. Le elezioni dei nuov i giudici - 240 mila previsti in Ruanda - si terranno a settembre. I saggi esamineranno gli accusati, ma potranno emettere sentenze solo per gli esecutori dei massacri, rimandando i pianificatori del genocidio ai Tribunali ordinari. Per loro rimane i n vigore la condanna a morte. Lungo la strada che porta a sud, c' è chi ha già rincontrato gli assassini. A Ntongwe la procura ha presentato al villaggio un centinaio di detenuti, organizzando una pre-Gacaca. «E' stato un gioco sottile e doloroso - r acconta Jean Marie Mbarushimana, procuratore generale della Corte d' Appello di Nyamisindo, un tutsi dalla corporatura robusta -. Abbiamo visto uomini e donne alzarsi in massa per difendere un innocente. Al contrario sguardi rancorosi e un silenzio a gghiacciante ogni volta che appariva un criminale». Il procuratore Jean Marie ha perso la madre nei massacri, ma è considerato uno dei magistrati più validi ed equilibrati del Ruanda. «Non pensate che la Gacaca risolverà tutto. In molte province sono stati commessi crimini da entrambe le parti, certe gente è stata arrestata senza prove. E sarà difficile vincere le resistenze dei sopravvissuti. Non si può immaginare la Gacaca senza una legge che indennizzi le vittime». Sono i rescapés, i sopravvi ssuti, la grande incognita della riconciliazione nazionale. Morti viventi rimasti intrappolati per giorni sotto montagne di cadaveri, tutsi braccati dagli squadroni della morte, gente che ha visto fare a pezzi la propria famiglia. Benoit Kabogy, 27 a nni, membro di Ibuka, l' organizzazione più estremista nella difesa dei sopravvissuti, è uno di loro. Viveva nel Bugesera, una delle regioni a più alta concentrazione tutsi. Furono sterminati in 60 mila. Lui si salvò nascondendosi nelle paludi. «La G acaca potrà aiutarci a ricostruire il passato - dice -. Ma chi abita nei villaggi teme per la propria sicurezza. Come si può accettare che gli assassini tornino ad abitare alla porta accanto?».




lunedi , 06 agosto 2001
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Il «mea culpa» dei cattolici: «Assenti, forse colpevoli»


IL RUOLO DELLA CHIESA Il «mea culpa» dei cattolici: «Assenti, forse colpevoli» DAL NOSTRO INVIATO KIGALI - Troppe accuse. Troppi sospetti. Un vescovo, monsignor Misago, processato e poi prosciolto per genocidio. Un sacerdote, Athanase Seromba, ospite della diocesi fiorentina, ricercato dal Tribunale Onu di Arusha e non ancora consegnato dall' Italia. Due suore condannate in Belgio. Una decina di altri religiosi in prigione in Ruanda o processati per aver incoraggiato gli estremisti hutu nelle st ragi. La Chiesa cattolica ha dovuto organizzare una sua Gacaca: una riflessione sul ruolo svolto durante le stragi del ' 94. E' successo durante il Giubileo, con un Sinodo speciale e un incontro finale a Kigali, il 2 febbraio di quest' anno. «Non è s tata un' ammissione di colpa - racconta il padre gesuita Ottave Ugirashebuya, presidente della Commissione Giustizia e pace ruandese -. La Chiesa continua a sostenere che le responsabilità sono individuali, ma è stato un gesto importante». Per anni p reti e missionari hanno vissuto nell' isolamento. Omicidi e minacce hanno colpito anche loro: c' era un progetto politico: mettere da parte i cattolici francofoni a vantaggio dei protestanti anglofoni, più vicini al regime controllato dai combattenti tutsi rientrati dall' Uganda. Dopo la «Gacaca cristiana», i rapporti sono migliorati. A gennaio il presidente Paul Kagame ha convocato i vescovi: il regime tutsi ha riconosciuto di non poter fare a meno della Chiesa cattolica. E la Chiesa ha rispost o accettando un ruolo politico. Oggi i preti fanno «campagne di sensibilizzazione» in prigioni e parrocchie. Invitano i fedeli a confessare responsabilità. La politica filo-hutu della Chiesa ruandese risale agli anni ' 50, quando si volle dar forza a lla maggioranza etnica. Con l' indipendenza nel ' 62, gli hutu salgono al potere e la Chiesa diventa il braccio spirituale del regime. Dice padre Ugirashebuya: «La Chiesa ha veramente istigato gli hutu al genocidio? O ha la colpa di non aver fatto nu lla per fermarli? La Chiesa è stata assente, forse colpevole. Ancora oggi siamo a metà strada. Timidi e incerti». M.G.C.




martedi , 31 luglio 2001
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Ruanda, il sogno perduto della Giustizia

Lentezza, corruzione, burocrazia: in 7 anni il Tribunale speciale dell' Onu ha arrestatp solo 48 persone. "Il prete ospitato in Italia e' colpevole"

Il «gemello povero» della Corte dell' Aja cerca i responsabili di 800 mila morti. «Ma le inefficienze sono un problema passato» Arusha, il sogno perduto della Giustizia Lentezza, corruzione, burocrazia: in 7 anni il Tribunale Onu per il Ruanda ha arr estato solo 48 persone DAL NOSTRO INVIATO ARUSHA (Tanzania) - Oltre il vetro arriva solamente la voce, amplificata dalle cuffie. Un uomo, nascosto dietro pesanti tendaggi, parla con tono sommesso. «L' ordine ci venne dato la mattina del 7 aprile, men tre eravamo al bar: andate, uccidete, sterminate tutti gli abitanti. Ci dividemmo in gruppi e cominciammo la caccia ai tutsi. Lungo la strada uno dei miei compagni tagliò il seno a una donna, poi leccò il sangue rimasto sul machete». L' uomo è uno de i testimoni al processo contro Juvénal Kajelijeli, ex sindaco di un Comune del Ruanda. E' un hutu che accusa un altro hutu, davanti al Tribunale internazionale di Arusha, per uno dei massacri commessi tra aprile e luglio 1994 nel Paese africano. Fuor i dall' aula, le immagini trasmesse dalle telecamere a circuito chiuso diventano scene di un film muto. Lungo i corridoi che si snodano all' interno di tre palazzoni bianchi, collegati da balconate, si possono anche dimenticare le 800 mila vittime de l genocidio ruandese, i racconti dei sopravvissuti, le smorfie degli assassini. Il Tribunale di Arusha - istituito dall' Onu nel novembre 1994 per giudicare gli autori delle stragi - più che un memoriale dell' orrore sembra un bunker kafkiano. Cement o e inferriate progettati da un architetto italiano, nel nord della Tanzania tra il monte Meru e le pendici del Kilimanjaro. Entri negli uffici e trovi funzionari di 80 nazionalità che si affannano con linee telefoniche disastrate, corrente elettrica garantita dai generatori, collegamenti Internet più che mai virtuali. Magistrati e avvocati si perdono tra cumuli di carte e procedure esasperanti. Lavorano in una città ricca di eucalipti, acacie, banani, ma priva di strutture. Suggestiva per i tur isti che si avventurano nei parchi del Serengeti e del Ngorongoro. Meno per chi deve ricostruire le responsabilità degli estremisti hutu che guidarono i 100 giorni di sangue del Ruanda. Il Tribunale, nato come struttura gemella della Corte dell' Aja per la ex Jugoslavia - con cui divide lo stesso procuratore Carla Del Ponte e gli stessi giudici dell' Appello - non ha avuto un decollo facile. Lentezza, corruzione, burocrazia: «il bilancio è deludente», denuncia un rapporto dell' International Cri sis Group, centro studi con base a Bruxelles. In sette anni di attività la Corte ha arrestato 48 persone ed emesso solo nove verdetti. Una delle menti del genocidio, come l' ex ministro della Difesa Théoneste Bagosora, è in prigione da cinque anni in attesa di giudizio. Altri ricercati circolano liberamente in Congo, in Kenia, in Gabon, in Francia o in Belgio. Un bilancio deprimente per la giustizia internazionale. Oltre frontiera i tribunali ruandesi, che vanno molto per le spicce, hanno messo in galera 130 mila persone, ne hanno processate più di 3 mila, ne hanno fucilate 22. «Operare in un Paese in via di sviluppo non ci ha certo aiutato - controbatte il portavoce Kingsley Moghalu -. Ma la storia delle inefficienze appartiene al passato» . Negli ultimi anni sono stati arrestati ex ministri, militari, giornalisti, religiosi. Tre di loro hanno confessato, come l' italo belga George Ruggiu, accusato di aver incitato gli hutu alla strage. Cinque processi sono in corso, altri partiranno p resto. Niente da invidiare all' Aja - sostiene -, nonostante gli staff più bassi, 800 dipendenti contro 1100, e il budget ridotto a 200 miliardi di lire annui. Il portavoce cita Jean Kambanda, premier ad interim in Ruanda ai tempi della mattanza: un «pesce grosso» che ha riconosciuto le sue colpe ed è stato condannato all' ergastolo. «Siamo stati i primi a emettere una sentenza contro un capo di governo per genocidio. E' un passo importante per chi giudicherà l' ex dittatore cileno Augusto Pinoc het o l' ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic». Anche il numero dei detenuti dovrebbe aumentare: il procuratore Carla Del Ponte ha in serbo altre 130 incriminazioni. La «diplomazia» del Tribunale continua a trattare per ottenere l' arresto dei latitanti fuggiti in Africa, in Europa, negli Usa. E soprattutto in Italia, dove la mancata consegna di Athanase Seromba, un prete ruandese accusato di genocidio, rischia di creare un precedente inaccettabile. Forse i tempi stanno cambiando. Ma nei c orridoi di Arusha pochi credono all' ondata riformatrice. Si entra in procura, dove sono stati licenziati da poco sei funzionari per incompetenza, e si raccolgono lamentele sugli staff, insufficienti per far fronte ad altri processi. Si ascoltano gli avvocati e si sente parlare di procedure lentissime - «Il mio assistito è rimasto in carcere 18 mesi prima di sapere di che cosa era accusato», dice un legale britannico, Howard Morrison - di testimoni poco attendibili, di processi unicamente accusa tori. Mentre i sospetti cadono anche sulla difesa. L' Onu ha appena condotto un' inchiesta su legali che avrebbero diviso gli onorari del Tribunale, dai 120 agli 80 dollari l' ora, con i clienti. Neanche il raggruppamento degli imputati è servito a v elocizzare i processi. Le tre Camere del Tribunale lavorano su più dossier contemporaneamente, ma saltuariamente. Alessandro Caldarone, un siciliano residente a Padova, capo della sezione che coordina gli avvocati e la sorveglianza delle prigioni, ad debita le lentezze a un eccesso di garantismo: «La preoccupazione di tutelare i diritti dei detenuti ha fatto dimenticare il diritto numero uno, quello a un processo equo e rapido». «Non siamo qui solamente per condannare - ripetono negli uffici di A rusha -. La Corte può anche emettere assoluzioni». Il caso portato come esempio, il proscioglimento di Ignace Bagilishema, un ex sindaco accusato di avere favorito il massacro di 45 mila hutu, non è il più felice. Una farsa kafkiana. Il Tribunale l' ha proclamato innocente a giugno, ma nessuno dei Paesi interpellati, Francia in testa, è disposto ad accoglierlo. Bagilishema resta ad Arusha, come sorvegliato speciale. Tutte le tappe del procedimento contro chi pianificò lo ster minio LA CORTE Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda è stato creato dal Consiglio di Sicurezza dell' Onu l' 8 novembre 1994, come struttura gemella del Tribunale dell' Aja per la ex Jugoslavia. Il mandato è quello di perseguire i responsab ili del genocidio e di altre violazioni della legge umanitaria durante il periodo che va dall' 1 gennaio al 31 dicembre 1994. La sede è ad Arusha, nel nord della Tanzania. LA STRATEGIA Il Tribunale ha scelto di occuparsi soprattutto dei pianificatori e organizzatori delle stragi, fuggiti all' estero, lasciando ai tribunali nazionali ruandesi competenza sui piccoli calibri. GLI ARRESTI Fino ad oggi ha arrestato 51 persone ed ha emesso 9 sentenze, di cui tre attualmente in appello. Tre imputati si sono dichiarati colpevoli. Sono stati ascoltati quasi 300 testimoni. LO STAFF Ha uno staff di 800 persone e un bilancio di 90 milioni di dollari l' anno. Dispone di 3 camere di prima istanza, per un totale di 9 giudici. Ha lo stesso procuratore dell ' Aja, Carla Del Ponte (foto in alto), e gli stessi magistrati di Corte d' appello L' ATTO DI ACCUSA «Il prete ospitato in Italia è colpevole» DAL NOSTRO INVIATO ARUSHA - Furono quattordici giorni di cospirazione: dal 6 al 20 aprile 1994, per stermin are 2 mila tutsi, rinchiusi dentro la parrocchia di Nyange, un villaggio nell' ovest del Ruanda. La chiesa venne circondata dagli Interahmwe, le milizie hutu. Poi arrivò un bulldozer a rimuovere i corpi e spianare l' edificio. L' atto d' accusa del T ribunale internazionale di Arusha conferma i sospetti contro padre Athanase Seromba, il parroco ruandese ospitato in Italia dalla diocesi di Firenze. Il prete, assieme al sindaco Grégoire Ndahimana, all' ispettore Fulgence Kayishema e ad altri due es ponenti del villaggio, è accusato di genocidio e crimine contro l' umanità: fu lui a consegnare le liste per rintracciare i tutsi fuggiti, lui a dare gli ordini ai miliziani. Il rifiuto dell' Italia ad arrestarlo e consegnarlo a Arusha si è trasforma to in un caso politico. Ad Arusha girano voci: padre Athanase Seromba potrebbe essere già fuggito in Camerun. C' è il Vaticano dietro il rifiuto dell' Italia? La Chiesa ha sempre accusato il Ruanda di manipolare le accuse attraverso «sindacati di del atori». M.G.C.




domenica , 29 aprile 2001
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Costa d' Avorio, i piccoli schiavi del cacao

Una piantagione è l' inferno di Sekou, 14 anni: «Mi hanno comprato per centomila lire"

Una rete di affaristi dietro al traffico di giovanissimi clandestini, arrivati dal Mali e dal Burkina Faso con false promesse di guadagno Costa d' Avorio, i piccoli schiavi del cacao Una piantagione è l' inferno di Sekou, 14 anni: «Mi hanno comprato per centomila lire» DAL NOSTRO INVIATO DALOA (Costa d' Avorio) - La pista di terra rossa si fa più stretta man mano che la jeep si addentra nella foresta, tra i tronchi nodosi dei baobab, i fusti altissimi degli eriodendri, gli intrighi delle liane. Dopo qualche chilometro, le ruote pestano solo l' erba alta, mentre il cielo si chiude in una volta di foglie. Gruppi di ragazzini scappano impauriti dal rombo del motore. E' il cuore più inaccessibile della Costa d' Avorio, la regione di Daloa, 400 chilometri da Abidjan, la terra delle piantagioni, dove approdano i giovani clandestini del Mali e del Burkina Faso, bambini e adolescenti, venduti come schiavi nei campi di cacao e di caffè. Le coltivazioni si estendono per due o tre ettari al massi mo. Sono appezzamenti minuscoli, a conduzione familiare, persi nella giungla e lontani da ogni centro abitato. Per arrivare all' accampamento, uno spiazzo polveroso delimitato da un paio casupole di fango dove razzolano galline e pulcini, bisogna mar ciare a piedi in mezzo al ronzio delle zanzare, nel caldo umido del pomeriggio tropicale. E' qui che dopo le sette di sera compaiono i primi tre ragazzini, reduci dalla giornata di lavoro. Hanno si e no 14 anni, magliette ridotte a brandelli addosso, sandali di plastica, bidoni sulla schiena. «Braccianti», dice il proprietario. Ma i loro monosillabi in dioula e gli sguardi stralunati rivelano un' altra storia. «Siamo qui da quasi un anno - racconta uno di loro, Sekou Coulibaly - ma non abbiamo a ncora visto un soldo. Il padrone dice che dobbiamo completare il periodo di contratto prima di essere pagati. Il lavoro però è talmente duro che vorremmo andarcene subito». Sono venuti dal Mali, seguendo lo stesso percorso a tappe obbligate che ogni anno porta nelle piantagioni migliaia di lavoratori a basso costo. I primi contatti con i «trasportatori», quelli che procurano il passaggio di frontiera su vecchi camion stipati di merce; poi l' arrivo a Tengrila, nel nord della Costa d' Avorio; lo spostamento a Daloa; infine la consegna nelle mani del mediatore. «Io - aggiunge Sekou - avevo chiesto di lavorare in città, come facchino al mercato. Per questo avevo lasciato il mio villaggio. Ma l' intermediario aveva già deciso per me che sarei f inito in una piantagione. Ha detto che gli ero costato troppo, che lui e il trasportatore dovevano rifarsi delle spese del viaggio». Il proprietario del campo ha versato al mediatore l' equivalente di oltre 100 mila lire per averlo, più il 30% del sa lario promesso al ragazzo. Come di prassi, gli ha fatto un contratto: 120 mila franchi cfa (la valuta dei Paesi africani francofoni) l' anno, 400 mila lire. Ma Sekou teme che si tratti di un imbroglio. E così pure l' amico, Koné, stessa età, stesso s guardo abbrutito dalla paura: «Temo che alla fine non ci diano un soldo. Qui ci trattano come schiavi, non come braccianti. Dobbiamo far tutto, ripulire i campi dall' erba, tagliare i cabos (i frutti del cacao, ndr), trasportare chili sulle spalle. Q uando arriva la sera vorremmo solo andarcene via. Ma scappare è impossibile, la piantagione è isolata, ci controllano a vista». Hanno un solo giorno libero la settimana, i giovani clandestini impiegati nelle piantagioni: il venerdì. Ma sono costretti a lavoretti supplementari per mettersi in tasca qualche spicciolo con cui comprare del sapone per lavarsi i panni. E' l' unico lusso che si concedono. «Il padrone ci ha sequestrato tutto quello che avevamo e anche questo per scoraggiare la fuga», di ce ancora Koiné. Il cibo scarseggia: «Un panetto di pasta di mais da far durare il più possibile», mentre galline a caprette servono a essere vendute al mercato. La notte si dorme nelle baracche, in tre sullo stesso materasso gettato per terra, infes tato da parassiti, tra mura di fango che trasudano umidità, sotto tetti di lamiera. Si tira avanti senza un documento in tasca, senza identità, qualche volta tra botte e insulti, spesso senza nessuna idea sul futuro. In una piantagione vicina, c' è g ià chi è al secondo anno di lavoro: Siakà Traorè, anche lui del Mali. «Alla fine del primo anno ho chiesto il mio salario, ma il padrone mi ha detto che non aveva soldi e dovevo lavorare ancora». Il ragazzo continua a sgobbare. «Ma giuro che se non m i paga scappo via». Sfruttamento o schiavismo? Il traffico di minorenni, denunciato dalle associazioni umanitarie dopo il caso dell' Etireno (la nave sospettata di portare a bordo bambini da vendere nei Paesi dell' Africa occidentale) è un commercio al limite, gestito da racket capillari e ben organizzati. La polizia di Sikasso, città frontaliera del Mali, calcola che dal Paese siano spariti oltre 15 mila minorenni, inghiottiti dalle piantagioni della Costa d' Avorio. L' Unicef di Abidjan, non s i sbilancia. «Non possiamo fornire alcun dato - dice Carol Jaenson, la responsabile - ma il fenomeno esiste ed è una forma di sfruttamento ripugnante». L' unica consolazione: i coltivatori sembrano preferiscono i ragazzi tra i 12 e i 16 anni, scartan do i più piccoli perchè inadatti a un lavoro pesante come quello delle piantagioni. I bambini che si vedono nei campi sarebbero tutti del posto, figli e nipoti dei proprietari terrieri. La Costa d' Avorio è il principale esportatore di cacao nel mond o: un milione e 200 mila tonnellate l' anno, comprate a 350 franchi cfa al chilo (meno di mille lire) dai produttori e rivendute a 800 sui mercati occidentali. La produzione del caffè, 214 mila tonnellate nel 1998, è diminuita negli ultimi due anni e d ha un prezzo ancora più basso. In entrambi i casi si tratta di un' economia arcaica, basata su lavorazioni manuali, distribuita in appezzamenti di terreno minuscoli, 2-3 a ettari a testa, che fruttano a ciascuno dei 650 mila proprietari terrieri de l Paese, in media non più di 800 mila lire l' anno. La Cassa di stabilizzazione, l' organismo che per lungo tempo aveva garantito la stabilità dei prezzi, oggi è un' istituzione che arranca dietro alla loro caduta e al libero mercato, mentre il Paese non riesce a tenere il passo delle riforme strutturali richieste dalle organizzazioni finanziarie. La crisi politica, che ha travolto la Costa d' Avorio negli ultimi due anni, a cominciare dal golpe del 1999 con cui il generale Robert Guei ha spodes tato il corrottissimo presidente Konan Bedié, fino all' ultimo contrastato trionfo elettorale del socialista Laurent Gbagbo (171 morti nelle rivolte di piazza, una cinquantina di corpi mutilati alla periferia di Abdjian), ha ulteriormente scoraggiato gli investitori. La sopravvivenza nelle piantagioni è diventata una guerra tra poveri. Gli «schiavisti» sono spesso miserabili contadini, capaci di reclutare non più di uno o due ragazzi per ogni campo. E di non pagarne preferibilmente nessuno. I gu adagni del resto devono essere distribuiti a vari livelli: dai locataires che si occupano del trasporto dei clandestini, agli intermediari che provvedono a piazzarli nei campi. Per chi arriva dal Mali, il primo punto di passaggio è Korhogo, nel nord della Costa d' Avorio. Il martedì e il sabato, giornate di mercato, cominciano le contrattatazioni. I ragazzini vengono messi a dormire nei magazzini, spesso in mezzo a merce tossica, colle, vernici, legnami, chiusi a chiave in attesa di essere trasp ortati altrove. Daloa, provincia agricola al centro della Costa d' Avorio, è la seconda tappa, la principale piazza di smistamento. L' ex padre della nazione, Felix Houphouët-Boigny, il megalomane presidente che ha lasciato al Paese una basilica più grande di San Pietro in mezzo alla savana, l' aveva pensata come una città moderna ed efficiente, mentre oggi è un ammasso di baracche, montagne di spazzatura ed edifici fatiscenti. Tra i mediatori più noti in zona, c' è Siaka Cissi, un vecchio vesti to con un caffettano verde, che vanta quattro mogli e venti figli, seduto sotto una catapecchia di legno, come un re sul trono, con una corte di bambini attorno. «Sono i locataires che si rivolgono a me, che insistono affinchè faccia da intermediario - dice con sguardo sospettoso e voce lamentosa - ma io non ci guadagno niente, mille franchi al massimo, le spese di vitto e alloggio». Fino a un paio di anni fa faceva anche lui il trasportatore. «Ma sono uno che segue i ragazzi fino alla fine. Un padre di famiglia. Quando terminano il contratto, mi preoccupo che vengano rimpatriati». Non tutti. I responsabili della comunità del Mali ricevono decine di lamentele ogni anno. In un piccolo ufficio infestato dalla mosche, dietro il mercato di Dalo a, Konte Checkna Hamalla, segretario della comunità elenca tutti coloro che negli ultimi mesi hanno lasciato le piantagioni senza essere pagati e senza un soldo per tornare a casa. Poi indica una sacca gialla e viola abbandonata su un divano. «Appart eneva a un bambino morto di malaria in una piantagione. Nessuno, nemmeno il suo padrone, sa come si chiamasse, né da dove venisse. Questa è l' unica traccia che resta di lui». La terra del cacao IL PAESE La Costa d' Avorio, ex col onia francese, è diventata indipendente il 7 agosto 1960. La capitale politica è Yamoussoukro, nel centro del Paese, quella economica Abidjan. Il Paese, da sempre terra d' immigrazione, conta oltre 15 milioni di abitanti, tra i quali 4 milioni di str anieri provenienti dal Burkina Faso, dal Mali, dalla Guinea, dal Ghana. Fortissima la base etnica: oltre 60 gruppi, divisi tra cattolici, musulmani, animisti L' ECONOMIA Il cacao resta la principale risorsa del Paese: un milione e 200 mila tonnellate esportate. Seguono il caffè, il mais, il cotone. Il reddito pro capite si aggira sui 700 dollari l' anno LA POLITICA Nel dicembre 1999, il colpo di Stato del generale Robert Guei ha messo fine alla presidenza di Henri Konan Bedié. Le elezioni di ott obre 2000, segnate da violenze di piazza e accuse di brogli, hanno portato al potere Laurent Gbagbo




domenica , 22 aprile 2001
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Benin, si riapre il giallo della nave. Nessuno reclama i bimbi a bordo

Il battello è risultato di proprietà di Jonathan Akpborie, stella del calcio nigeriano

Benin, si riapre il giallo della nave Nessuno reclama i bimbi a bordo DAL NOSTRO INVIATO COTONOU - C' è un calciatore dietro il giallo dell' Mv Etireno. Una stella del football nigeriano, che gioca come attaccante in Germania. Si chiama Jonathan Akpb orie, appassionato di nautica e di battelli. La nave che è al centro dell' inchiesta su un presunto traffico di bambini dal Benin ai Paesi della costa occidentale dell' Africa è sua. L' ha comprata nel 1998 in Danimarca, assieme a una seconda imbarca zione, la Xmas Day, entrambe registrate a Lagos. Quando il suo nome è venuto fuori, dopo giorni di indagini sui passeggeri approdati nel porto di Cotonou, Akpborie ha dichiarato di essere pronto a partire per il Benin e collaborare con le autorità. A nche se l' Mv Etireno non trasportava 200-250 ragazzini come si temeva, c' è ancora il dubbio che gran parte dei bambini trovati a bordo, 30 per l' esattezza, fossero destinati a essere venduti nelle piantagioni di cacao e di caffè. L' attaccante nig eriano si dice all' oscuro di tutto. «Non ho niente a che vedere con la compravendita di bambini». A bordo della nave, tuttora ancorata a Cotonou, c' è un altro nigeriano, il vicecomandante Morrison Landlord. L' uomo conferma che l' Mv Etireno appart iene al calciatore. E non aggiunge altro. Sdraiato su una poltrona, la divisa color cachi addosso, guarda il mare e i panni stesi ad asciugare sul ponte del battello. «È vero, la polizia ha arrestato sette membri dell' equipaggio, ma sono già stati r ilasciati. Siamo obbligati a rimanere qui finché l' inchiesta non sarà completata». Al momento c' è solo lui a bordo, con un aiutante, mentre il comandante, Lawrence Onome, l' anima nera del presunto traffico, è fuori. «Dicono che trasportavamo bambi ni senza genitori? - ride il vice - Dovete sapere una cosa: in Africa il concetto di famiglia è diverso da quello che si ha in Europa. Un bambino può chiamare papà lo zio, così come chiunque può chiamare fratello qualcuno che gli è particolarmente vi cino». Spiegazione ambigua. Per gli investigatori la realtà è diversa: 23 bambini sotto i 15 anni, attualmente dati in custodia all' organizzazione Terres des hommes, non sono stati ancora reclamati né dai genitori né da altri parenti. E così altri s ette, tra i 15 e i 18 anni, ospitati presso una seconda associazione umanitaria, Sos Village. Chi li ha portati a bordo? Il vicecomandante glissa: «Trasportavamo solo bambini accompagnati». L' equipaggio è sospettato anche di aver trasbordato altrove parte dei suoi passeggeri o addirittura di aver gettato a mare i minorenni. «Duecentocinquanta bambini? Credete davvero che chi era a bordo non se ne sarebbe accorto o non avrebbe protestato?». L' Unicef promette che domani, o al massimo martedì, il mistero sarà risolto.




martedi , 17 aprile 2001
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Benin, in porto la nave dei misteri

«I bambini schiavi sono su un altro traghetto». Governo diviso dopo l' allarme internazionale. «E' venuto uno "zio" e ci ha portati via»

Benin, in porto la nave dei misteri «I bambini schiavi sono su un altro traghetto». Governo diviso dopo l' allarme internazionale DAL NOSTRO INVIATO COTONOU - Una giornata di silenzio. Il battello sembrava sparito. Poi l' avvistamento nelle acque del la Guinea Equatoriale e, alle otto di sera, il contatto radio. La presunta «nave degli schiavi» che da due settimane vaga lungo le coste dell' Africa occidentale, con il sospetto di portare a bordo bambini destinati a essere venduti nelle piantagioni della Costa d' Avorio, del Gabon, della Nigeria, manda il primo segnale al porto di Cotonou, in Benin. «Arriverà nella notte» avvertono dalla capitaneria. Sulla banchina, i volontari della Croce Rossa aspettano, accampati sotto un' acacia, con un' a mbulanza carica di vitamine, ricostituenti, aspirine, tutto il necessario per i soccorsi ai passeggeri sfiniti dal lungo viaggio. «Noi siamo pronti - dice compunto Sauza Godfroy, il loro coordinatore - siamo qui da cinque giorni». All' una della nott e la nave si vede già, sta per attraccare. «Ci sono bambini a bordo - dice la polizia portuale -. Ma non sappiamo dire quanti. Vediamo anche molti adulti». Bisogna aspettare ancora per scoprire chi si nasconde effettivamente a bordo dell' Mv Etireno e in che condizioni. «Nessun bambino» afferma qualche minuto dopo un portavoce del ministero degli Affari sociali, la signora Ramatou Baba Moussa. La nave degli schiavi è un battello come un altro? O quella che è arrivata al porto è una seconda imbar cazione, confusa in questi lunghi giorni d' attesa, con una nave negriera? Il ministro l' afferma, il suo portavoce smentisce. Il porto di Cotonou nella notte sembra il palcoscenico di una commedia dell' assurdo. Duecento, duecentocinquanta bambini, era stato detto. Ester Guluma, la rappresentante dell' Unicef, ha fatto i conti per tutto il giorno: «Ognuno ci ha dato una cifra diversa. Chi ha parlato di 28 bambini, chi di 60, chi appunto di 250». Adesso i numeri sembrano una farsa. Anche lo spet tro della nave pirata evapora nell' assurdo. L' Unicef aveva parlato di bambini a bordo malati, a rischio di morire disidratati. Aveva temuto che i trafficanti non andassero per il sottile. Quando i viaggi in mare incontrano qualche intoppo, l' equip aggio non esita a buttare in acqua la propria «mercanzia». Che cosa c' è di vero in tutta questa storia? Da chi è partito l' allarme? Chi l' ha esagerato? Il governo del Benin si era rivolto all' Interpol e per gli uomini dell' equipaggio c' era già un mandato d' arresto internazionale. Tra i ricercati il comandante della nave, un nigeriano, e Stanislas Abatan, 41 anni, agente commerciale del Benin, con residenze in Gabon e in Nigeria. È lui sospettato di aver affittato l' imbarcazione a metà ma rzo da una società di Lagos, per portare a bordo i ragazzini da vendere all' estero. Sembrava strano che un battello con un simile carico potesse essere partito dal porto di Cotonou il 31 dello stesso mese, senza che nessuno se ne fosse accorto. Le a utorità del Gabon e del Camerun, che nei giorni scorsi avevano rifiutato l' approdo, avevano smentito la presenza di schiavi a bordo, limitandosi ad accennare a clandestini, o meglio gente senza documenti in regola. Ma l' allarme è continuato a cresc ere. Il Benin, ex colonia francese, tra il XVII e il XVIII secolo, coincideva più o meno con il regno del Dahomey, i cui sovrani guadagnarono fama per l' abilità dimostrata nel commerciare «legno d' ebano», l' eufemismo usato per indicare gli schiavi . Nel 1960, il Dahomey finalmente indipendente ha cambiato nome. Ma nel ribattezzato Benin migliaia di bambini l' anno sono stati ceduti dalle famiglie a un rete di intermediari che li vende all' estero. Le risorse del Paese sono scarse, coltivazioni di cotone al nord e noci di cocco coprono il 70% delle esportazioni. Industrie inesistenti, il debito estero ammonta a 1,5 miliardi di dollari. Se la vita nei villaggi è senza futuro, anche Cotonou, la città principale - sede del governo, a un centi naio di chilometri da Porto Novo, la capitale - è un agglomerato di baracche, pochi palazzi e fatiscenti reliquie dell' epoca coloniale, tagliata in due da una laguna, intasata da 30 mila zemidjan, le motorette che fanno da taxi. Nel 1995, in occasio ne del Vertice della Francofonia, la città sembrava rinata: i principali edifici ristrutturati, come la Prefettura o le Poste centrali, il personale in divisa, vialoni fioriti e fiorire di statue affette da gigantismo. Ma con gli anni la miseria si è riaffacciata. Piccoli traffici, contrabbando, schiavismo. Vendere e comprare bambini è una risorsa come un' altra. Agli intermediari che pattugliano i villaggi, costano dalle 30 alle 50 mila lire a testa. Ai loro acquirenti, i proprietari delle pian tagioni di cacao, caffè, canna da zucchero, dalle 700 alle 900 mila lire. «Benessere e stabilità», recitano sui muri di Cotonou i manifesti elettorali del presidente Mathieu Kérékou, il grande «Camaleonte» (per sua stessa definizione) che si appresta a completare il terzo decennio passato al potere. Rieletto al ballottaggio all' inizio del mese con l' 83,6% dei voti, questo generale in pensione si domanda perché gli afro-americani non vengano a investire in Benin. Dopo 18 anni di rivoluzione mar xista-leninista, nel 1991 ha accettato il multipartitismo e la sconfitta a vantaggio del suo avversario Nicéphore Soglo. Nel 1996 è riapparso in testa alle urne e altrettanto quest' anno. Dopo essere stato cattolico, ateo, musulmano (in occasione di una visita a Gheddafi), oggi Kérékou si presenta come l' evangelizzatore di un Paese infestato dal vudù. Contro gli stregoni che rapiscono i bambini, le sue armi però sono spuntate. Il Benin aveva chiesto ieri aiuto all' Onu, agli Stati Uniti, alla F rancia. Il segretario di Stato Usa Colin Powell ha assicurato che l' America farà del suo meglio per aiutare il Paese a fermare il traffico di bambini, ma forse per oggi non ce n' è bisogno. IL RACCONTO «E' venuto uno "zio" e ci h a portati via» DAL NOSTRO INVIATO COTONOU (Benin) - Ripescarli, una volta finiti nelle piantagioni, è impossibile. Fermarli in mare sulle navi negriere che solcano il Golfo di Guinea, altrettanto difficile. L' unico tentativo che la polizia riesce a fare è bloccarli in tempo, prima che passino la frontiera e scompaiano per sempre nell' entroterra dell' Africa Occidentale. Albert Azizo e i suoi fratelli sono stati salvati così dal racket che ogni anno esporta dal Benin migliaia di bambini destina ti al mercato degli schiavi di Paesi come la Costa d' Avorio, il Gabon, la Nigeria. Sono stati trovati al confine con il Togo, stipati assieme ad altri ragazzini su una Peugeot bianca a nove posti. «Io non volevo partire - racconta Albert, 15 anni -. Ma mio padre ha deciso che dovevo andare». Il ragazzino viene da Dokia, un villaggio dell' est del Benin, poche case di fango, strade di terra battuta, qualche campo da coltivare. Ha undici fratelli, due dei quali, Kwassi e Kodjo, costretti a partir e con lui. «Io sono abituato a lavorare, non era questo che mi preoccupava», dice giocando con una maglietta buttata sulle spalle nude. «Ma non avevo voglia di abbandonare la mia famiglia. Ne ho visti tanti partire dal villaggio senza più ritornare». Albert si trova adesso in un orfanatrofio di Cotonou, un edificio spoglio, a due piani, che si affaccia su uno stradone affollato. L' ha preso in affido un prete francese, Claude Temple, responsabile per conto dell' arcivescovado dell' accoglienza e del riscatto dei piccoli schiavi. Ha dietro i fratelli e altri due compagni di viaggio, Komna, 7 anni, e Paul, 4 anni appena, che gli si stringe al petto singhiozzando. La sua odissea è cominciata due mesi fa con l' arrivo nel villaggio di un sedice nte parente. «Bienvenu - si chiamava -. La mamma diceva che era un nostro cugino, figlio di una zia che vive in Togo. Ma io non l' avevo mai visto prima». L' uomo era ben vestito, sembrava ricco. «Ha detto che ci avrebbe portato a lavorare nella sua piantagione di cotone. So che alla fine ha dato ai miei genitori 10 mila franchi a testa per prenderci con sé». Diecimila franchi sono quasi 30 mila lire, che moltiplicato per tre fa 90 mila. È tutto quello che padre e madre hanno guadagnato dalla ve ndita dei bambini. Il viaggio è cominciato a bordo di una prima macchina. «Ma non appena siamo usciti dalla prefettura, c' era la Peugeot con altra gente dentro che ci aspettava». Bienvenu ha guidato fino alla frontiera. «Sono i miei nipoti», ha dett o alle guardie. Non ci hanno creduto: «Non è vero, sono bambini che hai rapito». Albert e gli altri ragazzini sono stati consegnati alla polizia e messi in cella per tre giorni. Poi a Cotonou, dove la Brigata per la protezione dei minori li ha dati i n affido a padre Claude. Adesso il ragazzino si guarda attorno spaesato. «Voglio tornare a casa», dice. «Qui non ho niente da fare». Uno dei volontari del centro scuote la testa. «Lo riporteremo in famiglia, certamente. Ma purtroppo sappiamo che non sarà la fine delle sue peripezie. I genitori proveranno a rivenderlo alla prima occasione». Dall' arcivescovado di Cotonou ne passano a centinaia. L' anno nero è stato il 1998: «Ne abbiamo visti arrivare 80 in una sola giornata», racconta padre Claud e, un sacerdote dalla chioma scompigliata, pantaloni e camicia a fiori in stile africano. I registri ne riportano quasi 200 nel primo trimestre del 2000. E sono solamente quelli che la polizia riesce a intercettare. «La tratta ha due terminali - aggi unge il padre -. Per i maschietti le piantagioni di cacao, di caffè, di canna da zucchero o di cotone. Per la bambine le famiglie benestanti. Non è raro vedere funzionari locali andare nei villaggi in cerca di piccole cameriere». È la tradizione, dic ono in Benin. Ma il confine tra l' usanza dell' affido, il vidomegon, e lo schiavismo è estremamente labile. Dieci-dodici ore di lavoro al giorno, maltrattamenti, abusi. Il sacerdote ha visto corpi piagati, visi sfregiati dalle unghiate, cicatrici da lama o da frusta. «La povertà non è la sola causa di questa nuova forma di schiavismo. C' è anche la disgregazione della famiglia tradizionale. È su quello che bisogna lavorare». «Ma è una logica difficile da cambiare. Le famiglie continuano a crede re che mandare via i propri figli sia l' unico modo per assicurare loro un po' di fortuna». È la lotteria nazionale, dice il sacerdote. «Peccato che nessuno l' abbia mai vinta». M.G.C. Trenta dollari per comprare una vita umana IL PAESE Il Benin, ex colonia francese, ha circa sei milioni di abitanti TRADIZIONE Il «videomegon» è la tradizione locale per la quale si affidano i propri figli a parenti più ricchi che vivono lontano perché li facciano studiare. In realtà ciò alimenta il commercio dei bimbi-schiavi LA NAVE Una nave con centinaia di bambini a bordo, affamati e stipati come animali, da giorni viaggia alla ricerca di un approdo nel golfo di Guinea. Cerca approdo a Cotonou, in Benin, dopo che già in due porti, in Gabon e in Camerun, l e autorità locali hanno impedito all' imbarcazione di approdare una volta scoperta la verità sul «carico» IL COMMERCIO I bimbi schiavi vengono usati in piantagioni del cacao o del cotone o come servitori di famiglie benestanti e senza scrupoli in Pae si come Benin, Burkina Faso, Costa d' Avorio, Gabon, Nigeria, Togo IL PREZZO Acquistare uno schiavo bambino costa all' incirca 30 dollari, 60 mila lire




mercoledi, 18 aprile 2001
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Africa, inchiesta sul mistero dei bimbi schiavi

Gli uomini della nave in Benin: «Cercavamo lavoro». Fermati il capitano e il suo equipaggio

Il battello approdato a Cotonou trasportava adulti e ragazzi accompagnati dai genitori. Si indaga sull' origine dell' allarme Africa, inchiesta sul mistero dei bimbi schiavi Gli uomini della nave in Benin: «Cercavamo lavoro». Fermati il capitano e il suo equipaggio DAL NOSTRO INVIATO COTONOU - La nave è ancora lì, ormeggiata al molo di Cotonou. Non è un rottame come ci si aspettava, solo un traghetto di una sessantina di metri cosparso di fango e rifiuti, dopo il lungo viaggio che l' ha portato dal Gabon al Camerun, fino alla costa del Benin. I misteri che hanno accompagnato la sua navigazione per il Golfo di Guinea, trasformandola in un battello fantasma popolato da trafficanti e piccoli schiavi, non si sono ancora dissipati. Ma tutti hann o potuto vedere, quando è approdata all' una della notte fra lunedì e martedì, che a bordo non c' erano solo bambini (200-250 era stato detto), vittime presunte di un racket negriero: c' erano donne sfinite con i bebè sulla schiena, ragazzini sfianca ti dal mal di mare, uomini stanchi e nervosi, adolescenti arrabbiati. Passeggeri pronti a raccontare una versione diversa da quella che per giorni aveva allarmato autorità e organizzazioni umanitarie (il giudice spagnolo Baltasar Garzón ha chiesto al l' Interpol un rapporto sul caso, dopo l' esposto di un' associazione spagnola). «Volete sapere la verità? Siamo persone normali - protesta Mahmadou Fal, 25 anni - trattate come animali dalla polizia del Gabon. La maggior parte di noi è partita dal B enin con documenti in regola, ma quando siamo arrivati al porto di Libreville siamo stati caricati sulle scialuppe, portati a riva tra le raffiche dei kalashnikov, sbattuti in prigione per cinque giorni. Hanno strappato i nostri passaporti, ci hanno rubato i soldi, per poi ricaricarci a bordo in direzione del Camerun». Nessun bambino abbandonato a se stesso, giurano sulla nave. Tutti accompagnati dalla madre o dal padre, per un viaggio dell' azzardo che li avrebbe dovuti portare dal Benin al Gab on in cerca di lavoro. Chi ha detto che a bordo c' erano 250 schiavi destinati alle piantagioni dell' Africa occidentale? Adesso se lo chiedono tutti, a cominciare dal ministro degli Affari sociali, Ratamou Baba Moussa, l' appariscente signora con ca ppello di paglia e occhiali da sole, che per giorni ha propagato l' allarme, seguita dai funzionari dell' Unicef: «Non ho idea da dove sia arrivata questa notizia». Anche il commissario del porto di Cotonou protesta: «Perché i giornali si sono invent ati questa storia? Siamo noi ad avere i documenti d' imbarco». Li tira fuori, finalmente: la nave, un' imbarcazione nigeriana registrata con il nome di Mv Etireno è partita il 27 marzo da Cotonou con 139 passeggeri, tra i quali una ventina di bambini accompagnati dai genitori. Il 1° aprile è arrivata in Gabon, per ripartire 5 giorni dopo. Il 12 salpava da Douala, in Camerun, per arrivare l' altro ieri notte a Cotonou. Il numero dei passeggeri, ammettono al commissariato, è cresciuto durante il v iaggio: ne sono stati trovati 145, tra cui 28 bambini sotto i 15 anni. Clandestini? «Tutti a bordo avevano il passaporto in regola». Perché allora sono qui senza documenti? «La polizia del Gabon li ha strappati». Alla periferia di Cotonou si aprono g li uffici dell' associazione umanitaria Terres des hommes. E' uno svizzero, Alfonso Gonzalez, ad aver preso in custodia i bambini trovati sulla nave. Il suo centro ne accoglie 23, tra i quali 15 del Benin, 6 del Togo, 2 del Mali. I più piccoli sono s tati lasciati con le mamme. «Non abbiamo ancora certezze - dice - ma l' impressione è che alcuni di loro siano stati imbarcati da soli, senza genitori». Si riaffaccia l' ipotesi del traffico? «Ci sono stati racconti contraddittori, ma dobbiamo verifi carli». Non sarebbe la prima volta. Il responsabile di Terres des hommes quest' anno ha ospitato 14 bambini bloccati alla frontiera in compagnia di sospetti intermediari. Il problema resta ed è forse la vera ragione ad avere gonfiato i timori. «Qualc uno ipotizza che la tratta degli schiavi tocchi 200 mila minorenni in tutta la regione. Ma è molto più serio puntare l' attenzione sul lavoro infantile: in Benin sono coinvolti 500 mila bambini su 6 milioni di abitanti». Restano i ragazzi più adulti: sulla nave ce n' erano 17, da 15 anni in su. Per incontrarli bisogna uscire dalla città e andare fino al Village des enfants dell' organizzazione Sos. Mathias Chadare, il responsabile, sembra essere certo di quel che dice: «Come si può parlare di sc hiavi? Sono ragazzi cresciuti, che avevano deciso autonomamente di lavorare nelle piantagioni del Gabon». Secondo lui, sono clandestini. I ragazzi se ne stanno seduti sulle scale ad ascoltare la radio. «E' vero, siamo partiti senza permesso di soggio rno - ammette Abdurahmane Diallo, 24 anni - e per questo abbiamo pagato più del previsto: 200-250 mila franchi a testa». Quasi 400 mila lire. Sul molo di Cotonou, gli adulti continuano a chiedersi quando rivedranno i loro figli. Sulla nave è rimasto invece il capitano, Lawrence Onome, un nigeriano di 40 anni, che avrebbe precedenti penali nel traffico dei bambini. Consegnato con l' equipaggio sotto la sorveglianza della polizia. Contro di lui l' Interpol avrebbe emesso un mandato di cattura. Tra secola: «Non ho commesso alcuna infrazione. Come fanno a dimostrare che sono coinvolto in un commercio di schiavi? Una cosa è dirlo, un' altra provarlo». Ma i sospetti continuano. Washington chiede un' inchiesta completa sul caso della nave Etireno e sul traffico internazionale di bambini. L' Unicef insiste: «Abbiamo allertato tutti i porti dell' Africa occidentale», dice Adam Zakari. Qualunque sia la verità, la tratta degli schiavi è uscita dall' ombra. Infanzia sfruttata NE L MONDO Secondo i calcoli dell' Unicef e dell' Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro), nel mondo i bambini-lavoratori sono almeno 250 milioni, di cui 44 milioni soltanto in India. Nel Bangladesh i bambini impiegati nell' industria tessile per l' esportazione e per l' artigianato sono circa un quarto di tutta la popolazione infantile. Nel Nepal il 60 per cento dei bambini è occupato in lavori che non permettono il loro normale sviluppo fisico e psichico. In Thailandia il 32 per cento di t utta la forza lavorativa sono bambini utilizzati nella produzione di articoli e oggetti per l' esportazione. Nelle Filippine sono due milioni e 200 mila i bambini lavoratori, esclusi quelli impiegati nel lavoro nero, che sfuggono alle statistiche. In Brasile stime abbastanza prudenti calcolano il numero dei baby-lavoratori in 7 milioni IN AFRICA Almeno 200 mila bambini ogni anno in Africa occidentale sono oggetto di traffici illeciti, di cui 100 mila solo nel Benin. Altri Stati interessati sono Togo e Ghana. Una volta sottratti alle famiglie questi bambini vengono trasferiti in Nigeria, Gabon, Costa d' Avorio, Paesi relativamente più ricchi dove vengono utilizzati in gran parte come lavoratori domestici a basso costo o lavoratori nelle pian tagioni. In Nigeria lavorano complessivamente 12 milioni tra bambini e ragazzi




venerdi , 20 aprile 2001
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Arrestato il capitano della nave dei misteri


Inchiesta sull' imbarcazione approdata in Benin. Forse alcuni dei piccoli «schiavi» trasbordati su un altro battello Arrestato il capitano della nave dei misteri DAL NOSTRO INVIATO COTONOU - L' «Mv Etireno» non trasportava a bordo 200-250 ragazzini, come si era temuto, «ma l' ipotesi di traffico di minori non è ancora stata scartata». Alfonso Gonzales, responsabile di Terres des Hommes a Cotonou, in Benin, continua a ospitare presso la sede della sua organizzazione i bambini ritrovati la notte d el 16 aprile sul battello. Li ha interrogati uno per uno. Ha raccolto le loro testimonianze sul lungo viaggio che li ha portati dal Benin fino al Gabon, il Camerun e poi di nuovo in Benin, ma per il momento può limitarsi solo a ripetere le cifre: «Su lla nave c' erano 23 bambini dai 5 ai 15 anni e 17 adolescenti». I misteri sull' inchiesta restano tutti. Ieri è stato arrestato Lawrence Oname, il nigeriano al comando della nave, sospettato in passato di essere coinvolto in compravendite di bambini . La misura è scattata dopo che mercoledì scorso il comandante contravvenendo agli ordini delle autorità, aveva abbandonato il battello. I dubbi si accavallano. Quanti passeggeri trasportava veramente l' «Mv Etireno»? C' è stato un trasbordo di bambi ni su una seconda nave? O il battello è stato scambiato con un' altra imbarcazione? Scenari confusi. Ieri finalmente è arrivata una dichiarazione dal Gabon, il Paese che ha respinto il battello facendo scattare l' allarme: «Non abbiamo rimandato indi etro alcuna nave con 250 bambini a bordo», ha comunicato il ministero dell' Interno. Contemporaneamente è stata pubblicata però da Les Echos, quotidiano del Benin, una lista di passeggeri fantasma. Cento persone in più ritrovate sull' «Mv Etireno» la notte dell' approdo, che non risultavano registrate al momento dell' imbarco. La saga continua. «La prossima settimana - promette il responsabile di Terres des Hommes - potremo rivelare qualcosa di più». M.G.C. IL TRAFFICO DEI DISPERATI «Mia figlia, in vendita per 15 mila lire al mese» DAL NOSTRO INVIATO ZE (Benin) - Bisogna guidare per un paio di ore nella boscaglia, sulle piste di terra rossa che spaccano in due il verde brillante degli alberi di tek, attraverso palmeti, bananeti, vegetazioni selvagge. Bisogna spostarsi da un villaggio all' altro, piccoli gruppi di capanne con le pareti di terra battuta e i tetti di paglia, per capire dove nasce questo misero baratto che in Benin - l' ex Dahomey, terra di scorribande coloniali e antichi approvvigionamenti negrieri - fa rivivere la psicosi della tratta degli schiavi. L' Unicef indica la sottoprefettura di Ze, nel sud del Paese, come una delle aree a rischio per la compravendita di bambini, un mercato di anime condannate allo sradicam ento, un vivaio per sfruttatori ignoti pronti a sparire con i loro carichi umani. Ma quando si arriva sullo slargo principale, un quadrilatero di bancarelle semivuote, è già chiaro che si è dentro a un mondo governato dai soli imperativi della soprav vivenza. Anche i bambini usciti da scuola, con camiciole kaki come divise, portano carichi in testa, pronti per andare a lavorare nei campi. Non è una terra che si possa definire senza legge. Nella sottoprefettura operano da anni «comitati di lotta» contro il traffico dei minori. Vi si impegnano le autorità locali, i poliziotti, i volontari dei villaggi, supportati dall' Unicef e da altre organizzazioni umanitarie. «Battiamo il terreno casa per casa - sostiene il sindaco Gaston Buton - e registr iamo il numero degli abitanti di ogni villaggio, i membri di ogni famiglia. Prendiamo il nome di tutti coloro che sono all' estero, cerchiamo di rintracciare quelli che sono sospettati di commerciare bambini». Ma c' è sempre qualcuno che nella boscag lia sfugge alle maglie del controllo sociale. Josephine, per esempio: 8 anni, occhi bassi, pantaloncini di raso. Sta seduta accanto alla giovanissima mamma. «E' successo - dice la donna - dopo le feste di Natale. Sono arrivati due tizi dalla città di Bomu a chiedermi se volevo consegnare loro mia figlia. Mi avevano promesso che Josephine dalla Nigeria sarebbe stata in grado di mandarmi soldi ogni mese». Josephine è partita a piedi, con una sporta di plastica in mano. Poi è stata caricata su una macchina e da lì accompagnata presso una famiglia di Lagos. Ma nella città nigeriana, ha trovato solo un sacco di juta come giaciglio, insulti, bastonate, giornate di lavoro e fatica. Ha resistito due mesi, dopo è scappata. Quando rischiava di perder si per le strade di Lagos, è stata notata da un compatriota, un uomo del Benin che l' ha soccorsa e l' ha riportata in patria sulla sua moto. La figlia di Serge Locus, invece, si è persa per sempre. E' partita otto anni fa, consegnata nelle mani di u n altro trafficante di Bomu, e non si è più rivista. Altri dieci bambini sono spariti lo stesso anno alla stessa maniera. Comprati per una manciata di franchi in un paio di villaggi vicini. Altri ancora sono stati più fortunati. Mandati dalle proprie famiglie a Cotonou, il porto del Benin, continuano a lavorare come servi o facchini, ma riescono a spedire a casa almeno 4 mila franchi al mese. Quasi 15 mila lire.




domenica , 15 aprile 2001
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Il Benin aspetta la nave degli schiavi

Il battello trasporterebbe bambini da vendere sul mercato del lavoro

Le autorità africane temono reazioni dall' equipaggio. L' Osservatore Romano: «L' Occidente intervenga» Il Benin aspetta la nave degli schiavi Il battello trasporterebbe bambini da vendere sul mercato del lavoro A guardare il mare, dalle banchine del porto di Cotonou, poco è cambiato. La caotica città del Benin sorge sulla Costa degli Schiavi, lo stesso tratto di terra dal quale portoghesi, inglesi, francesi e olandesi tra il XV il XIX secolo trasferirono in America quasi 10 milioni di africani in catene. Anche oggi si aspetta all' orizzonte la sagoma di una nave negriera, il battello perduto nelle acque del Golfo di Guinea, con decine, forse centinaia di bambini a bordo. Le autorità non sono sicure che il carico sia proprio questo, ragazzi ni destinati ai lavori forzati nelle piantagioni di caffè, cacao, canna da zucchero dell' Africa occidentale. O non si tratti piuttosto di semplici clandestini, «dos mouillés», schiene sudate, come li chiamano sulla costa. Ma devono comunque preparar si al peggio. La nave potrebbe arrivare in giornata. I funzionari dell' Unicef lavorano per predisporre sei centri d' accoglienza, mentre la capitaneria di porto schiera i suoi agenti contro gli eventuali trafficanti. «Agiremo contro l' equipaggio e contro i genitori che hanno venduto i loro bambini», dichiara il ministro dell' Informazione Gaston Zossu. Ma quella nave potrebbe non approdare mai. Gli uomini del racket potrebbero cambiare rotta, potrebbero infierire sui passeggeri, potrebbero chi ssà... Il mistero che accompagna la nave si arricchisce di dettagli. Si è scoperto il nome dell' imbarcazione, «Mv Etireno». Si è saputo che appartiene a una compagnia nigeriana, la Tennyson Shipping Ldt, che può ospitare 200 persone e che è stata no leggiata da un uomo d' affari del Benin a metà marzo. Secondo i documenti è salpata da Cotonou il 30, diretta a Libreville, in Gabon, dove è stata respinta, per poi essere rimandata indietro anche a Douala, in Camerun. Al momento di salpare c' erano 139 persone a bordo, tra cui 7 bambini. Ma «non è esclusa la possibilità - dicono al commissariato - che abbia imbarcato clandestini». Adulti o minori? Il giallo resta e per le autorità del Benin si trasforma in un incubo. Quel che tutti sapevano, ma preferivano considerare un affare interno, la tratta dei piccoli schiavi dai villaggi più poveri verso i Paesi limitrofi, è diventato all' improvviso uno scandalo di interesse internazionale. Il piccolo Paese africano, 380 dollari di reddito pro-cap ite, assieme al Togo, al Mali, al Burkina Faso, rivela il suo buco nero: una tratta che dal 1995 al 2000 avrebbe coinvolto almeno 3 mila bambini dai 6 ai 15 anni di età. Un «traffico esponenziale», secondo Marc Beziat, delegato del Comitato contro la schiavitù moderna, che si dirige verso la Costa d' Avorio, il Gabon, la Nigeria. E anche se la legge, varata in Benin nel 1961, prevede dai 2 i 5 anni di prigione per chi porta minorenni fuori dal Paese senza autorizzazione e pena di morte per chi l i rapisce, «la polizia laggiù va in giro con macchinette come le Renault 4 e un litro di benzina al mese». Il traffico - si parla di 15 mila schiavi in tutta la regione - viene gestito nei villaggi, dove i ragazzini vengono censiti da conoscenti che contrattano con le famiglie il loro affidamento. E' una vecchia tradizione mandare i figli dai parenti ricchi a studiare. Ma qui si finisce su camionette, lance o barche verso i lavori forzati. I bambini nei campi, le bambine come domestiche o schiav e sessuali. «Chi tenta di scappare viene ferito a rasoiate sulle piante dei piedi», riporta un documento Unicef. Laurent Gbago, il presidente della Costa d' Avorio, ieri si è sentito in dovere di annunciare la presentazione in Parlamento di una legge contro il lavoro minorile. Ma c' è chi punta il dito più lontano: «L' apetto più sconvolgente - scrive L' Osservatore Romano - è che la comunità internazionale non sia ancora intervenuta, se necessario con la forza, per imporre il rispetto dei tratt ati sui diritti umani». MISERIA E SCHIAVITU' IL PAESE Il Benin, ex colonia francese, conta circa 6 milioni di abitanti. Il reddito pro-capite è di 380 dollari LA TRADIZIONE Si chiama «vidomegon»: è l' uso di affidare i figli a par enti e conoscenti più ricchi, che vivono in città oppure all' estero, affinché provvedano ai loro studi. Una tradizione che alimenta forme di schiavismo LE ROTTE Circa 15 mila bambini provenienti, oltre che dal Benin, dal Mali, Togo, Burkina Faso, sa rebbero stati venduti in Costa d' Avorio, Ghana, Nigeria per lavorare nelle piantagioni o presso famiglie benestanti




sabato , 14 aprile 2001
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Il mistero della nave dei bimbi-schiavi

Intercettata lungo le coste del Benin un' imbarcazione con 200 ragazzini a bordo

Le autorità temono un traffico verso le piantagioni di caffè e cacao dell' Africa occidentale Il mistero della nave dei bimbi-schiavi Intercettata lungo le coste del Benin un' imbarcazione con 200 ragazzini a bordo Un battello carico di bambini vaga lungo le coste dell' Africa occidentale. Una nave negriera, intercettata dalle guardie costiere, respinta nei porti del Gabon e in quelli del Camerun, cerca un approdo nello stesso punto dal quale tre settimane fa è probabilmente partita: il Togo o i l Benin. Le autorità la spiano da lontano. Quei passeggeri a bordo, 200-250 ragazzini, maschi e femmine, hanno tutto l' aspetto di merce da esportare, schiavi delle piantagioni, servi per le case dei ricchi, concubine per i signori di città. A Cotono u, capitale del Benin, si preparano a riprenderli indietro, affamati, stremati, impauriti dopo duemila chilometri di mare. A salvarli, se possibile, da un destino senza ritorno: «Li ospiteremo nei centri di accoglienza - dice Estelle Guluman, portavo ce dell' Unicef - in attesa di stabilire la loro identità». «Li riporteremo in famiglia», assicurano altri funzionari dell' Onu. Ma la polizia del Gabon smentisce: «Macché bambini, è solo un traffico di clandestini. Non sono 200, molti di meno». E la nave? Per le autorità del Benin si chiama Etireno, per quelle del Gabon Itinero. Dettagli. Più importante stabilire dove attraccherà: con la sua stazza ci vorranno 72 ore almeno, si diceva ieri, prima che arrivi in rada. E chissà, poi, se accetterà davvero di gettare l' ancora a Cotonou e cedere «il carico» alle autorità. La nave dei fantasmi, se davvero ci sono bambini a bordo, non prevede biglietto di ritorno. Il commercio degli schiavi nasce negli stessi porti dai quali salpavano quattro sec oli fa le prime navi negriere con i loro carichi umani. Ma adesso non c' è l' Oceano aperto da superare. Il viaggio, altrettanto estenuante di quello fatto in catene, nelle stive soffocanti e maleodoranti degli antichi vascelli, segue rotte che coste ggiano il continente. I trafficanti raccolgono bambini nei Paesi più poveri della West Africa, il Mali, il Benin, il Togo per rivenderli in quelli a più alto reddito pro capite, la Costa d' Avorio, la Nigeria, il Gabon, dove saranno messi a lavorare 12-15 ore al giorno, spesso sottoposti a maltrattamenti e abusi sessuali. Possono essere destinati alle piantagioni di cacao e caffè, o semplicemente a famiglie in cerca di lavapiatti e facchini. Qualcuno viene trasportato via terra: una trentina alm eno attraverso il confine ogni mese. Gli uomini del racket li spacciano per figli e nipoti. Il totale di tutto fa quindicimila bambini, secondo le organizzazioni internazionali, in catene da questa parte del continente. Fuori dal conto, i 350 mila bi mbi-soldato reclutati in Paesi come la Liberia, la Sierra Leone, il Congo, il Sudan. Un altro tipo di schiavitù, questa intercettata a Cotonou. «Tradizionale» si dice in gergo. O anche «familiare». I carichi umani che viaggiano lungo le coste occiden tali dell' Africa, spesso su piccole lance anziché battelli, più simili ai balseros cubani che ai curdi stipati sulle carrette d' Oriente, sono formati al 95% da bambine dai 6 ai 15 anni, cedute dalle famiglie con la speranza che qualcun altro provve da alla loro istruzione. «Tutto nasce dal "vidomegon" - dice al Corriere Donata Lodi, portavoce dell' Unicef in Italia -, una vecchia forma di affido. L' idea che i figli vadano altrove, a cercare fortuna in città, è molto diffusa. Sono gli stessi ge nitori a consegnarli a conoscenti e amici affinché trovino loro vitto e alloggio, in cambio di piccoli lavori domestici». Anche i «sugar daddy» sono socialmente accettati: adulti che, in cambio di favori sessuali, provvedano al mantenimento e agli st udi delle ragazzine. Ma, una volta fuori dai villaggi dove rastrellano le loro vittime, gli intermediari giocano tutta un' altra partita: quei bambini prelevati per 10-15 mila franchi-Cfa (dalle 30 alle 45 mila lire) saranno rivenduti a 200-300 mila franchi-Cfa (dalle 600 alle 900 mila lire). Qualcosa costano: il trasporto in mare, i viveri affinché arrivino in buona salute e c' è da calcolare anche il rischio frequente che calino a picco. Di scuole neanche a parlarne. Il miraggio che i ragazzin i vengano messi a studiare, è solo un inganno. I terminali dei trafficanti sono altri. Sotto accusa, prima di tutto le piantagioni. «Non ci risulta che siano implicate le multinazionali - dice ancora Donata Lodi - ma sono comunque imprese a carattere industriale». Cacao e caffè, beni d' esportazione, prodotti per Paesi ricchi. «Non ce ne rendiamo conto - ha avvertito ieri Angelo Simonazzi, direttore generale di Save the children in Italia, lanciando un appello alle società dolciarie -, ma la cio ccolata che mangeremo durante queste feste di Pasqua potrebbe essere prodotta con cacao coltivato in posti dove migliaia di bambini sono sfruttati come schiavi». Chi beve caffè beve il loro sangue, ricorda l' organizzazione. Ogni bambino trasporta sa cchi di sei chili e passa sulle spalle, senza ricevere in cambio nemmeno una lira. Un viaggio senza ritorno: «Le autorità del Benin stanno cominciando a collaborare - dice Donata Lodi -, in qualche caso hanno tentato i ricongiungimenti familiari. Ma la maggior parte dei piccoli schiavi scompare per sempre». LE ROTTE DELLA VERGOGNA I PAESI COINVOLTI La schiavitù infantile si è estesa in Africa dalle zone di guerra (come Angola, Sudan, Somalia, Ciad, dove perfino bambine di die ci anni sono impiegate come servitrici e concubine) ad aree relativamente pacifiche. I Paesi maggiormente coinvolti nel traffico di schiavi-bambini sono Benin, Burkina Faso, Camerun, Costa d' Avorio, Gabon, Nigeria e Togo GLI IMPIEGHI Gli schiavi bam bini sono adoperati per lavori domestici, per il lavoro in fabbrica, come aiuti nei banchi dei mercati e nei negozi e come oggetto di sfruttamento sessuale IL PREZZO Uno schiavo bambino vale circa 30 dollari (poco più di 60 mila lire)




venerdi , 09 marzo 2001
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Nigeria, bruciate vive dentro la scuola

Nel giorno della festa della donna 24 vittime: erano chiuse a chiave nel dormitorio. Avevano dai dodici ai diciotto anni L' istituto fondato dai missionari era famoso per la sua disciplina

Nigeria, bruciate vive dentro la scuola Nel giorno della festa della donna 24 vittime: erano chiuse a chiave nel dormitorio L' 8 marzo nacque da un rogo, novant' anni fa. In un' azienda tessile di New York, la Triangle Shirtwaist Co., una fabbrica do ve nessuno si era mai curato delle norme di sicurezza o della salute dei dipendenti, 146 operai, in maggioranza donne, bruciarono vivi dentro a un palazzo di dieci piani. Un altro incendio, altre torce umane, hanno marcato con tragico simbolismo la f esta della donna in un lontano villaggio della Nigeria. Ventiquattro studentesse dai 12 ai 18 anni sono morte nel dormitorio di una scuola, intrappolate da sbarre di ferro, catenacci alle porte, finestre blindate contro le tentazioni della libertà. A ltre 14 sono finite in ospedale ustionate. Il rigore come unica colpa? La scuola secondaria di Bwalbwang -Gindiri, 60 chilometri da Jos, capitale dello Stato di Plateau, è un istituto femminile fondato decenni fa da missionari occidentali, famoso per la sua disciplina. Chi sta dentro, almeno la notte, viene tenuto sotto chiave per evitare scappatelle e incontri segreti con i ragazzi di un collegio vicino. Adesso lo gestisce il governo. Conta 165 scolare, ma dentro ci si vive come in gran parte d elle zone rurali della Nigeria. Poca acqua, elettricità a intermittenza. Quando scende il buio si cammina a tentoni, trasportando lampade a gas da una camerata all' altra. Tre sere fa - erano le 11 meno un quarto - all' interno del dormitori si celeb rava una veglia. Le ragazze cantavano inni religiosi e pregavano Dio. Una scintilla è partita da una di quelle lampade, le fiamme sono divampate e, in pochi minuti, tutto attorno alla scuola, risuonavano urla, richieste d' aiuto, colpi disperati cont ro porte e finestre. «Ho visto il fuoco partire dall' entrata - racconta una delle studentesse, Danielle Kakan, 15 anni, dal suo letto d' ospedale -. E subito dopo una spessa cortina di fumo. Anche la nostra direttrice è svenuta». Qualcun altro avreb be scorto un bambino, cinque anni o poco più, una presenza quasi irreale, aggirarsi nei dintorni della scuola per sparire poco prima che la notte si colorasse di fiamme. La gente, arrivata dalla città di Gindiri per dare aiuto, si è trovata davanti u na scuola fortificata come un bunker. «Il cancello era rafforzato con sbarre di ferro - ha riferito piangendo un uomo del villaggio -. Anche le finestre erano bloccate e allo stesso modo le porte. Per salvare quelle poverette abbiamo dovuto forzare l ' entrata delle toilette, sfondare i muri e portar via le ragazze che sembravano ancora vive». I genitori l' hanno saputo il giorno dopo: si sono trovati davanti macerie, cadaveri carbonizzati, brandelli di abiti divorati dalle fiamme. La stampa nige riana ha pubblicato la notizia solo ieri, con le condoglianze delle autorità e tre giorni di lutto proclamati per la nazione. Ma nessuno ha saputo dire perché. Dalla bocca della polizia non è uscita altra ipotesi che quella della pura disgrazia. Il r ogo delle ragazze, sebbene sotto inchiesta, per il momento non ha responsabili. La Nigeria, 115 milioni di abitanti, anche dopo la fine del regime militare e la vittoria elettorale del nuovo presidente, Olusegun Obasanjo, ha altri problemi con cui co nfrontarsi: collasso economico, corruzione dilagante, scontri etnici, faide religiose tra cattolici e musulmani. Nello stato di Plateau le cose non vanno neanche tanto male: al massimo bisogna difendersi da furti e rapine. «I cattolici ci vivono paci ficamente - assicurano alla nunziatura apostolica di Lagos -. Non ci sono state tensioni religiose o sociali». Forse, la spiegazione è tutta lì: troppo rigore tra le mura della scuola. E come a New York, 90 anni fa, poco rispetto per chi ci viveva de ntro. M. G. C.




venerdi , 09 marzo 2001
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«Sharia, infibulazione: tanti i problemi da risolvere»


L' INTERVISTA «Sharia, infibulazione: tanti i problemi da risolvere» MILANO - «Non è neanche il Paese peggiore: la Nigeria, tra gli Stati africani, è quello dove si è dato maggiore spazio all' istruzione femminile. Ricordo di aver visitato scuole eff icienti e università con campus magnifici». Daniela Colombo, presidente dell' Aidos, l' Associazione italiana donne per lo sviluppo, coordina programmi in quasi tutta l' Africa, dal Mali al Sudan, dal Benin alla Tanzania. Non vede segnali di discrimi nazione dietro all' incendio che ha ucciso 24 studentesse in un dormitorio della Nigeria, piuttosto una tragedia dettata dall' incuria. «Sì, è vero, nel Paese si è diffusa la sharia tra i musulmani, l' infibulazione è comune persino tra i cristiani, ma in Nigeria esistono anche donne imprenditrici, e molte intellettuali. E quella è la prova che il sistema scolastico ha funzionato». In occasione dell' 8 marzo, non si vedono però grandi progressi per le donne in un continente come l' Africa. «I pr oblemi sono tantissimi e soprattutto di natura economica. Altro che scuole. La maggior parte delle donne africane è ancora destinata al lavoro agricolo e vive di pura sussistenza. Sono costrette a zappare terre che non possiederanno mai. E anche nei Paesi dove è passata una legge sulla proprietà, come in Tanzania, viene precluso loro il diritto a lasciare in eredità i poderi alle figlie. Il loro lavoro soddisfa l' 80% dei bisogni alimentari di tutta l' Africa. Non ha orari e non ha regole: si sg obba dalle 5 del mattino alle dieci di sera». Quali altre «emergenze» avete individuato? «La salute. In intere regioni manca qualsiasi accesso ai servizi sanitari. La quantità di gravidanze giovanili è spaventosa, così come quella di nozze precoci». L' Unicef ha appena pubblicato un rapporto sui matrimoni in giovanissima età. Crede che nascano da una mentalità discriminatoria o da esigenze economiche? «Entrambe le cose. Quasi sempre ci si trova davanti a matrimoni combinati tra ragazze giovaniss ime e uomini adulti. In Paesi come il Togo, quando la donna arriva alla menopausa, non viene più ritenuta adatta al rapporto sessuale. Le commercianti ricche si procurano dei gigolò, le altre vengono scartate anche dai mariti». Si torna al problema d ell' Aids. Perché secondo lei le donne africane, come dicono le statistiche, sono le più esposte al virus dell' Hiv? «Uno dei veicoli d' infezione sono le mutilazioni genitali. E non parlo solo dell' escissione o dell' infibulazione. In tutta l' Afri ca del sud, e persino a Johannesburg, è ancora diffusa la tradizione del "dry sex" il sesso asciutto. Agli uomini piace così: impacchi nella vagina, che prosciugano gli umori, ma causano anche sangue e lacerazioni. Come se non bastasse, l' uso del pr eservativo è quasi sconosciuto». Un problema di cultura? «Di educazione, direi. E' su questo che bisogna lavorare».




mercoledi, 17 gennaio 2001
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La marcia sanguinaria dell' ex rivoluzionario

Gli Usa lo avevano incaricato di abbattere Mobutu. Poi si è rivoltato contro i suoi protettori

«L' UOMO CHE CI VOLEVA» La marcia sanguinaria dell' ex rivoluzionario L' avevano preso per una marionetta: si è rivoltato contro. Volevano farne una sorta di governatore: si sono trovati davanti a un nemico, capace di capolgere le alleanze africane, di mettere in crisi i disegni americani, di dichiarare guerra ai suoi protettori. Laurent Désiré Kabila, il combattente creato da Ruanda e Uganda per prendere le redini dell' ex Zaire, è subito sfuggito a ogni controllo. «L' uomo che ci voleva», come recita la propaganda di regime sui boulevard di Kinshasa, con il suo viso troppo largo, il naso tipico della razza bantù, le sahariane da rivoluzionario terzomondista, è diventato l' enigma numero uno per gli assetti del continente. Una parte della sua storia è rimasta a lungo nell' ombra. I periodi alla macchia, la fede maoista, le rivolte perdute. Sono gli anni Sessanta, lo Zaire ha appena conquistato l' indipendenza dal Belgio. Laurent Désiré Kabila, di etnia luba, originario del nord del Ka tanga, fiancheggia Patrice Lumumba, il premier che viene poi assassinato con la complicità del maresciallo Mobutu. Sposa la causa di Patrice Mulele, capo dei simba, i giovani «leoni» in rivolta contro il potere post-coloniale. Nel 1965 la ribellione finisce nel sangue, Kabila in clandestinità. Nella giungla incontra Ernesto Che Guevara. «E' l' unico che ha qualità di leader - scrive il Che di lui - ma gli manca serietà rivoluzionaria, un' ideologia che guidi la sua azione, uno spirito di sacrifi cio che accompagni i suoi obiettivi». Altre parole sono ancora meno lusinghiere: Guevara è sconcertato dai vizi dei compagni di battaglia di Kabila, dalle loro malattie veneree, dall' uso spregiudicato delle pozioni magiche. Ma Laurent Désiré ha già fondato il Partito rivoluzionario del popolo, è diventato uno degli oppositori riconosciuti del presidente Mobutu. Tra gli anni Settanta e Ottanta lo si ritrova a commerciare oro, avorio, pietre preziose e tessere rapporti con altri maquisard african i, usciti dall' università di Dar es Salaam, in Tanzania. Nel 1996 i vecchi amici si ricordano di lui. L' uomo forte del Ruanda, il tutsi Paul Kagame - assieme al presidente dell' Uganda Yoweri Museveni - gli affida il compito di ripulire i campi pro fughi dello Zaire, dove hanno trovato riparo le milizie hutu fuggite dopo il genocidio del 1994. Gli dà uomini e armi, gli garantisce il supporto di una mezza dozzina di Stati africani, dallo Zimbabwe all' Eritrea, il grande appoggio di Washington. L a posta in gioco è alta. Non ci sono solo gli hutu da far fuori: è Mobutu, il longevo dittatore dai cappelli di leopardo, che dev' essere eliminato. Bill Clinton chiede un nuovo ordine africano. Bastano otto mesi. A maggio del 1997 Kabila conquista K inshasa. «L' uomo che ci voleva» diventa presidente e lo Zaire cambia nome in Repubblica democratica del Congo. Ad abbandonare l' ascetismo rivoluzionario basta poco. Kabila si installa nelle residenze di Mobutu. Si sposta su jeep superscortate. Conc lude i primi contratti minerari con gli americani. Affida al figlio Joseph, che sarebbe stato ucciso ieri, il comando delle forze di Kisangani. Gi oppositori cominciano a parlare di «kabilismo»: dissidenti arrestati, ex dirigenti fatti fuori, diritti umani violati. Ne sanno qualcosa gli ispettori dell' Onu, incaricati di investigare sul massacro di centinaia di migliaia di profughi hutu: espulsi dal Paese. Il passo successivo è la rottura dei contratti con gli americani, l' epurazione dei «ruand esi» che pretendono di controllare il nuovo regime, la presa di distanza da Kigali e Kampala. Altro sangue: da agosto 1998 a oggi l ' «uomo che ci voleva» si ritrova al centro della Grande guerra d' Africa. Sono in tanti a volerlo morto.




mercoledi, 13 dicembre 2000
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Etiopia ed Eritrea tornano «sorelle»

Firmata ad Algeri la pace che chiude la guerra: dal ' 98 ha fatto 50 mila morti Un successo diplomatico anche per l' Italia. L' Onu invierà 4.200 caschi blu, tra cui 200 nostri militari, che tornano nella regione per la prima volta dai tempi coloniali

Etiopia ed Eritrea tornano «sorelle» Firmata ad Algeri la pace che chiude la guerra: dal ' 98 ha fatto 50 mila morti DAL NOSTRO INVIATO ALGERI - Gli ex compagni di lotta evitano di guardarsi negli occhi. Dopo due anni e mezzo di guerra e rancore, il premier etiopico Meles Zenawi e il presidente eritreo Isayas Afeworki entrano al Palazzo delle Nazioni di Algeri con il busto eretto e il passo impacciato. Cinquantamila morti, 100 mila feriti, uno scontro nato dalle ceneri di una vecchia amicizia, p esano anche nel giorno della pace. E' il padrone di casa, il leader algerino Abdelaziz Bouteflika a spingerli l' uno verso l' altro. Una stretta di mano, la prima dal maggio ' 98. Un applauso della folla. E finalmente l' abbraccio. Nuovamente «fratel li», come ai tempi i cui combattevano assieme contro la dittatura di Menghistu Aile Mariam. Nuovamente «amici», come negli anni in cui, tra ' 91 e ' 93, caduto il dittatore, l' Eritrea marcava la sua indipendenza dall' Etiopia e i due leader si ergev ano a campioni del rinascimento africano. La guerra, scoppiata a maggio ' 98 su un tratto di confine mai definito, su dissidi economici combattuti sul peso delle rispettive valute, sugli sbocchi al mare, è seppellita. «E' un appuntamento con la stori a, un grande giorno per l' Africa tutta», dice Bouteflika. La pace tra Etiopia ed Eritrea, firmata alle 16 di ieri ad Algeri davanti al segretario di Stato americano Madeleine Albright, al segretario generale dell' Onu Kofi Annan, ai vertici dell' Ou a, l' Organizzazione per l' unità africana, e al sottosegretario italiano agli Esteri Rino Serri, arriva a sei mesi dal cessate il fuoco. E' una pace che ha obbligato Addis Abeba a ritirare le sue truppe fino alle posizioni rioccupate con l' offensiv a del ' 99, che ha costretto i soldati di Asmara a tornare nei propri territori, creando una «fascia di sicurezza» lungo il confine, e che aprirà la strada a un arbitrato internazionale per la definizione delle frontiere. Ma è un accordo che rilancia anche l' intervento Onu nel Corno d' Africa, dopo i fallimenti dello scorso decennio, con una missione di peace-keeping formata da 4.200 caschi blu. Il patto cancella persino il passato più lontano, riportando gli italiani 60 anni dopo negli antichi domini coloniali. Duecento militari - ed è questo il punto che premia l' impegno del nostro governo nelle trattative - chiamati a offrire trasporti, supporto logistico e sicurezza. «Il risultato non era affatto scontato - dice Serri, ad Algeri come mediatore dell' Unione europea - ma siamo riusciti a farci accettare da entrambi i Paesi, a presentarci come potenza neutrale. Quest' accordo ci fa sperare in una nuova stabilità per il Corno d' Africa». Il Trattato tra Etiopia ed Eritrea è soprattut to una piccola celebrazione dell' orgoglio africano. Parla Zenawi, il premier etiopico: «E' un accordo importante per tutto il continente che permetterà ai nostri due Paesi di ristabilire la fiducia reciproca». Ribatte Afeworki, il presidente eritreo : «Ci impegniamo a guardare a un futuro fraterno». Dopo i fallimenti in Sierra Leone, in Congo, in Burundi, i capi di Stato del continente si guardano allo specchio. Primo tra tutti l' algerino Bouteflika, presidente di un Paese insanguinato in cui s ta tentando una difficile riconciliazione nazionale. Porta a casa almeno un trionfo in politica estera. L' altro vincitore è Washington: Madeleine Albright, con la sua presenza ad Algeri, riesce a chiudere i grandi progetti di ordine mondiale dell' a mministrazione democratica con uno scampolo di pace. Fallito il Medio Oriente, gli Usa si consolano con la stretta di mano tra i due amici-nemici. Non è il rinascimento africano sognato da Clinton. Ma è già qualcosa: «Quando ho iniziato il mio mandat o l' Africa sembrava un continente senza speranza - dice Albright -. Adesso vediamo aprirsi una nuova era». La pace reggerà davvero? Ad Algeri c' è chi si esprime senza retorica: «L' Onu ha già dispiegato 1.500 persone. Ma i nostri soldati non rimarr anno a tempo indeterminato - avverte Annan -. E non dimentichiamo le priorità: in Eritrea la guerra ha prodotto oltre 200 mila profughi, in Etiopia il 15% della popolazione è afflitta dalla carestia. Non basta far tacere le armi. Bisogna liberare i p rigionieri, garantire rispetto agli eritrei che si trovano in Etiopia e viceversa». E' un monito. O qualcosa di più. E' una messa in guardia contro le tregue fragili. Gli ex compagni di lotta, Meles e Isayas, stiano accorti. Guerr a e pace 6 maggio 1998 Sei ufficiali eritrei vengono uccisi alla frontiera. Sembra una scaramuccia. Asmara risponde muovendo i carri armati e cattura Bademme 12 maggio 1998 Addis Abeba dichiara ufficialmente guerra all' Eritrea. Il 6 giugno bombarda Asmara 29 marzo 1999 Gli etiopici riprendono Bademme Corsa al riarmo Per un anno intero i due Paesi si riarmano spendendo decine di miliardi 23 ottobre 1999 Violenti scontri sul fronte di Assab Piani di pace Tentano di porre fine alla guerra gli Stat i Uniti e il Ruanda e poi l' Onu e l' Oua. I due nemici le accettano in via di principio ma litigano sulla loro applicazione 12 maggio 2000 Potentissima offensiva di Addis Abeba che conquista parte del territorio eritreo 18 giugno 2000 Firma ad Alger i della «cessazione delle ostilità». Ritiro delle truppe etiopiche




domenica , 26 novembre 2000
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Una finanza «etica» per aiutare l' Africa


Una finanza «etica» per aiutare l' Africa DAL NOSTRO INVIATO TORINO - Il cardinale Ersilio Tonini ce l' ha fatta. Ha tirato dalla sua parte i maestri del profitto - commercianti, imprenditori, banchieri - per portarli in Africa e metterli a servizio della povertà. «Cominceremo dal Burundi, poi andremo in Etiopia e in qualunque Paese sia possibile realizzare ospedali, scuole, officine. E' l' ora di passare dalla carità alla produzione, di dare un futuro alle nostre azioni». A 86 anni, l' arcivesc ovo di Ravenna si prepara a prendere la presidenza onoraria della «Banca dei progetti», un' associazione con sede a Roma promossa dalla Coldiretti, dalla Confartigianato e dalla Confcommercio, pronta a realizzare micro-strutture nel Terzo mondo a voc azione imprenditoriale: «Trasferiremo le maestranze italiane sul posto, addestreremo quelle locali, garantiremo assistenza». Profetico e pragmatico, il cardinale ha scelto Torino, l' Arsenale della Pace, per annunciare il suo piano. Ha disegnato gli scenari di una nuova strategia di cooperazione proprio al centro di un convegno, «Europa chiama Africa», che si è svolto ieri e l' altro ieri, all' insegna della finanza «etica», di un' economia improntata alle leggi della morale oltre che a quelle d el mercato. «Non ho paura della globalizzazione - ha detto -. Ma gli imprenditori non devono dimenticare che c' è anche bisogno di umanesimo e solidarietà». Ha mostrato i primi risultati: «Trecento case costruite in Burundi, dopo un appello lanciato sull' Avvenire e sul Corriere della Sera». Era il 28 dicembre dell' anno scorso, l' ha voluto ricordare. Monsignor Tonini era tornato da un viaggio nel Paese africano. Aveva visto schiere di bambini mutilati, case distrutte dai bombardamenti, vedove di guerra. «Grazie a quegli appelli, ho raccolto due miliardi e mezzo, vaglia postali, versamenti di gente comune, 50 mila, 100 mila lire, poco più». A catena, un finanziamento di un miliardo della Conferenza episcopale italiana, per borse di studio universitarie. E ancora, il coinvolgimento di manager per una fabbrica di disinfettanti e una di protesi per gli amputati. L' altra faccia della mondializzazione? Al convegno «Europa chiama Africa», organizzato da Ethica (l' Associazione per una fina nza socialmente responsabile), dal Sermig di Torino (Servizio missionari giovani) e dal Gruppo Re, una holding che amministra i beni delle congregazione ecclesiastiche, le paure per le sorti dei Paesi poveri nel bazar senza legge e senza cuore del vi llaggio globale sono state in parte ridimensionate. Gli interventi hanno evidenziato nuove forme di solidarietà e sostegno al Terzo mondo. Il ruolo dei Quindici, per esempio. L' Unione europea ha investito 8,6 miliardi di euro (quasi 16 mila miliardi di lire) in programmi sanitari e d' alfabetizzazione. Ma la Chiesa si aspetta di più: «Le risorse destinate dai Paesi avanzati verso il Sud del mondo sono risultate limitate, mal distribuite, inefficaci. Il contributo medio non supera, lo 0,2 per ce nto del Pnl - ha detto monsignor Giampaolo Crepaldi, sottosegretario Giustizia e Pace del Vaticano -. Se si guarda al capitale privato si noterà che l' Africa ha ricevuto nel ' 98 solo l' 1,2% dei flussi d' investimento verso i Paesi in via di svilup po». Se poi si parla di alfabetizzazione, «ci vorrebbero 9 miliardi di dollari (20 mila miliardi di lire) per garantire l' istruzione primaria nei Paesi poveri». A quanto equivale? «Al consumo annuo di cosmetici degli Stati Uniti». Maria Grazia Cutul




mercoledi, 12 luglio 2000
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Tragedia nel delta del Niger, Sud del Paese: la gente era accorsa per rifornirsi ai tubi lasciati aperti dai ladri di carburante
Salta l' oleodotto, strage in Nigeria

L' impianto sabotato per rubare il petrolio: un' esplosione, centinaia di morti. I primi soccorritori hanno trovato i corpi carbonizzati di donne e bambini con il grembiule della scuola. Ma la guerra tra tribu' per l' oro nero ha fatto migliaia di vittime


Tragedia nel delta del Niger, Sud del Paese: la gente era accorsa per rifornirsi ai tubi lasciati aperti dai ladri di carburante Salta l' oleodotto, strage in Nigeria L' impianto sabotato per rubare il petrolio: un' esplosione, centinaia di morti L' esplosione, le fiamme, il tanfo di petrolio. Niente aveva stupito la gente del Delta. «Un' altra conduttura rotta», avevano commentato nei villaggi sul Niger. Poi è cominciato il pandemonio. Adeje, 5 mila abitanti a ridosso dell' autostrada per Warri , centro petrolifero della Nigeria meridionale, avvolta in una nube di fumo. Urla disperate. Fuggi fuggi. Quando è arrivata la polizia, già si contavano i morti: 50, 100 corpi carbonizzati, donne, bambini con addosso il grembiule della scuola, accant o alla grande pipeline che trasporta petrolio dal Nord al Sud del Paese. Ma le vittime dello scoppio potrebbero essere anche di più: almeno 250. Non è stata la sfortuna. E nemmeno un caso se la conduttura è esplosa. Gli abitanti del Delta lo sanno. P erché qui, nella zona del Niger, una palude di 17 mila chilometri quadrati sul Golfo di Guinea che produce il 90% degli idrocarburi del Paese, sabotare la pipeline è prassi quotidiana. Gli abitanti, in guerra con il governo e con le multinazionali de l petrolio, esasperati dalla mancanza di carburante, preferiscono andare direttamente alla fonte. Con secchi, taniche, bottiglie per accaparrarsi almeno le briciole di un business miliardario che fa della Nigeria il sesto produttore mondiale di gregg io. Ed è quello che è successo ieri. Ladri di professione avevano sabotato la conduttura nella notte tra sabato e domenica. Riempiti i camion destinati al contrabbando, se ne sono andati, incuranti della falla aperta nell' oleodotto. Al mattino si è sparsa la voce. Gli abitanti di Adeje, sono corsi alla conduttura per completare l' opera. Un mozzicone di sigarette, una scintilla. Ed ecco il rogo. Come due anni fa a Jesse, a 40 chilometri da Adeje: 1000 morti. Come a marzo scorso, in un' altra zo na del Delta: 50 vittime e 45 arresti. Il presidente Olesegun Obasanjo, al potere da maggio 1999, ha creato una task force per il Delta, militari e poliziotti più elicotteri, per sorvegliare le condutture. Ma in un Paese dove la popolazione vive con un dollaro al giorno, il furto di petrolio è l' affare emergente. Tanto più che dalla pipeline di Warri, proprietà del colosso statale Nigerian National Petroleum Corp, come dai 5 mila chilometri di condutture che attraversano la Nigeria, non esce un a goccia per il mercato locale. Un paradosso che si spiega con lo stato d' incuria in cui sono state tenute le raffinerie. Ma anche con una questione di prezzo: meglio vendere all' estero, 30 dollari, circa 60 mila lire, a barile, anziché in casa a 1 0 dollari. La corruzione fa il resto: i clan vicini all' ex giunta militare hanno gestito per anni l' esportazione del greggio, che veniva raffinato oltrefrontiera, per poi riapparire sul mercato nero. M. G. C. LA STORIA Ma la guerra tra tribù per l' oro nero ha fatto migliaia di vittime Il Delta del Niger è una rete di canali, acquitrinai e paludi avvelenati dal petrolio. Una distesa di giungle inquinate dai fumi e dagli scarichi industriali. Ma il disastro non è solo ecologico. Fuori dai canti eri blindati delle multinazionali, oltre le piattaforme ad alta tecnologia, si spalanca una delle regioni più povere della Nigeria. Da Warri, capitale della regione, a Forcados, antico porto degli schiavi, interi quartieri sono senza luce, le case se nz' acqua, la gioventù senza futuro. Gli idrocarburi anziché portare benessere e ricchezza, hanno seminato violenza e paura. Tutti sono in guerra con tutti sul Delta: le tribù contro le società petrolifere, l' esercito contro la popolazione, le etnie contro le etnie ad accusarsi di rubarsi contratti e posti di lavoro. I morti si contano a centinaia, migliaia ogni anno. I giovani Ijaw, l' etnia più estesa della zona, quarto gruppo della Nigeria, issano bandiere bianche a Igbesu, la divinità che s econdo la credenza li rende invisibili alle pallottole. E corrono in massa ad arruolarsi nella Forza di Difesa dei volontari del Delta. La loro guerra si combatte a colpi di fax, messaggi minatori, ultimatum alle compagnie petrolifere. Ma anche a raf fiche di kalashnikov e bazooka. Vogliono scuole, case, ospedali, gli «arrabbiati» del Delta. Ma chiedono soprattutto di entrare nel grande business del gas e del petrolio, gestito al 60 per cento dallo Stato e per il resto da Shell, Chevron, Mobil, E lf, Texaco e l' italiana Agip. Non basta loro forare le condutture e riempire le taniche di nascosto. Quando possono impongono dazi e riscuotono tangenti. Ken Saro Wiwa, lo scrittore portavoce degli Ogoni, una delle etnie più afflitte dal disastro ec ologico della regione, fu impiccato nel 1995 dall' ex giunta militare assieme ad altri otto attivisti, anche per questo: rivendicava il diritto alla rendita petrolifera. Non fu il solo caso di «assassinio di Stato». Spari, lacrimogeni, manganelli acc ompagnano spesso l' intervento dell' esercito contro i ribelli del Delta.




venerdi , 12 maggio 2000
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La piaga dei bambini-soldato 300 mila minorenni in guerra

L' Africa al primo posto: i maschi combattono, le ragazzine usate come concubine

La piaga dei bambini-soldato 300 mila minorenni in guerra Hanno meno di 18 anni, talvolta meno di 14. Ma sanno come si carica un kalashnikov, come si uccide un nemico, come si tortura un traditore, come si fa a pezzi un avversario con un machete. La loro vita è un crinale tra violenze inferte e violenze subite. Carne da macello da spedire in prima linea, marionette drogate con pozioni magiche e allucinogeni da utilizzare per i lavori più sporchi. Sono i bambini-soldato, le piccole reclute impegn ate nelle guerre e nelle guerriglie di tutto il mondo. Più di 300 mila, dice l' ultimo rapporto pubblicato a Bangkok dal Cscus, la Coalizione per fermare l' impiego dei bambini-soldato: la maggior parte in Africa, 120 mila almeno; altri in Asia, 75 m ila sparsi tra Afghanistan, Birmania, Sri Lanka. L' allarme viene amplificato, proprio in questi giorni, dall' ultima crisi scoppiata in Sierra Leone, dove l' Unicef teme nuovi arruolamenti da parte delle milizie del Fronte rivoluzionario unito. Risu lta infatti che 40 bambini, con esperienza di guerriglia alle spalle, siano stati rimobilitati a Makeni, la città a 140 chilometri dalla capitale Freetown, in mano ai ribelli. Altri sono scappati dai centri di riabilitazione per ex bambini soldati ge stiti da Coopi, l' organizzazione non governativa italiana. Ma c' è anche il fenomeno inverso. Gli operatori di Coopi hanno visto arrivare, attraverso la giungla, 300 ragazzi in fuga dai villaggi per paura di essere rapiti e arruolati con la forza. « I nostri centri accolgono in questo momento 600 persone - dice Matteo Frontini, responsabile dei progetti in Sierra Leone -. Per gli ultimi arrivati, stiamo organizzando campi e studiando assieme ai militari britannici il modo di provvedere a nuove s corte di cibo». L' Unicef stima che in nove anni di guerra civile, in Sierra Leone siano stati reclutati oltre 5 mila minorenni, i maschi per combattere, le bambine per fare da serve o concubine ai comandanti militari. Dopo gli accordi firmati a Lomé , ne erano stati smobilitati 1.700. Ma per loro adesso non c' è più garanzia. Dei bambini-soldato si parlerà dal 15 al 18 maggio a Katmandu, in occasione di una conferenza organizzata dal Cscus, con la sponsorizzazione dell' Unicef. L' obiettivo è me ttere al bando la loro utilizzazione nella guerre. E spegnere per sempre, dice il coordinatore, Rory Mungoven, «questo lato oscuro dei conflitti moderni». M.G.C.




lunedi , 08 maggio 2000
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Fuga dalla Sierra Leone

I ribelli premono: ambasciate evacuate, timori di una nuova guerra. Peggiora la crisi dopo la scomparsa di 500 caschi blu. Ma molti religiosi scelgono di non abbandonare le missioni

Fuga dalla Sierra Leone I ribelli premono: ambasciate evacuate, timori di una nuova guerra Via gli italiani, via gli inglesi, via gli americani. Fuori anche il personale «non essenziale» delle Nazioni Unite. Dopo una notte di panico, trascorsa nel ti more di un attacco dei ribelli a Freetown, capitale della Sierra Leone, le cancellerie occidentali hanno deciso di evacuare il proprio personale. La Farnesina ha organizzato la partenza degli italiani, una cinquantina tra missionari e operatori umani tari: in serata 21 persone avevano lasciato Freetown, imbarcate sui voli per Conakry, capitale della Guinea. Una trentina sono ancora nel Paese. Tra questi, parecchi religiosi che avrebbero deciso di non abbandonare le missioni. Londra, che ha cominc iato a evacuare gli staff d' ambasciata, manderà cinque navi, con paracadutisti a bordo, e un elicottero per proteggere i propri connazionali. Washington procede ai rimpatri. E anche le Nazioni Unite si sono piegate alla necessità. Dopo aver dichiara to venerdì di non voler abbandonare la Sierra Leone, anzi di voler rafforzare l' Unamsil - il contingente di pace presente nel Paese con 8.700 soldati - hanno cominciato ieri a trasferire a Conakry i primi funzionari e i loro familiari. La Sierra Leo ne sembra pericolosamente vicina a una nuova guerra. La crisi tra le forze Onu e i ribelli del Ruf, il Fronte rivoluzionario unito, esplosa martedì con la scomparsa di 500 Caschi Blu - 300 caduti in mano ai guerriglieri, 200 dati per dispersi, 4 pres umibilmente morti - potrebbe essere solo il primo atto. L' attacco a Freetown, annunciato nella notte, non c' è stato. Il capo dei ribelli, Foday Sankoh, ha sciorinato un nuovo rosario di rassicurazioni: «Non vogliamo conquistare la capitale. Non vog liamo mandare a monte il patto con il governo. Non vogliamo aggredire nessuno». Ma la pace, sancita a luglio 1999 con gli accordi di Lomé, che prevedevano la spartizione del potere e soprattutto delle risorse minerarie tra il governo e il Ruf, è a qu esto punto compromessa. Dal centro del Paese arrivano notizie di scontri tra i ribelli e i militari Onu, testimonianze su villaggi deserti, cittadine espugnate, come Rogberi, gente in fuga. E se il Paese rischia di ritornare alla guerra, che l' ha la cerato per 9 anni, lasciandosi dietro 50 mila morti e 100 mila mutilati, l' Onu ha già incassato l' ennesima sconfitta, dopo i clamorosi fallimenti in Somalia, Bosnia, Ruanda. Anche il presidente della Sierra Leone, Ahmad Tejan Kabbah, si è detto ier i «profondamente deluso» dalla resa di alcuni soldati dell' Unamsil di fronte al Ruf. «Se l' Onu fallirà il suo mandato - ha minacciato - il governo farà scattare il suo piano d' emergenza». M.G.C.




lunedi , 01 maggio 2000
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«L' Aids è una minaccia per l' umanità»

Clinton: a rischio la sicurezza del mondo. La Cia: dilaga in Africa ed esploderà in India e nell' ex Urss
Caretto Ennio, , De Bac Margherita

«L' Aids è una minaccia per l' umanità» Clinton: a rischio la sicurezza del mondo. La Cia: dilaga in Africa ed esploderà in India e nell' ex Urss DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON - Potrebbe essere la svolta decisiva della lotta all' Aids. Una svo lta politica, non medica, ma proprio per questo più importante. Il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha dichiarato l' Aids il maggiore pericolo mondiale: è in grado di destabilizzare Paesi, causare guerre, distruggere democrazie, ha detto. Or dinando alla Casa Bianca di organizzare una mobilitazione internazionale. Clinton ha citato un impressionante rapporto della Cia dello scorso febbraio, secondo cui un quarto della popolazione dell' Africa subsahariana morirà di Aids nei prossimi anni . Tragedia che, se non saranno presi provvedimenti, potrebbe ripetersi in India, in Russia e in alcuni Paesi dell' Est europeo. Per scuotere il Congresso, sinora abulico, il presidente non ha esitato a definire l' Aids come «una minaccia alla sicurez za nazionale dell' America» che rischierebbe di venire coinvolta in un conflitto. Ma i suoi critici, che in passato gli chiesero invano un intervento, sospettano che Clinton abbia anche un movente elettorale: il vicepresidente Al Gore, il suo delfino , per due volte è stato zittito dagli attivisti della lotta all' Aids nel corso di altrettanti comizi. Che accusano il presidente - e gli altri leader mondiali - di non aver ridotto il prezzo dei farmaci e di non fornirli ai Paesi più esposti al male . Ora però alla Casa Bianca è emergenza. Un gruppo di lavoro, presieduto da Leon Fuerth, consigliere della sicurezza nazionale di Gore, dovrà ottenere maggiori stanziamenti nella lotta all' Aids negli Stati Uniti - nel 2001 sono previste spese per 25 4 milioni di dollari, circa 510 miliardi di lire -, tentare di annullare i debiti dei Paesi subsahariani, espandere i commerci con loro e fornire aiuti medici e stilare, nel giro di un mese, un rapporto sugli altri Paesi a rischio per il presidente. «L' Aids non sta ferma - spiega Fuerth -. È il nemico pubblico numero uno dell' umanità. Un nemico più spietato della peste mediovale. Per contenerla occorre uno sforzo come quello della conquista dello spazio». Il Washington Post ha pubblicato alcun i passi del rapporto della Cia che ha scatenato l' allarme. Sono agghiaccianti: il 25 per cento di morti nel Subsahara; la previsione di altri 10 anni di crescita dell' Aids dovunque, in particolare in India, Russia e nei Paesi confinanti. «Un disast ro demografico - ammonisce la Cia - che impoverirebbe ulteriormente i poveri, lascerebbe orfani milioni di bambini, scatenerebbe rivoluzioni e genocidi, instaurerebbe dittature. E nel 2010 la situazione nel Sud dell' Asia sarà peggiore». Nell' elenco dei servizi di Intelligence Usa dei 75 fattori di destabilizzazione dei governi l' Aids figura tra i primi cinque. Intanto il male avanza inarrestabile, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo: «Di Aids sono morte 16 milioni di persone, di cui 11 m ilioni nel Subsahara. Altre 5 mila vengono infettate ogni giorno. I quadri di interi Stati, militari, insegnanti, tecnici, sono già stati decimati. Tutto ciò che gli Stati Uniti e l' Occidente hanno tentato di fare per promuovere la democrazia e il m ercato rischia di crollare» spiega Fuerth, secondo cui ci troviamo di fronte non solo alla «massima emergenza umanitaria della storia», ma anche a un ostacolo crescente per commerci e viaggi. Il tutto potrebbe sfociare in una crisi economica mondiale . A New York, il segretario dell' Onu Kofi Annan ha proposto di recente un piano quinquennale per ridurre l' Aids del 25 per cento. La Casa Bianca ha aderito. Ma arginare l' Aids nel solo Subsahara costerebbe 4 mila miliardi di lire. Il Consiglio di sicurezza dell' Onu ne ha discusso su iniziativa dell' ambasciatore americano Richard Holbrooke: a tutt' oggi, però, è stato raccolto appena un terzo della somma. La dottoressa Sanda Thurman, responsabile della lotta all' Aids negli Usa, attacca: «Le nazioni ricche ballano sul ponte del Titanic senza capire che mettersi in salvo è estremamente difficile». La questione politica più imbarazzante per Clinton è la protezione dei brevetti farmaceutici americani. Gli Usa hanno cercato di bloccare i fa rmaci «copiati» da altri Paesi come il Sud Africa e la Thailandia con il ricorso alle sanzioni. Ora Clinton dovrà decidere se dare loro via libera. Per Sanda Thurman, che dirigerebbe la mobilitazione internazionale, è una delle misure più urgenti. «A bbiamo perso troppo tempo - dice - domani sarebbe tardi». Ennio Caretto Testo non disponibile Più lacerante della tratta degli schiavi. Più letale delle guerre che attraversano il continente. Più apocalittica di un olocausto. L' Aids, ultima piaga d' Africa, ha ucc iso nell' ultimo anno 2 milioni di persone, si è lasciata dietro 10 milioni di orfani, ha infettato 500 individui al minuto. Non c' è villaggio, non c' è quartiere, non c' è famiglia nei Paesi subsahariani che non pianga vittime dell' epidemia. E se qualcuno non ci credesse, basta visitare i cimiteri africani. Quello nuovo di Lusaka, per esempio, capitale dello Zambia. Lapidi di cartone, fissate su cumuli di terra rossa, marcano tra una data di nascita e una di morte l' anagrafe disperata di int ere generazioni: uomini e donne tra i 25 e i 40 anni, oppure bambini. Tutti vittime dell' Aids. Nessun vecchio sotto terra. Una catastrofe sociale, ma anche economica. «L' Aids prende di mira le generazioni più giovani - dice Mark Malloch Brown, capo del Programma di sviluppo dell' Onu -. Fa fuori le forze attive, quelle necessarie alla crescita economica. Non si esclude che tutto ciò porti a un abbassamento del Prodotto interno lordo di molti Paesi africani». In Zimbabwe un adulto su quattro è sieropositivo. In Botswana una persona su cinque. In Zambia, sono gli orfani a cambiare la geografia umana del Paese: oltre un milione di bambini, su 9 milioni di abitanti, vive affidato ai nonni, ai vicini di casa, ai fratelli maggiori. «Nel 1993 è morto mio padre. Tre anni dopo mia madre - racconta Sylvia, una ragazza di 15 anni incontrata in una bidonville vicino a Ndola, capoluogo minerario dello Zambia -. Non ci sono che io a prendermi cura delle mie sorelle e di mio fratello». Niente scuol a, poco futuro: Sylvia mantiene tutti vendendo frutta al mercato. Qualche chilo di mieul-mieul, la farina di kasava, le viene fornito dalle organizzazioni di volontariato. Secondo l' Unicef, è il debito estero, con il suo carico di povertà, con le ri sorse sottratte ai servizi sociali e sanitari, ad aver agevolato la diffusione dell' epidemia. Ma la catena delle responsabilità è molto più complessa. A livello popolare, l' Aids resta in Africa un male arcano, anatema di antenati irosi, effetto di malocchio. Di credenze vive e di credenze si nutre. In molti Paesi gli adulti sieropositivi sono convinti che accoppiandosi con una vergine sconfiggeranno il male. In Zambia, la tradizione del «dry sex», la vagina prosciugata con impacchi di erbe per aumentare il piacere maschile, crea lacerazioni e ferite che fanno da facile veicolo alle infezioni. Ma le colpe sono soprattutto politiche: la reticenza di molti leader africani ad ammettere la diffusione della malattia, l' opposizione della Chiesa all' uso del preservativo, e non ultima la resistenza dell' Occidente a donare i costosi farmaci anti-Aids in Africa. Dopo aver protetto a lungo le licenze delle case farmaceutiche e aver vincolato i fondi alla ricerca, al vertice di Seattle dell' a nno scorso il presidente Clinton ha ammesso che serve maggiore «flessibilità». L' Italia è d' accordo. Il primo progetto nasce proprio con fondi del ministero degli Esteri, 13 miliardi affidati alla comunità di Sant' Egidio da investire in Mozambico. L' esperimento partirà a giorni: «Cureremo le donne in gravidanza - spiega l' epidemiologo Leonardo Emberti -. E' una delle categorie più importanti per spezzare la trasmissione del virus ai neonati. Le seguiremo prima e dopo il parto, con quegli st essi farmaci che si sono rivelati efficaci in Occidente». Nel suo piccolo, una rivoluzione. Le campagne di prevenzione hanno dato risultati soddisfacenti in Uganda, abbattendo nel giro di cinque anni il numero di adolescenti colpiti dal virus. L' eme rgenza però resta: le ferrovie ugandesi sono costrette a rinnovare il proprio personale del 15% ogni anno. Il 10% dei lavoratori viene a mancare a causa dell' Aids. Testo non disponibile ROMA - «Oddio, che catastrofe. Se lo dice Clinton, saranno previsioni realistiche», esclama Mauro Moroni, direttore della clinica di malattie infettive all' ospedale Sacco di Milano, dopo aver saputo dell' allarme che viene dagli Stati Uniti. Esagerano? «No, fotografano una situazione che conoscevamo. Le ci fre sulla diffusione dell' Aids in Africa erano note a tutti da tempo. Significano malattia e morte. Assisteremo a un genocidio, la vita media della popolazione si è paurosamente accorciata. Un bambino nato oggi vivrà 40 anni, anziché 65. Questo vale per Zimbabwe, Tanzania, Kenia, una parte del Sud Africa, Uganda, Zaire. In pericolo il Sud-Est asiatico, Cina e India. Per quanto riguarda i Paesi dell' ex Unione Sovietica, abbiamo poche informazioni. Anzi, non ci arrivano proprio». Questa situazio ne in che modo può incidere sulla sicurezza mondiale? «Moriranno tutti, non solo uomini della savana e delle tribù o raccoglitori di datteri. Ma anche tecnici, dirigenti e "cervelli". In altre parole, scomparirà il tessuto connettivo delle nazioni co lpite. È questa, forse, la prospettiva più temuta». Ma come, non si stava gridando vittoria dopo l' avvento dei nuovi farmaci antiretrovirali? Alla conferenza mondiale di Vancouver del ' 96 l' Aids era stata data per battuta. «L' orizzonte è denso di nuvoloni. L' obiettivo dell' eradicazione del virus Hiv, che a Vancouver sembrava realistico, oggi non lo è più. La malattia, casomai, ha smesso di atterrire solo i Paesi occidentali, dove sono disponibili i nuovi farmaci antivirali». L' Italia allo ra può abbassare la guardia? «Assolutamente no. Non dimentichiamo che l' epidemia continua la sua marcia. Ogni anno abbiamo 4-5 mila infezioni in più che colpiscono persone ignare. È un problema che merita attenzione, sforzi e investimenti». Invece? «Invece uno degli ultimi atti del governo D' Alema è stato quello di dimezzare i fondi per l' Aids. Ci sono soldi solo per la sperimentazione del vaccino, dimenticando tanti altri aspetti che vanno indagati. Ne cito due. Gli effetti collaterali delle terapie e le resistenze ai farmaci». Cosa chiederete al nuovo ministro della Sanità, Veronesi, medico come voi? «Di non cadere nella falsa illusione che l' Aids sia in ritirata. Non commettiamo l' errore di tirare i remi in barca. L' esperienza dimo stra che le malattie infettive possono riemergere. Pensiamo alla tubercolosi che ora sta vivendo la quarta giovinezza». L' unica arma per fermare l' epidemia è il vaccino. Senza quello i Paesi più colpiti, dove il 90% dei contagi avvengono per via et erosessuale, non potranno essere salvati. A che punto siamo? «L' ultima volta che lo hanno chiesto a Robert Gallo, lui ha risposto "per favore non domandatelo più". Oggi, purtroppo, non è possibile fissare una scadenza». Margherita De Bac




mercoledi, 19 aprile 2000
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«L' Africa non è persa, l' avvieremo al mercato globale»

Malloch Brown, capo del Programma di Sviluppo Onu: «Ridurremo la povertà»

IL DIRETTORE DELL' UNDP «L' Africa non è persa, l' avvieremo al mercato globale» ROMA - «Dimezzare la povertà in continenti come l' Africa è la grande sfida che ci viene imposta dalla globalizzazione. Non possiamo perderla». Mark Malloch Brown, 47 an ni, capo dell' Undp (il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite), condivide le nuove frontiere umanitarie disegnate da Kofi Annan. Ma soprattutto le strategie indicate dal segretario generale dell' Onu per il terzo millennio: portare i Paesi in via di sviluppo nel villaggio globale, allargare i mercati oltre la muraglia della miseria, tessere le reti informatiche che collegheranno giungle e savane agli spazi virtuali della new economy. Malloch Brown - origini britanniche, uffici a New York - h a cominciato la carriera come corrispondente dell' Economist. L' ha proseguita come funzionario dell' Onu tra i rifugiati cambogiani in Thailandia, fino ai vertici della Banca mondiale, della quale è stato vicepresidente dal ' 96 al ' 99. Si definisc e un capitalista: «Ridurre la poverta è il mio lavoro». L' «afro-ottimismo» di qualche anni fa è però finito. La comunità internazionale, Usa in testa, ha scoperto che il continente va alla deriva. Crede che sia disposta a investire? «L' opinione pub blica è sempre stata schizofrenica sull' Africa. Qualche anno fa cambiavano i regimi di Paesi come il Sudafrica ed ecco che gli Usa erano pronti a creare una nuova rete commerciale. Poi è arrivata la crisi in Africa centrale, la battaglia per le riso rse, le guerre dei diamanti e tutti sono riprecipitati nel pessimismo. Ma il trend sul lungo periodo rimane positivo. Gli aggiustamenti strutturali in Paesi come Uganda, Botswana, Mozambico hanno dato buoni risultati». Come pensate di agire? «Con un approccio nuovo. E' finita l' epoca dei "progetti" sulle singole comunità o sulle singole aree. Bisogna puntare su governi che si preoccupino di investire sull' istruzione e la salute e che promuovano uno sviluppo che non sia quello ordinato dalle is tituzioni finanziarie». Le istituzioni finanziare a loro modo sono state le prime a dettare le regole del «buon governo», a chiedere un freno a corruzione e sprechi. «L' hanno fatto imponendo condizioni e legando i prestiti a queste. Non funziona. I governi devono adottare le riforme spontaneamente. Non serve che siano governi necessariamente democratici. Devono essere affidabili e legittimati dal consenso popolare». Crede che l' alleviamento del debito sia una misura utile? «Solo per i Paesi ch e lo meritano, che hanno realizzato delle buone performance, riuscendo ad attrarre capitali stranieri, come il Mozambico. Altrimenti si ritorce contro. Le banche diventano sospettose, si rischia che chiudano l' accesso ai crediti pure in futuro». Com e collaborate con le istituzioni finanziarie? «Cerchiamo di unire le forze. Loro hanno le risorse, noi legittimità politica su questioni come l' assistenza elettorale o le riforme dell' amministrazione. Diciamo che loro lavorano come giudici, noi com e consiglio di difesa dei Paesi bisognosi». Rimanete in antagonismo? «In modo amichevole: noi dobbiamo restare più a sinistra di loro. Ma sono finiti gli anni Ottanta, quando l' Onu non voleva sentir parlare di economia di mercato e le banche di prio rità sociali». Una delle vostre priorità è colmare il dislivello informatico tra Paesi ricchi e poveri. A che serve portare Internet in Africa dove manca l' acqua o la luce? «Internet non è una cinica alternativa. E' una rivoluzione dell' economia e dei suoi prodotti. Permetterebbe ai poveri di connettersi con le reti educative o sanitarie, di informarsi sul mercato, di farsi delle web page per vendere ciò che possono». La new economy riscatterà l' Africa che non ha avuto neanche la vecchia econ omia? «Sono un capitalista e credo che bisogna allargare l' accesso al potere ai poveri. Internet lo fa».




mercoledi, 12 aprile 2000
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Nigeria, il bimbo che diventò patata

Uomini-caimano, cannibali, stregoni: le credenze come riparo alle miserie dell' Africa

La presunta metamorfosi potrebbe nascondere un omicidio. Ma gli inquirenti chiedono il test del Dna Nigeria, il bimbo che diventò patata Uomini-caimano, cannibali, stregoni: le credenze come riparo alle miserie dell' Africa A Maiduguri, nel Nord-oves t della Nigeria, un bambino sarebbe stato trasformato in patata. Colpa di una caramella. O meglio, intervento malefico di uno stregone, che avrebbe adescato il piccolo per poi procedere alla metamorfosi vegetale. Il caso, riportato dalla Cnn spagnola , è esploso quando è stato chiesto che il Dna dell' ortaggio venisse esaminato presso il Laboratorio scientifico della città. Nulla si sa sull' esito dei test, ma i sospetti della polizia hanno poco a che vedere con i culti animisti dell' Africa nera : la trasformazione del bambino in patata potrebbe molto più prosaicamente nascondere un omicidio. Ipotesi ragionevole. Ma non basta a liquidare l' alito magico che ancora oggi soffia sul continente. L' incubo della metamorfosi, la caccia alle stregh e, i rituali di guerra, la tentazione del cannibalismo o del sacrificio umano, quei costumi che esploratori come Stanley osservavano straniti alla fine dell' Ottocento continuano a resistere alla modernizzazione. In Nigeria si è chiesto il supporto d ella scienza, ma l' arcano resta. Paravento di interessi individuali, talvolta strumento di controllo sociale, molto spesso unico riparo alla miseria e alle nuove contraddizioni portate proprio dallo sviluppo. UOMINI-CAIMANO - «La base delle credenze africane è la religione animista - ricorda Joe Faniran, sacerdote-giornalista nigeriano -. Porta irrazionalmente a pensare che certi esseri umani siano in grado di governare gli spiriti che pervadono ogni elemento della natura. La metamorfosi in ani mali, piante o addirittura pietre è una delle credenze più comuni». L' esoterismo può finire però a far da paravento all' odio, come dimostra un caso denunciato dall' agenzia vaticana Fides. Il 12 novembre a Mobaye, nella Repubblicana centrafricana, un pescatore è affogato nel fiume Oubangui. I parenti hanno subito dato la colpa agli Yakoma, l' etnia avversa, i cui membri sarebbero capaci di trasformarsi in «uomini-caimano». La vendetta si è abbattuta sui rivali: cinque pescatori Yakoma fatti a pezzi dai familiari della vittima, senza che la polizia muovesse un dito per fermare la strage. In Camerun, sono serpenti e uccelli a offrire mentite spoglie alle anime «nere». Nella prigione centrale della capitale, Yaoundè, 200 secondini fanno la g uardia a un solo detenuto, temendo che di notte si trasformi in uccello e voli via. L' uomo, Pitus Ezoe, è in realtà l' esponente politico che nel 1997 aveva tentato di strappare la poltrona al presidente Paul Biya. I suoi presunti poteri legittimano un caso di repressione politica. CANNIBALI E STREGONI - Anche la guerra è terreno propizio ai rituali. A Kinshasa, capitale del Congo, molti bambini sono stati cacciati da casa, torturati o uccisi perchè accusati di stregoneria. Ma i veri specialist i nella manipolazione delle arti magiche sono i capi milizia: le pozioni che rendono «impermeabili alle pallottole» trasformano le loro giovani reclute in combattenti feroci e incoscienti. In Liberia, durante la guerra civile del ' 95, alcune fazioni mangiavano il cuore dei nemici per acquistare invulnerabilità, rispolverando a fini militari il cannibalismo rituale praticato sul corpo dei defunti. Il continente vive dunque immerso in un eterno medioevo? Fermo a quell' era che un antropologo come Basil Davidson definisce «prescientifica»? «Non credo sia un problema di epoche storiche, ma di periodi di crisi - dice Marco Aime, ricercatore di etnologia all' università di Genova -. In Africa il dilagare dei modelli occidentali ha prodotto lacer azioni e paure che possono aver ridato vigore all' occulto». Non serviranno gli Internet Café o i miraggi di sviluppo a dissipare il sonno della ragione. Il bambino-patata nigeriano basta a ricordare che le antiche e le moderne ferite dell' Africa ri mangono aperte.




lunedi , 10 aprile 2000
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Nei rifugi dei gorilla sopravvissuti alla guerra

Sui vulcani del Ruanda, seguendo le tracce dei primati studiati da Dian Fossey
, Mainardi Danilo

Nei rifugi dei gorilla sopravvissuti alla guerra Sui vulcani del Ruanda, seguendo le tracce dei primati studiati da Dian Fossey L' alba equatoriale rischiara le brume del Virunga, lasciando odore di muschio e terra bagnata. Emanuel, 20 anni sui senti eri d' alta quota, avanza a colpi di machete in una giungla senza cielo, fitta di bambù, liane e felci giganti. La guida insegue tracce preziose, zolle rimosse, erba calpestata, segnali di una delle specie più rare del pianeta, gli ultimi gorilla di montagna, messi in pericolo, qui nel Nord-ovest del Ruanda, da sei anni di guerra. Tre soldati dell' Esercito patriottico ruandese, fucile in spalla, binocolo al collo, spiano l' orizzonte grigio verde della foresta. Il parco è riaperto ai turisti da l 15 luglio dell' anno scorso. «La situazione è sotto controllo» assicura uno dei responsabili, Claude Serahingo. Ma è difficile dimenticare che gli otto vulcani del Virunga, turbolenta frontiera fra Ruanda, Uganda e Congo, sono stati a lungo terra m aledetta. Dal genocidio ruandese del ' 94, quando gli estremisti Hutu fecero a pezzi 500 mila Tutsi, alla Grande Guerra d' Africa che ancora coinvolge una mezza dozzina di Stati per il controllo delle frontiere e delle miniere del Congo, il parco è d iventato un buco nero, infestato da ribelli, assediato dall' esercito, sconsigliato ai visitatori. Gli stessi gorilla ne sono rimasti intrappolati. Uccisi. Feriti. Catturati dai bracconieri, denunciano le organizzazioni ecologiste. «Storia vecchia - insiste Serahingo -. I guerriglieri sono stati eliminati». E anche Emanuel fa sì con la testa, preoccupato solo che gli ospiti rispettino il galateo della natura: «Se un gorilla vi fissa, abbassate gli occhi. Se vi tocca, state fermi - suggerisce -. Sono animali pacifici ma devono essere loro a decidere se accogliervi nel gruppo». Dopo tre ore di marcia mucchietti di escrementi denunciano la presenza del «silverback», il maschio dominante. Pochi minuti e i gorilla sono tutti attorno. Una trentin a, alti più di un uomo. Le femmine con i piccoli che allungano curiosi le mani verso i visitatori, i giovani maschi appesi alle liane, la schiena argentata del «grande padre», un colosso da 200 chili, nascosto in disparte. Gli ultimi esemplari di una specie in via d' estinzione, resi celebri dal film «Gorilla nella nebbia», ispirato alla vita dell' etologa americana Dian Fossey, stanno bene. Sopravvivono nella geografia insanguinata dei Grandi Laghi, a un conflitto che oltre a far strage di uomi ni, ha messo a rischio l' ecosistema del Virunga. Per anni si era saputo poco di loro. Stime vaghe, come quelle di un ex collega della Fossey, che parlava di 23 gorilla uccisi dalla guerra. «Esagera - dice Tony Mudakikwa, veterinario del Mountain Gor illa Veterinary Project -. I problemi sono stati in Congo, dove abbiamo avuto 4 gorilla morti per ferite d' arma da fuoco nel ' 95 e altri 4 tra il ' 98 e il ' 99. Nessuno in Ruanda». E a fine ' 98 le organizzazioni ecologiste registravano un baby-bo om: 10 animali nati nell' arco di un anno e mezzo, altri 2 quest' anno. Nel Virunga oggi vivono poco più di 600 gorilla: 310 tra Ruanda e Congo, e 300 in Uganda, nella foresta di Bwindi, dove l' anno scorso otto turisti anglosassoni vennero massacrat i dagli Interahamwe, i ribelli Hutu ruandesi. Liz Williamson, l' inglese che coordina il Dian Fossey Gorilla Fund, scuote la testa: «La preoccupazione resta, tanto è vero che i nostri staff devono seguire addestramenti paramilitari. Qui è successo di tutto: passaggio di truppe, combattimenti, agguati. Le mine sono state rimosse nel ' 95, ma ci sono ancora le trappole dei bracconieri. Poi c' è il problema dei rifiuti lasciati dalle fazioni e la paura che i virus portati dagli umani siano letali p er i gorilla». E anche se la Difesa territoriale conta più di 50 guardie, affiancate dall' esercito, neanche gli scienziati salgono sui vulcani senza scorta. Sui gorilla del Virunga sembra pesare uno strano maleficio. Dian Fossey, che li ha studiati per oltre 20 anni, venne uccisa nell' 85 in circostanze misteriose. Si parlò di bracconieri. O chissà, della mafia degli Akazu, il clan del presidente Hutu, Juvénal Habyarimana. Nove anni dopo, il 6 aprile ' 94, il presidente del Ruanda morì in un at tentato aereo. Il Paese precipitò nell' «olocausto». I Tutsi subirono il massacro ma vinsero la guerra, costringendo alla fuga nell' ex Zaire 1 milione e 200 mila Hutu. Allora partì il primo allarme per i gorilla: i rifugiati disboscavano la foresta, 113 mila chilometri quadrati distrutti vicino alla frontiera. Nel ' 96, i campi dell' ex Zaire vennero ripuliti dalle armate di Laurent Desirée Kabila e i profughi tornarono in Ruanda. Fu quasi peggio. Nel Nord-ovest del paese, la prefettura di Ruhe ngeri, porta d' ingresso del Virunga, si trasformò in campo di battaglia tra Tutsi e guerriglieri Hutu che tentavano di riconquistare il potere. Il parco fu chiuso nel giugno ' 97, gli stranieri evacuati. «Una nostra guida fu uccisa dai ribelli - rac conta Liz Williamson -. E l' ultima volta che sono salita sui vulcani c' erano loro tracce dappertutto. Karisoke, il centro scientifico creato da Dian Fossey, era diventato una base dell' esercito». Poi c' è stata la guerra dichiarata nel ' 98 da Rua nda e Uganda al presidente del Congo Kabila (appoggiato da Zimbabwe, Angola e Namibia). «Per due anni non siamo riusciti a visitare i gorilla» aggiunge Liz. L' ultimo conflitto è servito a ripulito il Virunga e a cacciare i ribelli Hutu dalle regioni frontaliere. Ma le speranze di pace, legate al «cessate il fuoco» firmato sabato in Uganda, sono fragili. I gorilla si sono riimpossessati della giungla. Liz Williamson è tornata a prendersi cura di loro. Ma tra i vulcani l' incognita resta. Quei tr e soldati di scorta, con i fucili in spalla e i binocoli al collo. (4 - le precedenti puntate, sui pinguini della Patagonia, l' orca Keiko e i grifoni in Sicilia, sono state pubblicate mercoledì 15 marzo, mercoledì 22 marzo e dome nica 2 aprile) L' ESPERTO Saggi e intelligenti sono i nostri parenti più stretti Il gorilla venne scoperto dalla scienza ufficiale solo nel 1847, e il primo che venne esibito in uno zoo comparve in Inghilterra, alla Wombwells Menagerie, nel 1855. Que lli erano tempi in cui sembrava che i gorilla fossero infiniti. Li si prelevava, li si cacciava per puro divertimento, li si immaginava ferocissimi. Un esploratore, Rupert Garner, per studiarne il comportamento pensò di farsi costruire nella fitta fo resta fluviale una robusta gabbia e vi si rinchiuse dentro. E loro fuori, stupiti, ad osservarlo. Oggi i gorilla li si studia facendosi accettare, con pazienza e con sapienza, come membri aggiunti al loro gruppo. Quest' avventura ormai l' hanno vissu ta più di una decina di etologi, e ci hanno lasciato descrizioni dettagliate sulla loro pacifica vita. I gorilla sono saggi bestioni intelligenti: sono, con gli oranghi e gli scimpanzé, i nostri più stretti parenti. La specie è fortemente minacciata di estinzione, ce ne saranno, in totale, 10 mila, 15 mila - difficile è censirli - suddivisi in tre sottospecie, quello occidentale, quello orientale e quello di montagna. Quest' ultimo, soprattutto, è ridotto al lumicino: poche centinaia d' individu i confinati nel «Virunga Park» dello Zaire, nel «Parc National des Volcanos» del Rwanda e nel «Gorilla Sanctuary» dell' Uganda. Le principali minacce sono la caccia per vendere i giovani, ora illegale ma ancora purtroppo praticata, la guerriglia che impedisce ogni controllo e, soprattutto, la distruzione dell' habitat. A proposito del prelievo dei giovani George Schaller rileva come per avere un piccolo sia necessario abbattere un gran numero di adulti e racconta a titolo d' esempio come in una battuta per ottenere undici giovani si uccisero, presso Angumu, 60 gorilla di montagna. Ebbene, soltanto un piccolo sopravvisse. Danilo Mainardi




lunedi , 31 gennaio 2000
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Il vecchio Mandela e i giovani di Sant' Egidio cercano insieme la via della pace in Burundi


La missione del leader carismatico sudafricano accanto alla comunità romana Il vecchio Mandela e i giovani di Sant' Egidio cercano insieme la via della pace in Burundi Nelson Mandela riprende le vesti di mediatore e torna nella regione dei Grandi Lag hi. L' aveva fatto nel 1997, durante l' avanzata di Laurent Desirée Kabila nell' ex Zaire. Ci riprova adesso, con un conflitto altrettanto sanguinoso, quello del Burundi: 200 mila morti in 5 anni, centinaia di migliaia di profughi e sfollati, massacr i senza tregua. L' ex presidente sudafricano, l' uomo che è riuscito a chiudere i conti con l' apartheid, rimette in gioco il suo peso politico e la sua autorità morale per rilanciare le trattative tra la minoranza tutsi al potere e la maggioranza hu tu. Un negoziato difficile, finora impossibile, in cui ha fallito un altro dei «grandi saggi» d' Africa, Julius Nyerere, l' ex «padre» della Tanzania scomparso a ottobre. L' iniziativa di Mandela è partita a metà gennaio, tra Arusha e Dar es Salaam, in Tanzania. Il leader sudafricano, assieme ai rappresentanti della comunità di Sant' Egidio, don Matteo Zuppi e Mario Marazziti, ha riportato al tavolo negoziale 18 partiti di entrambe le etnie. «Ciascuno di voi è responsabile della strage quotidian a di uomini, donne e bambini - ha gridato il leader sudafricano ai delegati burundesi -. Ciascuno di voi è responsabile di aver ritardato la pace». Il 19 gennaio Mandela è volato a New York e con la stessa durezza ha arringato il Consiglio di sicurez za dell' Onu. Ma le ipotesi di successo di questo nuovo round negoziale sono condizionate dall' assenza di alcune fazioni, le più importanti. Come l' Fdd, le Forze per la difesa della democrazia. In altre parole, le milizie hutu che combattono contro il regime del presidente Pierre Buyoya. «Abbiamo iniziato a parlare del cessate il fuoco, della formazione di un esercito unico in vista della transizione, della riforma del sistema elettorale - spiega Mario Marazziti -. Ma dobbiamo adesso convincer e i ribelli ad accettare il negoziato. E a farlo in fretta». Senza le milizie, si rischia infatti di ripetere lo scenario in cui si era impantanata la «Fondazione Nyerere», durante i suoi 18 mesi di negoziato. «Una perdita di tempo», aveva detto l' e x presidente della Tanzania. Una macchina tritasoldi, servita solo a dar da mangiare, bere e dormire alle oceaniche delegazioni burundesi. Otto milioni di dollari (16 miliardi di lire), versati dalla comunità internazionale, finiti nel nulla. Tanto è vero che, per andare avanti, sono già stati richiesti altri 2 milioni e mezzo di dollari. «Urgenza» è la parola d' ordine. Ed è anche questione di vita o di morte. Il Burundi, ex colonia belga indipendente dal 1962, abitato all' 85% da hutu e al 15% da tutsi, ripercorre la stessa storia di sangue del vicino Ruanda. Nel 1993 l' assassinio di Melchior Ndadaye, il primo presidente hutu democraticamente eletto, portò il Paese sull' orlo del genocidio. Il massacro non raggiunse i livelli di quello r uandese del 1994, ma si è lasciato dietro uguali dinamiche di odio e vendetta. L' ascesa al potere di Pierre Buyoya, con il golpe del 1996, ha rafforzato la minoranza tutsi. Gli hutu si sono dati alla macchia. Guerriglia fantasma, fatta di imboscate e attacchi, come in Ruanda. L' esercito risponde con rastrellamenti, arresti, altri massacri. La spartizione etnica, voluta dal governo, ha fatto il resto. Il Paese è costellato da decine di «campi di protezione». Ufficialmente sono luoghi di tutela. Di fatto, recinti umani dove sono state deportate oltre 300 mila persone. Dissenteria, colera, malnutrizioni uccidono più della guerriglia, mentre l' accesso delle agenzie umanitarie è reso difficoltoso dalle pessime condizioni di sicurezza in cui s i trova l' intero Paese. Nel puzzle dei Grandi Laghi, il Burundi è solo un tassello di un conflitto infinito che coinvolge una mezza dozzina di Stati. La Grande Guerra d' Africa, scoppiata ad agosto del 1998, scaturita dagli scontri etnici tra hutu e tutsi, vede tutt' oggi schierati da una parte il presidente Kabila, l' Angola, lo Zimbabwe, e dall' altra Ruanda e Uganda. Anche lì si era tentata la pace, a luglio scorso, con gli accordi di Lusaka, in Zambia. Anche lì si è fallito. Oggi si rilanci ano le trattative. Ma Mandela stavolta non ci sarà. Kabila non lo gradisce. Lo accusa di aver preso un po' troppo le parti di Mobutu nel 1997. In compenso interverrà Sant' Egidio. Don Matteo Zuppi è appena tornato da lì.




martedi , 04 gennaio 2000
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In Egitto faida religiosa tra cristiani e musulmani. Venti morti negli scontri


Violenze estese a più villaggi, i copti accusano In Egitto faida religiosa tra cristiani e musulmani Venti morti negli scontri La bega tra due commercianti si è trasformata in faida familiare. La faida in battaglia, con colpi sparati dai tetti e per strada. La battaglia in carneficina, con 20 morti, 44 feriti, decine di case e auto date alle fiamme, negozi saccheggiati. E' riesploso così nel Sud dell' Egitto l' antico odio tra copti e musulmani, sfociato in una guerra di religione che dal ' 92 h a fatto della comunità di matrice cristiana uno dei primi bersagli degli integralisti islamici. Si è riacceso mercoledì nella cittadina meridionale di el-Kushesh, a 440 chilometri dal Cairo, con un litigio da niente. Fayez Awad, un ambulante musulman o, voleva comprare a credito alcuni tessuti da Fahim Mansour, un grossista cristiano. Il venditore gli ha negato il favore. L' altro si è ripresentato con due fratelli e le armi in pugno. I primi feriti, tre passanti a dorso di mulo. Due giorni ancor a e nel paese (23 mila abitanti, per due terzi di religione copta) risuonavano altri colpi: un uomo e una ragazza sono rimasti uccisi. Domenica all' uscita della messa non c' è stato freno alla rabbia. Ancora raffiche contro negozi e case cristiane. Quando sono intervenute le squadre anti-sommossa, la violenza aveva già contagiato i centri vicini. Il governo egiziano ha condannato «gli elementi criminali che manipolano i rapporti conflittuali tra musulmani e cristiani sulle questioni d' affari». Ma dagli Stati Uniti l' associazione dei cristiano-copti ha lanciato accuse precise. «Sono stati gli imam dalle moschee a incitare i musulmani a uccidere i cristiani infedeli», mentre la polizia presente sul posto si sarebbe limitata a guardare. Sto ria vecchia. Nel 1998 era successo qualcosa di simile, e sempre ad el-Kushesh, con la polizia denunciata per brutalità contro i cristiani. L' anno prima la mattanza, attribuita agli estremisti islamici della Jamaa Islamiya (lo stesso gruppo che firmò il massacro di 60 turisti a Luxor), aveva insaguinato una chiesa della provincia di Al Minya e altri villaggi del Sud. Ultimamente gli estremisti sembravano aver accettato la tregua. Ma una giovane agguerrita cupola potrebbe aver riscelto la strateg ia del sangue. «Infedeli», i copti. Emarginati e mal tollerati dallo stesso governo del Cairo, con i loro 6 milioni di seguaci (il 10% della popolazione egiziana) rappresentano il più grosso nucleo cristiano del Medio Oriente. Il presidente Anwar Sad at aveva ordinato la deposizione del loro Papa, Shanuda III, e li aveva tartassati con vincoli e restrizioni. Il successore Hosni Mubarak si è mostrato magnanimo, ma questo non ha impedito che la comunità continuasse ad essere oberata dalla jizia, la tassa islamica imposta nel Sud, e che il racket delle estorsioni, gestito dagli integralisti islamici, li costringesse a versare l' obolo per la himaya, la cosiddetta «protezione». Al Cairo è anche peggio. Mokatam, il quartiere discarica della capit ale, è l' unico rifugio degli zabalin, gli ultimi degli ultimi, i più diseredati tra i copti d' Egitto. ---------------------------------------------------------------------------------------- LA COMUNITA' LE ORIGINI I copti, dall ' arabo Qubt, storpiatura del greco Aiguptos, «egizio», furono i primi abitanti cristianizzati della valle del Nilo. Il loro insediamento è precedente a quello delle tribù islamizzate da Maometto che invasero l' Egitto nel 639 L' EMARGINAZIONE A part ire dal 1910 combatterono assieme ai musulmani contro la dominazione inglese. Ma dopo l' indipendenza, la loro comunità, 6 milioni di seguaci su 64 milioni di egiziani, è stata sempre più emarginata




lunedi , 22 novembre 1999
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Le ombre del massacro del 1994
"Prete genocida in Ruanda e' viceparroco a Firenze" Lui nega: "Ero gia' partito"



Le ombre del massacro del 1994 "Prete genocida in Ruanda e' viceparroco a Firenze" Lui nega: "Ero gia' partito" Una nuova identita' . Un' altra vita. Una chiesa di Firenze, l' Immacola ta di San Martino a Montughi, dove dire messa ogni mattina. Don Anastasio Sumba Bura, 36 anni, sacerdote ruandese approdato in Italia, ha vissuto cosi' dal settembre 1997, circondato dall' affetto dei parrocchiani, dalla stima dell' arcivescovo, dal rispetto dei superiori. Al riparo dal passato. Ma nel lontano Ruanda, i sopravvissuti al genocidio del ' 94 non avevano dimenticato. Sussurri, sospetti, memorie. Un collage di testimonianze e di accuse, culminate in una denuncia lanciata da Africa Ri ghts, organizzazione londinese per i diritti umani, ha rotto l' incanto. Dietro don Anastasio Sumba Bura si nasconderebbe Athanase Seromba, un prete hutu ritenuto responsabile della morte di oltre 2000 tutsi nella chiesa di Nyange, non lontano dal la go Kivu. Un giornalista del Sunday Times, Jon Swain, e' andato oltre. La sua inchiesta, pubblicata ieri, ha ricostruito la storia del massacro e le presunte responsabilita' del sacerdote, svelando il rifugio italiano. Le colpe di don Seromba comincer ebbero l' 8 aprile ' 94, a ventiquattr' ore dall' inizio delle stragi. Migliaia di tutsi in fuga dalle milizie hutu cercano riparo nella sua chiesa. Il prete li incoraggia. Fa il doppio gioco: lo vedono partecipare alle macabre sessioni del "Comitato speciale per la sicurezza", l' organo locale per la pianificazione del genocidio. Il 14 aprile, le milizie hutu attaccano la chiesa: "Con machete, bombe a mano, pistole, fucili, persino frecce e lance - racconta Bertin Ndakubana, testimone oculare - la gente moriva come mosche, mentre Seromba stava sulla veranda della casa e assisteva al massacro come guardasse un bel film". Alla fine della strage il sacerdote avrebbe dato il permesso ai bulldozer di spianare la chiesa e seppellire i morti. Que ste le accuse. Don Anastasio Sumba Bura smentisce di nascondersi sotto falso nome: "Come si usa nel mio Paese ho due nomi: Seromba e Sumba Bura". Intervistato dalla Nazione, nega ogni responsabilita' : " + tutto falso. Il massacro di cui si parla ven ne commesso tra il 14 e il 16 aprile, ma io scappai dal villaggio il 6 aprile". Resta il fatto che il genocidio - 90 giorni di eccidi in cui persero la vita 800 mila tutsi e hutu moderati - rappresenta per la Chiesa cattolica una pagina dolorosissima : decine di religiosi sono accusati dall' attuale regime tutsi (filoprotestante) di aver appoggiato gli hutu nei massacri. Di piu' : don Anastasio sarebbe uno dei 30 ecclesiastici "ricollocati" nelle parrocchie. Arrivato in Italia, attraverso il Keni a, e' stato presentato dai suoi superiori al cardinale Silvano Piovanelli e da li' mandato come viceparroco presso la chiesa dell' Immacolata. Africa Rights chiede adesso che venga fatta giustizia. M.G.C.




venerdi , 13 agosto 1999
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Irene Martino in ostaggio con un gruppo di occidentali
Liberia, infermiera italiana
sequestrata dai guerriglieri

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La richiesta d'aiuto era stata lanciata al mattino: «Per favore, fate scattare il piano di evacuazione. Vogliamo andare via». A Kolahun, nel Nord della Liberia, Irene Martino, infermiera milanese ingaggiata da Médecins sans Frontières, e il collega n orvegese Trond Heeldaas, si erano accorti che nella regione, ai confini con la Guinea-Conakry, la situazione stava per precipitare. Gli spari, cominciati nella notte, si erano fatti più intensi. Echi di battaglia. Aria di guerra. Ma l'Sos, raccolto d al quartier generale nella capitale, Monrovia, è arrivato troppo tardi. Qualche minuto dopo che la radio aveva smesso di gracchiare, tra le otto e le nove di mercoledì mattina, l'italiana, il collega norvegese e quattro volontari britannici, erano st ati catturati dai guerriglieri. A mezzogiorno, un nuovo segnale radio. Il norvegese si è rimesso in comunicazione con la sede centrale di Médecins sans Frontières: «Stiamo tutti bene». Ieri, un terzo messaggio: «Siamo in mano ai ribelli. Ma non chied eteci quali siano le loro intenzioni. Non sappiamo nulla». Poco sanno anche le ambasciate e le organizzazioni per le quali lavorano i volontari: oltre all'italiana e al norvegese, quattro operatori britannici dell'associazione Merlin e dell'Interna tional Rescue Comittee. «Nessuna richiesta di riscatto», dice Paola Ferrari, addetta stampa alla sede di Roma di Médecins sans Frontières. «Nessuna rivendicazione». All'ambasciata italiana di Abidjan, in Costa d'Avorio, la più vicina alla capitale li beriana, comunicano solo che un «passo ufficiale è stato compiuto presso le autorità per il rapido rilascio dei sequestrati». Silenzio su tutti. Compresa Irene Martino, l'infermiera di Milano: 34 anni e vita da single. «Era arrivata in Liberia all' inizio di luglio», racconta Paola Ferrari. Campi profughi, dopo la carestia e la guerra vissuta per quattro mesi in Sudan. Irene Martino non rimpiangeva le corsie degli ospedali milanesi. «Era un'entusiasta. Quando la incontrai alla vigilia della par tenza mi disse che niente al mondo le aveva dato le stesse soddisfazioni del lavoro in Africa». L'infermiera era stata selezionata dalla sede italiana di Médecins sans Frontières per un progetto belga. Dagli stessi uffici partono tutti i volontari it aliani destinati a missioni sponsorizzate da Bruxelles, dalla Francia, dalla Spagna: 38 volontari nel '98, 33 quest'anno. Chi l'ha rapita? L'unica certezza al momento è che la Liberia è di nuovo in guerra. Il Paese - 3 milioni e mezzo di abitanti s u un territorio ricco di oro e diamanti - dal 1990 in poi è stato teatro di uno dei conflitti civili più sanguinosi d'Africa: 150 mila i morti, oltre 2 milioni i profughi. Dal 1997 le cose sembravano parzialmente cambiate: Charles Taylor, uno dei sig nori della guerra che avevano fatto man bassa della regione, era stato eletto presidente. Non si può dire che sia rimasto tranquillo: il conflitto che si è combattuto fino a luglio scorso nella vicina Sierra Leone è stato in gran parte opera dei ribe lli da lui finanziati. Ma in patria, Taylor andava fiero di aver ristabilito la pace. Ieri ha dovuto invece ammettere, in un discorso d'emergenza rivolto al Paese, che «il 10 agosto la Nazione è stata attaccata militarmente da forze dissidenti proven ienti dalla Guinea». E che tutta la regione di Kalahun «è stata occupata». Il suo ministro degli Esteri, Moni Kaptan, ha rivelato che dietro i «dissidenti» si nasconderebbero i guerriglieri dell'Ulimo, fazione alle dipendenze di un altro ex signore d ella guerra, Roosvelt Johnson. Sono loro gli autori del rapimento? Londra ha preparato una squadra da inviare a Monrovia. Non di militari, ha voluto chiarire il Foreign Office (dopo lo scandalo della Sierra Leone dove i mercenari inglesi hanno comb attuto a fianco del governo). Né gente incaricata di trattare con i ribelli. Solo un team di diplomatici che aiuteranno il governo: guerra permettendo. A Monrovia, esercito e milizie sono in stato d'allerta. E nel Nord-est del Paese hanno già lanciat o un contrattacco «chirurgico» contro i ribelli.




lunedi , 28 giugno 1999
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CONFLITTO DIMENTICATO
Migliaia di caduti al confine tra Etiopia ed Eritrea

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La guerra tra Etiopia ed Eritrea sta per entrare nel quattordicesimo mese di combattimenti. Nelle ultime settimane si parla di decine di migliaia di vittime e di un allargamento del conflitto in Somalia. Ma per il momento è destinata a rimanere una g uerra dimenticata. O quanto meno ignorata. Gli Stati Uniti hanno già detto che non hanno alcuna intenzione di intervenire. Clinton l'ha spiegato chiaramente il 17 maggio: «Abbiamo il dovere di fermare la violenza religiosa, razziale ed etnica, ma non possiamo intervenire in qualunque guerra. Talvolta i popoli hanno diritto di combattersi». Le parole del presidente americano, pronunciate in piena crisi balcanica, erano proprio una risposta a quanti lo accusavano di trascurare la guerra tra Etiopi a ed Eritrea, ex bastioni del nuovo ordine africano, disegnato da Washington tra il '96-'97. «Conflitto terribile, deprecabile», aveva tagliato corto Clinton. Liquidandolo però come «un conflitto di confine» e per giunta «su base tribale». Qualche gi orno fa, davanti alle truppe americane a Skopje, il presidente ha però ricordato che ormai l'Occidente è pronto a colpire dovunque le circostanze lo richiedano «in Europa come in Africa». E non è neanche una novità. Già a marzo del '98, in Uganda, Cl inton aveva lanciato di fronte a una pletora di capi di Stato africani un suo manifesto per la «prevenzione» di massacri e genocidi. Etiopia ed Eritrea continuano però a non rientrare nella classifica delle guerre degne dell'attenzione internaziona le. Eppure i morti sono tanti. Difficile calcolarli con esattezza, perchè le cifre sono sempre di parte e mai verificabili. Ma comunque tanti. Nell'ultima offensiva, lanciata tre giorni fa da Asmara, l'Eritrea ha dichiarato di aver ucciso, ferito e c atturato 18 mila militari etiopi, mentre Addis Abeba riporta a sua volta di aver ucciso, ferito e catturato 24 mila eritrei. Solo ieri ci sarebbero state 850 perdite da parte etiope e 5.590 da quella eritrea. L'unica iniziativa presa finora, una medi azione dell'Italia che sta tentando di far accettare ai due Paesi il piano di pace proposto dall'Organizzazione per l'Unità africana, non è ancora servita a fermare la violenza. Etiopia ed Eritrea, che si erano pacificamente separate nel '93 e altret tanto pacificamente si erano presentate al mondo fino al'98 come i campioni del Rinascimento africano, nel conflitto hanno trascinato rancori politici e rivalità economiche. Da una parte, la questione del confine: 400 chilometri quadrati lungo una fr ontiera mai tracciata dalle mappe attuali. Ma, dall'altra, ragioni come la decisione presa da Asmara nel '97 di creare una propria moneta, il nafca, alla quale l'Etiopia ha risposto alterando la parità dei cambi. O i balzelli imposti all'Etiopia sul porto eritreo di Assab. Qualcosa di più di un semplice «conflitto tribale».





sabato , 10 aprile 1999
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Carri armati nella capitale
Niger, colpo di Stato. Il presidente ucciso
dagli agenti di scorta

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Lo chiamavano «IBM», come la multinazionale americana. Ma erano solo le iniziali del suo nome: Ibrahim Baré Mainassara, presidente del Niger. Leader di uno dei Paesi più miseri ed estesi dell'Africa sub-sahariana. È stato ucciso ieri, all'aeroporto della capitale Niamey. Dalla stessa guardia presidenziale - riferiscono fonti occidentali - mentre tentava di partire verso il suo villaggio natale, nella zona di Maradi. A 550 chilometri dai disordini e dal caos che si preannunciavano in città. I m ilitari hanno sparato una prima volta, fallendo l'obiettivo. Poi l'hanno catturato trascinandolo in una base vicina. Che il Niger, ex colonia francese, indipendente dal 1960, stesse scivolando verso il golpe era nell'aria da tempo. Almeno dal 7 feb braio, dopo che la Corte suprema aveva deciso di annullare i risultati delle elezioni amministrative. L'opposizione aveva raddoppiato le sue proteste, mentre cadevano nel vuoto gli appelli alla calma lanciati dal governo. Ieri mattina, truppe e blind ati sono apparsi per le vie principali di Niamey, sbarrando l'accesso al palazzo presidenziale. Chiuse radio e Tv. Sospese le trasmissioni e interrotte le linee telefoniche. Nessuno sparo. Nessun assalto. Solo la notizia, qualche ora dopo, dell'assas sinio del presidente. Ibrahim Baré Mainassara, 50 anni, musulmano, membro dell'etnia maggioritaria degli Hausa, una carriera giocata tra politica ed esercito, era salito al potere il 27 gennaio del '96, a sua volta con un golpe. Sei mesi dopo veniv a eletto presidente. Capo di uno Stato abitato da 8 milioni e mezzo di persone, relegato dall'Onu al quinto posto della graduatoria dei Paesi più poveri del mondo, il presidente del Niger non era mai riuscito a creare un vero consenso attorno a sè. I suoi amici erano all'estero. In Asia, dove aveva stretto buoni rapporti tanto con Giappone quanto con Cina. Presso il Fondo monetario internazionale. E soprattutto a Parigi, dove gli anni passati come addetto militare prima e ambasciatore dopo gli a vevano fruttato l'appoggio del governo di Alain Juppé. Sul piano interno, l'opposizione, confluita nel '96 nel Fronte per la restaurazione e la Difesa della democrazia, non ha mai smesso di mettere in discussione la legittimità della sua carica. Le e lezioni di febbraio scorso sono state il colpo finale. La Corte suprema ha deciso di annullarne i risultati, dopo che erano scomparsi pacchi di documenti elettorali. L'opposizione ha subito chiesto le dimissioni del presidente. È successo di più. L 'esercito ha tolto «IBM» di mezzo.




mercoledi, 07 aprile 1999
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Dopo la consegna dei due sospetti per Lockerbie
Il ministro Dini sbarca a Tripoli: . Gheddafi promette legami speciali

Per il processo agli attentatori
ci vorranno sei-otto mesi
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È stato il primo rappresentante di un governo occidentale a incontrare Muhammar Gheddafi, nella sua tenda nel deserto. Il primo ministro europeo a mettere fine con una stretta di mano agli anni bui dell'isolamento libico e chiudere un decennio avvele nato dall'eredità di sangue della strage di Lockerbie. Lamberto Dini ha voluto far da apripista, volando ieri a Tripoli, a meno di 24 ore dalla più importante delle aperture concesse dal Colonnello. Vale a dire, la consegna alla giustizia internazion ale dei due agenti libici accusati dell'attentato al Boeing 747 della Pan Am, esploso in volo sulla località scozzese di Lockerbie il 21 dicembre 1988, causando 270 morti. Il ministro degli Esteri italiano ha salutato così la svolta del regime. Ma soprattutto la fine delle sanzioni, sospese dall'Onu lunedì, dopo sette anni, non appena Abdel Basset al-Megrahi e Al-Amin Khalifa Fahima, i due presunti attentatori di Lockerbie, sono arrivati in Olanda. Dini, ricevuto all'aeroporto di Tripoli dal m inistro degli Esteri libico Omar al-Montasser, si è dichiarato «felice di arrivare in Libia in aereo senza impacci». Primo effetto della fine dell'embargo sui voli. Ricevuto da Gheddafi nella tenda sotto la fortezza turca di Sehba, nel deserto del Fe zzan, a 700 chilometri da Tripoli, il ministro ha detto: «E' un segnale indirizzato alla Libia per il suo reinserimento nella comunità internazionale». Ha poi invitato Tripoli a prendere parte alle prossime riunioni del Forum euromediterraneo, l'orga nizzazione lanciata nel '95 in Spagna, con l'adesione dei 15 Paesi dell'Ue e 13 Stati del Nordafrica e del Medio oriente. L'Italia, ha detto Dini «si farà parte attiva perché la Libia venga invitata al vertice di Stoccarda il 15 e il 16 aprile». Risp osta di Gheddafi: Tripoli è pronta a svolgere un ruolo per la stabilità nel Mediterraneo e intende allacciare «relazioni privilegiate in tutti i campi con l'Italia» che l'ha aiutata nei «momenti difficili». Un altro effetto di quest'inizio di norma lizzazione dei rapporti si vedrà oggi a Roma, dove si inaugurerà, presso la sede dell'Ubae Arab Italian Bank, il vertice che darà il via a una società mista a maggioranza italo-libica: un organismo con il quale si regoleranno investimenti e scambi tr a i due Paesi. È stata inoltre fissata per il 15 aprile la ripresa dei voli di linea da Fiumicino a Tripoli. La fine dell'embargo, atteso dalla Libia certamente, ma anche da molti Paesi occidentali, apre dunque una nuova era. E nuovi mercati. Solo nel settore delle infrastrutture e dei trasporti si calcolano possibilità di investimento pari a 24 mila miliardi di lire. E poi ci sono gas e petrolio. Le sanzioni non ne ostacolavano la vendita, ma i limiti imposti ai trasporti e all'acquisto di st rumentazioni necessarie a migliorare gli impianti, avevano comunque ridotto le capacità dell'industria. La produzione di greggio, ora di un milione di barili al giorno, promette nuova linfa alla crescente richiesta europea. Se l'Italia ha voluto pr ecedere gli altri Paesi non è stato a caso. Già a luglio scorso, Roma aveva ripreso pieni rapporti con l'ex colonia, governata dal 1911 al 1943. Aveva promesso, in quell'occasione, la riparazione dei danni di guerra, come lo sminamento di eventuali a ree infestate da ordigni. Ma già allora si era assicurata anche un canale privilegiato agli investimenti. L'Italia importa dalla Libia un terzo del suo greggio, l'Eni ha già un progetto di 3,8 miliardi di dollari per la costruzione di una pipeline ch e trasporti il gas tra i due Paesi. Nuove prospettive dunque, grazie alla svolta su Lockerbie. Ma non tutti i conti col passato sono chiusi. In Olanda sono state avviate ieri le procedure contro i due presunti attentatori. Abdel Basset al-Megrahi, 47 anni, e Al-Amin Khalifa Fahima, 43 anni, sono stati sottoposti al test del Dna, incriminati e condotti per l'udienza preliminare davanti a un giudice scozzese, Graham Cox, a Camp Zeist, a 50 chilometri da Amsterdam. «Non si sono dichiarati né colp evoli né innocenti», ha riferito il portavoce del ministero della Giustizia scozzese. Il processo, che si dovrà svolgere secondo il diritto della Scozia e davanti a una corte scozzese, non comincerà per altri 6-8 mesi. Secondo fonti britanniche, avrà inoltre tempi molto lunghi, «anche due anni». I lavori costeranno 340 miliardi di lire. L'ultimo prezzo da pagare alla verità?




martedi , 06 aprile 1999
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Gheddafi consegna i due di Lockerbie

Sono in carcere in Olanda. L'Onu sospende le sanzioni alla Libia. E Dini vola a Tripoli
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Dopo dieci anni di resistenza, alla fine il colonnello Gheddafi ha ceduto. Ieri pomeriggio alle due meno un quarto, un quadrimotore grigio italiano che era decollato da Tripoli è atterrato alla base militare di Valkenburg, vicino L'Aja, in Olanda, pe r consegnare alla giustizia internazionale i due uomini più scomodi del regime libico. Due ex agenti dei servizi d'informazione. Due presunti terroristi: Abdel Basset al-Megrahi, 47 anni, e Al-Amin Khalifa Fahima, 43 anni, la coppia ritenuta responsa bile dell'attentato che il 21 dicembre 1988 fece esplodere nei cieli scozzesi di Lockerbie il Boeing 747 della compagnia americana Pan Am, uccidendo i 259 passeggeri a bordo più 11 persone a terra. La Tv libica, poche ore prima, ricordava che i due si recano in Europa «di loro spontanea volontà per dimostrare la propria innocenza». E li mostrava in assetto da cerimonia mentre stringevano le mani ad ambasciatori, diplomatici, rappresentanti arabi e, con altrettanta cordialità, a Hans Corell, il segretario aggiunto dell'Onu per gli affari legali, incaricato di accompagnarli in Olanda. Le telecamere li hanno ripresi anche con le dita in alto in segno di vittoria. Propaganda di Stato, come di rito. Ma per il regime del colonnello Gheddafi, 57 anni, l'estradizione dei due presunti terroristi potrebbe chiudere una doppia epoca: quella della rivoluzione e dell'isolamento, in cambio di nuovi rapporti politici e commerciali con l'Occidente. La prima contropartita al suo «cedimento» è arriva ta subito: è stato lo stesso segretario generale dell'Onu Kofi Annan ad annunciare la sospensione delle sanzioni (chiusura dello spazio aereo, blocco all'acquisto d'armi e di strumentazioni per gli impianti petroliferi) imposte a Tripoli nel '92, dop o che la Libia si era rifiutata di consegnare i due ricercati. Prendono invece tempo gli Stati Uniti. Per Washington, che ha imposto un suo embargo precedente a quello Onu, ci sono infatti altri punti di crisi con Tripoli che vanno risolti prima di a nnullare le sanzioni. «Non possiamo affrontare questo problema con il processo che deve ancora iniziare», ha detto il portavoce del dipartimento di stato Usa, James Rubin. Ma l'apertura alla Libia è di fatto già sancita. Secondo l'agenzia egiziana Mena il primo a mettere piede a Tripoli, dopo questa svolta su Lockerbie, sarà oggi il ministro degli Esteri italiano Lamberto Dini. Un comunicato della Farnesina ha anticipato ieri la soddisfazione dell'Italia, che già a luglio dell'anno scorso era stata tra i primi Paesi a riaprire pieni rapporti diplomatici e commerciali con Tripoli. La consegna dei due indiziati, dice il testo, «crea le condizioni perché la Libia si reinserisca a pieno titolo nella comunità internazionale, per poter f ornire il suo concorso alla stabilità nella regione mediterranea e mediorientale». I due presunti attentatori, Abdel Basset al-Megrahi e Al-Amin Khalifa Fahima, consegnati alla polizia olandese, sono stati rinchiusi nel carcere De Schie di Rotterda m. Nelle stesse ore si è avviata la pratica di estradizione verso la Gran Bretagna, Paese dove è avvenuta la strage. I libici hanno accettato una procedura d'urgenza, secondo la quale i due imputati saranno processati con il rito scozzese e davanti a giudici scozzesi, a Camp Zeist, un'ex base aerea americana in Olanda. Ma basterà l'estradizione dei due libici a chiudere i conti con il passato? Gheddafi per anni si è opposto alle pretese di Londra e Washington di processare i due presunti terro risti in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Ha poi ottenuto che il processo si potesse svolgere in un Paese terzo, come l'Olanda. Ha tentennato molto sulla prospettiva che, in caso di colpevolezza, i due libici scontino la pena in una prigione britan nica. Non è bastata neanche la risoluzione dell'Onu, votata ad agosto scorso, che prometteva la sospensione dell'embargo, a fargli dire subito sì. Ci sono voluti mesi di garanzie e mediazioni - dalla visita a Tripoli di Kofi Annan fino all'intervento del presidente sudafricano Nelson Mandela e di quello egiziano Hosni Mubarak - per convincerlo. Ma le ragioni delle sue resistenze non erano solo di natura giuridica. Il processo per Lockerbie rischia di risvegliare vecchi fantasmi, di riaccendere i riflettori sull'antica agenda rivoluzionaria del colonnello, e specialmente sul suo ruolo negli anni insanguinati del terrorismo arabo.




lunedi , 01 marzo 1999
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LO STORICO ANGELO DEL BOCA


e stato passivo
e gli sforzi di mediazione
dell'Italia sono tardivi>

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Come storico dell'impero italiano in Africa, Angelo Del Boca non crede che la guerra sia finita. «All'Etiopia non basterà aver strappato all'Eritrea il confine di Bademme». Non crede nemmeno, come studioso dell'avventura coloniale, che alle origini del conflitto ci sia solo una questione territoriale: «Un confine di pietre e sassi non vale una guerra». Quello a cui crede il professor Del Boca - 74 anni, ex docente all'università di Torino, autore di numerose opere sulle conquiste occidentali ne l continente nero - è che tra i due ex alleati del Corno d'Africa siano riesplosi antichi, fieri, pericolosi nazionalismi sui quali si giocano doppie partite. Non solo militari, ma anche economiche e politiche. L'esercito etiopico avanza. Che cosa farà l'Eritrea? «Mi ha colpito che il presidente eritreo Isayas Afeworki, sempre così orgoglioso e ostinato, si sia dichiarato pronto ad accettare un piano di pace che aveva sempre rifiutato. Questo mi fa pensare che si senta veramente in pericolo. Da Bademme ad Asmara non ci sono che 100 chilometri...». Intende dire che l'esercito dell'Etiopia voglia conquistare Asmara? «No, sarebbe una mossa sbagliata. Ma non c'è dubbio che voglia conquistare altro territorio. La guerra si sta rivelando un affare per il premier Meles Zenawi, almeno dal punto di vista politico». In che senso? «Da tempo il governo di Zenawi, e con lui la nomenclatura tigrina, si trovava in grande difficoltà. Gli altri gruppi etnici, come gli Oromo e gli Amhara, es tromessi dal potere, gli erano contro. Invocare la difesa della madre Etiopia, ha compattato il Paese e rafforzato il leader». L'Eritrea avrebbe quindi sottovalutato l'avversario? «Gli errori commessi dagli eritrei sono tanti. Prima di tutto quel lo di sentirsi imbattibili, per il fatto di aver resistito per 30 anni agli attacchi di Hailé Selassié e di Menghistu. Adesso non si tratta però di far la guerriglia, ma una guerra di posizione: e qui entra in campo la sproporzione tra i 4 milioni di eritrei e i 60 milioni di etiopi. L'altro errore: aver appunto creduto che l'esercito avversario fosse indebolito dagli odi etnici. C'è poi la vocazione espansionista. Sin dall'indipendenza, nel '93, l'Eritrea ha dato segnali preoccupanti, come l'oc cupazione delle isole Hanish nel Mar Rosso». Quali sono le vere cause di questa guerra? «I confini, che vanno ridefiniti su quelli coloniali, come è valso per gli altri Paesi africani. Ma soprattutto la questione del porto di Assab. Dopo l'indipe ndendenza dell'Eritrea, Asmara lo aveva reso porto franco, permettendo ad Addis Abeba di utilizzarlo. Poi sono scattati i balzelli e l'Etiopia si è spostata su Gibuti. C'è anche la questione della moneta. L'Eritrea come Stato sovrano ha voluto la sua valuta, il nacfa, affrancandosi dal birr etiopico che aspirava a diventare moneta regionale. L'Etiopia non ha mantenuto la parità dei cambi e sono esplosi i rancori». Responsabilità da tutte e due le parti, dunque? «E anche da una terza: l'Occid ente. L'Italia, per esempio, come ex potenza coloniale aveva l'obbligo di occuparsi della ricostruzione dell'Eritrea. Ma non quello di vendere aerei militari, come ha fatto con sei Aermacchi MB-339-B, e di addestrare piloti eritrei. Apprezzo gli sfor zi per la mediazione del sottosegretario agli Esteri Rino Serri, ma sono tardivi. Fin quando gli arsenali di Etiopia ed Eritrea non si prosciugheranno, la guerra andrà avanti».




domenica , 28 febbraio 1999
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L'ex generale Obasanjo promette di traghettare il Paese africano fuori dalla devastante corruzione. Oggi i risultati
Nigeria, l'alba della democrazia

Dopo 15 anni di dittatura il popolo ha scelto liberamente il capo dello Stato
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L'attesa è febbrile. Tanto che il principale quotidiano della Nigeria, The Daily Times, non ha esitato a battezzare l'appuntamento elettorale di ieri come «il giorno del nostro destino». Alle urne dello Stato africano, non si decide solo la presidenz a del Paese. Ma, almeno sulla carta, la grande svolta: il passaggio verso quella democrazia finora congelata da 15 anni di regimi militari. E la fine di 39 anni di turbolenze politiche che dall'indipendenza a oggi hanno travagliato l'ex colonia brita nnica. Ieri l'affluenza alle urne è stata massiccia. Molto più che alle parlamentari della settimana scorsa. Si sarebbe recato a votare almeno il 50% dei 40 milioni di elettori. Compreso il capo di Stato uscente, il generale Abdulsalam Abubakar. In abito bianco, con scorta civile, si è premurato di rassicurare la popolazione: «Mi dimetterò, come stabilito, il 29 maggio». Oggi si saprà a chi toccherà dirigere la Nigeria, con i suoi 110 milioni di abitanti e le sue 250 etnie. A contendersi la presidenza l'ex generale Olusegun Obasanjo, 61 anni, e l'ex ministro delle Finanze Olu Falae, 60 anni. Entrambi cristiani, in un Paese a forte presenza musulmana. Sia l'uno sia l'altro, ex denenuti politici sotto la dittatura di Sani Abacha. Tutti e due di un'etnia del sud, quella yoruba, da anni tenuta lontana dal potere. Ma Obasanjo, ex presidente dal '76 al 79, ora esponente di una formazione di centro-sinistra, sembra il favorito. Invano le opposizioni l'hanno accusato di essere uno strument o nelle mani dei militari. I suoi vecchi galloni non fanno paura: nel '79 fu il primo ed unico militare nella storia della Nigeria a cedere spontaneamente il potere ai civili. Dopo tornò in campagna ad allevare maiali. Ma il suo impegno civile non gl i risparmiò i guai: nel '95 finì in carcere, accusato di complotto. Oggi promette lotta alla corruzione, piaga numero uno della politica nigeriana. L'avversario Olu Falae, economista con studi a Yale, è stato anche lui oppositore del regime e parti giano della democrazia. Una sua vittoria sposterebbe definitivamente l'asse del potere dalle élite del nord alle popolazioni del sud. Ma i suoi progetti di riforma strutturale potrebbero avergli alienato i favori delle masse. E anche le parole pronun ciate ieri, sembravano presentire la sconfitta: «Se il voto è libero, corretto e pacifico e se, in queste condizioni, dovesse vincere il mio avversario, sarò il primo a congratularmi con lui». Chiunque vinca si troverà di fronte a una partita non f acile sia sul piano interno sia su quello internazionale. Non a caso hanno presidiato le elezioni centinaia di osservatori stranieri, tra i quali una folta delegazione americana, guidata dall'ex presidente statunitense Jimmy Carter e dell'ex capo di Stato maggiore Colin Powell. Sesto Paese produttore di petrolio nel mondo, il «gigante d'Africa» suscita molti appetiti: a spartirsi le risorse compagnie come la Shell (anglo-olandese), le americane Mobil Corp, Chevron, Texaco, l'italiana Agip, la fr ancese Elf Aquitaine. In compenso la popolazione vive con uno dei redditi pro capite più bassi d'Africa, 230 dollari l'anno, senza avere nemmeno il carburante per far andare le automobili. Un paradosso? Non è il solo. Oltre che «forziere d'Africa» la Nigeria, grazie a un esercito formato da 750 mila unità, sgomita per diventare potenza regionale. Vorrebbe esportare «pace e democrazia», come mostrano gli interventi in Liberia e in Sierra Leone. Falliti. E non poteva essere diversamente, visto c ome sono andate le cose sul piano interno. Colpi di Stato uno dietro l'altro. Nel '66, nell'83 e, infine, nel '93, quando i generali pensano bene di annullare il risultato delle elezioni. Subito dopo sale al potere Sani Abacha. Le persecuzioni, gli a rresti, l'impiccagione dello scrittore Ken Saro-Wiwa e di altri otto militanti Ogoni, etnia particolarmente perseguitata, suscitano lo sdegno dell'occidente, ma non intaccano la dittatura. A far fuori Abacha, a giugno dell'anno scorso, è un attacco d i cuore. O, come si sussurra «a corte», una dose eccessiva di Viagra. Il successore Abubakar viene dagli stessi clan militari. Ma si propone come l'uomo del dialogo, con gli Stati Uniti prima di tutto, e del destino. E se non fosse, a luglio '98, p er la morte in carcere del dissidente Mashood Abiola, vincitore delle elezioni del 1993, le sue credenziali «libertarie» non avrebbero macchia. Abubakar non è riuscito a liberalizzare la distribuzione dei prodotti petroliferi. Non ha lanciato il prog ramma di privatizzazione. Non ha rimesso in sesto le finanze. Ma, se non altro, ha mantenuto la promessa di «democrazia». Lascia un'eredità difficile. E, come predetto dal Fondo monetario internazionale, una grave recessione in vista, dovuta al croll o mondiale del prezzo del petrolio.




mercoledi, 03 febbraio 1999
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Quasi 100 morti in un giorno
Stragi in Guinea Bissau. I missionari accusano: Parigi dietro la guerra

Gli interessi di Francia e Senegal alimentano la ripresa dei
combattimenti
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Si riapre un altro fronte nell'Africa delle guerre infinite. Con ribelli, truppe d'occupazione e anche stavolta l'ombra delle potenze internazionali. La Guinea Bissau, staterello della costa occidentale abitato da un milione di persone, sembrava ave r saldato il suo conto con la violenza scoppiata la scorsa estate, ed esser finalmente approdato a un trattato di pace. Ma l'altro ieri sono ricominciati i combattimenti tra le forze fedeli al presidente Joao Bernardo Vieira e quelle del generale Ans umane Mane, con un immediato lascito di morte: quasi 100 le vittime, straziate dalle bombe cadute sulla capitale Bissau. Il Programma alimentare dell'Onu avverte che è cominciata la fuga dei 300 mila abitanti della città. Tra gli allarmi, anche que lli dei 100 missionari italiani impegnati nel Paese. Ma stavolta i toni sono più duri di quelli di giugno. «Fermate la Francia», è la parola d'ordine che arriva via radio da padre Giuseppe Fumagalli, missionario del Pime. Che cosa c'entra la Francia con un'ex colonia portoghese come la Guinea Bissau? «Parigi ha mandato i suoi uomini per addestrare le forze del presidente - accusa da Roma don Bernardo Cervellera, direttore dell'agenzia vaticana Fides - e spalleggiare le truppe senegalesi interven ute in suo aiuto. C'è inoltre una nave francese al largo di Bissau che lancia razzi e missili». Uno scenario confermato dalle testimonianze dei missionari: «Tutto il personale francese che lavorava nel Paese - incalza padre Cervellera - ha gettato la maschera. Funzionari civili, addetti turistici, diplomatici... Posso citare l'esempio di un francese che lavorava come portiere di un villaggio turistico di Bissau: avvistato anche lui su una jeep carica di senegalesi». Smentisce l'ambasciatore di P arigiFrancois Chappellet: «I soli francesi nel Paese sono 16 soldati incaricati della mia sicurezza». A differenza di Sierra Leone, Angola o Congo, in Guinea Bissau non si combatte per le risorse. Il Paese possiede miniere di bauxite e fosfati, ma poco sfruttate e lo stesso vale per il petrolio. La guerra è uno scontro di gruppi di potere. Da una parte il generale Ansumane Mane, accusato dal presidente Vieira di far contrabbando d'armi con i ribelli senegalesi della Casamance. Dall'altra, il c apo dello Stato, indicato come uno degli uomini più ricchi e corrotti d'Africa, in aiuto del quale sono arrivati 2.000 soldati del Senegal. E non per beneficenza. Dakar vuole ripulire la frontiera dai guerriglieri della Casamance. E dal Senegal, Paes e francofono, si passa a Parigi che rafforzerebbe così la sua influenza su quella parte d'Africa. Gli accordi di pace prevedono che i senegalesi sloggino entro il 10 febbraio, che sbarchino le truppe di pace dell'Ecomog (le stesse impegnate in Sier ra Loene). E che si tengano le elezioni. «Ma il presidente Vieria ha altri piani - dice ancora padre Cervellera -. Avrebbe promesso al Senegal un protettorato di cinque anni sulla Guinea. Ecco perché ha ripreso le armi».




mercoledi, 27 gennaio 1999
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Il sottosegretario agli Esteri illustra i piani per la normalizzazione delle ex colonie
Radio italiana per la Somalia

Serri: . E lavora su un'intesa Eritrea-Etiopia
Mediazione anche in Sudan:
rinnovato il cessate il fuoco tra il governo e i ribelli
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«Fatti mandare dalla mamma», cantavano i somali per le strade di Mogadiscio. Era il periodo della missione di pace, il 1994, e i soldati italiani che si vedevano accolti con le note di una delle più famose canzoni di Gianni Morandi, rispondevano per le rime: «Fatti mandare da sòreta». Golardia a parte, quel duetto canoro era il segnale di uno dei pochi successi dell'intervento in Somalia: Radio Ibis, la radio del contingente italiano. Oggi, con l'ex colonia divisa da nove anni di guerra, l'Ital ia torna a riproporsi come mediatrice di pace. E lo fa rilanciando l'idea di una nuova stazione radio, che trasmetta le canzoni di Zucchero, di Renato Zero, del sempreverde Morandi, ma anche musiche locali, cronache calcistiche, notiziari politici. A d annunciarlo è stato il sottosegretario agli Esteri Rino Serri, durante la missione di pace che l'ha portato assieme al ministro norvegese alla cooperazione Jilde Johnson, in Kenia e in Sudan. «Siamo disponibili - dice Serri - ad aiutare i somali a darsi strumenti d'informazione, come una stazione radio. Si tratta di un'impresa né difficile né costosa. Ma va realizzata man mano che si avanza nel processo di pacificazione». La missione di Serri, inviato dai Paesi donatori dell'Igad (Autorità int ergovernativa per lo sviluppo) di cui l'Italia detiene la presidenza di turno, tra gli obiettivi ha anche questo: sondare il terreno in previsione del negoziato che si terrà a fine mese a Nairobi con i signori della guerra di Mogadiscio. Un secondo fronte caldo che Serri si è trovato ad affrontare è quello tra Etiopia ed Eritrea, dove le tensioni di confine, dopo il fallimento della mediazione statunitense, rimangono altissime: «Le possibilità che il conflitto riesploda sono molte», spiega il sottosegretario italiano. «Ed è per questo che assieme al ministro norvegese e al ministro degli Esteri sudanese abbiamo appena lanciato un appello al governo di Addis Abeba e a quello di Asmara affinché non riprendano lo scontro armato». Importante, per il sottogretario, è l'adesione di Khartoum che, pur avendo più volte accusato i due vicini di aiutare i ribelli sudanesi, sta tentanto di fermare la guerra, «invece di approfittare di un possibile conflitto». Ma è proprio il Sudan, Paese spacc ato da 15 anni di combattimenti tra il Nord islamico e il Sud cristiano-animista, la terza tappa dell'«offensiva diplomatica» italiana. Serri ha ridiscusso con il regime di Khartoum il parziale «cessate il fuoco», ottenuto dai Paesi donatori a luglio , proprio nel momento in cui la fame minacciava due milioni e 600 mila persone. Ha ottenuto «un rinnovo di tre mesi, in vista di una tregua generale sotto controllo internazionale». Le stesse richieste saranno presentate oggi a Nairobi al capo dei ri belli John Garang. Ma entrambe le parti sono state avvertite: l'azione umanitaria contro la fame (2 miliardi di lire al giorno) non durerà in eterno.




mercoledi, 06 gennaio 1999
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L'Africa in preda alle guerre civili. La Nigeria potenza regionale
Bombe sui ribelli in Sierra Leone: 200 morti

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Erano alle porte della capitale. Quindici chilometri o poco più, accanto all'aeroporto di Hasting, periferia est di Freetown. Come trincea, le grotte scavate nelle montagne che coprono le spalle della città. Ma gli aerei dell'Ecomog, la forze panafri cane di intervento in Sierra Leone, hanno scaricato bombe tutta domenica e tutto lunedì. E alla fine dell'attacco, 200 ribelli sono rimasti uccisi. La guerra civile che si combatte dal '91 nell'ex colonia britannica dell'Africa occidentale, con un bilancio di oltre 100 mila morti su 4 milioni di abitanti - una guerra che vede al centro degli scontri soprattutto il controllo delle miniere dei diamanti - non è ancora a una svolta. Ventimila civili in fuga, secondo il Programma alimentare dell'On u, sono arrivati nella città di Kenema, senza cibo e senza acqua. Più di 100 mila persone sono state costrette a spostarsi verso Makeni, a nord della capitale, e a Kono, nella parte est del Paese, mentre un nuovo esodo va a ingrossare le file dei 450 mila rifugiati già scappati in Guinea e in Liberia. Ma è proprio la Liberia, che il debole governo del presidente Ahmad Tejan Kabbah - eletto nel'96, rovesciato nel '97 da una giunta militare, reinsediato l'anno scorso con l'intervento dei 15 mila uomini dell'Ecomog - accusa di alimentare il conflitto. Ieri, una missione diplomatica inviata da Freetown a Washington, ha dichiarato l'intenzione di inquisire il presidente liberiano Charles Taylor per crimini contro l'umanità. Sarebbe stato Taylo r a creare nel '91, con l'appoggio di Libia e Burkina Faso, il Ruf, il Fronte rivoluzionario unito che raggruppa i ribelli. Uomo suo, sarebbe anche il capo dei guerriglieri, Foday Sankoh, fotografo ed ex caporale, cresciuto tra i riti magico-tribali della boscaglia e la fede in Mao e Pol Pot. Oggi il capo carismatico del Ruf si trova in carcere a Freetown. Ma il suo fronte, nel frattempo alleato con gli ex militari autori del golpe del '97, non ha affatto deposto le armi. Da quando Kabbah è torn ato al potere, ha lanciato la sua campagna del terrore contro i civili. «Maniche lunghe» e «maniche corte»: braccia amputate all'altezza delle ascelle o dei gomiti. Anche Kabbah ha le sue colpe. Ha creato gruppi paramilitari, ha chiesto aiuto ai me rcenari sudafricani per difendere le miniere e a quelli britannici della società Sandline (con l'avallo di Londra). E soprattutto all'Ecomog, la forza d'intervento della Comunità degli Stati dell'Africa occidentale, controllata al 90% dai nigeriani. Già attiva in Liberia, l'Ecomog di fatto gestisce il conflitto. E proietta sulla Sierra Leone l'ombra lunga del regime di Lagos: «peace-making» sulla carta, potenza regionale nei fatti.




giovedi , 26 novembre 1998
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IL SOTTOSEGRETARIO SERRI


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A maggio '97 quando entrò vittorioso a Kinshasa, spezzando trent'anni di dittatura mobutista, venne acclamato come il campione di un nuovo «rinascimento» africano. A un anno e mezzo di distanza, il presidente del Congo Laurent Désiré Kabila, si ritro va con l'unica etichetta - come ha scritto Piero Ostellino sul Corriere - di «patata bollente». Almeno per il governo italiano, che l'ha accolto nei giorni scorsi con tutti gli onori tirandosi addosso le critiche del commissario europeo Emma Bonino, dei radicali e di alcuni parlamentari di An. Kabila è infatti accusato dall'Onu di aver sterminato i profughi ruandesi hutu tra il '96 e il '97, di aver commesso eccidi tra i suoi connazionali ed è in qualche modo responsabile di aver portato il su o Paese al centro di una nuova guerra regionale. Perché dunque il governo italiano, già impegnato con una prima «patata bollente» come quella del leader curdo Ocalan, ha deciso di accoglierlo? «Per trovare una soluzione pacifica alla guerra in Cong o. Un conflitto al quale partecipano almeno altri 6 Paesi africani - risponde Rino Serri, sottosegretario agli Esteri e senatore di Rifondazione, che ha gestito politicamente l'incontro -. L'intenzione dell'Italia è quella di lavorare a una proposta di mediazione di pace, assieme ai partner europei e in stretta collaborazione con l'Oua (l'Organizzazione dell'Unità africana) e la Sadc (l'Organizzazione dei Paesi dell'Africa australe)». Accogliendo un dittatore accusato di «crimini contro l'uman ità»? «Le responsabilità dei massacri, in Africa centrale, sono ancora da accertare. Noi non vogliamo assolvere Kabila, solo stabilire un dialogo critico che serva anche a promuovere la democrazia e migliorare il rispetto dei diritti dell'uomo. Sen za escludere gli altri Paesi dell'area come il Ruanda e l'Uganda che sono stati preventivamente informati della sua visita». Un'iniziativa unilaterale questa di ricevere Kabila? «E' stato il presidente del Congo a chiedere di venire in Italia, co sì come ha chiesto di visitare altri Stati europei. Noi abbiamo detto sì e lo stesso hanno fatto gli altri Paesi. Ciascuno ovviamente ha deciso per sé. Ma le iniziative da prendere sul Congo sono state concertate tra tutti i Paesi dell'Unione Europea . Le linee che abbiamo evidenziato per una soluzione del conflitto - rispetto dell'integrità territoriale, pressione per la democratizzazione del Paese e sicurezza dei confini - le ho discusse io personalmente con Aldo Ajello, inviato speciale della Ue per la regione dei Grandi Laghi. Se ne è parlato all'interno del Gruppo Africa dell'Unione Europea e ne ho discusso anche con l'inviato di Clinton Susan Rice e l'ambasciatore americano Bill Richardson». Il presidente Scalfaro era al corrente del la visita di Kabila? «Mi sembra assolutamente scontato che un ministro o un sottosegretario prima di organizzare una visita mettano al corrente il capo dello Stato». Quanto costa all'Italia il sostegno a Kabila? «In Congo sosteniamo solamente p rogetti d'emergenza: aiuti alimentari, un intervento sanitario a Kinshasa, più i programmi di alcune organizzazioni non governative nel Kivu. Il tutto per un totale di 13 miliardi di lire». E quindi solo un interesse umanitario? «Certamente no. E dirò di più: nemmeno una mia vocazione terzomondista, come ha scritto Piero Ostellino sul Corriere. La sicurezza, la pace, lo sviluppo economico dell'intera Europa dipendono in gran parte dai rapporti con la sponda sud del Mediterraneo e con tutto i l continente africano. L'Italia ha un ruolo da trait d'union». Grazie a cosa? «Probabilmente grazie al fatto che siamo un Paese neutrale, che non abbiamo un passato coloniale come altri». L'Italia non ha interessi economici e strategici in Cong o. Che cosa guadagna nell'appoggiare Kabila? «Non dimentichiamo che abbiamo vinto la battaglia sulla riforma del Consiglio di sicurezza all'Onu proprio grazie all'appoggio dei Paesi in via di sviluppo. Se interpretiamo correttamente le esigenze dei Paesi africani il nostro ruolo viene rafforzato». L'Italia aiutera così un dittatore a sopravvivere? «Il Congo è un Paese distrutto, dove non esistono strade, strutture... La prima esigenza è riportare la pace. Il resto si vedrà».




giovedi , 27 agosto 1998
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LA TESTIMONIANZA / STORIA DI NICOLE, ITALO-BELGA

Dalla caccia all'elefante ai profughi di Goma. Una donna racconta
com'e finita un'epoca
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Il Congo di Nicole è il vecchio battello coloniale che salpava le acque placide del lago Kivu. E' la giungla insidiosa che si apriva alle spalle delle prime fattorie create dai bianchi. E' la caccia all'elefante, al bufalo, al leopardo. Poi, nella de riva insaguinata di un'epoca, le sciare nere dei vulcani di Goma invase da un milione di hutu scappati dal Ruanda, dopo il genocidio del '94. E ancora, la guerra, la distruzione, la perdita dei beni che gli eredi dell'avventura occidentale avevano ac cumulato nell'ex cuore di tenebra del continente. Il Congo di Nicole - belga di nascita, italiana dopo il matrimonio con Ugo Merlo, un avventuriero arrivato da Lecco - è una vita intera, 56 anni, spariti due mesi fa con una fila di valigie e un big lietto di sola andata per l'Europa. Un'Africa straziata da una nuova rivolta, quella dei tutsi banyamulenge contro l'ex amico Kabila. «Un'Africa dove non c'è più posto per i bianchi - dice questa signora grande e grossa che ora vive tra l'Italia e il Belgio. - dove la guerra si è portata via tutto». Nicole, vedova Merlo, nel Congo divenuto Zaire e poi di nuovo Congo, aveva una farm lasciatagli in eredità dal marito morto nell'80, una fattoria che produceva latte e formaggi sufficenti a riforni re i ristoranti dell'intera regione. Aveva una villa a Goma, che si affacciava sulle acque del Kivu. Una casa, pochi chilometri oltre la frontiera, nella cittadina ruandese di Giseny, dove si era trasferita dopo che i profughi hutu avevano invaso la regione. «Tutto perduto», ripete. Ma quello che rimpiange di più è la fine della sua Africa, la patria d'adozione dove Nicole era chiamata la «tutsi bianca», perché parlava il kinyarwanda meglio dei locali, perché aveva vissuto come una di loro, come quei banyamulenge di stirpe nilotica, eredi di antichi principi spodestati, che adesso sono in rivolta contro Kabila. «Mio padre lavorava come capitano sul battello del Kivu - racconta -. Io, le mie due sorelle e mio fratello siamo nati a Bukavu, tr a un viaggio e l'altro dei miei». Anni difficili. La fattoria di piretro acquistata dalla famiglia fu un fallimento. Ma Nicole ricorda ancora i ricevimenti dal re tutsi del Masisi, a nord di Goma, con gli «Intore», i danzatori tradizionali. Fu lì che a 16 anni conobbe Ugo Merlo, di 30 anni più vecchio. Un matrimonio d'amore. E una nuova famiglia, di cui fecero presto parte 7 orfani ruandesi adottati dalla coppia, un figlio che Ugo aveva avuto da una nera, ed Evelina che ora ha 21 anni. Nel '73 Mobutu decise di nazionalizzare le terre, comprese le farm degli occidentali. «Riuscimmo a tenere la fattoria creata da Ugo, solo grazie ai bambini che avevamo adottato». Nell'80 il marito morì di cancro. Nicole si risposò con Juan Rico, uno spagnol o che sarebbe diventato console onorario a Goma. Un'epoca volgeva al tramonto. Nel '94 il genocidio in Ruanda e la fuga dei profughi hutu nel Kivu: «Gli hutu attaccavano i banyamulenge, rubavano, uccidevano». Fu Juan Rico che nel '96 assieme a Nicole organizzò la prodigiosa fuga di 12 mila lavoratori tutsi in Ruanda. Ma l'urlo di gioia che la donna lanciò sei mesi dopo, alla notizia che Kabila con l'aiuto dei banyamulenge era entrato a Kinshasa, si smorzò presto. «Pochi mesi ed era tutto come pr ima: gli attacchi delle milizie hutu, le vessazioni dell'esercito di Kabila. E noi avevamo perduto ogni cosa». A luglio, il ritorno in Europa. Qualche giorno dopo, ricominciava la battaglia.




sabato , 08 agosto 1998
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L'AMBASCIATORE ITALIANO A NAIROBI


La capitale keniota e la
base di tutte le fazioni
che operano nella regione
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«L'esplosione si è sentita in tutta la città. Un boato fortissimo arrivato fin qui nei nostri uffici». Alberto Balboni, ambasciatore italiano a Nairobi, è arrivato in Kenia sei mesi fa, ma come ex capo dell'Ufficio Africa della direzione Affari poli tici della Farnesina, conosce bene i problemi dell'area. «La concomitanza con l'attentato di Dar es Salaam ci fa escludere, come si era pensato all'inizio, - dice - a un attacco interno: una risposta alle misure restrittive imposte di recente dal pre sidente Daniel arap Moi». Più consistente l'ipotesi di una pista islamica: «Sì, ma perché ora? I negoziati sul Sudan (per citare uno dei Paesi islamici "nemici" degli Usa, n.d.r.), ai quali l'Italia partecipa con la presidenza dell'Igad parteners for um, l'autorità intergovernativa per lo sviluppo, stanno andando abbastanza bene. E non vedo ragioni di colpire le ambasciate americane a Nairobi e Dar es Salaam se non per il fatto che si trovano in due grandi città dove forse è più facile organizzar e un attentato». Il Kenia è, tra l'altro, un Paese che ha rapporti difficili con gli Stati Uniti, che non può essere definito, come per esempio l'Uganda, un bastione dell'America contro la penetrazione dell'integralismo islamico in Africa. «Infatti . L'ambasciata americana di Nairobi è sempre stata critica contro il governo di arap Moi. Sono state esercitate molte pressioni affinché il presidente metta freno alla corruzione, tanto che Clinton, durante il suo viaggio africano di marzo, si è rifi utato di passare per Nairobi. Ma non bisogna dimenticare che l'America rimane il più importante Paese donatore del Kenia. La settimana scorsa abbiamo avuto in visita il portavoce della Casa Bianca, James Rubin, e si attende l'arrivo del segretario am ericano al Commercio». Meno probabile un collegamento con la guerra in Congo, anche se Nairobi è la sede dei movimenti di opposizione dei Grandi Laghi, soprattutto dei guerriglieri hutu ruandesi e burundesi: «Sì, sono presenti loro, come molte altr e fazioni guerrigliere, comprese quelle sudanesi e somale. Bisogna sottolineare che Nairobi è il centro strategico della regione: è appunto sede di molte fazioni ribelli, quartier generale delle organizzazioni umanitarie, ed accoglie masse di rifugia ti».




martedi , 04 agosto 1998
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L'uomo forte di Kinshasa, che un anno fa spodesto Mobutu, assediato dagli ex alleati. Il suo stratega fugge all'estero travestito da prete
Congo, rivolta militare contro Kabila

Dalla capitale la violenza si estende a est: gli scontri minacciano la regione dei Laghi
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La guerra è tornata nel Congo ex-Zaire. I primi scontri sono cominciati domenica nella capitale Kinshasa. Sembravano spari isolati. E invece ieri, mille e 200 chilometri più a est, attorno al lago Kivu è ricominciata la battaglia. E' ricominciata ac canto alla grande barrière, la vecchia sbarra di ferro arruginito che marca uno dei confini più incandescenti d'Africa: da questa parte Goma, Repubblica democratica del Congo ex-Zaire, dall'altra Gisenyi, territorio ruandese. Un appello alla radio, t rasmesso proprio da Goma, ha dato il via ai combattimenti: «Un movimento di liberazione militare è stato lanciato contro il regime del presidente Laurent Désiré Kabila». In testa alla ribellione, i banyamulenge, una popolazione tutsi di origine ruand ese che vive nell'ex Zaire. Dietro di loro, però, l'ombra del governo ruandese, in «crisi» - dopo l'idillio del '96 e del '97, quando si trattava di cacciare il vecchio dinosauro Mobutu - proprio con l'ex alleato Kabila. I primi spari, cominciati a Kinshasa, vicino al campo Kokolo, e Tshashi, a ovest della città, sono stati appunto rivendicati dai banyamulenge. Alleati di Kabila nel '96, quando cominciarono gli scontri con i profughi hutu ruandesi accampati attorno al Kivu, i banyamulenge da u n po' di tempo accusano il nuovo regime di nepotismo, malversazioni e cattivo governo. Le autorità hanno tentato di minimizzare, dicendo che si trattava di un gruppo di «incivili armati», e di reagire dichiarando tre giorni di coprifuoco a Kinshasa. Ma la ribellione si è subito propagata nel Kivu: a Goma, dove è stato chiuso l'aeroporto, e più a sud, nella zona di Bukavu, dove sono arrivati soldati ruandesi a liberare i detenuti banyamulenge. Il Ruanda smentisce ogni coinvolgimento diretto: la ribellione sarebbe solo opera dei tutsi zairesi. Di sicuro a rendere tesi i rapporti tra ruandesi e regime di Kinshasa c'è l'ultima decisione presa martedì scorso da Kabila. Il presidente del Congo ha rimandato a casa, infatti, 3 mila e 500 soldati ruandesi rimasti nel Paese dopo la guerra di «liberazione» contro Mobutu. Una presa di posizione giustificata da Kabila con la necessità di «mettere ordine nelle relazioni con il Ruanda» e di spegnere il malcontento di quanti reclamavano l'allontanam ento degli stranieri. L'«epurazione» ha riportato in patria il ruandese James Kabarebe, l'ex capo di Stato maggiore dell'Alleanzadelle forze democratiche di liberazione (l'Afdl, l'esercito congolese). E ha costretto alla fuga, vestito da prete, anche il co-fondatore dell'Alleanza, Deo Gratias Bugera, la vera eminenza grigia dei successi di Kabila. Il governo di Kigali, capitale del Ruanda, ha ribadito anche ieri che i suoi soldati sono stati tutti richiamati. Ma quello di Kabila sembra comunqu e un voltafaccia pericoloso. Il presidente del Congo deve infatti la sua vittoria su Mobutu all'aiuto di una coalizione di Paesi - dall'Uganda all'Angola, dallo Zimbabwe all'Eritrea e all'Etiopia - che con il «beneplacito» di Stati Uniti, avevano mes so a sua disposizione uomini e mezzi. Ma era stato soprattutto il tutsi Paul Kagame, vicepresidente del Ruanda, a lanciare la campagna militare che avrebbe rinnovato la mappa geopolitica nel cuore del continente. Nell'ottobre '96, l'uomo forte di Kig ali aveva appoggiato i banyamulenge negli scontri contro i profughi hutu rifugiati nel Kivu, tra i quali si nascondevano gli autori del genocidio ruandese del '94. Subito dopo, ha aiutato lo stesso Kabila contro Mobutu. Ma Kabila si è ribellato ai su oi burattinai, né ha garantito la stabilità promessa, specie nel Kivu. Qui, dove si annida in un mosaico di fazioni la guerriglia hutu - responsabile di attacchi in Ruanda -, si gioca la sicurezza dei Grandi Laghi. Ed è parecchio tempo che dietro la grande barrière di Goma risuonava lo stesso ritornello: «Presto una nuova guerra».




sabato , 01 agosto 1998
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La Commissione voluta da Mandela ha ascoltato 20 mila testimoni, vittime e carnefici, inseguendo una riconciliazione impossibile
Chiude il tribunale della Verita. Ma il Sudafrica resta nel gorgo dell'apartheid

Due anni e mezzo di racconti atroci. Ma i veri responsabili hanno rifiutato di confessare


Due anni e mezzo di racconti atroci. Ventimila testimoni, vittime e carnefici assieme, chiamati a ricostruire o confessare gli orrori dell'apartheid. Da una parte, donne senza pace a spiegare come i loro figli, i loro mariti, i loro familiari scompa rvero o furono asassinati nelle lotte tra regime e opposizione. Dall'altra, aguzzini specializzati nell'arte dell'eccidio a dire che «sì, siamo stati noi, ma era colpa della politica, del partito, dei giochi di chi stava in alto». Due anni e mezzo pe r far sì che il nuovo Sudafrica si rappacificasse con il passato, che gli anni bui venissero seppelliti in un abbraccio, in una stretta di mano, in un pianto liberatorio. Ieri la Commissione per la Riconciliazione e la Verità, il teatro della memor ia messo in piedi per esorcizzare i fantasmi di 33 anni di discriminazione razziale e sociale, ha concluso la raccolta di testimonianze. Nei prossimi giorni, l'organismo voluto dal presidente Nelson Mandela all'indomani della vittoria elettorale del '94, inizierà a riordinare i dati, che serviranno a pubblicare ad ottobre il «libro nero» dell'apartheid. Ma è davvero arrivata l'ora della riconciliazione? La Commissione, presieduta dall'arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nell'85, d a aprile '96 oltre ad aver ascoltato più di 20 mila testimonianze sui martiri neri del regime, ma anche sui bianchi vittime degli attentati del movimento per la liberazione, ha ricevuto 7 mila richieste di amnistia. Un carico di pratiche che richiede rà ancora un anno di lavoro, e che lascia dietro di sé non pochi dubbi. A cominciare dall'efficacia del mandato. «Una Commissione chiamata non tanto a mettere in discussione il sistema dell'apartheid - dice Marco Del Ponte, vicedirettore di Amnesty I nternational Italia - quanto a far luce sulle violazioni dei diritti dell'uomo commessi in quegli anni». Una Commissione peraltro, che non emette condanne, delegata piuttosto all'assoluzione, secondo la formula «confessione in cambio di amnistia». O, come dicono i più critici, «amnistia in cambio di amnesia». «Un organismo - aggiunge Del Ponte - che punta alla verità più che alla giustizia». Non una Norimberga; neanche un Tribunale internazionale come quello per l'ex Jugoslavia e il Ruanda. Solo una soluzione «politica». È «il prezzo della riconciliazione nazionale», sostiene l'arcivescovo Tutu. È la scelta fatta dal presidente Mandela quando ha concordato, con una transizione «dolce», i passaggi di potere dalla nomenklatura bianca a quel la nera. Ma non tutti i responsabili delle stragi hanno accettato di testimoniare: il più celebre, Peter W. Botha, penultimo presidente sudafricano. Il vecchio «coccodrillo», come è soprannominato, non solo si è rifiutato di comparire in aula, - rifi uto che gli costerà un processo penale - ma ne ha anche approfittato per esprimere tutto il suo disprezzo. «Un circo - ha detto -. Ecco che cos'è questa Commissione». E anche Winnie Madikizela Mandela, ex moglie del presidente: ha accettato di parlar e davanti agli inquirenti, ma non ha chiarito nulla sui crimini che le erano stati imputati negli anni Ottanta, quando venne accusata di aver ordinato l'omicidio del quattordicenne Stompie Seipei. L'unico successo ad agosto '96, quando Fredrick W. De Clerk, l'ex capo dello Stato sudafricano ammise le responsabilità per quanto compiuto dai nazionalisti boeri. Secondo il quotidiano sudafricano Business Day, due sudafricani su tre sostengono che i lavori della commissione non sono affatto serviti alla rappacificazione razziale. Ma i paladini della riconciliazione mostrano alcuni trofei. Come le parole di pietà pronunciate dai genitori di Amy Bihel, studentessa americana assassinata nell'93, dopo l'amnistia concessa ieri al killer. Parole che cancellano il lutto di un'intera nazione. O forse solo rassegnazione di chi è stato, suo malgrado, condannato al perdono.




martedi , 23 giugno 1998
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I missionari: Italia, aiuto

La guerra nella piccola Guinea Bissau: 400 mila persone alla fame
Nella capitale
cadaveri per
strada, case
abbandonate,
chiese trasformate
in accampamenti
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Un tam tam trasmesso per radio, per fax, per telefono, lì dove le linee funzionano ancora. «Aiutateci, fate presto. Qui è la fine per tutti». E ancora: «Per favore, dite al nostro governo di intervenire». L'appello dei 110 missionari italiani, rimast i in Guinea Bissau ad aiutare la popolazione in fuga dalla guerra, è rimbalzato a Roma, dove il Pime, il Pontificio istituto per le missioni estere, ha chiesto ieri un incontro con la Farnesina. «Non ci è stata data ancora nessuna risposta - dice pad re Piero Gheddo, capo dell'ufficio storico del Pime - Ma dobbiamo far presto. Un popolo sta morendo e i nostri missionari rischiano la vita. Laggiù c'è bisogno di tutto: di cibo per sfamare la popolazione, di tende per costruire ripari adesso che si avvicina la stagione delle piogge, di medicine per curare i feriti». Nella capitale, Bissau, gli obici si sono fatti sentire anche ieri, all'alba di un nuovo giorno di guerra. Il quindicesimo per l'esattezza. Dal 7 luglio, quando i fedeli del gener ale Ansumane Mane, ex capo delle Forze armate, sono insorti contro i seguaci del presidente Jo-ao Bernardo Vieira, il minuscolo Paese dell'Africa occidentale si è trasformato in una tomba a cielo aperto. Cadaveri per strada, case abbandonate, gente c he cerca scampo nelle chiese e nelle missioni. Si parla di 400 mila profughi, 200 mila concentrati nella capitale. «Nella casa regionale del Pime - dice padre Gheddo - alla periferia di Bissau ci sono 3 mila sfollati, tra cui 300 feriti. Al centro de lla città la parrocchia della Madonna di Fatima si è trasformata in un accampamento, e anche fuori le condizioni non sono migliori». Pochi viveri sono arrivati dal nord, ai confini con il Senegal, ma è l'unica strada aperta. «Speriamo - ripete padre Gheddo - che il ministro degli Esteri Lamberto Dini, intervenuto tanto in fretta per i 7 turisti rapiti e subito liberati nelle Yemen, ci conceda un colloquio». Tra le richieste: la riapertura delle frontiere, l'intervento di una forza umanitaria, e pressioni dell'Italia sull'Unione Europea per avviare un negoziato tra le parti. «In Guinea Bissau si sta combattendo una lotta per il potere - dice padre Gheddo -, ma c'è il rischio che si trasformi in una guerra etnica. Si parla già di esecuzioni a ll'interno delle stesse forze governative». Nel Paese - ex colonia portoghese indipendente dal '75, abitata da 16 etnie - la tensione è salita a gennaio, quando il generale Ansumane Mane, capo dell'esercito, è stato sospeso dal presidente per un sosp etto traffico d'armi con i ribelli senegalesi della Casamance. «Che ci sia davvero lui dietro quel traffico non sono in tanti a crederlo - spiega padre Gheddo -. Di vero c'è che la guerriglia senegalese ha una sua retroguardia in Guinea Bissau». Ma i l 6 giugno Mane è stato riumpiazzato dal generale Humberto Gomes, vicino al presidente, ed è da allora che è passato alle armi, occupando la base strategica di Bra vicino all'aeroporto. Quello che preoccupa i missionari è il coinvolgimento dei Paesi limitrofi, come il Senegal che ha già mandato 2 mila soldati in aiuto al presidente. Dakar, che nel settembre '97 aveva firmato un accordo sulla sicurezza con Gambia, Guinea Bissau e Guinea Conakry, ha interesse a smantellare le basi della guerriglia della Casamance. «Ma il costo - dice padre Gheddo - ci sembra davvero alto».




giovedi , 09 luglio 1998
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INTERVISTA A KAYODE FAYEMI, OPPOSITORE IN ESILIO

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«Un Paese sotto choc. E una situazione tremendamente pericolosa». Questo è quello che Kayode Fayemi, 45 anni, direttore in esilio del settimanale nigeriano Tell magazine, vede oggi in Nigeria, dopo il presunto «attacco di cuore» che ha ucciso in car cere l'oppositore Moshood Abiola. Fuggito da Lagos a ottobre, mentre i militari cercavano di arrestarlo, Kayode Fayemi parla da Londra, dove continua a lavorare come giornalista e soprattutto oppositore del regime nigeriano. «Non sono sorpreso - dice - che la gente abbia reagito alla morte di Abiola con violenze di piazza. L'economia nigeriana è morta. La gente è frustrata. Ci saranno altri disordini. Speriamo solo che non serva al regime per una nuova ondata di repressioni». Il generale Abuba kar ha sciolto il gabinetto. È un segno positivo? «È un'operazione cosmetica. Il gabinetto non gioca nessun ruolo politico. Avrebbe dovuto sciogliere il "Provisional Ruling Council", il cuore del potere militare, che non è stato toccato». Lei dà una spiegazione economica al malcontento. Eppure la Nigeria è un Paese ricchissimo di risorse... «Completamente saccheggiato dai militari. Distrutto dalla corruzione. Sani Abacha ha fatto fortuna sulla pelle della gente. Il capitale del defunto pre sidente ammonta a 5 miliardi di dollari. Rubati al Paese». Non ha creduto che con la morte di Abacha e l'avvento al potere del generale Abdulsalam Abubakar la situazione potesse migliorare? «C'è da aspettarsi solo un peggioramento. Abubakar non è migliore. Viene anche lui dal nord, ha lavorato con Abacha ed è un soldato. Detiene il potere perché imbraccia un fucile, non perché sia stato scelto dal popolo». Abubakar sembra però aver fatto delle concessioni ai diritti civili: la liberazione dei detenuti politici, tra cui ci sarebbe dovuto essere lo stesso Abiola. La comunità internazionale ha allora sbagliato ad appoggiarlo? «L'appoggio dell'Occidente, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, è una vera tragedia. La comunità internaziona le non capisce i problemi della Nigeria. Vuole solo un governo che offra garanzie ai suoi investimenti». Abiola era una figura controversa... «Notizie manipolate dal regime nigeriano. Abiola aveva vinto le elezioni. Per questo è stato arrestato. Non ci interessa sapere se era l'uomo giusto per risolvere i problemi della Nigeria». Il regime aveva deciso di liberarlo. Era un segno di buona volontà? «Il presunto rilascio di Abiola è stato una farsa per rabbonire l'Occidente. Ma più che rila sciarlo il regime voleva stringere un patto con lui, per vedere se fosse veramente disposto a rinunciare al potere. La promessa di non aspirare alla presidenza fatta da Abiola al segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha messo il governo davanti a u n serio dilemma. Per questo l'esercito potrebbe aver avuto interesse a eliminarlo. Altro che attacco di cuore». Crede che adesso il potere potrebbe passare a un esponente dell'etnia Yoruba, la stessa di Abiola, etnia sempre estromessa dal potere? «Il potere in una società multietnica e multiregionale va rinegoziato su altre basi. E non vedo leader capaci di governare su basi nuove. Ho paura che diremo "bye bye" alla libertà».




venerdi , 03 luglio 1998
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Si estendono i combattimenti tra ribelli e governativi: 400 mila profughi in ostaggio
Bissau, il grido dei missionari

L'appello radio di padre Davide:
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L'ultimo contatto lunedì sera, in un retrobottega di Canegrate, hinterland di Milano. Poi il filo tra Guinea Bissau e Italia, teso da un radioamatore lombardo, si è spezzato. I richiami, ritmati al microfono dai familiari di padre Davide Sciocco, 34 anni, missionario nel piccolo Paese dell'Africa occidentale, si perdono tra i fischi e fruscii di un segnale troppo debole. «Italia Kilo due, India passo...». Silenzio. Lontano, sulla sponda occidentale del continente africano, l'eco dei bombardament i. La guerra tra ribelli e lealisti, scoppiata il 7 giugno nell'ex colonia portoghese, da martedì è arrivata a Mansoa, l'ultimo avamposto a 40 km della capitale Bissau, dal quale padre Davide, con altri due missionari italiani e 13 suore dell'Immac olata, era riuscito in questi giorni a comunicare con l'Italia. «Qui Mike quattro, la situazione è drammatica. Abbiamo bisogno di cibo per sfamare la popolazione», è stato l'ultimo messaggio del missionario. «Ci sono casi di colera dappertutto. Ma le scorte di medicinali stanno finendo. A Mansoa abbiamo 70 mila sfollati... Ogni casa si è trasformata in un campo profughi. Centinaia di persone vengono nella missione per chiedere aiuto. Passo...». Nel retrobottega di Canegrate, tesi e sudati, Virgi lio, papà del missionario, Luigi, proprietario della trasmittente, e 3 suore dell'Immacolata, che portano i saluti di amici e parenti: «Italia, Kilo 2, India passo...». Ancora padre Davide: «Bissau è deserta. La gente è scappata abbandonando tutto. È rimasta solo la Croce Rossa a seppellire i cadaveri. I militari ci hanno ordinato di non muoverci. Ci sono check point dappertutto. Ma sembra che le parti stiano trattando. Forse si arriverà a un accordo». I filo si è rotto. E l'accordo non è arri vato. Né il vescovo di Bissau, l'italiano Settimio Ferrazzetta, né la missione congiunta portoghese-angolana sono ancora riusciti a mettere pace tra le due parti: i ribelli, stretti attorno all'ex capo dell'esercito, il generale Ansumane Mané, e le f orze del presidente Jo-ao Bernardo Vieira, supportato da 5 mila militari del Senegal e della Guinea Conakry. Una soluzione al conflitto dovrebbe arrivare dal vertice dei 16 Paesi dell'Ecowas (la Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale) , cominciato mercoledì a Abidjan, in Costa d'Avorio. Ma sull'ipotesi di inviare il contingente nigeriano dell'Ecomog (braccio armato della Comunità) l'accordo è ancora lontano. La Farnesina ha accolto l'appello lanciato dai 110 missionari italiani della Guinea Bissau, assieme alla comunità di Sant'Egidio. Ma l'intervento dell'Italia è solo indiretto. «Stiamo intensificando i contatti con i Paesi europei, e soprattutto il Portogallo - spiega il sottosegretario agli Esteri Patrizia Toia - affinc hé si apra un corridoio umanitario dal Senegal. Dall'altra parte vorremmo ottenere, tramite monsignor Ferrazzetta, che si arrivi a una tregua per permettere alle navi di scaricare viveri e medicinali al porto di Bissau». Le risorse non mancano, assic ura il sottosegretario. L'Italia ha già devoluto 500 milioni in aiuti al Comitato internazionale della Croce Rossa. «Resta il problema di come distribuirli». La guerra in Guinea Bissau è cominciata come scontro interno allo stesso gruppo di potere: sia il generale ribelle Mané, deposto dall'incarico a gennaio per sospetto traffico d'armi con i gueriglieri senegalesi della Casamance, sia il presidente Vieira fanno parte dello stesso partito unico che governa il Paese dal '75, anno dell'indipend enza. Ma adesso il conflitto rischia di estendersi. Da una parte, ad appoggiare la rivolta del generale Mané, c'è l'intero esercito (6.800 soldati), stanchi di troppi anni di indennità e salari non pagati. Dall'altra ad aiutare il presidente Vieira c i sono le truppe della Guinea Conakry e soprattutto del Senegal, intervenuto per ripulire i santuari delle milizie indipendentiste della Casamance. Dietro il Senegal, l'ombra della Francia. Ieri, da Lisbona sono state le stesse agenzie umanitarie p ortoghesi ad accusare Parigi di armare i senegalesi. In mezzo, una popolazione in ostaggio: «Quattrocentomila profughi alla fame», diceva lunedì padre Davide alla radio.




sabato , 25 aprile 1998
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LA TESTIMONIANZA

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«La vuole la legge. La pena di morte è prevista, prescritta. È la punizione giusta per un crimine come il genocidio». Josuè Kaygaho vive a Kigali, ha 40 anni e fa il medico. Ma non è tutto. Josuè è anche il vicepresidente di un'associazione che si c hiama Ibuka, un collettivo che raggruppa 19 organismi nati tutti a difesa dei «rescapés», 200 mila o forse più sopravvissuti al genocidio. «Falchi» dei falchi. Tra i tutsi sono infatti quelli che più premono perché giustizia sia fatta. «Che i boia ve ngano fucilati in pubblico o in privato, non fa differenza - dice Josuè Kaygaho -. In pubblico, l'esecuzione acquista però un valore pedagogico. Lo stadio di Nyamirambo a Kigali era pieno di gente. È la prova che la popolazione ruandese è d'accordo c on il governo». E il ruolo di Ibuka? A Kigali tutti sanno che sono state proprio le associazioni dei «rescapés», i tutsi francofoni contro quelli anglofoni (arrivati dopo il genocidio), a far pressioni sul parlamento perché le esecuzioni avvenisser o in pubblico. È stata persino ribaltata l'ordinanza emanata dal ministero della giustizia non più di un anno fa, nella quale si parlava di esecuzioni al chiuso, nelle prigioni. «È il governo che ha deciso - dice Josuè -. È probabile che le prossime esecuzioni saranno al chiuso. Io personalmente allo stadio non ci sono andato. Avevo altro da fare. Ma uno di quelli che hanno ammazzato era Froduald Karamira. Io stavo a Kigali quando lui via radio incitava alle stragi, quando ai check point ordinav a di fare a pezzi i tutsi. La gente voleva vederlo morto». Josuè è lui stesso un «rescapé»: «Ho fatto parte del "gruppo" dell'Hotel Milles Collines. Ostaggi degli Interahamwe (la guardia civile hutu, ndr)». I tutsi che si erano barricati in quello che era e che è tornato ad essere uno degli alberghi più lussuosi della città, furono costretti a bere l'acqua della piscina per sopravvivere. Quando il Fronte patriottico ruandese (formato da altri tutsi nati, cresciuti e addestrati in Uganda) giuns e a Kigali, dice Josuè, «io fui liberato in cambio di prigionieri hutu. Io e mia moglie. Tutto quello che è rimasto della nostra famiglia». Vendetta è una parola che il vicepresidente di Ibuka non vuole pronunciare. Per chi ha assistito allo scempi o delle proprie famiglie, per chi si è salvato nascondendosi sotto mucchi di cadaveri, non esiste altra strada per far giustizia se non la morte dei propri carnefici. In più i «rescapés» vivono una strana sindrome: quella di essere guardati con sospe tto, quasi come collaborazionisti per il solo fatto di essere rimasti vivi. «Il genocidio per loro non è mai finito - dice il vicepresidente di Ibuka -. I guerriglieri hutu continuano ad ammazzarli perché temono che testimonino ai processi. Hanno per duto le case, le terre, ogni bene. Solo adesso sembra che il governo crei finalmente un fondo per loro». Una sofferenza che genera odio. E l'odio vendetta. L'ora, come dimostrano le 22 fucilazioni di ieri, è già scoccata.




martedi , 14 aprile 1998
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Uganda, la tratta dei bimbi-guerrieri

Rapiti dai ribelli, torturati e costretti a uccidere. La denuncia dei missionari
obbligate a
fare da
mogli ai capi,
contraggono
spesso l'Aids>
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Sono arrivati all'alba. Erano una ventina, con le uniformi nuove. E l'unico dettaglio cha li distingueva dai soldati dell'esercito regolare era la presenza di una donna, una ragazzina che poteva avere 13 anni. Hanno fatto irruzione alla missione dei comboniani a Opit, un villaggio perso nelle savane del nord dell'Uganda, armati di kalashnikov e granate. «Padre, vieni fuori», hanno gridato. «Vieni fuori o t'ammazziamo». Padre Raffaele Di Bari, 69 anni di cui quasi 40 passati nel Paese centrafrica no, ancora oggi non sa come sia uscito vivo dai 70 e passa colpi sparati dentro la sua stanza. «L'attacco è durato più di tre ore - racconta -. Fino a quando i militari del governo non hanno cominciato a bombardare». Ma a quel punto i ribelli del Lor d's Resistance Army, l'Esercito di Liberazione del Signore, avevano ottenuto il loro scopo: si erano portati via una ventina di bambini. Un altro drappello di piccoli schiavi, rapiti per rinvigorire le file delle milizie cristiano-animiste che combat tono contro il governo ugandese del presidente Yoweri Museveni. Nella devastata regione degli Acholi - tribù di un milione e 200 mila persone a ridosso del confine con il Sudan - le incursioni dei ribelli a caccia di nuove reclute si ripetono con t errificante regolarità. «Soltanto nella mia missione - racconta il padre - quest'anno sono spariti 400 ragazzini». Nella parrocchia confinante di Pajouli, un altro missionario, Tarciso Pazzaglia, ha registrato 1470 rapimenti. In tutto il nord dell'Ug anda - Paese che la comunità internazionale indica tra i più stabili dell'Africa - l'Unicef stima che le reclute di questa guerra coatta sarebbero tra le 6 e le 8 mila. Ragazzi e ragazze, dagli otto anni in su, strappati alle famiglie, rapiti dai col lege privati come dalle povere scuole dei villaggi, dai rifugi offerti nelle missioni e dalle periferie delle città di Gulu e Kitgum. Sottoposti a ogni violenza. Costretti a marciare e trasportare pesi per centinaia di chilometri. Mutilati alle orecc hie, al naso, a ogni minima di disobbedienza. Incatenati, torturati, uccisi. Spesso obbligati a giustiziare i loro stessi compagni. E mandati al massacro, a combattere l'esercito del governo. Il capo dei ribelli, Joseph Kony, uno stregone con aspir azioni messianiche - corona del rosario al collo, i Dieci Comandamenti in mano -, arringa le truppe «ispirato dallo Spirito Santo». La sua battaglia, esplosa nell'86, l'anno in cui è salito al potere il protestante Museveni, il «Bismark dei Grandi La ghi», a parole punta alla liberazione degli Acholi dal giogo del governo di Kampala. Ma nei fatti, Kony è armato dal governo islamico del Sudan. Gli integralisti di Karthoum se ne servono per destabilizzare l'Uganda. E per combattere i propri ribelli , quelli dell'esercito di Liberazione del Popolo del Sudan, a loro volta «cristiani» sostenuti dal regime ugandese. In questa guerra che non è religiosa e neanche etnica, ma solo politica, l'Esercito del Signore - 4-5 mila unità - riesce ad aliment are le sue file solo con i rapimenti. «Gli strumenti usati - dice padre Raffaele - sono quelli del terrore ma anche del plagio». Una parte dei ragazzini, trasportati in Sudan nella zona di Juba dove il movimento ha le basi, finiscono per non voler pi ù lasciare la guerriglia. Altri vengono venduti agli arabi o trasferiti a Karthoum. Solo una metà, secondo l'Unicef, riesce a scappare, approfittando degli scontri con l'esercito per consegnarsi ai governativi. Ma il ritorno non è facile. Un'odisse a senza riscatto, specialmente per le ragazze che, rapite per far da concubine agli ufficiali, pagano lo scotto della vergogna e delle malattie, molto spesso Aids. Janet A., 16 anni, racconta in un dossier dell'Unicef: «Mi hanno data a un comandante che mi ha trattata come una prigioniera, obbligandomi sempre ad avere rapporti sessuali. Adesso che son tornata al villaggio e ho ripreso ad andare a scuola, mi capita spesso, mentre l'insegnante spiega, di scoppiare a piangere. I miei compagni di sc uola mi deridono, mi chiamano la moglie dei ribelli». La notte Janet grida nel sonno. Ma i suoi genitori credono che sia invasata dagli spiriti: «Mi danno da bere intrugli di erbe, ma la paura non passa». Al St. Mary College di Aboke, un villaggio vicino alla città di Lira, più di cento ragazze si sono salvate dalle incursioni della guerriglia grazie all'intervento di madre Rachele Fassera, una battagliera suora trentina che nell'86 marciò per due giorni nella foresta inseguendo i ribelli e tr attando con loro. Una delle scolare rimaste prigioniera in quell'occasione, fuggita qualche tempo dopo, passa le sue giornate seduta su una panca nel giardino del college: «Continuo a vedere nei miei sogni quel bambino che ho dovuto ammazzare - dice -. Mi appare ogni notte e mi accusa: mi hai ucciso a bastonate. Perché?». E non servono le parole di David O., 12 anni, stessa avventura nel girone di sangue dell'Esercito del Signore, a spiegarlo: «Bastava avere i piedi gonfi per essere uccisi dagli stessi compagni. Eravamo obbligati a farlo». È la logica sanguinaria di Kony, il messia: «L'omicidio - secondo Amnesty International - serve a compromettere definitivamente le reclute». La riabilitazione è una scommessa piena di incognite, alla qu ale lavorano organizzazioni come World Vision e il Gulu Support for Children Organisation. Offrono aiuto psicoterapeutico e tentano il reinserimento sociale delle «ex reclute». «Ma l'angoscia che i ribelli tornino, che si vendichino sulle famiglie, c he brucino le capanne - dice padre Raffaele - rimane per sempre». E non è solo un terrore individuale. È' un destino per gli Acholi, stritolati tra l'ostilità dell'esercito e la rabbia della guerriglia. Se i militari controllano l'area, obbligando la popolazione a concentrarsi nei cosidetti «villaggi protetti», i ribelli colpiscono e scappano. Lasciandosi dietro cadaveri e i pianti delle madri depredate dei loro bambini.




domenica , 12 aprile 1998
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Per la terza volta in cinque mesi, sabotati gli impianti algerini. Si sospetta una nuova strategia degli integralisti contro obiettivi economici
Assalto armato al gasdotto che trasporta il metano in Italia

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L'Algeria «utile», il Paese del gas e del petrolio, la cassaforte degli affari e degli investimenti stranieri, rischia di entrare nel mirino degli integralisti. L'ultimo attentato, rivelato ieri dal quotidiano L'Authentique, è avvenuto martedì a Bir El-Ater, nella provincia orientale di Tebessa, vicino ai confini con la Tunisia. La guerriglia avrebbe colpito lontano dai villaggi e dalle periferie della capitale, puntando - per la terza volta in 5 mesi - dritto al cuore economico del potere. Con tro un obiettivo non più «umano», ma strategico: il Transmed, il gasdotto che collega l'Algeria all'Italia. Secondo L'Authentique, un commando armato di esplosivi e mitragliatrici sarebbe riuscito a danneggiare, anche se lievemente, l'impianto. Per sei ore è stata battaglia, tra le forze di sicurezza arrivate sul posto e gli attentatori barricati all'interno di una casa di campagna. Alla fine degli scontri sarebbero morti 6 terroristi e altre 14 persone sarebbero rimaste ferite. Il governo ha taciuto sull'avvenimento che, al momento, non trova conferma neanche in fonti ufficiali italiane. Ma L'Authentique aggiunge che d'ora in poi il gasdotto sarà presidiato dai militari. Questo di martedì è il terzo attacco ad impianti denunciato in ci nque mesi. Il primo avvenne a novembre nello stesso posto, Bir El-Ater, e allo stesso gasdotto. Le autorità algerine parlarono di «guasto tecnico», ma dall'Italia fu la stessa Eni a confermare che si era trattato di un attentato. Il secondo «colpo» r isale invece a febbraio, quando il gasdotto che collega il sud dell'Algeria alla raffineria di Arzew, nell'ovest del Paese, venne danneggiato da una bomba. Una nuova strategia degli estremisti del Gia, i gruppi islamici armati, che combattono il re gime algerino dal 1992? Secondo informazioni provenienti da fonti arabe, raccolte dal Corriere della Sera, l'ipotesi potrebbe avere un fondamento. Pur continuando gli assalti ai villaggi - il quotidiano Liberté ha riportato ieri la notizia dell'assas sinio di un bambino e di un anziano a El Auena, nella provincia di Yiel - le milizie integraliste avrebbero cominciato a colpire proprio la cassaforte del Paese. La nuova linea sarebbe stata decisa all'inizio di quest'anno a Karthoum, capitale del Su dan, durante un incontro avvenuto tra un membro del Gia, entrato dalla Libia in incognito, e degli emissari iraniani. Il governo di Teheran in quell'occasione avrebbe detto di non essere più disposto a tollerare, come Paese membro della Conferenza Is lamica, i massacri di civili. E di potersi impegnare a garantire aiuti e addestramenti al Gia, solo nel caso che gli attacchi cominciassero ad essere diretti contro i simboli del potere politico ed economico. Si romperebbe così una sorta di tabù. F inora infatti cantieri petroliferi e gasdotti - protetti e blindati da «milizie» private - non erano mai stati toccati dalla guerra civile. Le riserve energetiche, crocevia degli investimenti delle multinazionali, coprono il 97% delle esportazioni. S abotarle significa colpire gli interessi del governo e i legami con gli investitori stranieri.




lunedi , 17 novembre 1997
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L'inferno delle donne

Gli stregoni addossano
a giovani innocenti
la di malattie
e scomparse innaturali
Molte costrette al suicidio
Burkina Faso: centinaia di donne accusate di morti cacciate dai villaggi



Il sole scotta a Ougadougou, capitale del Burkina Faso. Ma le donne continuano a filare il cotone. Dieci ore di lavoro al giorno sulla veranda di Del Wendè, un centro sociale che sorge a Tanguin, alla periferia della città. Per guadagnare qualche fra nco. Per sopravvivere all'ignominia di essere state espulse dai loro villaggi, dai loro clan, dalle loro famiglie. Non sono donne come le altre le 300 ospiti delle missionarie di Notre-Dame d'Afrique. Sono streghe. Di più. Sono «mangiatrici d'anime », colpevoli di aver causato - basta uno sguardo - la morte di qualcuno, di averne risucchiato lo spirito nelle proprie fauci. La loro tragedia comincia sempre con una morte nel villaggio d'origine. Più grave se si tratta della morte di un giovane. Un evento «innaturale», per il quale in Africa va sempre trovata una causa. Non basta una malattia. Non basta un incidente. Il capo villaggio punta il dito tra le capanne. Gelosia, vendetta, malocchio per bloccare la migrazione dell'anima verso il m ondo dei kinkirsi, l'aldilà dei «piccoli». O se si tratta di un adulto, verso le sfere degli Antenati. E allora, per scoprire chi ha causato il decesso, si prende il cadavere, oppure si prelevano frammenti d'unghia, capelli, brandelli di vestiti. Si ripongono su una barella, formata da tre tronchi, di cui uno al centro sporgente come una lancia. E da lì il giro del villaggio, fino a quando l'estremità del tronco, guidata dal seongo, lo spirito «detector», non indichi l'autore del maleficio. Molt o spesso una donna, anziana o sterile. «Chi ha bevuto, berrà», sussurrano nel villaggio. «Chi ha mangiato carne umana, ne vorrà ancora». Ed è per questo che, in un Paese che vive di guaritori, iettatori e antropofagi da sempre, le mangiatrici d'anime , terrore dei mossé, l'etnia predominante del Burkina Faso - 4 milioni su 8 milioni e 700 mila abitanti - vanno cacciate. Le loro case bruciate. «Tutti ti urlano contro, a cominciare dai tuoi genitori», raconta una delle ospiti del centro Del Wendè, una donna di 72 anni, accusata della morte del bambino nato dalle seconde nozze del marito. «Vaghi per giorni, preda facile di ladri e banditi». La strada è quella solitaria che porta al suicidio o alla follia. Oppure quella che conduce alla capitale . Il centro Del Wendè (in lingua mossé «Appoggiati a Dio»), una volta era un capannone per i malati di mente. Nel 1965 le suore di Notre-Dame d'Afrique hanno cominciato a visitarlo e hanno scoperto che dentro c'erano anche donne espulse dai villaggi. La baracca si è trasformata in una casa d'accoglienza, sotto mandato del ministero dell'Azione sociale. Ed è diventata la casa delle «streghe». Donne di tutte le età, anche se la maggior parte supera i 60 anni. «Sono donne coraggiose - dice suor Mar ie Louise Lenoir -. Lavorano al centro, oppure nei campi». Il loro ritorno in comunità è difficile, anche se ultimamente in un paio di villaggi si è tentato il reinserimento. «Impossibile distruggere la credenza che le ha colpite. Hanno mangiato le anime. E per l'etnia dei mossé l'anima è un tabù - racconta Adriano Pedroni, missionario dei Padri Bianchi, nove anni passati in Burkina Faso, a Tenmaore, nord-ovest della capitale -. Noi missionari possiamo lottare contro l'infibulazione, contro i matrimoni coatti, ma non contro il terrore dell'aldilà. Non c'è autorità che ci ascolti». I mangiatori d'anime esistono almeno da quando l'ex presidente Thomas Sankara, salito al potere con un golpe nel '83 (rovesciato a sua volta nel '87 dall'attu ale capo di stato Blaise Compaoré) cominciò la sua lotta contro il feudalesimo e lo strapotere dei capi villaggio e dei capi religiosi, che in qualche modo facevano da moderatori dell'ira tribale. «Ma è negli ultimi anni - dice padre Adriano - che il fenomeno è esploso». Con una variante. Oltre alle donne, cominciano a essere inclusi nel cerchio della colpa malefica i giovani commercianti. Uno di questi, accusato assieme alla madre di aver causato la morte di un bambino, si è impiccato a un al bero proprio nella zona della missione. Padre Adriano ha provato a chiedere il perché. Solo davanti a una birra, in confidenza, qualcuno gli ha sussurrato che forse la stregoneria non c'entra nulla. «Invidia, solo invidia. Ma lasci perdere, padre. C' è l'anima di mezzo. E con l'anima non si scherza».




sabato , 23 agosto 1997
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IN PRIMA LINEA: INTERVISTA A PADRE GIGI ANATALONI

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Il missionario dice: «Il Kenia è questo: il turismo di Mombasa e gli "slum" della periferia. Ma la colpa non è di chi viene in vacanza e non capisce un bel niente di quello che sta succedendo. È dei tour operator, di chi confenziona viaggi che inscat olano i turisti in una gabbia dorata e fa di tutto affinchè la gente non veda e non sappia nulla». Si chiama Gigi Anataloni, ha 47 anni, da 9 vive in Kenia (nelle missioni prima, a Nairobi adesso, dove cura la rivista missionaria Il seme), e appartie ne all'ordine della Consolata, lo stesso che gestisce la struttura di Likoni, vicino a Mombasa, presa d'assalto ieri mattina. Il padre non se la prende con gli stranieri. Anzi: «Il Kenia ha bisogno del turismo - dice. -Se crolla,la gente della costa che vive di lavoretti negli alberghi, sarà definitivamente nei guai». Nota solo il «paradosso» di questa doppia facciata: i «padri» barricati con 3 mila sfollati, assaliti dalle bande nelle bidonville, e dall'altra parte i villaggi turistici, i «pasd aran» della vacanza a tutti i costi. «Dobbiamo scandalizzarci se gli stranieri borbottano: "queste bande non potevano scatenarsi dopo l'estate?" È il turismo di massa, disumanizzato e disumanizzante. Quelli che vengono qui sono più interessati agli a nimali che alla gente. Arrivano a Nairobi con i loro charter, vengono imbarcati sui pullmini e poi chiusi negli hotel. Non hanno mai visitato uno "slum", se vedono qualche capanna è solo perchè serve alle loro polaroid». In Kenia c'è anche il turismo missionario, un migliaio di persone ogni estate: «Sì, ma la nostra gente visita le missioni, si impegna nei campi di lavoro. Adesso abbiamo bloccato tutto, aspettando di capire che cosa sta succedendo». I padri si scontrano tutti i giorni con le lit i tribali, con le tensioni religiose tra i musulmani e gli immigrati venuti dalla regioni del centro. Si imbattono anche nei detriti che ogni anno il turismo lascia dietro di sè: prostituzione minorile, droga, omosessualità. «Ma massacri così, in sti le ruandese, non si erano mai visti», dice padre Gigi, «i missionari di Mombasa hanno paura». I tour operator dovrebbero allora consigliare il rimpatrio? «No, no, che i turisti restino lì. Anzi,che ne arrivino ancora.È grazie a loro se i giornali si occupano del Kenia»




martedi , 19 agosto 1997
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PARLA IL PADRE COMBONIANO CARMINE CURCI

leader capace
di sconfiggere
Daniel
arap Moi
alle urne>
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Fino a ieri era considerato una delle potenze più stabili dell'Africa. Negli ultimi mesi la crisi politica e lo scontro con le opposizioni l'hanno trasformato in una bomba ad orologeria. Tanto che il settimanale inglese The Economist scrive: «Sarà i l Kenia il prossimo disastro africano?» E in effetti, le manifestazioni dell'opposizione a Nairobi prima, gli scontri sulla costa di Mombasa dopo, pongono molti dubbi. Si arriverà alle elezioni promesse per dicembre? E che cosa farà il presidente Dan iel arap Moi, ultimo dei satrapi africani, per evitare il baratro? Mentre a Nairobi rimbalzano le accuse tra governo e opposizione di fomentare gli assalti delle bande, il clima che si respira nella capitale è tutt'altro che ottimista: «Ci aspettia mo il peggio» - dice Carmine Curci, direttore di New People, rivista curata dai missionari comboniani per l'Africa -. E gli avvenimenti confermano la nostra impressione, che ci sia una strategia politica dietro gli scontri "etnici". Forse è l'avvicin arsi delle elezioni, ma sembra di vivere la stessa aria di sangue e tensione che precedette le prime votazioni multipartitiche del 1992». L'accostamento, in un Paese che è un mosaico di 16 etnie e 250 gruppi tribali, non viene a caso. Anche se con un a differenza. Nel 1992, il partito del presidente, il «Kanu» (Kenya African National Union), uscì dalle urne con un milione e 800 mila voti, contro i quasi 4 milioni dell'opposizione. Ma riuscì ugualmente a prendere il potere, grazie alla legge elett orale e alle squadracce che controllavano i seggi. Oggi deve vedersela con un'opposizione molto divisa, ma certamente più combattiva: un cartello di partiti, chiese, associazioni, che, riuniti sotto l'ombrello della Convenzione Nazionale, sono già sc esi in piazza per chiedere nuove riforme. Dice padre Carmine Curci: «Il presidente, dell'etnia minoritaria kalengenji, l'11 per cento della popolazione, ha creato attorno a sé dei potentati economici, politici e militari che hanno sempre remato contr o gli altri gruppi, e in particolare quello dei kikuju che hanno il 21 per cento». Potentati che adesso sembrano aver rotto gli argini. Il nepotismo e la corruzione hanno spinto il Fondo Monetario Internazionale a sospendere il prestito programmato d i 220 milioni di dollari al Kenia. Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, che sono tra i maggiori investitori, hanno minacciato il blocco degli aiuti. Ma non solo. A Nairobi si vocifera di una spaccatura nell'esercito. Alcuni reparti si sarebero oppos ti ai tentativi del presidente di fomentare scontri fuori dalla capitale, mentre c'è chi parla di gruppi paramilitari che si starebbero addestrando nelle regioni centrali. «Anche dietro gli assalti di Mombasa - dice padre Carmine - potrebbe esserci i l suo partito, il "Kanu". Quella zona è la roccaforte dell'opposizione». Com'era successo negli anni scorsi, nella Rift Valley, quando misteriose bande sterminavano i «coloni» dell'etnia kikuju? Un nome compare in trasparenza: Emmanuel Maitha, leader dei giovani del "Kanu" sulla costa. L'uomo ombra dei disordini? «L'arcivescovo di Mombasa, John Njenga, nell'omelia di domenica ha detto: "Questi raid sono manovrati politicamente"», commenta padre Carmine. «La Chiesa continua a chiedere di rimandar e le elezioni e accelerare le riforme. Il problema è che l'opposizione non ha dei veri capi da presentare alle elezioni». Chi rimpiazzerà il vecchio satrapo?




lunedi , 18 agosto 1997
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I disordini tra gruppi rivali si propagano ora lungo la costa. Strage a un mercato. La Farnesina indica i percorsi da evitare
Kenia, terrore nel paradiso dei turisti

Violenti scontri a Mombasa, decine di morti. Agli stranieri l'ordine di non muoversi dagli hotel
Il governo di
arap Moi quasi
al collasso,
mentre gli Usa
appoggiano
l'opposizione
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Pugnali, spranghe, machete. E i turisti barricati negli alberghi per gli assalti delle bande che si fanno sempre più vicini. Ieri notte un misterioso gruppo, quaranta, cinquanta persone, ha attaccato il mercato di Kongowea, la più grande bindonville a nord di Mombasa, sulla costa keniota. Ha colpito a mezzanotte, l'ora in cui i venditori che arrivano dalle regioni dell'interno cominciano a esporre le loro merci sulle bancarelle. Cinque morti, quattro uomini e una donna, poi l'urlo dei banditi si è perso tra le baracche degli «slum»: case incendiate, gente in fuga e un vano tentativo, raccontano i testimoni oculari, di chiedere aiuto alla polizia. All'alba, attorno al mercato e in tutta la regione di Nyali, a nord di Mombasa, sembrava fosse passato un tornado: decine di chioschi, di baracche, di negozietti devastate dalle fiamme. E il timore che stavolta non si tratti di uno dei tanti scoppi di criminalità ai quali la popolazione keniota è da sempre abituata, ma che l'agguato risponda a una logica nuova: la stessa che mercoledì scorso ha spinto un altro gruppo di uomini armati di bastoni sul porticciolo di Likoni, vicino a Mombasa, dove parte il traghetto che trasporta i turisti sull'isolotto con l'antica roccaforte portoghese, ad assalire il commissariato di polizia. Anche lì altri morti: una quindicina almeno. E ancora, nei giorni seguenti, roghi alle case, ai bar, alle baracche. Più di trenta vittime, il bilancio complessivo. Ma in Kenia, dall'altra parte, ci sono le spia gge, il turismo di massa, 700 mila presenze registrate l'anno scorso, di cui 40 mila italiane, entrate per 465 milioni di dollari. Per quest'altro Kenia, godereccio e vacanziero, il risveglio, segnato dal tam tam dell'allerta che si propagava di hote l in hotel, è stato un incubo. Se non fosse bastata la presenza dell'esercito e della marina che hanno ripreso a setacciare la regione, centinaia di volantini, sparsi non si sa da chi, con richiesta esplicita agli stranieri di abbandonare immediatame nte il Paese, hanno fatto il resto. Le autorità locali hanno invitato i turisti a starsene chiusi negli alberghi. L'Ambasciata italiana, tramite l'unità di crisi della Farnesina, ha attivato un numero dell'Aci (06- 491115) che scoraggia chiunque vogl ia avventurarsi sulla strada Malindi- Mombasa. E su tutto, il silenzio imbarazzato delle autorità incapaci di spiegare cosa sta succedendo in Kenia, paese diviso in 250 tribù e 16 gruppi etnici. E in particolare a Mombasa, città islamica, un milione di abitanti, roccaforte dell'opposizione al presidente arap Moi. Delinquenza comune o scontro tra clan? I testimoni del mercato di Kongowea hanno raccontato di aver sentito le bande rivolgersi alla gente nell'idioma locale e di averle viste scaglia rsi contro coloro che non capivano, gli immigrati dell'interno. Ma se questo può fare pensare a una riedizione della pulizia etnica che insanguinò il Kenia alla vigilia delle prime elezioni multipartitiche del 1992, non si può evitare di collegare i disordini di Mombasa a quello che sta succedendo nel Paese in questo momento. Da maggio un'ondata di manifestazioni, scioperi, scontri tra i partiti d'opposizione e l'esercito fedele al presidente arap Moi, ultimo «dinosauro» africano al potere da 19 anni, sta portando il Kenia vicino all'esplosione. «Il presidente arap Moi», commenta padre Giulio Albanese, missionario comboniano vissuto in Kenia, «sa che alle prossime elezioni potrebbe non farcela». A dar una mano agli oppositori, c'è il Fond o monetario internazionale che dal primo agosto ha sospeso i prestiti programmati, 220 milioni di dollari, ad arap Moi, fino a quando non avrà visto risultati nella lotta alla corruzione e nel rispetto dei diritti umani. Gli Stati Uniti, in particola re, dopo aver agevolato l'estromissione di Mobutu in Zaire, non sembrano più disposti a lasciar in piedi arap Moi. «E anche se l'opposizione non ha dei leader di rilievo», dice Giulio Albanese, «chissà che gli americani non fabbrichino un nuovo Kabila».

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Maria Grazia Cutuli
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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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