DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
>PICTURE GALLERY
>AUDIO CLIP her last report from Peshawar [ Corriere.it ]
>VIDEO recovering the journalists' bodies [New York Times - Associated Press]
How colleagues journalist and friends >REMEMBER her
Pages from italian and international >PRESS
>REPORTS about the ambush
>STORIES we published >TOGETHER (her writings, my pictures)
>ALL THE STORIES
I'm trying to make available ALL THE STORIES written by Maria Grazia Cutuli.
Big kudos to publishers Corriere della Sera-RCS and Arnoldo Mondadori Editore,
for allowing me to post here all the stories they hold copyrights for.
MIDDLE EAST - CORRIERE DELLA SERA
Copyright and Courtesy of Corriere della Sera


069 Sarajevo, 1996

domenica , 16 settembre 2001
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Bombardata Gaza, Sharon si oppone all' incontro Peres-Arafat

Tre palestinesi sono rimasti uccisi: due ragazzi di 18 anni e un uomo colpito da una cannonata

IL FRONTE MEDIORIENTALE Bombardata Gaza, Sharon si oppone all' incontro Peres-Arafat DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Gli F-16 si sono levati in volo, gli elicotteri Apaches hanno bombardato, i carri armati hanno sconfinato dentro la città. E anche l e navi da guerra avrebbero preso parte all' assalto israeliano lanciato nella notte tra venerdì e sabato sulla striscia di Gaza. L' attacco, scatenato secondo gli israeliani da tiri di mortaio sparati dai palestinesi contro un insediamento ebraico, h a colpito dal capoluogo in giù, fino al campo profughi di Refah, ai confini con l' Egitto. A fine mattinata le forze armate israeliane si sono ritirate dai territori palestinesi lasciando macerie e una nube di fumo rosa sulla città. Tre i morti: due ragazzi di 18 anni, uccisi accanto all' insediamento ebraico di Gush Katif, un uomo colpito da un cannonata. Altre dodici persone sono rimaste ferite, tra cui quattro poliziotti. Ma è stato sul quartiere generale dell' intelligence palestinese che gl i israeliani - come sempre in questo tipo di operazioni - hanno concentrato il tiro con sette missili sparati dagli elicotteri. Nelle stesse ore si è aperto un altro fronte a Ramallah, in Cisgiordania. I carri armati sono entrati poco prima delle cin que del mattino, puntando i cannoni contro la sede della radio e della tivù. Non a caso. Ramallah, sede del Centro d' informazione palestinese, un massiccio edificio in marmo e vetrate verdi, è considerata il centro della propaganda araba. Anche qui, seguendo la tattica collaudata durante un anno di intifada, gli israeliani dopo qualche ora si sono ritirati sulle postazioni iniziali. Non si può parlare di una vera e propria occupazione, ma di fatto gran parte dei Territori è presidiata da carri armati pronti allo sconfinamento. Jenin, il centro della Cisgiordania che secondo Israele funzionerebbe da principale campo di reclutamento dei kamikaze islamici, è sotto assedio da cinque giorni. Anche Gerico è circondata. L' impressione generale è che il premier israeliano Ariel Sharon voglia intensificare la pressione approfittando degli umori anti-arabi scatenati dagli attacchi sugli Stati Uniti. E nello stesso tempo che si serva delle azioni militari per cancellare l' incontro tra il minist ro degli Esteri Shimon Peres e Yasser Arafat. Il vertice, che in teoria si doveva tenere stasera, ha scatenato una lite tra il primo ministro e Peres. Sharon, che nei giorni scorsi ha definito Arafat «il nostro Osama», sostiene che l' incontro danneg gerebbe gli interessi di Israele. Peres controbatte: il fallimento del negoziato potrebbe vanificare gli sforzi di Washington nel coinvolgere gli Stati arabi in un' alleanza internazionale contro il terrorismo. Mentre per Arafat l' escalation militar e contro i palestinesi è un mezzo per bloccare l' incontro. E' intervenuto l' inviato speciale dell' Onu, Terje Roed Larsen, a garantire che il leader palestinese intende impegnarsi in una tregua, il ministro degli Esteri francese Hubert Vedrine a cr iticare Israele per l' attacco e per il rinvio del vertice, il segretario di Stato americano Colin Powell a ricordare che il faccia a faccia è estremamente importante. Ma Sharon ha deciso: Peres e Arafat non si incontreranno. La decisione definitiva è stata resa nota nella serata di ieri, dopo un incontro tra il premier e il ministro degli Esteri. Maria Grazia Cutuli




giovedi , 13 settembre 2001
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Arafat dona il sangue per i feriti americani

La leadership palestinese sconfessa le manifestazioni di giubilo del popolo dei territori dopo le stragi

Arafat dona il sangue per i feriti americani La leadership palestinese sconfessa le manifestazioni di giubilo del popolo dei territori dopo le stragi DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - La gioia palestinese si trasforma in paura. Gli slogan di martedì s era, le danze, i festeggiamenti per l' umiliazione americana lasciano il posto a parole caute e messaggi di condoglianza: «Condividiamo il vostro dolore, siamo vittime anche noi». «Il terrorismo è il nostro comune nemico». «Usa e Palestina, andremo a vanti». Una cinquantina di persone, bambini in prima fila, impugnano cartelli di cordoglio davanti al consolato statunitense, nei quartieri arabi di Gerusalemme Est. Distribuiscono mazzi di gladioli bianchi, rilasciano dichiarazioni riparatorie davan ti alle telecamere - più televisioni che manifestanti - per cancellare ogni sospetto, nascondere l' anima radicale dell' intifada, ma soprattutto impedire che Israele strumentalizzi l' angoscia mondiale per procedere alla resa dei conti. E' un piccol o drappello, guidato da moderati: la famiglia di Feisal Husseini, il leader di Gerusalemme morto di infarto a maggio scorso; i membri dell' Orient House, la rappresentanza palestinese occupata dall' esercito ad agosto; personalità come Hanan Ashrawi, la combattiva portavoce della Lega araba. Ma non è un caso che siano loro, assenti e silenziosi nei mesi più duri della rivolta, a prendere la scena, mentre i leader estremisti spengono i cellulari, disertano gli uffici, si astengono da commenti uff iciali. «Le manifestazioni di giubilo nei Territori sono state una reazioni immediata di gente che non aveva ancora capito che cosa stesse succedendo negli Stati Uniti - dice Hanan Ashrawi -. Ma la nostra leadership è stata compatta nel condannare il massacro dei civili». Il primo è stato Yasser Arafat. Non si è limitato alle condoglianze. Dopo aver posticipato la visita in Siria, fissata in giornata, il leader dell' Autonomia è andato all' ospedale di Gaza per donare il sangue alle vittime dell a strage. Non è il momento di inneggiare alla rivolta, né tanto meno alla Guerra Santa. In questo day after marcato dal rischio di una spaccatura definitiva tra Occidente e mondo islamico, i palestinesi temono una rappresaglia massiccia nel disintere sse generale del mondo. Il premier Ariel Sharon non ha perso tempo: è stata una notte di sangue nei Territori. I carri armati che circondavano Jenin, il centro della Cisgiordania considerato da Israele «il nido dei kamikaze», hanno sparato contro le case e i campi profughi. Una decina i morti tra i quali una bambina di nove anni, una quarantina i feriti. Distrutto il quartiere generale degli apparati di sicurezza palestinesi, spianata con i bulldozer la casa di Mohammed Bisharat, un attivista di Hamas ucciso qualche tempo fa in un attacco missilistico. Anche Nablus, dicono i palestinesi, sarebbe circondata. Chiusa la frontiera con Gaza, quella con l' Egitto, il Libano, la Cisgiordania. Violenza chiama violenza. Nonostante l' avanzata delle colombe, una donna israeliana è stata uccisa in Cisgiordania da cecchini palestinesi. Nell' insediamento ebraico di Gilo, a Gerusalemme, sono stati trovati due ordigni esplosivi e il falso allarme di una bomba si è diffuso all' aeroporto di Tel Aviv. I palestinesi accusano Israele di aver registrato le immagini raccolte durante le manifestazioni palestinesi di martedì, in cui si inneggiava agli attacchi sugli Stati Uniti, per giustificare azioni repressive contro gli estremisti islamici. «Sharon vuole approfittare della situazione internazionale per un' escalation di guerra nei Territori», dice Nabil Abu Rudeinah, portavoce di Arafat. «Sharon sta aspettando il momento giusto - insiste Hanan Ashrawi -. I morti di stanotte ne sono la prova». La paura è come un passa parola. Anche nei campi profughi di Gaza gli umori sono cambiati. Se a Khan Younis c' è qualche ragazzino che ripete estasiato il nome di Osama - «L' ho sentito alla televisione ieri per la prima volta, è un eroe» - a Jabalyi a solo rammarico per le vittime. «Sono addolorato - dice Sameer, 37 anni, commerciante -. Ma temo soprattutto che se la prendano con i palestinesi, mentre noi non c' entriamo nulla, non vogliamo uccidere civili innocenti». I suicidi, i martiri, i com battenti d' Allah sembrano non siano mai esistiti. Abdel Aziz Rantisi, uno dei leader di Hamas a Gaza, scagiona persino Osama Bin Laden: «Non credo abbia la capacità di gestire un attacco come questo, così come non credo che esistano Stati islamici i ntenzionati ad aprire un conflitto con gli Usa». Rantisi disegna tre scenari: «Gli Stati Uniti si sono fatti nemici dappertutto, dal Sudamerica all' Africa, chiunque può avere interesse a colpirla. Secondo: ricordatevi Oklahoma, si accusavano gli ara bi e non c' entravano niente, il nemico era in casa. Terzo: potrebbe essere un complotto sionista per discreditare i musulmani». Ma ha una mezza certezza il leader di Hamas: «Escluderei i palestinesi. Non abbiamo i mezzi per colpire così». Maria Graz ia Cutuli





mercoledi, 12 settembre 2001
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Palestinesi in festa a Gerusalemme e Beirut

Slogan, urla, raffiche di mitra, dolci di sesamo distribuiti per le strade: «Dio è grande, finalmente siamo felici»

Palestinesi in festa a Gerusalemme e Beirut Slogan, urla, raffiche di mitra, dolci di sesamo distribuiti per le strade: «Dio è grande, finalmente siamo felici» DAL NOSTRO INVIATO JENIN (Cisgiordania) - Ahmed è il primo ad abbozzare un sorriso sotto i baffoni grigi, mentre traffica con la manopola della sua autoradio. «Sono sempre stati contro di noi. Se lo sono meritato». La Voce della Palestina gracchia le ultime notizie sugli attacchi terroristici agli Stati Uniti. Un telefonino trilla da Chic ago. «Sono i miei figli - dice l' uomo -. Confermano tutto». Qui a Jenin, nel nord della Cisgiordania, chiusi tra file di tank pronti a occupare la città, ci sarebbe poco da ridere, se l' assedio israeliano non apparisse all' improvviso sotto una luc e nuova, come l' occasione per un' altra sfida frontale. La «capitale dei kamikaze» è accerchiata. Si entra a fatica dal versante sud, aggirando le trincee che i Katerpillar israeliani hanno scavato nella notte, lungo una strada costeggiata da vivai deserti e cave abbandonate. L' esercito israeliano ha spedito le unità corazzate nella città, considerata la culla dei gruppi palestinesi più radicale, in risposta agli attentati di domenica scorsa. Ma i fuochi di New York rinvigoriscono gli assediat i. Schiere di Tanzim, i combattenti del Fatah, lanciano appelli all' autodifesa tra le case. «Respingeremo gli invasori». «Colpiremo più duro». Dieci, cento, mille kamikaze, pronti a lanciarsi contro i carri armati, decisi a nuovi attacchi contro Isr aele. Anche Mohammed Yusuf adesso festeggia, distribuendo caffè turco ai cameraman della televisione. La sua casa, arroccata su un costone roccioso, ospita 14 persone, affacciate sulla prima linea. I razzi, tirati in mattinata dagli israeliani, l' ha nno scansata di un centinaio di metri. Si vedono colonne di fumo nella pineta di fronte. «E' saltata l' acqua, la luce, il telefono - racconta l' uomo -. Ma alla fine questa è una giornata di gioia per noi palestinesi. Gli amici di Israele sono stati colpiti nel modo più violento e inaspettato». Jenin è dominata dalle cellule operative di Hamas e della Jihad, quelle sospettate di preparare gli shahid, i martiri incaricati di farsi saltare in aria nei ristoranti, alle fermate degli autobus, davan ti alle scuole di Israele. Ma la stessa ondata di soddisfazione per quello che sta succedendo negli Stati Uniti si propaga in poche ore lungo tutta la Cisgiordania. Giubilo e revanscismo. Qui nei Territori, soffocati da check point, barriere, reticol ati, regione di incursioni e bombardamenti, la misura è colma. E la memoria lunga: i palestinesi ricordano le loro pene e quelle degli altri, la Guerra del Golfo del 1991, i bombardamenti sull' Iraq, le troppe concessioni americane a Israele. Ai loro occhi Washington, il grande Satana occidentale, sta pagando il prezzo della sua politica unilaterale. «L' aereo è stato dirottato dai combattenti della Jihad», commentano in un villaggio vicino. «No, forse erano uomini di Osama». E' un festival di v oci, di leggende già pronte, di nuovi eroi ai quali inneggiare: gli shahid senza frontiera, i martiri della Guerra santa su scala globale. Una festa viene improvvisata anche a Nablus, una quarantina di chilometri più a sud. Nella cittadina, quasi vuo ta al mattino, adesso sono uscite di casa oltre 3 mila persone. Urlano «Dio è grande», sventolano bandiere palestinesi, distribuiscono candele. Nawal Adel Fatah, una donna di 48 anni, vestita di nero, lancia in aria piccoli dolci di sesamo. «Finalmen te sono felice. L' America è la testa del serpente. E' sempre stata dalla parte d' Israele, sempre contro di noi». La figlia Maysoon, 22 anni, spera che il prossimo attacco sia contro Tel Aviv. Stessi slogan, stesse celebrazioni a Ramallah, uno dei c entri più colpiti dall' occupazione israeliana. E ancora a Gerusalemme Est, negli antichi quartieri contesi, ormai disertati dagli israeliani, dove bambini per strada, donne con il capo velato, giovani e vecchi reggono tutti mini bandiere, fermando l e macchine con urla di gioia. Il coro rimbalza all' estero, dai campi profughi del sud del Libano, fino alle piazze di Baghdad. E dall' estero arrivano anche parole di solidarietà con i palestinesi. Nemer Hammad, rappresentante dell' Olp a Roma, pur condannando gli attacchi terroristici, interpreta gli umori della sua gente: «Si tratta della reazione di gente normale, di persone che hanno pagato con la vita dei loro cari la vendita delle armi Usa agli israeliani. Gli Stati Uniti hanno bloccato o gni risoluzione dell' Onu favorevole ai palestinesi, l' invio degli osservatori internazionali nella regione e impedito la difesa del mio popolo». Anche Nafez Hassam, uno dei leader della Jihad, dice più o meno la stessa cosa: «Conseguenza della poli tica americana in Medio Oriente». Ma sono gli unici a livello ufficiale a spingersi a tanto. La polizia palestinese, che conosce la durezza della realpolitik israeliana, stavolta frena. Non si tratta di celebrare l' Intifada. Davanti agli operatori d elle tv straniere, gli agenti intervengono con la forza a sequestrare i filmati. La gioia popolare imbarazza l' Autorità. Può diventare un boomerang. Rischia di trasformare i consensi alla causa palestinese in una condanna del mondo. Scatenerà nuove reazioni nei Territori. L' allerta è altissima. Si aspettano per la notte attacchi massicci dell' esercito israeliano. Il grande capo, Yasser Arafat, ha già tracciato la linea con le sue condoglianze al presidente George Bush e al governo americano. Ha condannato gli attacchi, si è detto choccato, si è sbilanciato fino a promettere collaborazione nella lotta contro il terrorismo. I gruppi più radicali lo seguono. Persino lo sceicco Ahmad Yassin, guida spirituale di Hamas, prende le distanze: «No n ci interessa esportare il terrorismo negli Stati Uniti. Non siamo pronti ad aprire un fronte internazionale». Arrivano raffiche di smentita da tutti i movimenti combattenti, preoccupati di mettere in chiaro che in questa storia americana non c' ent rano nulla. Il gioco è troppo pesante, perché qualcuno possa esporsi adesso. Maria Grazia Cutuli Nemer Hammad, rappresentante dell' Olp in Italia «Si tratta della reazione di gente normale, di persone che hanno pagato con la vita dei loro cari la ven dita delle armi Usa agli israeliani. Gli Stati Uniti hanno bloccato ogni risoluzione dell' Onu favorevole ai palestinesi e impedito la difesa del mio popolo»




martedi , 11 settembre 2001
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Peres e Arafat, appuntamento stasera

Nonostante gli otto morti negli attentati di domenica i nemici cercano di tornare al dialogo

Fiducioso il ministro degli Esteri Ruggiero che ha parlato al telefono con il suo collega israeliano e con il leader palestinese Peres e Arafat, appuntamento stasera Nonostante gli otto morti negli attentati di domenica i nemici cercano di tornare al dialogo DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - I tre attentati di domenica non fermano i negoziati. Il vertice tra il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres e il leader palestinese Yasser Arafat potrebbe tenersi oggi o al più tardi nei prossimi gio rni. La notizia, data dal capo della diplomazia spagnola, Josep Piqué, durante un' intervista televisiva seguita a una telefonata con Peres, non è stata ancora ufficializzata. Ma analoghe rassicurazioni sono giunte ieri al nostro ministro degli Ester i Renato Ruggiero che ha sentito al telefono sia Peres che Arafat. Gli unici contrasti sembrano legati al luogo dell' incontro. Gli israeliani vorrebbero che si tenesse al valico di Erez, punto di passaggio tra Gaza e Israele, mentre i palestinesi in sistono per l' Egitto. Tanto Peres quanto Arafat si mostrano cauti: nessuna data è stata fissata, hanno ripetuto all' unisono fino all' ultimo. Nello stesso tempo il ministro degli Esteri israeliano ha ammesso che si può procedere a un vertice senza pre-condizioni: «Dovremmo essere liberi di dirci tutto ciò che passa nei nostri cuori e nelle nostri menti». Anche gli Stati Uniti, oltre all' Europa, hanno intensificato le pressioni. Il segretario di Stato americano Colin Powell ha telefonato a Per es, dopo aver parlato più volte nei giorni passati con Arafat. I media israeliani si mostrano però scettici: gli ultimi attacchi, scriveva ieri il quotidiano Ha' aretz, dimostrano che Arafat vuole far crescere il livello della tensione sperando di gu adagnare consensi all' Assemblea dell' Onu a fine mese. Ieri in serata fonti palestinesi hanno riferito che i carri armati israeliani hanno preso posizione presso la città cisgiordana di Jenin in previsione di un possibile attacco notturno, mentre al tri tank sarebbero penetrati nella striscia di Gaza, sparando alcune raffiche di mitragliatrice. Gli attentati di domenica, in particolare quello alla stazione di Nahariya, hanno creato un nuovo allarme. E' davvero Mohammed Habishi, un arabo israelia no di 48 anni, sposato con due donne, padre di dieci figli, il kamikaze che si è fatto saltare in aria uccidendo tre persone e ferendone 22? La polizia ha trovato i suoi documenti. Avrebbe raccolto una mano staccata dal braccio. E' apparso un video d ove Habishi annunciava la sua intenzione di votarsi al martirio. Ma gli investigatori si rifiutano di confermare l' identità: «Aspettiamo il test del Dna». Uno dei figli, Ahmed Habishi, nega che si tratti del padre: «Se domani riconoscessero il corpo come il suo non potrei credere che sia stato lui». Un altro figlio è stato arrestato per complicità. Se fosse stato davvero lui, in Israele si rischia di aprire un nuovo pericoloso fronte, quello interno - formato da un milione di arabi israeliani - che spezzerebbe definitivamente l' unità della nazione. Maria Grazia Cutuli I nodi irrisolti del negoziato finito nel sangue PIANO MITCHELL A maggio di quest' anno la commissione internazionale guidata dall' ex senatore americano Robert Mitchell ha indicato un piano di lavoro per la pace che prevede la cessazione immediata e incondizionata delle violenze. L' Autorità palestinese deve prendere le distanze dal terrorismo; Israele deve congelare le colonie e ritirare i militari sulle posizioni pre cedenti lo scoppio della nuova Intifada (28 settembre 2000) ACCORDO VUOTO Ai primi di giugno il capo della Cia George Tenet ha convinto israeliani e palestinesi a sottoscrivere il piano Mitchell modificato in alcune parti. Ma l' accordo finora è rima sto inattuato e la violenza continua I NODI Israeliani e palestinesi cercano di arrivare a una tregua, primo passo per l' applicazione dei piani presentati dalla diplomazia Usa: un' ipotesi è quella di arrivare al cessate il fuoco in modo graduale. S e funziona in una zona si passa ad un' altra. Inoltre Israele dovrebbe alleggerire l' assedio ai Territori palestinesi, autorizzando i movimenti di persone e cose. Ma il nodo più duro riguarda il futuro: Sharon offre solo accordi intermedi, Arafat ch iede un accordo complessivo che porti alla fine dell' occupazione




lunedi , 10 settembre 2001
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I bambini che vanno a scuola, «bersaglio mobile» degli assassini


IN PRIMA LINEA I bambini che vanno a scuola, «bersaglio mobile» degli assassini DAL NOSTRO INVIATO MA' ALE MICHMAS - Il giro delle colonie comincia alle sette. Ogni mattina l' autobus passa anche da Ma' ale Michmas, un insediamento ebraico sospeso su lle colline desertiche della valle del Giordano. Ha decine di bambini da raccogliere e portare a scuola, lamiere rafforzate per proteggerli dagli attacchi, vetri blindati per fermare le pallottole. Ogni mattina, quando le portiere si chiudono, uno de gli studenti prende posto accanto all' autista, afferra il microfono e recita la «preghiera del viaggiatore». Poche parole per affidarsi a Dio sulle strade di una terra contesa, disseminata di trappole e di passaggi incerti. Bersaglio mobile. Lo sann o i passeggeri e lo sa il guidatore. Velocità sostenuta. Le maestre inventano giochi per distrarre i più piccoli. «Evitate i convogli - suggerisce l' esercito -. Allontanatevi dai camion, dalle macchine. Le colonne favoriscono le stragi». L' importan te è che lo scuola-bus sia protetto. Un colpo di Kalashnikov contro il parabrezza è solo una scossa tra i sedili, una macchia opaca lasciata sul vetro. Ieri mattina è stato diverso. Erano insegnanti quelli che viaggiavano a pochi chilometri da qui, l ungo la strada che si inerpica oltre Gerico. Due sono caduti sotto i colpi dei cecchini palestinesi, altri tre sono rimasti feriti. Non c' erano vetri antiproiettile sul loro pulmino. Nessuno si stupisce a Ma' ale Michmas, 200 famiglie perdute su que st' avamposto della Galilea. «I bus blindati non bastano per tutti - dice Shimon Riklin, 38 anni, mentre si aggiusta la kippah in testa -. La legge che regola i trasporti scolastici è complicata. Tanto per cominciare, non tutte le colonie hanno una s cuola: si tende a raggruppare gli studenti in grossi istituti, creati negli insediamenti più estesi. Ogni colonia possiede un suo scuola-bus blindato, ma funziona solo per gli alunni delle scuole laiche, i più numerosi. Gli altri si arrangiano». Gli altri sono gli studenti delle scuole religiose e qualche volta gli insegnanti, per l' appunto. I primi divisi in gruppi sparuti, due o tre bambini alla volta, mandati dai genitori in piccole scuole che seguono ciascuna un indirizzo diverso, sono trop pi pochi per ottenere un veicolo blindato. I secondi hanno più o meno lo stesso problema: «Il governo li invita a indossare giubbotti antiproiettile, ma non ho mai visto un solo professore che accetti di uscire di casa bardato così». Shimon Riklin è un archeologo, originario di Tel Aviv. Dieci anni fa si è avventurato con un caravan su queste colline a occupare il suo fazzoletto di terra. Poi sono state costruite le case, cubi senza troppi fronzoli, circondati da filo spinato. L' uomo dà un ulti mo sguardo alle notizie che arrivano su Internet e indica fuori dalla finestra un panorama di pietra. «Certo, possiamo dotarci tutti di jeep, camion, berline blindate. Ai privati è concesso. Possiamo chiedere soldati e carri armati per difenderci. Ma non lo vogliamo, questa è la nostra terra. Siamo disposti a combattere, non a vivere dentro a un lager». E i bambini? Shimon ne ha tre: uno di 5 anni, uno di 4, un altro di 3. I loro giocattoli sono in cucina o abbandonati in terrazzo. «Abbiamo un a silo qui dentro, per il momento vanno lì. Un tempo li portavo dalla nonna a Tel Aviv ogni venerdì, oggi l' unico modo di salvarli è tenerli in casa». «La vita è più importante?». Shimon Riklin si gratta la barba: «Ne abbiamo discusso a lungo. Ci siam o chiesti se smettere di mandare i nostri figli a scuola, se rinunciare all' insegnamento religioso. Ma alla fine abbiamo deciso che l' istruzione viene prima di tutto». Le cifre lo confermano. Secondo il Consiglio dei coloni, a dispetto dell' intifa da, quest' anno il numero degli studenti degli insediamenti è aumentato dell' 8%. Sono 108 mila i ragazzini che si spostano da un insediamento all' altro per andare a scuola contro i 98 mila dell' anno scorso. Le resistenze del governo ad autorizzare la deregulation dei trasporti protetti, riflette una vecchia preoccupazione: evitare che i coloni si organizzino in modo troppo autonomo, che gestiscano da sé la sicurezza degli insediamenti. Si può corazzare la propria auto - nei Territori esistono ormai officine specializzate nelle blindature -, ma non creare un sistema parallelo di scuola-bus. Le agevolazioni non mancano: a parte le armi, fucile e pistole che circolano liberamente in ogni colonia, esistono anche sgravi fiscali per l' autodif esa. Il ministro delle Finanze Silvan Shalom ha, per esempio, abolito la tassa del 17% sull' acquisto di materiali antiproiettile. Shimon Riklin ci rinuncia: «Tocca al governo combattere il terrorismo. Noi resteremo qui». Davanti alla sua terrazza, u na lapide con la stella di Davide ricorda l' agguato mortale a una donna di Ma' ale Michmas. Maria Grazia Cutuli




domenica , 09 settembre 2001
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Israele attacca, il dialogo s' allontana

Missili dagli elicotteri contro una sede di Al Fatah. Ucciso a Gaza un bambino palestinese

Un' altra giornata di violenza nei Territori occupati. Gli arabi: «La nostra risposta sarà veloce e dolorosa» Israele attacca, il dialogo s' allontana Missili dagli elicotteri contro una sede di Al Fatah. Ucciso a Gaza un bambino palestinese DAL NOST RO INVIATO EL BIREH (Cisgiordania) - Il palazzo ha resistito. Danni solo al primo piano, vetri rotti al secondo e al terzo, mura nere di fumo, biancheria stesa. A El Bireh, comune della Cisgiordania attaccato alla città di Ramallah, c' è una famiglia intera affacciata al balcone che guarda attonita lo squarcio provocato da due missili israeliani sparati a pochi metri dalle proprie finestre. Ci sono bambini tra gli ulivi del giardino che raccolgono schegge, poliziotti fermi all' entrata, decine d i miliziani con i mitra a tracolla. Un uomo, scampato al bombardamento, racconta come si è salvato dal fuoco degli elicotteri Apaches: «Ero dentro il mio ufficio quando il primo missile è entrato dalla finestra ed è esploso accanto a me. Ho fatto in tempo a scappare prima che scoppiasse il secondo». Nessun morto, nessun ferito. «Inshallah, poteva essere una strage». La folla si assiepa tra i palazzi, fitti come una trappola. Un altro giorno di guerra in Cisgiordania. Un attacco inaspettato frant uma a metà pomeriggio la strana quiete che sembrava avvolgere Gerusalemme e i territori vicini. Gli Apaches hanno colpito nel centro di un quartiere residenziale, centrando un angolo del mastodontico edificio che, oltre ad ospitare gli uffici del Fat ah e quelli del ministero dell' Ambiente palestinese, è abitato da decine di famiglie. Un appartamento è rimasto danneggiato: all' interno le lamiere divelte degli infissi, un materasso, molti calcinacci. L' esercito parla di ritorsione per la morte di un soldato, ucciso giovedì sera vicino Tulkarem. I palestinesi accusano: volevano uccidere Mohammed Mansur, capo locale di Al Fatah (il partito di Arafat). L' uomo era dentro l' edificio per una riunione di lavoro. E' uscito qualche minuto prima c he arrivassero gli Apaches. Un' altra «eliminazione selettiva», mentre Shimon Peres dall' Italia parla di tregua e di negoziati? Un doppio binario per tenere sotto pressione i palestinesi? L' esercito non commenta. Marwan Barghouti, leader dei Tanzim (la milizia armata di Al Fatah), lancia le minacce di sempre: «La nostra risposta sarà più veloce e dolorosa di quanto Israele possa immaginare». Al check point di Kalandia, porta d' ingresso per i Territori, dove l' intifada sembrava spenta negli u ltimi giorni, i ragazzini ricominciano a tirare pietre contro i soldati. Il posto di blocco, critico in tempi normali - ore di fila in una direzione e nell' altra - viene chiuso. I venditori di gelati concludono gli ultimi affari tra gli automobilist i in attesa, mentre un corteo di camion, pullman e auto, cerca di aggirare lo sbarramento forzando i cancelli di una cava tra le colline. I proprietari protestano, un' altra ora di fila, poi sono costretti ad aprire un varco. Sbarramenti anche sui ne goziati: il premier Ariel Sharon ha ribadito ieri in un' intervista al New York Times i suoi dubbi sull' efficacia di un incontro tra il ministro degli Esteri Peres e Arafat. Nell' area di Ramallah, intanto, sorgono nuove barriere. Non c' è solo il c heck point di Kalandia a filtrare entrate e uscite, ma anche un secondo appostamento militare a qualche centinaio di metri. La cintura di sicurezza attorno a Gerusalemme si fa sempre più stretta. Oggi il governo deciderà se istituzionalizzare le zone cuscinetto. Nella striscia di Gaza è rimasto ucciso ieri sera un bambino palestinese di 13 anni, colpito dalle pallottole israeliane. Maria Grazia Cutuli




sabato , 08 settembre 2001
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La «capitale» palestinese isolata dai reticolati

Il cordone anti attentati dell' esercito israeliano blocca i 19 mila abitanti di Abu Dis

LE NUOVE DIVISIONI La «capitale» palestinese chiusa fra tanti check point DAL NOSTRO INVIATO ABU DIS - Era a pochi minuti d' auto da Gerusalemme, affacciata sulla cupola d' oro della Moschea della Roccia. Adesso per arrivare ad Abu Dis bisogna supera re check point, scansare le ultime trincee, costeggiare reticolati, passare dietro al monte degli Ulivi per cercare un varco nel labirinto di strade chiuse da blocchi di cemento e cumuli di terra. Nessuno entra, nessuno esce da Abu Dis. I diciannovem ila abitanti, segregati in questo sobborgo sporco e polveroso di Gerusalemme, un tempo additato come futura capitale dello Stato palestinese, continuano a vedere nuove barriere sorgere attorno alle loro case. «Non ci si muove più - dice Ali Jaffar, 3 5 anni -. Né in macchina e nemmeno a piedi. I controlli sono capillari. Avventurarsi in città è diventata una follia». Non è ancora una «zona tampone», ma ci manca poco. Il piano studiato dall' esercito per fermare le infiltrazioni dei kamikaze islam ici prevede la chiusura di aree come questa, fasce «cerniera» a ridosso della linea verde, dove nessuno passa senza specifici permessi. Nasceranno davvero? Abu Dis e altri sobborghi vicini fanno da laboratorio per la politica della spartizione. «Siam o schiacciati tra due file di check point - dice ancora Ali Jaffar - da una parte quelli per i Territori, dall' altra quelli per la città». Il sobborgo vive su un crinale: il 90% è considerato Cisgiordania, il resto è sotto lo Stato d' Israele. L' uo mo, seduto nel retrobottega di un salone per ricevimenti, ha un' odissea collettiva da raccontare: «Gli abitanti di Abu Dis hanno sempre gravitato su Gerusalemme. I posti di lavoro, i negozi, gli ospedali si trovano tutti da quella parte. Io stesso l avoravo come impiegato presso un albergo della capitale. Poi è cominciata l' intifada, l' hotel ha chiuso ed eccomi qua». Guadagnava 5 mila shekel al mese, Ali Jaffar, quasi due milioni e mezzo di lire. Oggi ne porta a casa meno della metà. Di male i n peggio: sono le carte d' identità della Cisgiordania a marchiare la gente di Abu Dis: «Per passare dall' altra parte ci vuole un permesso speciale. I primi tempi lo si otteneva ancora, ormai è impossibile». Si usavano le strade secondarie per sfugg ire all' accerchiamento, ora ci sono dovunque cumuli di terra. «Spesso i soldati fanno finta di lasciarti passare, ma appena fuori ti insultano, ti prendono a sberle, ti costringono a tornare indietro». Eppure il miraggio dell' indipendenza passava p roprio di qua, da questa collina arida trasformata in un mosaico di costruzioni a casaccio. Nel 1996, dopo gli accordi di Oslo, il ministro della Giustizia israeliano Yossi Beilin aveva firmato con Abu Mazen, mediatore di Arafat, l' ambizioso progett o che indicava il sobborgo come la possibile capitale di uno Stato palestinese. Abu Dis, la nuova Gerusalemme. Non tutti erano d' accordo, ma intanto nascevano uffici, strutture parallele, un mausoleo bianco che avrebbe dovuto ospitare il parlamento. L' ex futura capitale è diventata un vicolo cieco. Maria Grazia Cutuli




venerdi , 07 settembre 2001
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La rivolta dei liceali ebrei «Non vestiremo la divisa»


IL FRONTE INTERNO La rivolta dei liceali ebrei «Non vestiremo la divisa» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - I suoi compagni sognavano di entrare nei Sayeret Matkal, i commandos speciali dell' esercito. Lui no. A 14 anni Yonatan Ben Arzi, nipote dell' e x premier Benjamin Netaniahu, aveva già chiaro che le guerre d' Israele non lo interessavano. «Disertavo le gite scolastiche ai campi militari. Gli psicologi della scuola convocavano allarmati i miei genitori, ma né mio padre né mia madre si sono mai presentati». Oggi Yonathan, detto «Yoni», occhi azzurri, capelli a spazzola lucidati dal gel, ha 20 anni e un conto aperto con le forze armate israeliane: ha rifiutato l' arruolamento. Gli hanno dato tempo fino a novembre per presentarsi, ma non ha intenzione di ripensarci: «Rischio la galera? Mi hanno detto che le prigioni militari non sono così terribili come si crede. Sarà un piccolo prezzo da pagare». Il suo pacifismo non ha niente a che vedere con Israele, sostiene. «Farei lo stesso se viv essi in Svezia o in Svizzera». Ma come dimenticare che suo padre è il fratello di Sarah Netaniahu, moglie di uno dei leader della destra? «La nostra famiglia ha già dato molto a questo Paese - interviene il genitore -. Adesso tocca agli altri». Tradi zioni pesanti: lo zio di Yoni, Zvi Kostles, paracadutista, venne ucciso nella valle del Giordano. Lo stesso padre, Zvi Ben Arzi, ha servito per 12 anni nelle Unità di ricerca e sviluppo, dopo aver militato nel Golan. E c' è soprattutto Yoni Nataniahu , fratello dell' ex premier, eroe nazionale morto nel ' 76 a capo del commando che liberò gli ostaggi israeliani ad Entebbe, ad aver segnato la storia familiare. Ma Yoni appartiene a una generazione diversa, la terza, cresciuta in un' epoca di beness ere, che vede il conflitto con i palestinesi come una guerra politica, stremante e inutile. Non è il solo ad essere stufo delle ideologie militanti che avevano sostenuto i padri. Due giorni fa 62 studenti hanno spedito una lettera durissima al primo ministro Ariel Sharon: «Ci opponiamo con forza a una politica che calpesta i diritti umani. La confisca delle terre, gli arresti, le esecuzioni sommarie, la distruzione delle case, i blocchi, le torture, sono solo alcuni dei crimini commessi dallo St ato d' Israele». Ribellione di massa? Chiarisce Hagai Matar, 17 anni: «Qualcuno di noi si rifiuta di servire l' esercito, altri di far parte di unità di combattimento, altri ancora preferiscono essere riformati dagli psichiatri che indossare la divis a». Non esiste servizio civile in Israele. Anche le organizzazioni che lavorano sull' obiezione di coscienza, come Yesh Gvul e New Profile, riescono ad ottenere poco. Dall' inizio della seconda Intifada sono finite in prigione 17 persone, soldati e r iservisti che si sono rifiutati di andare nei Territori. L' ultima è Avia Atai, 19 anni, una ragazza bionda dagli occhi chiari con un diploma da maestra e un passato negli scout. Volevano mandarla a insegnare ai bambini dell' insediamento ebraico di Gilo, a Gerusalemme, come difendersi dai proiettili e dai mortai. Si è opposta: condannata domenica scorsa a 28 giorni di detenzione. «Mia figlia è stata educata ad amare il suo Paese - dice il padre, Yehuda - e ha tutto il mio appoggio. Se il govern o non vuole mettere in pericolo la vita dei bambini di Gilo, perché non li sposta dalla prima linea anziché strumentalizzarli politicamente? Avia non si sentiva preparata a dar quel tipo di lezioni. Mi ha mostrato il vademecum che le era stato fornit o: pieno di follie e assurdità». Anche il padre di Avia è stato un combattente, un paracadutista impegnato nella stessa unità di Yoni Netaniahu. «Erano altri tempi, eravamo circondati. Oggi vedo solo una società lacerata. I nostri figli ne sono la pr ova». Maria Grazia Cutuli




giovedi , 06 settembre 2001
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Trucchi e scongiuri per vivere con la paura della bomba


La psicosi da attentato ha cambiato le abitudini quotidiane dei 650 mila ebrei della Città Santa Trucchi e scongiuri per vivere con la paura della bomba DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - «Goral», ripetono a Gerusalemme. Destino, solamente destino, se si è scansato l' incontro con il kamikaze sulla centralissima Heneviim, le bombe alla French Hill, gli attentati in pizzeria, le infinite trappole che questa città può nascondere a ogni angolo di strada, davanti ai supermarket, alle scuole, agli ospe dali. «Beezrat Ashem», con l' aiuto di Dio, ma anche di poliziotti, soldati, agenti in borghese disposti a cerchi concentrici attorno alle «strade della morte», l' autobus 9 percorrerà pure oggi il quadrilatero del centro, lungo la King George, fino al quartiere ortodosso di Mea Sharim, per completare la sua corsa all' università. «Goral», se si è scelta una strada anziché un' altra, se si è usciti di casa cinque minuti dopo, se i piccoli accorgimenti che stanno cambiando la giornata di ogni abi tante di Gerusalemme fino ad ora hanno funzionato. In una città, abitata da 650 mila persone, la psicosi della bomba non basta a tenere la gente in casa, ma sta trasformando i riti quotidiani in un sottile, quasi inconsapevole, addestramento alla sop ravvivenza. LA SVEGLIA - Per due giorni consecutivi non è stato un trillo da comodino a gettare la gente giù dal letto. Lunedì una bomba, martedì la dinamite che un kamikaze si portava in spalla. «Mi ero addormentata con un rombo di aerei, mi sono sv egliata con il frastuono di un' esplosione». Anna Nizza, 25 anni, ebrea italiana, ha guardato la sveglia: ore 7.45. Ha fatto la doccia come al solito, poi si è fermata sulla porta di casa: «Devo davvero prendere l' autobus, devo andare all' universit à?». E' andata. Miriam, una giovane impiegata, era già per strada con il bambino. Dal 9 agosto, giorno dell' attentato alla pizzeria Sbarro, ha cambiato percorso: evita la King George, facendo il giro dalla zona araba per tornare a quella israeliana. «Goral», destino. Lo stesso percorso che martedì ha seguito probabilmente il kamikaze, ma qualche minuto prima. LA SCUOLA - Meglio in macchina, che in autobus. Chi ha bambini da portare a scuola non ha dubbi. Evitare le fermate dei pullman, evitare il centro. Accompagnare sempre i propri ragazzi. Alle 12.30 del mattino Shaul, architetto, ha lasciato il lavoro a metà e se ne sta ad aspettare suo figlio, 13 anni, davanti all' Adam School. «Ormai è la regola. Tutti i miei colleghi fanno così». Le scuole, presidiate da militari e guardie private, sono relativamente sicure. Fuori non si sa mai. Alla scuola anglicana i genitori hanno chiesto che si sposti la fermata dell' autobus. Non la vogliono vicina all' edificio. Gli psicologi sono presenze frequenti in aula. Nei quartieri a rischio come Gilo sono invece andati i militari a dar lezione di autodifesa. I TRASPORTI - Nessun tassista israeliano va volentieri nei quartieri arabi di Gerusalemme est. Hanno imparato gli autisti a controllare l ' auto ogni volta che un passeggero scende, per essere sicuri che non abbia lasciato niente sul sedile. Hanno un pulsante speciale, collegato a un lampeggiatore sul tetto, da premere in caso di pericolo. «E ci è stata anche concessa - dice Shimon - u na deroga alla legge: se una faccia non ci piace possiamo rifiutare il cliente». La città si spacca in due. La linea verde del 1967 non è solo un confine politico: chi abita nei quartieri israeliani difficilmente mette piede a est, e viceversa. LE PA SSEGGIATE - Nel quadrilatero del centro si entra solo per lavoro, la spesa si fa invece in periferia. Non si cammina a passo sciolto per le strade di Gerusalemme. Come smettere di guardarsi attorno, di osservare i visi, di spiare i comportamenti? A o gni palestinese che passa, scattano i controlli di agenti e guardie di frontiera. Alla centrale di polizia del Russian Compound, il quartiere dove sono scoppiate tre autobombe negli ultimi mesi, arrivano più di 700 segnalazioni al giorno. Un sacco di plastica abbandonato, una borsa, una valigia. Tutto può contenere esplosivo. Angelo Disegni, 40 anni, proprietario di un ristorante italiano, tiene d' occhio le auto: «Appena ne vedo una parcheggiata per più di un giorno consecutivo, chiamo la poliz ia». LA NOTTE - Chiuse al traffico le strade dei ristoranti, parcheggi interdetti, metal detector davanti all' Oman 17, la più grande discoteca d' Israele. «Si esce lo stesso, non se ne può fare a meno - dice Shlomi, 18 anni -. A stare in casa divent eremmo pazzi». I ragazzi scelgono i locali, giocando con il calcolo delle probabilità: dove può arrivare o meno un kamikaze. Chi ha bambini, la notte ha un altro problema da affrontare: «Non vogliono più dormire da soli - dice Ofra Barazani, 38 anni, segretaria al Tempio -. Hanno paura, piangono». «Goral», ripetono a Gerusalemme. «Questa è la nostra città, dobbiamo continuare a vivere». Maria Grazia Cutuli




martedi , 04 settembre 2001
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«Dovevamo restare e batterci»


L' EX PREMIER NETANIAHU «Dovevamo restare e batterci» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Perché Israele non si è difesa dall' attacco? Perché i politici, gli intellettuali, i figli della diaspora hanno taciuto davanti alle accuse di razzismo lanciate d alla conferenza di Durban? Benjamin Netaniahu, l' ex premier israeliano, l' avversario storico di Ariel Sharon all' interno della destra Likud, condanna il basso profilo adottato dal governo in occasione del vertice Onu. Secondo l' esponente della de stra, c' era qualcosa che andava fatto in precedenza: spedire in Sudafrica una delegazione di alto livello, oratori e politici capaci di controbattere le risoluzioni contro Israele. Parlando alla televisione di Stato, Netaniahu ha ribaltato l' equazi one tra «sionismo e razzismo» lanciata da Yasser Arafat: sono i palestinesi - ha detto - ad operare una «pulizia etnica» nei nostri confronti. Famiglie spezzate dal terrorismo, una neonata uccisa dai cecchini a Hebron, due soldati israeliani linciati a Ramallah con la sola colpa di essere ebrei: come «può chiamarci nazisti quello stesso popolo impegnato in una pulizia etnica?». Netaniahu è furioso contro il suo compagno-nemico di partito, Ariel Sharon, che in questo contesto, negli stessi giorni in cui si pronunciavano parole brucianti contro Israele, lasciava che il suo ministro degli Esteri Shimon Peres trattasse un incontro con Yasser Arafat: una spaccatura - dice - tra la volontà della nazione, che chiede una risposta forte all' Intifad a, e la politica del governo. «Arafat è responsabile della morte di innumerevoli ebrei. Non è un nostro partner». Perché Israele non si è difeso? Il governo ha dibattuto a lungo se partecipare o meno alla conferenza in un clima politico avvelenato da llo scontro con i palestinesi. Incertezze, titubanze, temporeggiamenti hanno portato a formare una delegazione impreparata. Sullo stesso punto insisteva ieri dalla prima pagina del Jerusalem Post, prima della notizia del ritiro della delegazione isra eliana, anche Isaac Herzog, collaboratore dell' ex premier laburista Ehud Barak. La presenza di Israele «in un' arena piena di odio come quella di Durban», contiene «un importante messaggio educativo» per il mondo intero: «Israele non deve rinunciare a presentare il suo caso nelle forme più forti ed efficaci». Altri media insorgono contro «il furioso antisemitismo, venuto fuori dalla conferenza di Durban». Il quotidiano Yedioth Ahronoth parla di «notte dei cristalli», di una «strada ideologica c he da Durban arriva al campo di sterminio di Bergen Belsen», più corta - scrive in un editoriale - di quanto si possa immaginare. Durban come la Berlino nazista. Ma ancora una volta brucia il silenzio. «Dov' era il mondo ebraico in questo terribile t umulto? Dov' erano i premi Nobel ebrei? I filosofi ebrei francesi? L' odio contro lo Stato d' Israele non è uguale a quello contro gli ebrei della Francia, della Gran Bretagna?». Giorni di rabbia, qui in Israele, dove il peso della storia torna con i suoi tormenti di sempre e la politica, condizionata dallo scontro militari con i palestinesi, cerca ancora una volta ancoraggio al passato. Maria Grazia Cutuli




lunedi , 03 settembre 2001
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La Conferenza discute e nei Territori si spara Hebron sotto assedio

Uccisi due miliziani palestinesi Esplosione in serata a Gerusalemme, nessun ferito

DAL NOSTRO INVIATO HEBRON - L' obiettivo è Abu Sneina, una collina che domina l' antico suk di Hebron. I carri armati israeliani, mimetizzati nel cuore della città, puntano in quella direzione tra le case in gran parte deserte, verso i covi dei Tanzi m, i combattenti del Fatah nascosti tra le mura di pietra bianca. Si comincia a sparare in mattinata, una mezz' ora di colpi, poi tutto tace per ricominciare con il calare della notte. È un giornata di lutto a Hebron, accompagnata da uno sciopero gen erale. Una giornata di attesa, dove le notizie di un possibile incontro tra Shimon Peres e Yasser Arafat, rimbalzate dalla conferenza di Durban, sembrano solo esasperare la tensione. Due miliziani palestinesi sono stati uccisi dagli israeliani prima dell' alba e, mentre si preparano i funerali, la città mostra file di negozi chiusi, poche bancarelle, carcasse di auto bruciate, resti di molotov e bossoli per terra. I palestinesi temono nuovi sconfinamenti, un' altra occupazione simile a quella di Beit Jalla nelle scorse settimane. Ma di fatto gli israeliani sono già dentro la città. Tutto il centro di Hebron, spaccato dalla presenza di 500 coloni insediati in mezzo a 120 mila arabi, è ormai zona morta e occupata. I posti di blocco l' hanno c hiuso ermeticamente. Ai pochi abitanti rimasti vengono concesse due ore al giorno di libera uscita per procurarsi da mangiare. Non c' è porta che non sia segnata dalla stella di Davide, non c' è strada che non sia bloccata da cavalli di frisia, trapp ole, fili spinati. I coloni avevano piantato una tenda proprio ai piedi della collina di Abu Sneina, con tavoli, sedie, librerie, giacigli per la notte. Poi hanno preferito sloggiare, visti i tiri che arrivavano dalla collina. Oggi al loro posto ci s ono militari pronti agli scontri con i Tanzim. Le loro incursioni nei quartieri arabi sono continue. «Negli ultimi giorni abbiamo visto i carri armati avanzare di 200-300 metri oltre le loro postazioni - racconta Mohammed Hashab, commerciante di tapp eti -. Si muovono lungo le strade o su per la collina». C' è chi dice che vogliano prendere Abu Sneina. Chi pensa che la pressione serva a negoziare un cessate il fuoco simile a quello ottenuto a Beit Jalla. «Una strategia per spegnere l' intifada - aggiunge Omar Manasra, 25 anni -. Ma non ci riusciranno». Era un farmacista Omar, prima che gli israeliani si insediassero nel suk e lo costringessero a chiudere. Sa poco di quello che sta succedendo a Durban e si chiede stupito: «Che cosa fa l' Euro pa? Perché non ci aiuta?». La risposta sta alla periferia di Hebron, nel palazzotto che ospita gli 85 osservatori mandati dall' Europa nel ' 94. Da una settimana non si muovono più. «Abbiamo subito aggressioni a ripetizione da parte dei coloni», dice il colonnello Fulvio Piacentini, comandante dei 20 carabinieri italiani che fanno parte della missione. Secondo il mandato, sono gli israeliani che dovrebbero garantire la sicurezza agli osservatori. Ma nessun militare interviene a fermare le pietre dei coloni. Anzi. Ai loro check point svettano cartelli: «Osservatori, protettori dei terroristi, tornatevene a casa». In serata, da Gerusalemme arriva la notizia di un' esplosione: una bomba è scoppiata senza fare vittime in un giardino vicino all' insediamento ebraico di French Hill, a nord della città, di fronte al quartiere arabo di Bet Hanina. Maria Grazia Cutuli




domenica , 02 settembre 2001
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La storia di Sonu e Vishal, condannati a morte per essersi parlati


Quasi coetanei, i due vivevano nello stesso villaggio indiano ma non appartenevano alla stessa casta. Sono stati strangolati dai genitori di lei La storia di Sonu e Vishal, condannati a morte per essersi parlati Hanno usato la stessa corda riservata ai bufali. Prima è toccato a Sonu, la ragazza. Poi a Vishal, il ragazzo. Li hanno presi alla gola, strangolandoli lentamente. Lei aveva 16 anni, lui uno di più. Un' unica colpa: aver scambiato qualche parola a dispetto delle caste. Non c' è nulla ad Alinagar, 260 abitanti a tre ore di macchina da New Delhi, che possa giustificare un omicidio come questo: una morte consumata in famiglia per cancellare una pretesa vergogna, un delitto d' onore necessario a ristabilire l' ordine sociale in un picco lo villaggio dell' India settentrionale. Ci sono solo baracche di fango, vacche smagrite, campi esangui ad Alinagar. Anche la guerra tra poveri sembra senza senso. Eppure la gente era lì, quando i genitori di Sonu stringevano il cappio attorno al col lo della figlia e a quello dell' amico. Nessuno ha fiatato, nessuno si è opposto. E' bastato far appello ai jat, la casta di lei, gli agricoltori conservatori che dominano la regione. Pronunciare con disgusto il nome di quella di lui, bramino impover ito, per ricordare la differenza e sancire l' impossibilità di un incontro. Forse era una storia d' amore, oppure non ancora. Anche una conversazione tra ceti diversi può far scandalo in quest' India moderna che pretende di essere la prima potenza ec onomica e politica dell' Asia meridionale. Il sistema delle caste, l' argomento tabù della conferenza sul razzismo di Durban, segna recinti impossibili da scavalcare. Una vicina li aveva visti, Sonu e Vishal, mentre si parlavano. Li aveva spiati per raccontare tutto ai rispettivi genitori. Le famiglie si sono incontrate, è accorso anche un paciere. Ma a poco a poco la questione si è trasformata in un consiglio di villaggio che ha emesso un giudizio spietato: i due vanno eliminati. La madre del r agazzo ha tentato di opporsi. Proponeva di cacciare il figlio dalla comunità, di trovare un marito a Sonu. Tempo perso. La vicina pettegola ha offerto casa sua come camera della tortura, i genitori di lei hanno fatto da boia, una decina di amici da s acerdoti per la cremazione rituale. Giustizia fatta, secondo il codice d' onore dell' India tribale. La polizia ha arrestato una decina di persone, ne cerca altre tre. «Ma la casta è tutto», sussurrano al villaggio, tra sguardi ostili e visi di pietr a. La legge non può nulla? La discriminazione basata sulle caste è nata 3 mila anni fa, prescritta dal testo sacro dell' induismo, il Rig Veda. Nonostante la divisione sia stata ufficialmente bandita con la costituzione adottata nel 1950, la p iramide indiana vede ancora oggi quattro livelli principali di appartenenza. Al vertice i bramini, i sacerdoti. In basso si va oltre la catalogazione: lì ci sono i fuoricasta, gli intoccabili, i dalit, quelli che il Mahatma Gandhi aveva inutilmente r ibattezzato harijan, figli di Dio. Centottanta milioni di persone relegate nelle bidonville delle megalopoli indiane, da Bombay a New Delhi a Calcutta, come nelle aree rurali, nelle discariche o nelle fogne, a raccogliere escrementi, dormire sui marc iapiedi, ripararsi con sacchi di plastica. Se nell' antropomorfismo della religione indù i bramini rappresentano la bocca, i guerrieri le braccia, i commercianti il tronco, agli intoccabili non restano che i piedi, le estremità sprofondate nel fango, luride e infette. Famosa la loro rivolta del 1997, scoppiata a Bombay e poi dilagata in altri stati della federazione. Qualcuno aveva appeso una ghirlanda di scarpe al collo della statua del dottore Ambedkar, eroe dei diseredati. I dalit potevano pa tire tutto, ma non quell' offesa. Tre anni prima avevano vissuto un primo riscatto, un partito politico corteggiato persino dal Congresso. E qualche nome da esibire come bandiera: l' attuale presidente Narayanan proviene dagli intoccabili. E così Moh an Chandra Balayogi, lo speaker della camera bassa del Parlamento. Secondo le denunce presentate dall' organizzazione Human Rights Watch al vertice di Durban, 250 milioni di persone nel sud dell' Asia continuano a vivere da «intoccabili». Ma il gover no indiano, nonostante abbia spedito in Sudafrica diversi dalit membri del parlamento, non vuole parlarne: che non si affronti l' argomento, era una delle condizioni poste agli organizzatori della conferenza. La questione è esplosa comunque. Uno degl i «intoccabili», durante il Forum delle organizzazioni non governative, ha contestato il segretario dell' Onu Kofi Annan ricordandogli le discriminazioni di cui i dalit sono vittime. Si è arrivati alla rissa, con Annan che urlava «calma, calma». L' a rgomento imbarazza tutti. L' India insiste: non esistono discriminazioni razziali. Ma a contraddire le posizioni ufficiali sono in molti. Dice Ruth Manorama, portavoce della Campagna nazionale per i diritti umani dei dalit: «Vogliamo l' appoggio dell a comunità internazionale per spingere il governo ad abolire queste ingiustizie». E non è solo l' India di Madre Teresa di Calcutta, o quella del Father Pierre, il missionario delle bidonville, l' India raccontata da Dominique La Pierre ne «La città della gioia», a protestare. In questi giorni si è pronunciato per esempio Dipankar Gupta, professore di sociologia all' università di New Delhi, accusando il governo di «doppio standard» nelle condizioni imposte a Durban: «L' India è brava a discuter e di razzismo, peccato non tocchi le caste». Un problema interno? Di certo un vivaio di tensioni. Oltre alla discriminazione, c' è l' atrocità. I giornali indiani la raccontano ogni giorno: gente uccisa perché osa ribellarsi, donne stuprate, villaggi dati alle fiamme. E delitti d' onore, per l' appunto. Il sistema delle caste, come dimostra la storia di Sonu e Vishal, sancisce anche questo: nessuna unione oltre lo steccato. Maria Grazia Cutuli Il sistema LE CASTE Il sistema delle caste imposto d alla religione induista divide la società in quattro gruppi chiusi: bramini (i religiosi), kshatriya (i guerrieri), vaisya (i contadini, gli artigiani e i commercianti), sudra (i servitori). Benché sia stato posto fuori legge nel 1950, è ancora larga mente dominante in India GLI INTOCCABILI Gli intoccabili (dalit) non appartengono a nessuna delle 4 caste. A loro spettano i mestieri più umili e più sporchi: pulire le latrine, scuoiare gli animali. Si calcola che oggi i dalit siano circa 180 milion




venerdi , 26 gennaio 2001
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Gli inviati di Sharon incontrano i palestinesi

Il capo della destra israeliana pregusta la vittoria e lancia «segnali di dialogo» ad Arafat

Ripresa dei negoziati a Taba, in Egitto. Il premier Barak: «Non rinunciamo a Gerusalemme, sarebbe un tradimento» Gli inviati di Sharon incontrano i palestinesi Il capo della destra israeliana pregusta la vittoria e lancia «segnali di dialogo» ad Araf at «Un elefante in una cristalleria», l' aveva liquidato qualche giorno fa il ministro palestinese Nabil Shaath. Ma Ariel Sharon, il capo del Likud, la destra israeliana, il generale che il 28 settembre scatenò l' Intifada con la sua visita alla Spia nata delle Moschee, comincia a muovere la sua mole con più accortezza del previsto. Non si limita a pregustare la vittoria alle elezioni del 6 febbraio. Si comporta già da futuro premier, affrontando in via preliminare la questione più delicata del p rossimo governo: le trattative di pace con i palestinesi. Il suo avversario, l' attuale primo ministro Ehud Barak, sembra allo stremo. Ieri ha ripreso i negoziati a Taba, in Egitto, ma non ha fatto nulla per nascondere la sua sfiducia. «Non credo che ci sarà un accordo prima del voto», ha detto chiaro e tondo. Troppo tardi per ricucire lo strappo provocato da quattro mesi d' Intifada. Troppe difficoltà e troppi passi falsi per mettere una toppa ora. Sharon, 72 anni, ne approfitta. Ha spedito a V ienna suo figlio Omri, l' avvocato Dov Weisglas e l' ex direttore del ministero degli esteri Eytan Bentsur, per incontrare Khaled Salam, consigliere economico di Yasser Arafat. Il colloquio è stato mascherato come riunione d' affari: si doveva discut ere del futuro di alcuni investimenti, tra i quali il Casinò di Gerico, chiuso in seguito agli scontri nei Territori. Ma la finzione è durata poco. Gli stessi inviati del Likud hanno confermato che «si è parlato di politica» e che la missione era fin alizzata a mostrare la disponibilità di Sharon al dialogo con i palestinesi. Il generale parla di Arafat come di un «bugiardo» e di un «assassino», ma sa pure che il conflitto va risolto. Come leader della destra, si considera anche l' unico capace d i far digerire a Israele un piano di pace più «graduale» di quello proposto dalla sinistra. Barak, il laburista, ha reagito male alla mossa dell' avversario: «Un incontro disturbante sul piano morale». Ma intanto a Taba di progressi se ne vedono poch i. Pesano le nuove vittime: un civile israeliano ucciso vicino alla zona industriale di Atarot a Gerusalemme est, e due palestinesi morti a Tulkarem in Cisgiordania. E pesano soprattutto i contenuti di una lettera spedita dal premier al nuovo preside nte americano George Bush, in cui si elencano le «restrizioni» che Israele intende porre ai negoziati: «Non cederemo la sovranità sul Monte del Tempio - ribadisce Barak - sarebbe un tradimento»; l' 80% delle colonie resterà al suo posto; no categoric o al rientro dei 3 milioni e 700 mila profughi palestinesi scappati dal 1948 in poi. Sono i nodi di sempre, gli scogli sui quali continua ad arenarsi la trattativa. «Non si può arrivare a risultati se non dopo aver concluso su tutti gli argomenti, Ge rusalemme compresa», lo ha rimbeccato il palestinese Nabil Shaath. Ma l' intenzione delle due parti sarebbe quella di trattare tutti gli aspetti del negoziato, tenendo fuori proprio lo status di Gerusalemme, per riuscire a consegnare almeno una bozza al prossimo governo. La trattativa è rimasta tesissima fino a sera e ha rischiato di essere interrotta da un momento all' altro. Le difficoltà negoziali e la stanchezza di Barak spingono Ariel Sharon sempre più in alto. Secondo i sondaggi, 18 punti di vantaggio sull' avversario. Ma la battaglia per le urne è avvelenata. Ricorda l' ex premier Bibi Netaniahu, compagno e nemico di partito del leader: «Il suo futuro è dietro di lui». Si chiama Sabra e Chatila l' ombra che pesa sul vecchio generale. Era il 1982, l' indomani dell' invasione israeliana di Beirut. Sharon, allora ministro della Difesa, permise alle milizie falangiste di entrare nei due campi profughi libanesi, schierò i suoi soldati attorno, mentre all' interno si consumava il mass acro di centinaia (forse migliaia) di civili. Sharon ha dichiarato nei giorni scorsi: «Non ho niente a che vedere con quello che successe lì. Arabi cristiani uccisero arabi musulmani e il risultato fu un' atmosfera d' isteria in Israele che mi costri nse a lasciare l' incarico». Ma la sinistra ha già chiesto all' Alta Corte di giustizia di pubblicare un rapporto confidenziale, realizzato dalla commissione Kahan, nel quale si chiedevano le dimissioni del leader dopo la strage. Un gioco politico? N on solo. Alcuni giorni fa, durante una visita del capo del Likud ad una scuola di Beersheva, una studentessa di 16 anni si è alzata in piedi puntando il dito: «E' stato lei a mandare mio padre in Libano. Ariel Sharon, io l' accuso per avermi fatto so ffrire per 16 anni. L' accuso per aver fatto soffrire mio padre. L' accuso per aver fatto soffrire un mucchio di gente in questo Paese. Non credo che lei debba essere eletto primo ministro». Il generale è ammutolito. «Mi presentano come colui che man gia gli arabi a colazione - ha detto al quotidiano israeliano Yediot Aharonot -. Ma non ho mai maltrattato i prigionieri, né umiliato nessuno». Non è questa l' immagine che vuole dare al Paese. Per le elezioni c' è un altro Sharon pronto a prendere l e redini d' Israele: un anziano statista, eroe della guerra del Kippur, che coltiva piante in giardino e porta a spasso i nipotini. Maria Grazia Cutuli




giovedi , 04 gennaio 2001
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«Yasser cambia solo tattica, vuole che l' intifada continui»


IL POLITOLOGO ARABO «Yasser cambia solo tattica, vuole che l' intifada continui» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - All' intransigenza ha preferito il compromesso. Al rifiuto, un assenso condizionato. Yasser Arafat torna da Washington accettando, anche se con molte riserve, di riprendere un negoziato che la maggior parte dei palestinesi contesta. Il leader ha offerto a Bill Clinton la sua disponibilità al dialogo, ma nei territori l' opposizione alle proposte americane continua a crescere. I verti ci dell' Olp ribadiscono che non riconosceranno nessun accordo alle condizioni volute dal premier israeliano Ehud Barak. «Taglieremo la mano a chiunque lo firmerà», ha dichiarato qualche giorno fa Marwan Barghouti, il capo dei Tanzim, l' ala armata d i Al Fatah. Si parla di spaccature all' interno della coa lizione che regge il governo dell' Autorità palestinese, di pressioni esercitate sul leader affinché prenda una posizione più dura nei confronti di Israele. Corre voce che Hamas progetti di uc cidere lo stesso Arafat, se cederà alle pressioni di Washington. I militanti dell' organizzazione islamica smentiscono. Ma i segnali sono sinistri. Anche lo Stato ebraico intensifica lo scontro, autorizzando i suoi servizi segreti a colpire dappertut to: nella lista dei nemici da eliminare sono entrati non solo gli estremisti, ma persino i capi dell' Olp. Che peso ha, in questa situazione, il sì di Arafat agli americani? «Non mi sembra il momento di essere troppo ottimisti - dice Gassan Khatib, d ocente all' università palestinese di Bir Zeit -. Arafat ha solo modificato la sua tattica diplomatica. Anziché esprimere un rifiuto, ha voluto mostrare un atteggiamento positivo per evitare che i palestinesi vengano accusati di voler far fallire il negoziato. Ma la sua posizione non è cambiata». Il politologo palestinese non vede però spaccature all' interno della leadership araba, solo un gioco di ruoli: «Arafat è interessato a continuare l' Intifada come qualunque altro palestinese - assicura -. E lo farà fin quando il processo negoziale non registrerà davvero dei passi in avanti». Non crede che siano gli elementi più radicali ad avere il controllo della situazione? «Assolutamente no. Il fronte della rivolta è compatto. C' era divisione in passato, ma non adesso. E' Al Fatah che guida il gioco, la corrente che fa capo ad Yasser Arafat. Non c' è spazio per i falchi, ma solo l' intenzione di porre fine con qualunque mezzo all' occupazione israeliana». I Tanzim acquistano sempre più pe so. Mostrano in pubblico i loro fucili, minacciano di estendere il conflitto. «Chi sono i Tanzim? In arabo la parola significa organizzazione. Non sono squadre speciali. Il loro capo, Marwan Barghouti è una creatura di Arafat. Rimane uno dei suoi uom ini più fidati. Non gli si rivolta contro». E le minacce di Hamas? «Hamas non conta più nulla. La sua partecipazione all' Intifada è minima. E' la gente comune, il popolo palestinese, che partecipa alla lotta. Tutto il resto è propaganda messa in gir o da Israele». Israele fa sapere di esser pronto a eliminare gli esponenti di quella stessa leadership con cui in teoria dovrebbe negoziare. «E' una strategia molto pericolosa, ma non è nuova. La verità è che lo Stato ebraico ha bloccato il processo di pace. L' unica alternativa che ci rimane è la guerra. Dieci anni fa qualcuno promise ad Arafat che si sarebbe arrivati alla fine dell' occupazione israeliana senza spargimento di sangue. Non era vero. La storia ci insegna: c' è sempre un prezzo da pagare alla lotta per l' indipendenza». Crede allora che il piano americano sia da buttare via? «Credo che non funzioni. E' contraddittorio ai principi affermati dalle risoluzioni dell' Onu, prima fra tutte la 242: terra in cambio di pace. E poi non si tratta di un piano americano, lo sanno tutti. E' un piano studiato dagli i sraeliani e presentato da Clinton, che respinge di fatto le principali richieste palestinesi, dal diritto del ritorno dei profughi allo smantellamento degli insediamenti e braici, fino alla sovranità sui luoghi sacri». Quali sono le alternative a questa proposta? «Continuare a sperare nei negoziati, portare I sraele ad accettare la fine dell' occupazione, far capire a Ehud Barak che non si può conservare la torta e all o stesso tempo mangiarla». Maria Grazia Cutuli




mercoledi, 03 gennaio 2001
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«I rifugiati? Non li vogliamo». Firmato: gli intellettuali israeliani

Scrittori come Yehoshua, Oz e Grossman bocciano le aspirazioni dei profughi: "Distruggerebbero lo Stato"

LETTERA APERTA «I rifugiati? Non li vogliamo». Firmato: gli intellettuali israeliani DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - «Non permetteremo mai il ritorno dei rifugiati dentro i confini dello Stato d' Israele». Il messaggio, a carattere bianchi su fondo azzurro, è apparso ieri sulla prima pagina di Ha' aretz, uno dei principali quotidiani israeliani. È un appello indirizzato alla leadership palestinese affinché rinunci al suo braccio di ferro su uno dei punti più delicati del piano negoziale. Ma non è un messaggio da falchi. Non sono i rabbini, i coloni o gli oltranzisti della destra a firmarlo. Sono 33 intellettuali del fronte pacifista, scrittori come Amos Oz, Abraham Yehoshua o David Grossman, politici della sinistra, cattedratici illuminati a mettere in chiaro che c' è un punto oltre il quale non è possibile negoziare: «Un tale ritorno comporterebbe l' eliminazione dello Stato d' Israele. Scatenerebbe un conflitto senza precedenti. Minerebbe alla base il diritto all' autodeterminazione del popolo ebraico». Parole di piombo, in un clima come quello che vive oggi Israele. Dove sono finiti i ramoscelli di ulivo? Anche le «colombe» si barricano. Segno che lo scontro non risparmia nessuno. I profughi ai quali Yasser Arafat vorrebbe res tituire le case, le proprietà, le terre perdute dalla guerra del 1948 in poi, sono 3 milioni e 737 mila secondo le registrazioni dell' Onu. Una parte vive in Giordania, in Siria, in Libano. Un' altra, quasi un milione e mezzo di persone, è rimasta a Gaza e in Cisgiordania. Molti nei campi, altri in alloggi che non hanno mai smesso di sentire come provvisori. La proposta di Bill Clinton boccia le loro aspirazioni. Ma anche la sinistra non lascia speranze: «Le loro rivendicazioni sono impossibili da accettare - dice il professor Amiram Goldblum, esponente del movimento Pace adesso -. Nessun israeliano, dall' estrema destra o dall' estrema sinistra potrà mai cedere su questo punto. Sarebbe la catastrofe: ci troveremmo invasi da centinaia di mi gliaia di persone che finirebbero per cambiare il carattere dello Stato nazionale». Due popoli, due Stati è la soluzione indicata dal fronte pacifista. Senza travasi. Altrove nel mondo è stata chiamata «spartizione etnica». In Israele viene visto com e l' unico presupposto per una futura convivenza pacifica. «Vanno divisi i territori e va divisa anche Gerusalemme - aggiunge il professor Goldblum -. I quartieri ebraici agli ebrei, quelli arabi agli arabi, assicurando a entrambi le parti una contin uità territoriale». Le mappe presentate finora non funzionano, comprese quelle israeliane che prevedono agglomerati di insediamenti ebraici in cambio di compensazioni territoriali ai palestinesi: «Ci troveremmo di fronte a confini frastagliatissimi, impossibili da controllare. Le colonie vanno smantellate quasi tutte. E la spartizione da fare è una sola: rispettare la linea verde, il confine tracciato prima della guerra del 1967». In questa resa finale dei conti, la sinistra ondeggia: una parte di essa chiede concessioni ai palestinesi più radicali di quelle che vorrebbe il premier Ehud Barak; un' altra è pronta a cercare una soluzione «nazionale» che riappacifichi le mille litigiose anime d' Israele. Molti intellettuali si schierano per es empio contro la spartizione dei luoghi sacri, proponendo una forma di extra-territorialità simile a quella del Vaticano: un comitato misto formato da religiosi che garantiscano libertà di culto a ebrei, musulmani e cristiani. Quasi nessuno, però, è d isposto a cedere in tutto alle pressioni di Arafat. «La leadership palestinese ha responsabilità pesanti nei confronti del proprio popolo - dice lo scrittore Abraham Yehoshua -. È assurdo e immorale quello che hanno fatto: continuare a mantenere la g ente dentro ai campi profughi per 50 anni! I palestinesi dovevano cercare per i loro rifugiati un' esistenza più dignitosa, anziché preservare quest' arma politica che è il sogno del ritorno». Lo scrittore parla dei rifugiati interni, di quelli accam pati a Gaza e in Cisgiordania. «Molti vivono a 10 o 20 chilometri dalle case d' origine. Continuano a reclamarne il possesso, ma quelle case non esistono più, al loro posto sorgono condomini, ci abita altra gente. I loro luoghi di origine fanno parte del territorio israeliano. Perché dovrebbero andare a vivere in un Paese che non è il loro? Che senso ha ostinarsi a voler tornare nel posto esatto dove sono nati i propri padri?». La sinistra chiede un fondo internazionale che aiuti il reintegro, p ropone compensazioni monetarie, o al massimo un numero limitato di rientri. Yossi Katz, esponente laburista, l' ha raccomandato al premier Ehud Barak: «La mia proposta? Accogliamo 100 mila persone, ma solo per ricongiungimenti familiari. Ogni altra i potesi è fuori dalla realtà». Maria Grazia Cutuli




martedi , 02 gennaio 2001
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Clinton chiama, Arafat vola a Washington

In una giornata di sangue ultimo tentativo del presidente uscente per sbloccare la trattativa. La base palestinese preme contro l' accordo, mentre la diplomazia continua a lavorare per sostenerlo. Solana ha incontrato ieri le due parti. Mubarak è pronto a organizzare un faccia a faccia

Clinton chiama, Arafat vola a Washington In una giornata di sangue ultimo tentativo del presidente uscente per sbloccare la trattativa DAL NOSTRO INVIATO RAMALLAH - L' ultima kefiah si abbassa sul viso di un bambino. Avvolge la testa, la fronte, il n aso, la bocca. Lascia solo una fessura per gli occhi. Il piccolo non dimostra più tre anni, ma è vestito come un combattente, con un kalashnikov di plastica in spalla e pantaloni mimetici. Il padre lo carica su un pick-up pieno di uomini armati. Mitr agliatrici vere si fanno largo tra la folla. Raffiche in aria. «Non sprecate i proiettili, piantateli in testa ai soldati e ai coloni israeliani», urla da un palco un leader palestinese. Duemila Tanzim, vestiti di nero, con passamontagna integrali e armi puntate al cielo, marciano sulla piazza centrale di Ramallah, in Cisgiordania: «Combatteremo Israele con tutti i mezzi che abbiamo», gridano in coro. «Pietre, pistole e fucili». Il 36esimo anniversario della nascita di al Fatah, la principale fa zione dell' Olp, marca un' altra giornata di rabbia nei territori palestinesi. Presto sarà anche una nuova giornata di sangue. Alle sette di sera, un' autobomba esplode a Netanya, la cittadina balneare a 30 chilometri da Tel Aviv. E' la prova forse c he le minacce non sono solo parole. I palestinesi hanno un nuovo martire da vendicare, Thabet Thabet, il leader di al Fatah freddato sabato mentre viaggiava in macchina da agenti israeliani. Altri quattro morti, due poliziotti e due civili uccisi ier i, da commemorare. A Ramallah vengono portati in trionfo i ritratti di Yasser Arafat. Le ragazze in corteo sventolano la bandiera palestinese. Ma è Marwan Barghouti, il comandante dei Tanzim, l' ala militante di al Fatah, a dominare la piazza: «Ehud Barak ha spalancato le porte dell' Inferno», aveva detto l' altro ieri. «Giuro che sosterremo la rivolta fino alla fine», aggiunge adesso. «Il piano di Bill Clinton non ci interessa», gli fanno eco i leader di Hamas. Marciamo in massa sui check point israeliani. Continuiamo la battaglia». Il crepitio dei mitra si fa più assordante, il passo dei Tanzim più simile a un danza di guerra. I negoziati sono morti? Al check point, tra palazzi disabitati, vetri rotti e copertoni in fiamme, si lanciano pi etre. Gli israeliani rispondono con proiettili di gomma e lacrimogeni. Le ambulanze fanno la spola tra il fronte e l' ospedale. Ma la parata dei mitra esibita da migliaia di persone, poco lontano dalla linea verde, significa qualcosa: la strategia ca mbia. Non saranno solo fionde quelle che colpiranno Israele. Nessun accordo, nessuna pace al prezzo chiesto dal premier Ehud Barak. Eppure il leader supremo, Yasser Arafat, continua a trattare, fino a lasciare trapelare ieri sera, dopo l' attentato d i Neta- nya, che sarebbe pronto a firmare un accordo di massima sulla proposta di Clinton. E addirittura, a incontrare il presidente americano a Washington. «Una visita decisiva - l' ha definita Nabil Aburedeneh, portavoce di Arafat -, nella quale si determinerà il futuro del processo di pace». Nessuno osa contestare apertamente il leader palestinese. Ma la sua autorità vacilla, le pressioni raddoppiano, la piazza fa di tutto per ostacolare il processo di pace. Arafat deve tenerne conto: ha sped ito due lettere a Clinton chiedendo chiarimenti su molti punti della proposta, dal problema del ritorno di 3 milioni e 700 mila rifugiati, alla definizione dei confini del nuovo Stato palestinese, allo status dei luoghi sacri dell' Islam. Secondo il settimanale Time l' ultimo contatto telefonico tra i due, alla fine della scorsa settimana, si era concluso con una lite. Clinton aveva fatto notare ad Arafat che sta per perdere un' occasione d' oro. L' altro gli aveva sbattuto il telefono in faccia . Adesso il leader palestinese sembra aver paura: il processo di pace potrebbe sfuggirgli veramente di mano. Ieri mattina ha annunciato che si aspettava una risposta da Washington entro 24 ore: «Abbiamo insistito e abbiamo messo in chiaro le nostre r ichieste e la nostra disponibilità a consultarci con lui sulle sue proposte, ma solo a condizioni che non rappresentino l' unica base per il dialogo», ha detto. Dopo l' attentato, l' angoscia è aumentata. Ha parlato con Clinton al telefono: è pronto a volare negli Usa. Se la piazza gli si rivolta contro, la diplomazia sta facendo di tutto per facilitare l' accordo. Hosni Mubarak, il presidente egiziano, mira a organizzare un faccia a faccia tra Arafat e Barak. L' alto rappresentante per la polit ica estera dell' Unione europea, Javier Solana, ha incontrato entrambi: «E' il momento di prendere decisioni coraggiose», ha detto. Ma l' attentato di Netanya, assieme all' assassinio l' altro ieri del rabbino Benyamin Zeev Kahane e di sua moglie, co mplica anche la posizione israeliana. Barak ha cercato di tamponare l' opposizione della destra e di mostrarsi risoluto: «I palestinesi hanno due settimane di tempo per accettare o meno il piano di pace. Dopodiché Israele potrebbe separarsi unilatera lmente». E' una vecchia minaccia: niente accordi, ma un ritiro alle sue condizioni. Il fronte interno lo mette in guardia. «La prosecuzione delle trattative con i palestinesi crea problemi di ordine morale e giuridico - gli ha fatto notare il consigl iere legale Elyakim Rubinstein, raccogliendo le rimostranze del Likud -. Il premier, dimissionario, è privo di maggioranza parlamentare e non è in grado di negoziare alcun ritiro». Maria Grazia Cutuli




domenica , 31 dicembre 2000
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Barak si appella agli israeliani: «O me o la guerra»

I negoziatori di Arafat criticano Clinton. Scontri al confine con il Libano. E l' Iran minaccia «ritorsioni sbalorditive» Il presidente americano in corsa contro il tempo: il 20 gennaio lascerà il posto a Bush Gli attivisti arabi a Gaza e in Gisgiordania annunciano l' intensificazione dell' Intifada

Il premier gioca le ultime carte per recuperare su Sharon prima delle elezioni. I palestinesi: «Non cederemo di un centimetro» Barak si appella agli israeliani: «O me o la guerra» I negoziatori di Arafat criticano Clinton. Scontri al confine con il L ibano. E l' Iran minaccia «ritorsioni sbalorditive» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - «Non avete altra scelta: o me o la guerra». I sondaggi lo danno in caduta libera, ma lui gioca la carta della paura. Il premier Ehud Barak chiede l' appoggio di tutt o il Paese, invitando gli elettori che andranno alle urne il 6 febbraio a non votare a destra. «Vincerò le elezioni», ha detto ieri durante un' intervista alla televisione russa. «Batterò Ariel Sharon. Supererò le resistenze di quanti si oppongono al la pace». L' alternativa è la catastrofe, la degenerazione del conflitto, un Medio Oriente in fiamme. Israele è diviso, almeno quanto i palestinesi, sulla proposta negoziale presentata dall' amministrazione americana. Lo stesso premier laburista rila scia dichiarazioni che esasperano gli avversari: «Non firmerò mai niente che conceda agli arabi la sovranità sul Monte del Tempio». Eppure sostiene che non tutto è perduto. Che esiste ancora l' occasione di una stretta di mano con Yasser Arafat. Poco importa che gran parte del Paese sia contraria al piano di Bill Clinton. È come nel 1978, ai tempi di Camp David, ricorda Barak. Anche allora gli israeliani si opponevano alla pace con l' Egitto. Ma in tre settimane hanno finito per applaudirla. «Ap pena sarò pronto a firmare, saranno tutti dalla mia parte». Il filo è sempre più teso, da una parte come dall' altra. L' accordo segnerebbe una svolta epocale: verrebbero definiti i confini del nuovo Stato palestinese, il 95% del territori della Cisg iordania e il 100% di Gaza passerebbero sotto l' amministrazione di Arafat, un centinaio di insediamenti ebraici su 145 sarebbero smantellati, si dovrebbe affrontare il nodo dei luoghi sacri e dei quartieri arabi di Gerusalemme est. Ma i sacrifici so no tanti: ai palestinesi si chiede di rinunciare al diritto di rientro di 3 milioni e 700 mila profughi nelle proprie case. Agli israeliani di cedere la sovranità sulla Spianata delle Moschee e far sgombrare circa 40 mila coloni dalle loro cittadelle blindate. Ariel Sharon, il capo del Likud, ha già detto la sua: non è un accordo che si possa firmare tanto in fretta come vuole Barak e come chiede Clinton. I loro interessi - il premier israeliano vuole essere rieletto, il presidente americano spe ra di passare alla storia prima di lasciare il mandato il 20 gennaio - non sono quelli della pace. Sharon incalza: è un processo a lungo termine. Ci vorranno anni prima di metterlo in atto. Anche gli arabi chiedono tempo. E chiarimenti. Ieri mattina il Consiglio dei ministri dell' Autorità palestinese ha deciso di non sospendere i negoziati. Ma i suoi portavoce sono rimasti fermi sulle proprie posizioni: «Non cederemo un centimetro di terra agli israeliani, soprattutto a Gerusalemme est». Uno de i negoziatori di Arafat, Saeb Erakat, ha criticato gli americani: «Clinton condiziona i chiarimenti al piano di pace». Prima si firma, in altre parole, poi di discute. «Ma come si può discutere di un accordo, senza aver definito i dettagli e le mappe ?». Bill Clinton ha parlato al telefono con il presidente egiziano Hosni Mubarak e con Yasser Arafat. Avrebbe fissato una nuova scadenza, mercoledì, per ottenere un sì o un no al piano di pace. Ma i palestinesi rinviano ogni decisione a dopo la riuni one della Lega araba che si terrà nei prossimi giorni al Cairo: sia la questione dei luoghi sacri sia il diritto di rientro dei rifugiati sono punti chiave che stanno a cuore a tutti i Paesi del Medio Oriente. Nei territori la pressione continua. In occasione del 36esimo anniversario dalla nascita di al Fatah, i palestinesi hanno proclamato altre due settimane di lotta. Marwan Bargouti, il capo dei Tanzim, l' ala militante del Fatah, ha lanciato un appello al nuovo presidente americano George Bu sh, chiedendo di appoggiare le rivendicazioni del suo popolo. A Nablus, in Cisgiordania, 2 mila membri di Hamas hanno inneggiato al kamikaze islamico che il 22 dicembre si è fatto saltare in aria in un ristorante ferendo tre soldati. Ai confini con i l Libano, a cavallo dell' ex fascia di sicurezza, sono volati pietre e proiettili: un ragazzo di 21 anni è morto, colpito alla testa dagli israeliani. L' esercito ebraico si è ritirato dalla zona a maggio scorso. Ma gli Hezbollah, le milizie sciite p rotette da Damasco e Teheran, sono sempre in allerta. L' Iran ha avvertito Israele: «Difenderemo il Libano e la Siria da ogni attacco. Le ritorsioni saranno sbalorditive e inaspettate». Ehud Barak risponde rinforzando le misure di sicurezza. L' ultim o blocco è stato imposto ieri vicino a Rafah, alla frontiera tra Gaza e l' Egitto. Maria Grazia Cutuli




sabato , 30 dicembre 2000
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E al telefono amico la gente sfoga la psicosi da intifada


IL FRONTE INTERNO E al telefono amico la gente sfoga la psicosi da intifada DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Il telefono ha squillato anche giovedì, pochi minuti dopo l' attentato all' autobus nel centro di Tel Aviv. La voce di un uomo, in preda a un a crisi di panico: «Fate qualcosa, vi prego. Ero lì vicino, ho visto i feriti». Poi i balbettii di un donna, pure lei nel terrore: «Una nuova bomba, mio Dio. Ci uccideranno tutti». Dall' altra parte del filo, c' è una ragazza. Ha il tono calmo, pronu ncia parole di coraggio: «Stiamo attraversando giorni difficili. Ma non preoccupatevi, siamo qui per aiutarvi». Il telefono-amico funziona anche in Israele. E' una chat-line, creata dal Natal, un' associazione di Tel Aviv, che risponde al numero 1800 -363-363. Da quando è ripreso il conflitto con i palestinesi, tutte le psicosi d' Israele confluiscono sulla cornetta del telefono. Le angosce del presente si intrecciano a quelle del passato. Le frustrazioni e i sensi di colpa, accumulati in cinquan t' anni di storia, si rinnovano sotto la minaccia dell' intifada, riesplodono a ogni tiro di cannone, resuscitano al fragore di ogni nuovo attentato. Quindici volontari si danno il cambio al centralino. Sono psicologi, medici, assistenti sociali, pro nti a offrire conforto immediato, terapie individuali, supporti di gruppo. Dall' inizio dell' anno hanno seguito 1500 persone, 800 negli ultimi tre mesi, con l' inizio della rivolta nei territori. «Ci chiama gente che non dorme la notte, che non esce di casa, che soffre di allucinazioni, che chiude a chiave i figli per paura che vengano ammazzati - dice una delle responsabili, Sigal Chaimov, 35 anni, psicologa -. Li invitiamo nei nostri uffici. Li seguiamo per mesi». Ma è qualcosa di più dalla s indrome post-trauma che caratterizza le popolazioni passate per la guerra. «Questo è uno choc di origine nazionale», dice Sigal Chaimov. E' la coscienza inquieta di un popolo che non riesce a smaltire il suo passato. I REDUCI - Telefonano i sopravvis suti all' Olocausto. Chiamano i veterani delle guerre d' Israele. I feriti degli attentati. Nelle loro orecchie ritornano le urla dei feriti, nelle narici l' odore del sangue, negli occhi le scene dei massacri. Come Yigal (il nome è finto per protegg erne l' identità), un ex combattente dell' offensiva del Kippur: «Quando ha visto in tv l' uccisione in diretta del piccolo Mohammed Jamal Durra, il bambino palestinese morto nelle braccia del padre all' inizio dell' intifada, è impazzito - racconta il dottore Roni Brogher - Ha cominciato a urlare, a rompere piatti, a scagliare oggetti contro i muri». L' uomo ha un figlio che fa il soldato nei territori, accanto all' insediamento di Netzarim. Non si stacca un attimo dalla tv. Soffre di sensi di colpa, teme che uccidano anche il suo ragazzo. In casa non pronuncia una parola. LE MADRI - Sarah, una donna di Tel Aviv, chiede aiuto per la sua bambina di 9 anni: «Eravamo andati a cena in un ristorante del centro. Eravamo sereni. Poi all' improvvi so è entrato un gruppo di arabi. Hanno cominciato a insultarci, a spintonare i camerieri, a rompere bottiglie. Adesso mia figlia non vuole più andare a scuola. Continua a farmi domande. Che cosa le devo dire? Aiutatemi». L' ansia stronca anche le mad ri dei militari. E' tornata la stessa paura dei tempi del Libano. Le stesse telefonate in cerca di notizie. Le notti a base di barbiturici. Una vecchia signora ha perso la nipotina nel 1996, durante l' attacco di un kamikaze islamico al centro commer ciale di Dizengoff, a Tel Aviv. «Quella bambina per me era tutto - dice -. A ogni nuovo attentato, mi appare il suo corpo dilaniato». I GIOVANI - Una ragazza di Gerusalemme racconta al telefono di aver visto «la morte in faccia». «Eravamo un gruppo d i amici, partiti per una gita fuori città. Per sbaglio siamo finiti nel villaggio arabo di Azaria. La folla ci ha circondato. Tiravano pietre, volevano aprire la portiera dell' auto. Ci siamo salvati per miracolo. Ormai ho paura anche a uscire di cas a». Non sono solo storie di odio quelle che corrono sul filo. Il blocco imposto ai territori ha diviso pure chi aveva superato ogni steccato. Una giovane coppia, araba lei, israeliano lui, era pronta alle nozze. Oggi vivono separati da un check-point . I PALESTINESI - Israele come un enorme manicomio. Ma le vittime sono anche dall' altra parte. Centinaia di migliaia di palestinesi hanno vissuto negli ultimi mesi la stessa angoscia e le stesse paure. Migliaia di bambini si sono trovati sotto il fu oco dei cannoni e dei razzi sparati dagli elicotteri. Molti hanno perso il sonno e l' appetito. Hanno tic nervosi, come quello strano suono gutturale di un ragazzino incontrato due giorni fa nel campo profughi di Beit Jibrin. Un singhiozzo metallico, comparso per la prima volta dopo il bombardamento israeliano del 3 dicembre. A Betlemme esiste una linea telefonica simile a quella di Tel Aviv. Nella striscia di Gaza, gli psichiatri lavorano da anni per curare le sindromi post-trauma. La storia co rre su un doppio filo. Maria Grazia Cutuli




sabato , 30 dicembre 2000
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Barak fa marcia indietro su Gerusalemme

«I palestinesi non avranno la Spianata delle Moschee». Riesplode la violenza nei territori Il leader uscente sprofonda nei sondaggi: il falco del Likud Sharon in vantaggio di 21 punti

Affonda il piano di pace americano. Ma Arafat sarebbe pronto a incontrare in extremis il premier israeliano Barak fa marcia indietro su Gerusalemme «I palestinesi non avranno la Spianata delle Moschee». Riesplode la violenza nei territori DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Yasser Arafat lancia un segnale di pace. Il leader palestinese sarebbe disposto a incontrare il premier israeliano Ehud Barak: «Siamo decisi a proseguire questo processo di pacificazione, a compiere progressi il più presto possi bile - ha detto ieri il ministro Nabil Shaat -. Anche se abbiamo ancora molte domande da fare». Ma gli israeliani fanno un clamoroso passo indietro: «Non ho intenzione di firmare un documento che preveda la sovranità palestinese sul Monte del Tempio, cuore della nostra identità», ha dichiarato in serata Barak. I palestinesi ritirano quanto detto: senza sovranità sulla Spianata delle Moschee (definizione araba del Monte del Tempio), non si arriva a nessun accordo. Le sorti del conflitto mediorien tale restano impantanate in un rebus di cui non si vede soluzione. Il risultato di questo tira e molla è drammatico. Giovedì sono tornati gli attentati. Nel primo - due cariche di tritolo esplose in un autobus a Tel Aviv - sono state ferite 14 person e. Nel secondo - una bomba scoppiata a Gaza - sono caduti due soldati israeliani. Altri due sono finiti all' ospedale. Anche ieri è stato un nuovo giorno di scontri e violenze. Il premier Ehud Barak ha chiuso i territori. Gaza e Cisgiordania si sono ritrovate sotto assedio, con i militari ai check point, pronti a fermare chiunque, munito di permesso o meno, tentasse di passare dall' altra parte. La rivolta è riesplosa, con pietre e fucili in mano ai «Tanzim», gli attivisti dell' intifada, e i ca nnoni degli israeliani puntati sulla folla. Un poliziotto palestinese è stato ucciso nella striscia di Gaza, durante una battaglia cominciata all' arrivo dei bulldozer israeliani. I militari tentavano di abbattere degli alberi per migliorare la visib ilità e impedire agguati lungo la strada. Il numero delle vittime degli ultimi tre mesi sale a così a 359. E si aggiungono i feriti: 15 arabi colpiti ieri a Ramallah e a Hebron. I palestinesi sono insorti, con un nuovo programma di lotta: raduno di m assa a Capodanno per celebrare il 35esimo anniversario del primo attacco armato di al Fatah. Gli attivisti di Hamas, ai quali si attribuisce l' attentato di Tel Aviv, hanno sfilato per le strade di Nablus. Da Washington, a ventuno giorni dalla fine d el suo mandato, Bill Clinton aspetta ancora una risposta al suo piano: «Gli israeliani si trovano d' accordo con noi, mentre i palestinesi si stanno consultando con i leader dei Paesi arabi», aveva detto il presidente americano. Ma il sì di Barak al piano Usa, a questo punto, è tutto da rivedere. Il premier laburista, pressato dalla destra affinché non svenda Gerusalemme, crea una nuova spaccatura: la questione della sovranità sui luoghi sacri rischia di diventare un ostacolo insormontabile. Due sondaggi, condotti dai quotidiani Ma' ariv e Yedioth Ahronoth, sostengono che il 51-53% degli israeliani è contrario alla proposta di Clinton, e solo il 38-44% sarebbe pronto ad accettarla. Così come il presidente americano, il premier sa che il tem po stringe: il 6 febbraio si voterà per eleggere il nuovo capo del governo e la sua candidatura è di giorno in giorno più svantaggiata. Secondo il sondaggio realizzato dalla Gallup su un campione di 597 persone, Barak avrebbe solo il 24% dei voti, co ntro il 45% del suo grande avversario, il leader del Likud Ariel Sharon. «La sua posizione è di una gravità senza precedenti - ha scritto ieri il Ma' ariv - Per vincere, con o senza accordo di pace, Barak ha bisogno di un miracolo». M.G.C.




venerdi , 29 dicembre 2000
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«La vera bomba siamo noi, profughi da una vita»


NEI CAMPI PALESTINESI «La vera bomba siamo noi, profughi da una vita» DAL NOSTRO INVIATO DHEISHEH - Ormai è come un villaggio cresciuto male. Un ammasso di costruzioni incastrate l' una sull' altra, tagliate da vicoli fangosi che si arrampicano tra m ura, pilastri, aggiunte di cemento e mattoni. Ma non c' è nessuno tra i diecimila abitanti di Dheisheh, uno dei più grandi campi profughi della Cisgiordania, che si senta a casa sua. «Molti di noi vivono qui da quando sono nati, eppure non abbiamo ma i smesso di considerarci di passaggio». Mohamoud Amarne, 34 anni, baffi folti su un viso grassoccio, indica un punto invisibile oltre il pergolato: «Mio padre è stato scacciato dalla sua terra nel 1948. Abitava a Rosaba Ammar, un posto che gli israel iani hanno ribattezzato Mavo Bitar. Hanno costruito un insediamento laggiù, ma quelle rimangono le nostre proprietà». Mohamoud spera di tornarci. «Il mondo non potrà continuare a ignorarci. Siamo peggio di una bomba. Finiremo per esplodere». Sono sta ti dimenticati per oltre 50 anni, i profughi palestinesi. Non sono servite le risoluzione del Consiglio di sicurezza dell' Onu, le guerre contro Israele, le rivolte delle pietre, né tanto meno gli accordi di pace a farli rientrare. L' ultimo piano, p resentato da Bill Clinton, rischia di confinarli per sempre nella terra di nessuno. L' Unrwa, l' agenzia dell' Onu creata per loro, registra 3 milioni e 700 mila persone sparse in Medio Oriente, dall' Egitto alla Siria, dal Libano, alla Giordania. Mo lti stanno anche qui, dentro ai confini di uno Stato che non esiste ancora: 157 mila vivono nei 19 campi della Cisgiordania, 451 mila negli 8 campi della striscia di Gaza. Yasser Arafat non vuole svenderli. Ma la loro presenza resta ingombrante, uno dei tanti macigni sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Dheisheh, alla periferia di Betlemme, è il luogo simbolo della diaspora. Nato come tendopoli all' indomani della guerra del 1948, si è trasformata in bidonville. La tutela formale dell' Un rwa non ha impedito che il campo fosse circondato dal filo spinato e presidiato dalle torrette militari israeliane. Nel 1994, con il passaggio d' autorità, Dheisheh è finito sotto l' amministrazione di Yasser Arafat. I soldati hanno smesso di pattugl iarlo. Ma i profughi sono rimasti. I loro figli giocano con pistole di plastica. I più grandi combattono l' Intifada. Mohamoud Amarne ha perso un cugino durante uno scontro a un posto di blocco. Si chiamava Abdallah e aveva 16 anni. La foto lo ritrae un po' sovrappeso con un mitra puntato al cielo e la Spianata delle Moschee alle spalle. E' la vittima più giovane di Dheishah. L' eroe dei senza terra. La sua casa è ormai «la casa del martire», la gente la indica così, con la madre in salotto che riceve processioni di amici e conoscenti. «So che mio figlio è morto per una giusta causa - dice senza lacrime -. Ma questo non mi salva dalla tristezza». Il tempo di bere un caffè. Un parente, Mazin Mustafà, si offre come scorta in questa passeggiat a della rabbia. «Ecco, guardate laggiù - dice arrampicandosi tra colonne di cemento -, quello è Efrat, l' insediamento ebraico. Ci hanno bombardato con proiettili da 80 millimetri». Poco distante abitano Aden e Rokyia, marito e moglie da soli tre mes i. Il loro alloggio è una baracca: il tetto pericolante, macchiato di umido, le mura gelide, cemento per terra. La ragazza arriva dalla Giordania. «E' una dei profughi accampati oltre il confine - spiega Nazin -. Ce ne sono tanti come lei. Vengono qu i a trovare i familiari con un visto di tre mesi. Rimangono per sempre, come clandestini». Cinquant' anni di silenzio. Qualche promessa, tante colpe. Nazin Mustafà non risparmia nessuno: «L' Unrwa ha cercato di farci dimenticare la nostra condizione con viveri e medicinali, rinviando ogni soluzione. Dal 1994 in poi è diminuita anche l' assistenza». Oggi a Dheishah ci sono due scuole primarie e un ambulatorio. L' acqua arriva da Betlemme, l' elettricità non manca. «Anche l' Autonomia palestinese ha adottato la stessa tattica. Ci aveva assicurato che ci avrebbe fatto tornare nelle nostre terre, ma ha continuato a rimandare. Il piano di Clinton è un altro bagno di sangue». I vicoli sfociano in una strada asfaltata. Dheisheh è alle spalle. Un a ltro campo si apre alla periferia di Betlemme, quello di Beit Jibrim. Il paesaggio non cambia. L' unica sorpresa è Lucia, un' italiana bionda di 46 anni, con occhialini di metallo. Vive qui dal 1994, dopo aver sposato Kamal el Qaisi, sindacalista pal estinese conosciuto a Roma. Era una pacifista Lucia, innamorata della causa di al Fatah. Oggi ha due bambini e una collezione di schegge di granata sul tavolo. «Un campo profughi è un posto difficile, ma volevo che i miei figli crescessero tra gli ar abi». Il 3 dicembre gli israeliani hanno bombardato il campo. Lucia era al pianterreno, con i bambini che urlavano in braccio. «Gli accordi di pace sono come un imbuto. Si discuteva in termini generali all' inizio, adesso è venuto fuori il problema d ei profughi. Non so come finirà. So che sarà impossibile risarcire questa gente di tutto quello che ha perso in 50 anni». Cinquant' anni è l' età di suo marito. «Ricordo le notti di vento - dice lui -. Io e mia madre dentro la tenda dovevamo tener fe rmo il pilone centrale perché non volasse via. Poi l' Unrwa ha costruito le case, 90 centimetri per 2 metri e 50 era lo spazio regalato a ogni famiglia. Che volete ci importi di riprenderci Gerusalemme? Siamo come passeggeri. Fermi a una stazione orm ai da troppo tempo». Maria Grazia Cutuli




venerdi , 29 dicembre 2000
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Israele, torna il terrorismo. Ma Clinton rilancia

Attentati a Tel Aviv e Gaza, due morti. Il presidente Usa: «Fermare le trattative sarebbe la catastrofe»La Casa Bianca spera ancora di arrivare a un' intesa entro le prossime tre settimane

Dopo l' annullamento del vertice di Sharm el Sheik riesplode la violenza. Barak decide il blocco dei territori: «Non cederemo» Israele, torna il terrorismo. Ma Clinton rilancia Attentati a Tel Aviv e Gaza, due morti. Il presidente Usa: «Fermare le tr attative sarebbe la catastrofe» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Israeliani e palestinesi sembravano vicini alla pace. Si sono ritrovati invece, ancora una volta a tre mesi dall' inizio dell' Intifada, in un clima di guerra. Giornata di terrore ieri in Medio Oriente. Due attentati, uno a poca distanza dell' altro, hanno insanguinato le strade di Tel Aviv e il confine lungo la striscia di Gaza. Due soldati israeliani sono stati uccisi, altri due militari feriti, quattordici civili trasportati d' urgenza all' ospedale. Giornata di sirene spiegate, di pattuglie a caccia di ordigni, di rivendicazioni smentite, di minacce e fuochi anche sulla scena politica. IL PRIMO ATTENTATO - Tutto è cominciato mercoledì notte, quando il governo egiziano ha a nnunciato che il vertice tra il premier israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat, previsto per ieri a Sharm el Sheik, era stato cancellato. Troppe incertezze, soprattutto da parte palestinese, avevano bloccato l' assenso al piano d i pace presentato da Bill Clinton. Un segnale pessimo. A mezzogiorno, l' incubo peggiore d' Israele si è materializzato. Tre ordigni sono esplosi, uno dopo l' altro, nella parte posteriore di un autobus di linea, il «6 A», mentre passava sulla Petah Tikva, una delle strade più centrali di Tel Aviv. «Ho sentito l' esplosione, poi ho visto le fiamme - ha raccontato l' autista Yigal Reichman -. Non ho pensato ad altro: bloccare il bus, spalancare le porte, permettere alla gente di scappare il più v elocemente possibile». Quattordici passeggeri sono rimasti feriti, uno è gravissimo, altri due in condizioni critiche. La prima rivendicazione sembrava di Hamas, ma poi gli estremisti del gruppo islamico hanno smentito. «Non ha importanza chi sia il responsabile dell' attentato - ha minacciato un portavoce -. Conta però che Israele sarà soggetto a questo tipo di attacchi fin quando l' Intifada non finirà». SECONDO ATTENTATO - Nel pomeriggio, il secondo attentato contro una pattuglia militare al valico di Sufa, tra la striscia di Gaza e Israele. I soldati stavano tentando di disinnescare una bomba trovata sul ciglio della strada. L' ordigno, comandato a distanza, è esploso, uccidendone due e ferendone altrettanti. Sarebbe stata la Jihad isla mica a colpire, secondo una rivendicazione trasmessa dagli Hezbollah, le milizie sciite libanesi. Ai confini con il Sud del Libano, i soldati israeliani, presi a pietrate, hanno sparato sulla folla, ferendo quattro persone. I PALESTINESI - Yasser Ara fat, che aveva deciso comunque di andare in Egitto, ha saputo dell' attentato di Tel Aviv durante il colloquio con il presidente Hosni Mubarak. Secondo la televisione israeliana, il raìs palestinese, preso dallo sconforto, avrebbe confessato le diffi coltà per fare accettare dalla sua leadership il piano di pace proposto da Bill Clinton. Ieri, uno dei suoi mediatori, Saeb Erakat, ha ribadito che «la natura dell' accordo deve essere dettagliata sia sulla carta geografica sia nelle clausole e negli articoli, perché ogni ambiguità danneggerà il processo negoziale». I palestinesi non intendono rinunciare al diritto di rientro dei 3 milioni e 700 mila rifugiati, scacciati dalle proprie case dal 1948 in poi. Hanno dubbi sui confini che Israele int enderebbe tracciare, sugli insediamenti, sulla sovranità su Gerusalemme Est e i luoghi sacri dell' Islam. Una lettera, spedita a Clinton, chiede ragione su ognuno di questi punti. «Abbiamo scambiato qualche opinione - ha detto ieri il portavoce della Casa Bianca Jake Siewert -. Attendiamo una risposta ufficiale prima di decidere come procedere». Il presidente americano, dopo un giro di colloqui con i leader mediorientali, ha sottolineato: «Sono convinto che le prossime tre settimane rappresentan o la chance migliore per l' accordo. Un rinvio renderebbe tutto più arduo». GLI ISRAELIANI - Ehud Barak ha condannato gli attentati e deciso per oggi il blocco totale dei territori di Gaza e della Cisgiordania. Il premier israeliano ha assicurato che «gli attacchi non fermeranno comunque la nostra determinazione nel chiudere il bagno di sangue nella regione». L' altro ieri Israele sembrava aver detto sì al piano di pace. Ma le proteste della destra sulla possibile cessione di sovranità del cuore di Gerusalemme - quella che i palestinesi chiamano Spianata delle Moschee e gli ebrei Monte del Tempio - hanno modificato anche la posizione di Barak. Ieri il suo consigliere alla sicurezza, Danny Yatom, ha rivelato un ripensamento: «C' è ancora mol to da discutere». M. G. C.




giovedi , 28 dicembre 2000
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Arafat-Barak, a rischio il vertice senza illusioni

I due leader incerti fino all' ultimo sull' incontro in Egitto. Ma Clinton preme: «Mai così vicini alla meta» Il leader dell' Olp: «Vogliamo vedere sventolare la nostra bandiera sulla Città Santa»

Secondo i palestinesi la bozza di accordo è «una trappola». Ma per Clinton «le due parti non erano mai state così vicine alla meta» Arafat-Barak, un vertice morto prima di iniziare Nella notte l' annuncio dall' Egitto: «Non si fa». Israele: «Sì al pi ano americano, ma vogliamo spiegazioni» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - La pace è sospesa a un accordo impossibile. Tanto impossibile che i due protagonisti non vogliono neppure parlarsi. L' incontro previsto per oggi a Sharm el Sheik, tra il premie r israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat, è stato annullato ieri a tarda notte. I due leader, ospiti del presidente egiziano Hosni Mubarak, avrebbero dovuto discutere del futuro del Medio Oriente, sulla base del piano presentato da Washington la scorsa settimana. Ma la proposta americana sui temi più delicati del conflitto continua a dividere le due parti. Tanto che proprio dal Cairo è arrivata la sentenza di morte del summit. Arafat ha inviato una lettera a Bill Clinton chi edendo spiegazioni e dettagli, ma in serata aveva già bocciato l' idea americana. «Una proposta inaccettabile - ha detto il ministro dell' Informazione palestinese Yasser Abed Rabbo -. Una trappola per il nostro popolo. I palestinesi potrebbero pagar ne le conseguenze per generazioni e generazioni». Gli ostacoli sono tanti. «Quello che ci viene offerto non è molto diverso dalle proposte avanzate a Camp David a luglio - ha detto ancora Rabbo -. Siamo una leadership pragmatica. Non vogliamo sprecar e le occasioni, ma non possiamo nemmeno assumerci una responsabilità storica di tale portata». C' è un punto sul quale gli arabi non intendono accettare compromessi: la rinuncia al rientro di 3 milioni e mezzo di profughi. Israele offrirebbe in cambi o il 95% dei territori occupati nel 1967. Non basta. Il premier israeliano è rimasto chiuso con i suoi ministri della sicurezza a discutere della proposta Clinton sino all' una e mezzo (ora italiana). Poi, ma dall' Egitto era già arrivata la notizia dell' annullamento del vertice, ha fatto sapere che il «piano è accettabile, anche se abbiamo bisogno di chiarimenti». Qundi non firma a scatola chiusa, ma, almeno, si presenta al mondo come più possibilista della sua controparte palestinese. Il proc esso di pace riparte da zero? Bill Clinton si è mantenuto cauto: «Le due parti sono più vicine che mai. Le difficoltà ci sono, ma bisogna porre fine a questo conflitto». L' altro ieri il presidente aveva concesso altri due giorni di tempo a israelian i e palestinesi per pensare alla sua proposta. Barak e Arafat, dopo tre mesi di intifada, di scarsi contatti e di molti rancori, si erano parlati per telefono e avevano stabilito di incontrarsi faccia a faccia. Il presidente egiziano Hosni Mubarak av eva offerto il suo aiuto. «Non abbiamo altra scelta - aveva dichiarato in mattinata alla televisione di Stato Barak -. La decisione che prenderemo sarà fondamentale per il destino del Medio Oriente». Arafat appariva persino più convinto. Dopo la preg hiera alla moschea di Gaza dove aveva celebrato l' inizio dell' Eid al Fitr, i tre giorni di festa che chiudono il Ramadan, aveva parlato da trionfatore. «Questa vacanza è decisiva. Con l' aiuto di Dio porteremo finalmente un ragazzo e una ragazza pa lestinesi a issare la bandiera sulle mura di Gerusalemme». Nella notte, la marcia indietro. Entrambi i leader sono sotto pressione. Entrambi accusati di svendere le cause del loro popolo. Barak è un premier dimissionario: si prepara a ricandidarsi al le elezioni il 6 febbraio con sondaggi sfavorevolissimi. Nonostante i tre terzi degli israeliani dichiarino di volere un accordo di pace, è il leader della destra Ariel Sharon a riscuotere consensi. Anche ieri fuori dal palazzo di governo sfilavano c amion e pullman spediti dai coloni per protesta contro gli accordi di pace. Il sindaco di Gerusalemme, Ehud Olmert, ha acceso lumicini simbolici, contro il piano di spartizione di Gerusalemme che affiderebbe ai palestinesi la sovranità sulla Spianata delle Moschee. Oggi trasferirà il suo ufficio sul Muro del pianto. Per i palestinesi una provocazione peggiore della passeggiata di Sharon sulla Spianata delle Moschee, la visita del 28 settembre che ha scatenato l' intifada. Maria Grazia Cutuli




giovedi , 28 dicembre 2000
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«Il premier non può trattare con un terrorista»


Testo non disponibile L' accusa di Nadia Matar, portavoce del «nucleo duro» degli insediamenti ebraici «Un premier dimissionario svende noi coloni» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - I coloni d' Israele si preparano a difendere le loro case, i loro container, i loro casermoni piantati come bunker nei territori palestinesi. Sono 200 mila, sparsi in 145 insediamenti. Non vogliono cedere un centimetro di quanto hanno occupato in 50 anni di esistenza dello Stato di Israele. Ma se il piano di pace passasse davvero, u na parte dei loro domini nella striscia di Gaza e in Cisgiordania verrebbe inevitabilmente smantellata. Le cifre sono ancora incerte: si parla di 100 insediamenti e, forse, di 30-50 mila persone costrette a trasferirsi altrove. Israele pensa a un ris arcimento. Loro a dar battaglia. Nadia Matar, 34 anni, è una colona. E qualcosa di più. E' la leader delle «Donne in verde», un' organizzazione femminile creata nel 1993 per promuovere e difendere gli interessi degli insediamenti. Nata in Belgio da u na famiglia segnata dall' O locausto, è passata per l' università di Gerusalemme, dove ha conosciuto l' attuale marito, per spostarsi poi nella colonia di Efrat. Combattiva al punto da lanciare corsi di addestramento e autodifesa per le sue compagne. Ideologica, tanto da mettersi alla guida di ogni movimento di protesta. «Ci faremo sentire, in tutte le maniere - minaccia -. Non permetteremo a nessuno di svuotare le nostre colonie. Abbiamo organizzato una manifestazione al Muro del pianto. Ma la prossima settimana faremo molto di più. Marceremo in massa per Gerusalemme, porteremo mezzo milione di persone davanti agli uffici di Barak». Perché ce l' avete tanto con Barak? «E' un traditore. Ha dato le dimissioni, il suo partito rappresenta meno di 29 deputati in Parlamento. Come può pensare di firmare questo accordo? Lui e gli altri leader della sinistra si sono scelti come interlocutore A rafat, un terrorista. Io ho tre figli che presto saranno in età di andare sotto le armi. Volete che l i mandi a morire nell' e sercito?». Come pensate di bloccare il processo di pace? «Fermeremo tutto. Smetteremo di lavorare, di portare i nostri bambini a scuola, paralizzeremo la vita di questo Paese. Non vogliamo che Israele riconosca uno Stato crim inale come quello palestinese». Non vi sembra che ci siano state abbastanza vittime da entrambe le parti? «Noi vogliamo vivere in pace. Ma l' unico modo per farlo è che i palestinesi vadano altrove. La nostra terra, quella della Bibbia, non offre spa zio. Questo Paese è più piccolo del New Jersey. Israele come può pensare di concedere loro tanto territorio? Ci ammazzeranno tutti». Per la verità, si tratta di un accordo di pace. «No, questo è l' accordo di Monaco, quello che permise a Hitler di in vadere l' Europa. E' un passo suicida. Se lo firmeranno, sarà un giorno di lutto e di dolore». Sperate in Sharon? «Sharon finora ha sempre dichiarato di essere contrario a questo processo di pace. E' vero, possiede due facce: ma se ha intenzione di f are concessioni agli arabi, lo rimanderemo a casa». M. G. C.




mercoledi, 27 dicembre 2000
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E nella Città Vecchia la gente teme il confine «impossibile»


UN CHILOMETRO QUADRATO DI SFIDE E nella Città Vecchia la gente teme il confine «impossibile» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - L' entrata consigliata è la porta di Jaffa. Da qui si costeggia la torre di Davide e, senza neanche sfiorare il suk, si arri va dritti al Muro del Pianto. Gli ebrei la preferiscono. E' la strada più sicura per chi abita nella Città Vecchia o per chi si reca a pregare. Davanti alla cancellata munita di telecamere, «raggi X» e metal detector, c' è una folla di cappelli neri, barbe, boccoli, madri ortodosse con il capo coperto da cuffie, bambini con la kippah, soldati con i mitra, giovani reclute in addestramento. Mordechai Frisas, 25 anni, staziona accanto a un tendone, raccogliendo firme e offerte. «Da un paio di setti mane passo qui tutto il mio tempo. Ci diamo il cambio la notte per non abbandonare questo posto». E' uno studente della scuola talmudica, reclutato dai rabbini come Guardiano del Tempio per sorvegliare la grande piazza della preghiera. «Dobbiamo bloc care il piano di spartizione di Gerusalemme», dice. Dorme su un giaciglio e si riscalda con una minuscola stufetta. Oggi manifesterà contro Ehud Barak, il premier accusato di «mettere ai saldi la città», contro Bill Clinton, contro i colloqui di Wash ington. «Contro chiunque tenterà di portarci via il luogo più sacro che abbiamo al mondo». Tra le mura della Città Vecchia si preparano nuove barricate. Trentamila persone abitano in meno di un chilometro quadrato. Quattro gruppi - ebrei, arabi, cris tiani e armeni - ciascuno con le proprie sinagoghe, i propri minareti, le proprie chiese. Il piano di Washington spaccherebbe l' antica Gerusalemme, restituendo ai palestinesi gran parte dei quartieri occupati nel 1967: il Muro del Pianto e la Spiana ta delle Moschee, i santuari dell' ebraismo e dell' Islam - vicinissimi, contigui, praticamente sovrapposti - separati da una nuova frontiera. Efi Ergas ha 20 anni, non è un radicale, ma abita nella parte ebraica da quando è nato. «Ero uno di quelli che manifestavano per la pace. Tre anni fa però è successo qualcosa che ha cambiato la mia vita. Ricordate l' attentato del 1997? Sono sopravvissuto per miracolo, con una scheggia in testa». Non sa bene che cosa preveda la spartizione, ma quello che ha letto sui giornali basta a terrorizzarlo. «Sarò costretto a passare attraverso un corridoio, costeggiato da poliziotti palestinesi? Dove finiranno i nostri soldati? Chi ci proteggerà?». Il corridoio è un' altra trovata dei negoziatori di Washingto n. Attraverserebbe il quartiere armeno, e dividerebbe anche quello: due terzi sotto autorità palestinese, un terzo sotto giurisdizione israeliana. La zona cristiana andrebbe ai musulmani. Una logica crudele? Più che altro scomoda. Hagop Antreassian, un artigiano armeno, ha la sua bottega proprio a cavallo della presunta linea di divisione: «Mi troverò a dover lavorare da una parte e abitare dall' altra. Nel mondo si abbattono i muri. E qui invece si crea una nuova Berlino». Le sue idee sono chia re: «Gerusalemme è patrimonio dell' umanità. L' unica proposta che possiamo accettare è una supervisione internazionale che ci lasci liberi di professare le nostre fedi e di continuare i nostri commerci senza altre barriere». I turisti scarseggiano i n questo Natale di sangue e rivolta. Non ci sono gruppi, né comitive, né interpreti poliglotti. Man mano che ci si allontana dal Muro del Pianto le strade si fanno deserte. Sono quelle del quartiere cristiano. Negozi chiusi, poca gente davanti al San to Sepolcro. Salmi e affari vanno di pari passo. E qui c' è poco da raccogliere. I venditori sono schierati con gli arabi: «La vecchia Gerusalemme è una città musulmana. Perché non la restituiscono?», dice Christo Asfour, proprietario di un negozio d i fotografie. «Gli israeliani non ci lasciano uscire. Non ci hanno permesso di celebrare il Natale a Betlemme. Viviamo dentro una prigione». I vicoli si fanno più stretti. Tutto comunica dentro la Città Vecchia, i quartieri sono incastrati l' uno acc anto l' altro. E' difficile immaginare un «confine» che separi ogni singola pietra, ogni gradino, ogni arco della «capitale celeste», ma gli odi sono radicati, le passioni altrettanto. Tra la porta di Jaffa a quella di Damasco si fronteggiano due mon di. All' improvviso ecco il suk arabo, caotico e rumoroso come sempre. I militari israeliani si fanno largo tra carrette, bidoni, bancarelle, montagne di frutta, aromi di spezie. La vita continua, ma è un palcoscenico aperto. Telecamere insonni, piaz zate su ogni frontone, nascoste dentro ogni anfratto, trasmettono immagini a getto continuo alla centrale di polizia. «Eccole lì - dice Ibrahim Hussein, un insegnante musulmano - Sono disposte in maniera tale che nessuno scappi». L' anziano signore, esponente di una delle famiglie più antiche della città, in questi giorni vive di ricordi. «Eravamo sotto i giordani, guadagnavamo poco, ma eravamo i padroni qui dentro. Poi nel 1967 sono arrivati i militari. Li ho visti il giorno in cui hanno issato la bandiera con la stella di Davide sul Muro del Pianto. Le nostre case sono finite in mano ad altri. La mia famiglia ne ha perse non so quante. Ci abitano gli ebrei adesso. Ci hanno imposto l' "arnona", la tassa su ogni metro quadro che occupiamo». Anche la Spianata delle Moschee rischia di non appartenergli più. L' hanno blindata. Lasciano entrare solo il venerdì. Per lui, come per molti arabi, il piano di spartizione suona come una truffa: «Non si sa ancora di che cosa si tratti. La città ci appartiene tutta, non solo una parte. Rivogliamo indietro le nostre proprietà». La battaglia per Gerusalemme è solo all' inizio. Maria Grazia Cutuli




domenica , 24 dicembre 2000
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A Betlemme pochi pellegrini e il presepio abbandonato

Nella chiesa della nativita' attesi

DAL NOSTRO INVIATO BETLEMME - Dopo un' ora di coda al primo check-point fuori Gerusalemme, i soldati scuotono la testa. «In macchina non si passa. Se volete, continuate a piedi». Il percorso alternativo è una sterrata rossa che sale tra montagne brul le, costeggiando a destra le case bombardate di Beit Jalla, il quartiere cristiano, a sinistra i casermoni mitragliati di Ghilo, l' insediamento ebraico. Per arrivare a Betlemme, in condizioni normali, ci si impiega una ventina di minuti. In tempi di intifada il tempo non si calcola, anche se è la vigilia di Natale e, dall' altra parte, c' è chi invita i pellegrini di tutto il mondo a non disertare la culla della cristianità. Non sarà una festa, il Natale del 2000 in Terrasanta. Poche decorazion i, qualche avanzo di luminaria, molte preghiere. La carneficina giornaliera e il blocco della Cisgiordania rischiano di trasformare la processione mattutina del patriarca Michel Sabbah in una marcia di protesta e la messa di mezzanotte in una celebra zione da catacomba. Sulla piazza della Mangiatoia, rimessa a nuovo a inizio d' anno per la visita del Papa, hanno montato un palco con gli altoparlanti, qualcuno canta al microfono, la gente accorre. Ma sono le quinte di un trompe l' oeil: un concert o organizzato per i bambini del posto, per far dimenticare che si vivono giorni di isolamento e paura. Il presepe di legno è abbandonato in un angolo. Le immagini dei martiri dell' Intifada sono invece su tutti muri. I piccoli vanno a spasso con pist ole giocattolo. Attorno alla città si spara davvero: altri scontri ieri tra i palestinesi, armati di pietre, e i coloni, protetti dai carri armati dell' esercito. Padre Ibrahim Faltas, un francescano alto e brizzolato, assicura che «tanti pellegrini verranno» e che i biglietti d' entrata - 3 mila contro i 13 mila dell' anno scorso - sono già stati distribuiti. «Abbiamo polacchi, giapponesi, nigeriani. Pochi italiani, però arriverà il presidente della regione Lazio. Come si chiama?». Francesco St orace, padre Ibrahim. Consegnerà 600 milioni di lire al sindaco della città, per «rimettere in sesto il piano regolatore». E' l' unico politico dell' occidente, volenteroso ma forse poco significativo. «Ci sarà Yasser Arafat, questo è sicuro», si ill umina il sacerdote. Ma nella penombra della Chiesa della Natività per ora si vede solo l' annunciata comitiva di nigeriani e una graziosa biondina, assediata da galanti poliziotti palestinesi. Si chiama Tamara Galloway, ha 33 anni e arriva da Londra. «Sola, completamente sola. Non faccio parte di nessuna organizzazione, non seguo nessun gruppo». Un' irriducibile della fede. Starà qui fino a Capodanno. «E' la prima volta che assisto alla messa di mezzanotte. Ci tenevo tanto a visitare la Terrasan ta, in occasione del Millennio». Sospesi tra celebrazione, rivolta e miseria i 53 mila abitanti di Betlemme, metà cristiani e metà musulmani, accomunati dalla rivolta contro Israele, fanno i primi conti della disfatta: a dicembre dell' anno scorso si contavano 88 mila pellegrini, a ottobre 27 mila, adesso qualche centinaio. I venditori di statuette, si ostinano a tenere aperte le loro botteghe. Servono a smorzare la malinconia. «Ma è un' illusione - dice Nadia Hazboum, l' elegante signora che ge stisce uno dei negozietti sulla piazza -. Non ci sono turisti, non ci sono affari, non c' è Natale. Da tre mesi nessuno può uscire da qui e nessuno viene a venderci niente. Tutto va male, anche i negoziati di Washington. Sento che non c' è più speran za». Gli organizzatori del Progetto Betlemme 2000 avevano cominciato a lavorare nel ' 96 per preparare questa festa che doveva essere internazionale, iperbolica, sfavillante. Avevano ottenuto 200 milioni di dollari (oltre 400 miliardi di lire) per ri costruire la città, dalla Banca mondiale, dai donatori, dall' Autorità palestinese. Oggi denunciano: «Celebreremo le feste sotto i missili dell' esercito israeliano». Betlemme sfiora la carestia. Dopo la chiusura dei territori, il numero dei disoccup ati è salito al 40%. Molti cristiani del quartiere di Beit Jalla hanno abbandonato le case, bombardate dagli israeliani, e sopravvivono negli alberghi vuoti. Ventuno hotel a secco di forestieri. Persino il lussuosissimo Intercontinental, un trionfo d i fregi e mosaici in stile arabo, ha abbassato i prezzi: menù di Natale, compreso salmone e tacchino, a 18 dollari (40 mila lire). La chiesa aiuta parecchie famiglie, come quella di Noah, una donna che vive con quattro bambini in una stanzetta nascos ta tra i vicoli. «Mio marito lavorava per un' azienda d' abbigliamento. Oggi si arrangia come può. In fabbrica mancano i tessuti. Li acquistavano a Gerusalemme, ma ora uscire da qui significa morire». Anche entrare è difficile. Israele assicura che n on bloccherà l' accesso a Betlemme come minacciato, che i pellegrini potranno visitare la grotta e la mangiatoia, la chiesa della Natività e la tomba di Rachele. Ma a quali condizioni, l' hanno già sperimentato gli zelanti nigeriani: con un autobus i sraeliano fino al check-point, a piedi e, infine, con un pullman palestinese. Il nuovo apartheid non risparmia nessuno. Chi non ha voglia di avventurarsi fino alle porte insanguinate della Cisgiordania, potrà seguire la messa sulla tv palestinese. O sul nuovissimo sito www.mywaynews.com. Maria Grazia Cutuli




sabato , 23 dicembre 2000
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Cisgiordania, kamikaze contro il negoziato

Attacco suicida di un estremista arabo, altri tre morti. Moschee presidiate dall' esercito

Si sfiora la rissa ai colloqui di Washington. Clinton convoca oggi palestinesi e israeliani per tentare di sbloccare lo stallo Cisgiordania, kamikaze contro il negoziato Attacco suicida di un estremista arabo, altri tre morti. Moschee presidiate dall ' esercito DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Una fila di visiere sugli occhi, di scudi antisommossa, di manganelli in pugno, di megafoni vocianti blocca il passaggio verso la Spianata delle Moschee. A Washington si discute di sovranità palestinese sui luoghi sacri, ma qui ci sono agenti a cavallo, uomini e donne vestiti come guerrieri dello spazio, con tute nere imbottite di piastre d' acciaio, ginocchiere e parastinchi, a caricare la folla. Quarantamila arabi, arrivati dai quartieri orientali, d ai sobborghi, dai territori premono sulla Porta di Damasco per celebrare la giornata più importante del Ramadan, l' ultimo venerdì del mese santo dell' Islam. Israele risponde con poliziotti e militari, corpi speciali, elicotteri in cielo. E' mezzogi orno, l' ora della preghiera. Le mura bianche della vecchia Gerusalemme sono sotto assedio. Osama Abu Far, un palestinese di 28 anni, arriva da Souriaf, un villaggio vicino a Hebron. «Siamo partiti in dieci, stamattina all' alba. Abbiamo attraversato a piedi la collina per aggirare i posti di blocco che chiudono i Territori, ma non ci lasciano entrare». Israele ha dettato le sue regole. L' accesso alla moschea di Al Aqsa, terzo luogo santo dell' Islam, è permesso solo ai residenti arabi della ci ttà che abbiano più di 35 anni. Chi abita in Cisgiordania o a Gaza deve averne oltre 45. Fuori restano i giovani, gli attivisti, i sospetti agitatori. Osama Abu Far giura che resterà tutta la notte, che proverà ancora, ma intanto le unità speciali ur lano, si schierano a cerchi concentrici, si preparano all' attacco. Si teme altro sangue, in questo giorno simbolico per la fede e amaro per la collera. Poco importa che, a Washington, i delegati di Ehud Barak e quelli di Yasser Arafat stiano trattan do un' ipotetica pace. Sono loro i primi a litigare, sono quasi venuti alle mani. E l' Intifada è tutt' altro che finita. Dal Libano all' Iran si mobilitano milioni di arabi per celebrare la «giornata mondiale di Gerusalemme» e piangere i "martiri". Il dottore Zakaria al Qaq, direttore del Centro di ricerca israeliano-palestinese, indica gli agenti: «Come si fa a impedire alla gente di pregare? Guardateli, questi a cavallo: sembrano crociati. Siamo in pieno Medio Evo». Un vecchio imam, con barba e turbante, rinuncia ad andare sulla Spianata. Rimane con la folla e, quando intona il canto del muezzin davanti alla porta di Damasco, la folla immagina di essere alla moschea. Dall' altra parte delle mura, alla Porta dei Leoni e a quella di Erode, volano sassi e lacrimogeni. Si parla di decine di palestinesi arrestati, di uno ferito, di soldati colpiti. Nei territori è ancora peggio, lì si continua a morire. Un kamikaze, imbottito di tritolo, salta in aria in un ristorante vicino a Mehole, co lonia ebraica della Cisgiordania. Tre militari vengono feriti gravemente, altri cinque in modo leggero. L' edificio è sventrato, un cumulo di macerie nel giardino. Un secondo palestinese viene ucciso da un colono a Beit Haggai, un terzo a Siira, entr ambi nella zona di Hebron. A Gaza, un contadino palestinese che lavora nelle serre dell' insediamento colonico di Netzarim, crolla in uno scambio di tiri e spira poco dopo in ospedale. Per le strade della città sfilano gli attivisti di Hamas, travest iti da uomini-bomba, con cappucci bianchi e candelotti in mano. Parole inutili quelle di Washington? Il premier laburista Ehud Barak cerca un accordo, è l' unica maniera per sopravvivere in vista delle elezioni del 6 febbraio che rischiano di consegn are il Paese in mano al capo della destra, Ariel Sharon. Ma nella base militare di Bolling, accanto alla capitale Washington, si sfiora la rissa. Il processo di pace ondeggia. O si arriva a un accordo sabato, cioè oggi, dicono i palestinesi, o nulla. Il piano parla di nuove concessioni territoriali: gli israeliani potrebbero restituire ai palestinesi il 95% della Cisgiordania, riconoscerebbe i confini precedenti alla guerra del 1967. Ma gli uomini di Arafat vorrebbero lasciare loro solo l' 1,8%. Poi il ministro degli Esteri, Schlomo Ben Ami, fa marcia indietro. Rivendica il 10% dei territori. E' crisi. Il mediatore palestinese, Saeb Erakat, cambia espressione: «Rimane una differenza profonda su tutte le questioni». Sui profughi, per esempio . L' idea di Barak è permettere alcuni ricongiungimenti familiari, poco rispetto ai 3 milioni e mezzo di palestinesi sparsi dalla guerra del 1948 in poi nei Paesi del Medio Oriente. L' altro equivoco è la Spianata delle Moschee. Israele pensa a un «c ontrollo» palestinese, più che a una vera sovranità. Non sono sfumature, ma macigni. Clinton ha convocato le parti oggi alla Casa Bianca, alla presenza del segretario di Stato Madeleine Albright, per tentare il tutto per tutto. Maria Grazia Cutuli




venerdi , 22 dicembre 2000
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Le «colombe» abbattono Peres

Il Nobel escluso dalla corsa a premier nel nome dell' unità della sinistra

Le «colombe» abbattono Peres Il Nobel escluso dalla corsa a premier nel nome dell' unità della sinistra DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Sembrava una resurrezione. «Per la prima volta - aveva detto - non sono io che mi avvicino alla gente, ma la gent e che cerca me». Nel suo ufficio di Tel Aviv, Shimon Peres, l' uomo che ha sempre perso, si preparava a celebrare una nuova giovinezza accanto all' ultimo alleato, Yossi Sarid, capo dei pacifisti del Meretz. Mercoledì aveva annunciato di volersi pres entare alle urne come premier d' Israele, promettendo pace tra lo Stato ebraico e i palestinesi. Sorrideva contento, forse solo un po' teso. Ma l' altro si grattava la pelata, tormentato dalle perplessità: candidarlo per frenare comunque l' avanzata del generale Sharon? O procurargli un premio di consolazione per mantenere unita la sinistra? Il dilemma di Yossi Sarid e del suo drappello di deputati, diventati arbitri della sfida per le elezioni, in realtà non si era ancora risolto. E ieri è espl oso in pieno, con il colpo di scena finale: il Meretz ha deciso di non presentare Peres candidato premier. Il partito delle «colombe» non vuole spezzare il «campo della pace». Appoggerà Ehud Barak, il leader laburista, primo ministro dimissionario, c ontro il capo del Likud, Ariel Sharon, l' oltranzista che il 28 settembre ha scatenato l' intifada «violando» la Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Shimon Peres, 77 anni, l' architetto degli accordi di Oslo, il premio Nobel per la Pace, ha perso un' altra volta. «Questo è il risultato - ha detto -. Siamo in un Paese democratico, non mi resta che accettare la decisione». La storia delle sue sconfitte è leggendaria. «Perderebbe anche se corresse da solo» dicono in Israele. In passato era diver so: è stato capo del governo in tre occasioni. Ma negli ultimi anni tutte le volte che si è candidato a premier è stato eliminato. Dopo la gloria raccolta a Oslo come ministro degli Esteri di Yitzhak Rabin, ha visto solo precipizi. Nel 1997 gli hanno tolto la direzione del partito laburista. Nel 1999 è salito al potere Barak - l' «essere malefico» lo chiama lui - che gli ha rifilato il ministero della Cooperazione regionale. L' estate scorsa si è proposto come presidente d' Israele ed è stato me sso da parte da una figura scolorita di nome Moshe Katsav. All' estero gode di carisma, ma in patria non gli ha fruttato quasi niente. Stavolta però sembrava diverso: «Ho deciso di candidarmi - aveva dichiarato l' altro ieri notte - perché ho visto c he le mie possibilità di battere gli altri sono alte». I sondaggi lo confermavano: Peres potrebbe essere in grado di vincere su Sharon, grazie al voto degli arabi israeliani e degli ebrei russi, mentre Barak continua a perdere terreno. E invece no. I deputati del Meretz hanno ceduto alle pressioni del premier laburista. Gli hanno fatto promettere, in cambio del loro appoggio, di assicurare all' avversario un ruolo chiave nelle mediazioni con i palestinesi e, forse, il ministero degli Esteri. Per es ha rifiutato il compromesso: «Non sono in cerca di un lavoro, volevo fare del mio meglio per battere Sharon. La sola cosa che mi interessa è la pace». Obiettivo complicato. Ieri altri tre palestinesi sono stati uccisi dall' esercito ebraico. Al ca mpo profughi di Refah, dove si sono celebrati i funerali delle vittime di mercoledì, la folla urlava slogan contro Barak. Gli attivisti di Hamas giuravano vendetta. Sotto i tiri degli israeliani, è finito un convoglio di diplomatici occidentali che v iaggiava nella Striscia di Gaza. Non ci sono stati feriti, ma molte proteste. Oggi, ultimo venerdì di Ramadan, i palestinesi proclamano un' altra «giornata della rabbia». Ehud Barak spera nelle trattative di Washington. Ieri colloqui sembrano aver fa tto un passo avanti con una nuova offerta, mediata dal presidente americano uscente Bill Clinton: gli israeliani sarebbero disposti a concedere più terra ai palestinesi, ad accettare il loro Stato e la sovranità sui quartiere arabi di Gerusalemme est e sulla Spianata delle moschee. Abed Rabbo, il mediatore di Arafat, per la prima volta, ha addolcito le sue dichiarazioni: «Siamo vicino a un riconoscimento della nostra sovranità». Ma resta il contrasto sul diritto al ritorno di tre milioni e mezzo di profughi. Shimon Peres, l' eterno perdente, predice sciagure. «Assurdo sperare in una pace veloce, prima delle elezioni». Come dire, dietro di lui il diluvio. Maria Grazia Cutuli www.corriere.it/speciali/ israele.shtml Su Corriere online, i prota gonisti, le foto, i documenti della crisi israelo-palestinese




giovedi , 21 dicembre 2000
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Israele, Peres sogna il governo e la pace

Le violenze nei Territori frenano la mediazione americana: morti quattro palestinesi e un ebreo. Arafat: «Questa spirale di violenza contro i nostri figli vuole affossare completamente il dialogo»

Il vecchio leader chiede alla sinistra di candidarlo premier. I sondaggi lo vedono vincente anche su Sharon Israele, Peres sogna il governo e la pace Le violenze nei Territori frenano la mediazione americana: morti quattro palestinesi e un ebreo DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Shimon Peres risorge dal buio in cui l' aveva confinato il compagno di partito Ehud Barak. Si risolleva dalle sconfitte subite e si propone a Israele come il condottiero capace di guidare il Paese verso la pace con i pale stinesi. La sua partecipazione alla corsa elettorale, prevista il 6 febbraio, è ormai certa. I deputati del Meretz, il gruppo della sinistra a cui Peres ha chiesto sostegno, hanno confermato la sua decisione di sfidare alle urne Barak, primo ministro dimissionario, e Ariel Sharon, superfalco del Likud. I sondaggi sono a suo favore: Peres, 77 anni, premio Nobel per la pace, è uno degli architetti del Trattato di Oslo del 1995. E' stato premier per poco tempo, ma per tre volte. Oggi è ministro del la Cooperazione regionale. La partita dipenderà soprattutto dai risultati dei negoziati di Washington. Ieri, mentre le delegazioni israeliana e palestinese cominciavano colloqui separati con Bill Clinton, nei territori si contavano nuove vittime: qua ttro morti palestinesi e un israeliano, almeno 20 arabi feriti durante un bombardamento dell' esercito vicino al campo profughi di Rafah, nella striscia di Gaza. IL PIANO DI PERES - Nessuno ha il coraggio di chiamarlo ancora l' «eterno perdente», di ricordare le corse inutili degli ultimi anni e la sconfitta di agosto quando si era proposto alla presidenza del Paese. In molti lo accusano però di voler spaccare la sinistra. La candidatura di Peres a primo ministro avviene infatti fuori dal «One I srael», la formazione di Barak. Ma sarà necessario l' appoggio di 10 deputati sui 120 che formano la Knesset. Il Meretz è il partito che dovrebbe presentarlo, entro stasera, come leader del «campo di pace». Peres sarebbe però disposto a ritirarsi, se entro il 20 gennaio, giorno in cui scade il mandato clintoniano, Israele arriverà a un accordo con i palestinesi. Barak ha tentato il contrattacco, offrendogli un ruolo di mediatore nel processo negoziale e di ministro degli Esteri. Un sondaggio del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth pronostica in una sfida a tre il 18% dei consensi all' attuale premier, il 29% a Peres, il 38% a Sharon. Ne seguirebbe un ballottaggio che garantirebbe il 41% dei voti al premio Nobel e il 39% al leader del Lik ud. BOMBE NEI TERRITORI - I palestinesi accusano l' esercito di essere arrivato con i bulldozer accanto al campo profughi di Rafah, nella striscia di Gaza, e di aver attaccato la folla con i carriarmati. Un ragazzino di 14 anni e un giovane di 28 son o rimasti uccisi. Tra i feriti, tre soccorritori e cinque studentesse. In mattinata due poliziotti palestinesi erano stati colpiti a morte, accanto all' insediamento ebraico di Netzarim, sempre nella striscia di Gaza. Un tassista israeliano è stato i nvece accoltellato da un passeggero arabo a 20 chilometri da Gerusalemme. «Con questa spirale di violenza contro i nostri figli - ha detto Arafat -, Israele vuole affossare completamente il processo di pace». I NEGOZIATI - Bill Clinton invece continu a a sperare, accogliendo i mediatori israeliani e palestinesi all' interno della Casa Bianca. Mostra ottimismo e fiducia, assieme al suo segretario di Stato. «Lavoriamo su un processo di pace che, spero, si concluderà con successo», ha detto ieri Mad eleine Albright. «Ci sono nuove opportunità». Israele propone ai palestinesi il riconoscimento di uno Stato e la sovranità sui quartieri arabi di Gerusalemme e sulla spianata delle Moschee, in cambio della rinuncia di fare rientrare 3 milioni e mezzo di rifugiati. «Qui non si tratta di concessioni - ha dichiarato il ministro degli Esteri israeliani Shlomo Ben Ami -, ma di fare la pace». Maria Grazia Cutuli www.corriere.it/speciali/israele.shtml Su Corriere online, i protagonisti, le foto, i docu menti della crisi israelo-palestinese




giovedi , 21 dicembre 2000
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«Barak non ha fatto una vera proposta»


HANAN ASHRAWI «Barak non ha fatto una vera proposta» DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - L' ex mediatrice boccia i negoziati. «Non vedo nessun impegno da parte di Israele. Nessuna volontà di rispondere alle nostre richieste, anche le minori». Hanan Ashr awi, membro del parlamento palestinese, prima donna a partecipare alle trattative di Madrid nel 1991, condivide le proteste espresse da molti esponenti del Fatah contro i colloqui di Washington. «Siamo ancora fermi ai nodi che hanno fatto fallire qua lche mese fa l' incontro di Camp David: dal problema degli insediamenti alla questione della sovranità palestinese - dice nel suo ufficio di Gerusalemme -. Quello che era inaccettabile allora è inaccettabile anche adesso». La leadership dell' intifad a contesta Yasser Arafat? «Il dissenso dimostra soprattutto una mancanza di fiducia in Israele. I colloqui sono nati da una scadenza temporale imposta da Ehud Barak e Bill Clinton, non da noi». Barak sembra però pronto a riconoscere la sovranità pale stinese su buona parte di Gerusalemme Est e sulla Spianata delle Moschee. Non sarebbe sufficiente? «Ufficialmente non ci è ancora stata presentata nessuna proposta. E non è sufficiente parlare di Gerusalemme. Noi vogliamo la restituzione di tutti i T erritori occupati dopo il 1967 e il ritorno dei profughi. Quello che intendono fare gli israeliani è ridurre i Territori a un colabrodo». Preferireste avere come controparte Shimon Peres? «Non ci interessa chi guiderà il prossimo governo. Vogliamo so lo che a trattare sia gente capace di capire la questione palestinese. Barak o Peres non importa. I morti di ieri dimostrano che Israele continua la sua campagna brutale contro di noi». M.G.C.




mercoledi, 20 dicembre 2000
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Netaniahu rinuncia, via libera a Sharon

Sarà il falco della destra a sfidare Barak, che nei colloqui di Washington si gioca tutto

Netaniahu rinuncia, via libera a Sharon Sarà il falco della destra a sfidare Barak, che nei colloqui di Washington si gioca tutto DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME - Alla fine potrebbero trovarsi l' uno di fronte all' altro, i due generali israeliani in namorati della politica: Ariel Sharon, 72 anni, ex ministro della Difesa, come candidato della destra, ed Ehud Barak, 58 anni, il premier dimissionario, alla testa dei laburisti. Il primo difende il diritto di Israele a rafforzare la sicurezza contro gli attacchi palestinesi e storce il naso di fronte alle concessioni che si discutono a Washington. Il secondo, dopo aver visto il suo governo annegare nel sangue dell' intifada scatenata tre mesi fa proprio dopo la visita dell' avversario alla Spia nata delle Moschee, corre affannato verso un accordo di pace che gli salvi la faccia, riabiliti il suo nome, gli riconceda la poltrona. Entrambi chiedono la guida del governo e le redini d' Israele in uno dei momenti più delicati della sua storia. Ma nella partita vorrebbe entrare anche un terzo incomodo, una «colomba», appassionata di politica quanto i due generali: Shimon Peres, premio Nobel per la pace, attuale ministro della Cooperazione regionale. Scartato pochi mesi fa come presidente dell a Repubblica, Peres ha dichiarato ieri che sta seriamente valutando l' ipotesi di presentarsi. Fuori dal suo partito, quello laburista, ma con il sostegno del Meretz, la sinistra laica e degli arabi israeliani. L' ostacolo maggiore è il tempo: si vot a il 6 febbraio e le candidature vanno ufficializzate domani. Barak ha subito lanciato un appello «all' amico Shimon» a non rompere l' unità della sinistra. Fino a lunedì sera era Benjamin «Bibi» Netaniahu, l' ex premier del Likud, l' uomo destinato a sfidare Barak con il favore dei sondaggi. Ma ha preteso troppo: una doppia elezione. Ha chiesto alla Knesset di abolire la legge da lui stesso varata quando era prima ministro, con un emendamento - il «Bibi Bill», l' hanno chiamato - che gli permet tesse di presentarsi alle urne pur non essendo deputato. Contemporaneamente, ha reclamato lo scioglimento del parlamento, per sottrarsi alla litigiosa maggioranza che ha già messo in crisi Barak. Vittoria sul primo punto. Bocciatura sul secondo, 69 v oti contro 49. Così Bibi ha tradotto in azioni quanto aveva minacciato: «Dato che la Knesset non ha il coraggio di soddisfare il desiderio popolare e decidere nuove elezioni - ha comunicato il suo ufficio ieri mattina - Netaniahu annuncia il ritiro a lla sua candidatura dalla guida del partito e dall' incarico di premier». Se n' è andato, voltando sdegnosamente le spalle ai 17 deputati dello Shas, gli ultraortodossi che gli hanno votato contro. Via libera a Sharon. Anche le primarie che si sarebb ero dovute tenere oggi all' interno del Likud, per decidere tra la candidatura sua in quando leader del partito e quella di Netaniahu, sono state annullate. Era quello che il generale voleva, sin da quando il 28 settembre si è avventurato sulla Spian ata delle Moschee nel tentativo di conquistare consensi. Ma Bibi, dicono a Gerusalemme, la sa lunga. E non è ancora escluso un colpo di scena. L' arena è caotica, pesantemente condizionata dai risultati dei colloqui di pace a Washington. Un campo di battaglia, dove si deciderà il destino del Paese e di un futuro Stato palestinese. Il 65% degli israeliani vuole un accordo con Yasser Arafat. Se Barak ci riuscisse, potrebbe considerarsi il vincitore. Ed è per questo che insiste tanto con i palestin esi. In caso contrario, potrebbero far fede i sondaggi di oggi che lo danno quasi perdente e ipotizzano un ballottaggio tra Sharon ed eventualmente Peres. L' incognita Sharon è la più pericolosa. E' vero che il capo del Likud è stato uno dei fautori degli accordi di Wye Plantation, firmati da Netaniahu nel 1998, con i quali si ammettevano concessioni territoriali ai palestinesi. Ma il passato porta con sé troppi fantasmi: Sharon, l' eroe della guerra del Kippur, fu anche il comandante che diede via libera al massacro nei campi profughi libanesi di Sabra e Chatila. Nessun palestinese può perdonargli inoltre di aver lanciato la sfida sulla Spianata delle Moschee. Negli ultimi giorni, il leader della destra ha liquidato il ruolo di Barak al ta volo delle trattative: «Non ha diritto di negoziare più nulla. Non riconoscerò nessun accordo». E tranquillizzato i coloni: «Non toccherò gli insediamenti». E' arduo immaginare una sua stretta di mano con Arafat. Maria Grazia Cutuli




lunedi , 18 dicembre 2000
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Il monito di Mubarak. «Non faremo svendere i luoghi sacri dell' Islam»

«Neanche gli arabi hanno il diritto di rinunciare alla moschea di al-Aqsa»

IL RUOLO DELL' EGITTO Il monito di Mubarak «Non faremo svendere i luoghi sacri dell' Islam» Il gelo rimane, anche adesso che si torna a parlare di pace. Dopo il ritiro del proprio ambasciatore da Israele, il 21 novembre scorso, l' Egitto continua a m antenersi critico nei confronti dello Stato ebraico. Il nodo è quello di sempre: la questione di Gerusalemme e i luoghi simbolo dell' Islam. «Nessuno può toccare il carattere sacro della moschea di al-Aqsa», ha detto ieri il presidente Hosni Mubarak, in occasione dell' apertura del nuovo parlamento, eletto il 14 novembre. Nemmeno i palestinesi sono liberi di decidere sullo status della spianata, dove sorge al Aqsa assieme al mausoleo della Roccia. Neanche loro «hanno il diritto di cedere o rinun ciare ai luoghi santi». Il presidente parla al Paese, ai deputati del fronte islamico che si sono insediati in Parlamento, 15 estremisti con cui il regime laico del Cairo deve fare per la prima volta i conti. Sono una minoranza, ma bastano a costring ere il filo-occidentale Mubarak a indossare la tunica di cavaliere dell' Islam. Al di là delle pressioni interne, le stoccate ai vicini di casa israeliani indicano comunque che il tempo dei cedimenti è scaduto. Il presidente accusa Ehud Barak, il pre mier dimissionario che non ha esitato a ricorrere alla forza e «alla legge della giungla» per fronteggiare la guerriglia. Mette in guardia la destra, che si prepara a tornare al potere, affinché non ripeta gesti come la visita alla spianata delle mos chee di Ariel Sharon. E invita Israele tutta a «comprendere la lezione» e «trarne buone conclusioni». L' Egitto, primo Paese arabo a firmare la pace con lo Stato ebraico a Camp David, nel 1978, rilancia il suo ruolo di mediatore. Su Gerusalemme e sui luoghi sacri il governo ha una sua idea: «La parte est andrebbe ai palestinesi, assieme al quartiere arabo, a quello cristiano e armeno dentro le mura. Agli israeliani resterebbe la sovranità sul quartiere ebraico, con un salvapassaggio che lo colle ghi al resto della città». La proposta viene da Osama el Baz, consigliere politico di Mubarak, a Milano per una conferenza organizzata dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente. Laurea in giurisprudenza, dottorato negli Stati Uniti, el Baz rap presenta l' eminenza grigia del potere egiziano. È stato a fianco dell' ex presidente Anwar Sadat, ha seguito il processo di pace di Camp David, ha sorvegliato i negoziati israeliani e palestinesi a più riprese, da Oslo al naufragio attuale. Il suo p iano riguarda anche i territori: «Proponiamo l' annessione a Israele di alcuni insediamenti colonici che si trovano in Cisgiordania, in cambio di compensazioni territoriali nella striscia di Gaza». Basterebbe un mese, secondo il consigliere di Mubara k, per arrivare a un accordo-quadro. E non c' è tempo da perdere: «Bisogna firmare la pace entro 60 giorni, vale a dire prima che Israele vada alle elezioni. Se si arriverà alle urne con l' intifada ancora aperta, saranno i falchi ad andare al potere . Barak si è mostrato duro con i palestinesi, ma un governo affidato a Netaniahu creerebbe serie difficoltà al processo negoziale». L' altra scadenza è l' uscita di scena di Clinton: «La nuova amministrazione avrà problemi interni da risolvere. Non p otrebbe occuparsi della pace prima di maggio o giugno». I Paese arabi potrebbero procedere da soli? Osama el Baz è realista: «Possiamo arrivare a una mediazione gestita da Egitto, Giordania, Unione Europea e Russia. Possiamo colmare il gap lasciato d agli americani. Ma non possiamo agire né contro né senza di loro». Maria Grazia Cutuli




venerdi , 24 novembre 2000
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I due amici-nemici: «Questo conflitto distrugge ogni cosa»

«Arriviamo alla pace prima che Clinton vada via». «No, vogliamo l' Onu come mediatore»

L' ebreo Katz e l' arabo Siniora I due amici-nemici: «Questo conflitto distrugge ogni cosa» MILANO - Il primo teme uno scontro senza fine: «I palestinesi stanno combattendo una guerra di liberazione, sarà impossibile batterli». L' altro considera l' intifada l' ultima frontiera: «L' unico strumento di pressione dopo nove anni di trattative inutili». Amici-nemici, Yossi Katz e Hanna Siniora. Entrambi sostenitori del processo di pace, entrambi consapevoli che la ripresa del conflitto «sta distrugg endo tutto». Il primo, 51 anni, israeliano, è membro della Knesset e capo della comitato politico dei laburisti. L' altro, 63 anni, attivista palestinese, è direttore del Jerusalem Times. Hanno accettato di ritrovarsi ieri a Milano per un incontro a Palazzo Marino organizzato del Centro italiano per la pace in Medio Oriente. Nell' intervista al Corriere confrontano le proprie posizioni. Hanna Siniora, lei diceva da mesi che la situazione nei territori stava per esplodere. Era una rivolta prepara ta? Siniora: «Tutto è cominciato con Camp David. Dovevamo discutere come risolvere un conflitto politico. Ehud Barak l' ha trasformato in un conflitto religioso, con la controversia sulla Spianata delle Moschee. Quando è stata annunciata la visita di Ariel Sharon, Arafat ha chiesto a Barak di fermare il capo del Likud, ma il premier israeliano non è intervenuto». Katz: «Arafat ha fatto un errore: ha voluto utilizzare la visita di Sharon per i suoi scopi, pensando di poter controllare la piazza». Come uscire dal conflitto? Siniora: «Israele deve fermare l' uso eccessivo della forza. Noi combattiamo con le pietre, loro con gli elicotteri e i carri armati. Noi abbiamo avuto la maggior parte dei morti». Katz: «La risposta israeliana può sembrar e dura, ma è quello che chiede la gente. E per Barak è l' unico modo di restare al potere. I morti pesano da una parte e dall' altra. Io ho sempre invitato mio figlio ad amare i palestinesi. Oggi lui si trova nell' esercito. Mi dice: papà, i tuoi ami ci mi sparano addosso, che devo fare? So che è costretto a uccidere, ma non posso dirgli di non andare. Se fossi un palestinese farei lo stesso». Nessuna soluzione? Katz: «Bisogna arrivare alla pace prima che Clinton vada via. Il nuovo presidente Usa avrà da pensare alla politica nazionale». Siniora: «No, Clinton si è schierato a fianco degli ebrei. Vogliamo che si riprenda la strada di Sharm el Sheik, che la mediazione passi in mano all' Onu, all' Europa, con Egitto e Giordania». Maria Grazia C utuli




domenica , 07 febbraio 1999
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LA FUTURA REGINA
Palestinese, profuga, colta: perche Rania puo conquistare il regno

Originaria di Cisgiordania.
Fuggi anche dal Kuwait
Maria Grazia Cutuli,

«Tra discutere di politica e passare il tempo con una donna, il principe Abdallah sceglierà sempre una compagnia femminile», scriveva qualche giorno fa il settimanale francese L'Express. Vero almeno fino al 1992, l'anno dell'incontro con Rania Yassin : la donna che pone fine all'esistenza «selvaggia» del futuro re di Giordania. Abdallah la adocchia - mora, alta e sottile - durante una cerimonia. Un anno dopo se la sposa. Rania, che ha studiato all'università del Cairo, lavora al servizio informat ico della Citibank di Amman. Mentre Abdallah nello stesso periodo colleziona galloni nei ranghi militari. Di successione al trono non si parla ancora. Ma per il primogenito di re Hussein la scelta di sposare Rania si rivela una mossa previdente. A pa rte la bellezza, Rania ha una caratteristica che la rende perfetta come futura regina. Una dote che potrebbe addirittura aver condizionato la decisione di re Hussein di lasciare la corona ad Abdallah: Rania è una palestinese. Sulla bilancia di un reg no, abitato da 4 milioni di persone, il 60% dei quali palestinesi, non è un dettaglio da trascurare. La sua ascesa al trono accanto al marito rappresenterebbe la definitiva pacificazione con il suo popolo, dopo i conflitti e le tensioni che hanno sem pre reso ambivalente la politica di re Hussein verso i palestinesi. Rania fa parte di un clan noto e potente, gli Yassin di Tulkarem, città della Cisgiordania. Profuga due volte: nel 1967, quando i genitori con lo scoppio della guerra dei Sei giorn i furono costretti a fuggire in Kuwait, e nel 1991, durante la guerra del Golfo, quando il Kuwait espulse gran parte dei palestinesi come ritorsione per l'appoggio dato da Arafat all'Iraq. Qualcuno la ricorda come una ragazzina che amava il basket e gli scacchi: «Nessuno avrebbe potuto immaginare - dice Khaled Yassin, lo zio paterno, commerciante - che sarebbe potuta diventare regina». Come Noor, ultima moglie di re Hussein, dicono in molti. Un confronto pericoloso. Noor è una primadonna. Cederà il passo alla giovane sovrana? Rania per ora mantiene il suo ruolo: nelle stanze del palazzo con i due figli, Hussein, 4 anni, e Imane, 16 mesi. O sul sellino di una moto con il marito Abdallah. Regina in corsa, verso il prossimo millennio.




venerdi , 05 febbraio 1999
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FIABE DI CORTE
La principessa Muna, la piccola inglese che diede alla luce l'erede di Maometto

Maria Grazia Cutuli,

Una linfa occidentale scorre nelle vene del futuro re di Giordania. È un'impronta britannica. Una traccia lasciata da una piccola, discreta donna bruna nel Dna di colui che salirà al trono come discendente in linea diretta del profeta Maometto: Abdal lah ibn Hussein, sovrano designato del regno hashemita. A darlo alla luce, il 30 gennaio 1962, è infatti l'ex signorina Antoinette Avril Gardiner, un'inglese nata nel villaggio di Ipswich, 100 chilometri da Londra. Nessuno scandalo. Quando Antoinette due anni prima ha sposato re Hussein, si era già convertita all'Islam e aveva preso un nome degno del nuovo rango: Muna, cioè Delizia. Come sia diventata regina di uno dei più turbolenti regni del Medio Oriente è un mistero, spiegato solo in parte dalla professione del padre, il colonnello William P. Gardiner. È lui, spedito nel 1958 presso la missione militare britannica in Giordania, a portare la figlia ad Amman. Antoinette ha 19 anni. Non è particolarmente bella e neppure elegante. E tutto quello che si lascia dietro è un diploma preso dalle suore, un lavoretto da centralinista e una vocazione mancata come ballerina. Quando si trova davanti re Hussein, a un ricevimento sul Mar Morto, il suo commento è: «Sciatto». I fatti la smentiscon o. Il sovrano, cresciuto ed educato al gusto occidentale, ha appena divorziato dalla prima moglie, Dina. E la giovane inglese, oltre al suo cuore, conquista presto anche quello dei giordani. Tanto da essere considerata, per l'attenzione con cui si è tenuta lontana dagli intrighi di corte, l'antitesi di Noor, l'americana che sarebbe diventata la quarta moglie di re Hussein. Sull'educazione del principe Abdallah, né lei né il marito hanno dubbi: a soli 4 anni il bambino viene mandato a studiare in Inghilterra. Ma, a dispetto degli altri tre figli che Muna dà a Hussein, il matrimonio non dura a lungo. Il 1972 è l'anno del divorzio. Muna cerca una seconda residenza a Washington, mentre Abdallah continua la sua formazione in Occidente. Frequen ta le superiori negli Stati Uniti e si laurea all'università di Georgetown. Torna ancora in Inghilterra, stavolta per un master ad Oxford in affari internazionali. Ma non è la diplomazia a tentarlo. Un decennio nell'esercito britannico, poi il futuro re torna in patria. Ama guidare gli elicotteri Cobra. Nel 1996 guiderà come generale le forze speciali giordane. Il matrimonio con Rania Yassine, una palestinese che gli ha dato due bambini, fa dimenticare il suo sangue per metà britannico. Ma non la piccola inglese che in silenzio si è conquistata il titolo di «regina madre».

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Maria Grazia Cutuli
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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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