FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
I'm trying to make available ALL THE STORIES written by Maria Grazia Cutuli.
Big kudos to publishers Corriere della Sera-RCS and Arnoldo Mondadori Editore, for allowing me to post here all the stories they hold copyrights for.
MORE STORIES - CORRIERE DELLA SERA Copyright and Courtesy of Corriere della Sera
081 Sarajevo, 1996 Onboard an armored Italian Army vehicle
martedi , 14 agosto 2001
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Macedonia, firmato l' accordo di pace
La Nato: «Per l' intervento è necessario il rispetto della tregua». Pronti 3500 soldati, tra cui 750 italiani
L' intesa garantirà maggiori diritti alla minoranza albanese. I ribelli: «Consegneremo le armi dopo che i punti saranno applicati» Macedonia, firmato l' accordo di pace La Nato: «Per l' intervento è necessario il rispetto della tregua». Pronti 3500 soldati, tra cui 750 italiani Avranno poliziotti, libri di testo, nuove moschee. Dimenticheranno la sindrome della serie B. Usciranno dalle zone grigie della minoranza etnica per entrare tra i «cittadini della Repubblica di Macedonia» senza den ominazioni aggiuntive o aggettivi discriminatori. Seduti attorno a un tavolo tirato a lucido come uno specchio, i rappresentanti dei partiti albanesi hanno firmato ieri un accordo con il governo macedone che dovrebbe chiudere l' epoca delle rivendica zioni, ponendo fine a sei mesi di combattimenti tra ribelli ed esercito. UNA PACE DEBOLE - Il condizionale è d' obbligo. E' una pace debolissima questa che è stata siglata nel pomeriggio di ieri a Skopje, dietro le porte (chiuse) dell' ufficio del pr esidente macedone Boris Trajkoski. A poco è servito l' assenso del segretario generale della Nato George Robertson. Le sue frasi ad effetto: «Uno straordinario momento per la Macedonia, l' entrata del Paese nella moderna Europa». Il sì del ministro d egli Esteri dell' Unione Europea, Javier Solana. Il coro di dichiarazioni soddisfatte da Bruxelles e il corredo di donatori pronti a sostenere la piccola repubblica balcanica. Qualche ora dopo l' accordo, si è ripreso a sparare. Razzi e raffiche di k alashnikov contro le postazioni dell' esercito, partiti dai soliti baluardi dei ribelli: i dintorni di Tetovo e di Kumanovo. Un attacco anche ai confini con l' Albania, zona finora risparmiata dai combattimenti, respinto dai militari macedoni. L' INT ERVENTO NATO - Il Consiglio atlantico si è riunito a Bruxelles per accelerare l' invio di 3500 soldati Nato, tra i quali 450 italiani, che con il sostegno logistico arriveranno a circa 750, chiamati a sorvegliare l' accordo e disarmare i ribelli alba nesi dell' Uck (l' Esercito di liberazione nazionale). Nome in codice: «Essential harvest», mietitura essenziale. Ma l' intervento rimane controverso. I vertici Nato, accusati dal governo macedone di proteggere i guerriglieri, hanno ripetuto anche ie ri che prima di spedire qualunque contingente devono essere certi che il «cessate il fuoco sia durevole». L' UCK - I ribelli, per bocca del loro portavoce, il comandante Shpati, hanno fatto sapere che accettano l' accordo, ma prima di cedere le armi pretendono di vedere applicati tutti i punti del piano. Dichiarazioni ambigue, visto che si sono rimessi a combattere proprio nel giorno della pace. Lo scontro che ha spaccato la Macedonia rimane ancora pericolosamente aperto. Secondo il governo mace done, alle spalle del nuovo Uck ci sono i veterani della guerriglia kosovara (che si chiamavano allo stesso modo), approvvigionamenti e armi direttamente da Pristina. E' il controllo delle frontiere, lo scopo dei guerriglieri. I PUNTI - Le riforme pr eviste dall' accordo dovrebbero sanare l' ostilità almeno a livello istituzionale. Si tratterà di riequilibrare la composizione etnica della popolazione, formata da 2 milioni di abitanti, al 70-75% macedoni e il resto albanesi. I primi cambiamenti to ccheranno la polizia. Oggi gli agenti albanesi rappresentano solo il 6% di 7 mila poliziotti. Entro i prossimi due anni, dovranno esserne reclutati mille in più. Poi c' è la lingua: diventerà ufficiale a fianco di quella macedone nelle aree dove gli albanesi superano il 20% della popolazione. I deputati albanesi potranno usarla in Parlamento e anche i testi delle leggi si adegueranno al bilinguismo. Cambierà la Costituzione. Il preambolo di quella attuale parla di «nazione fondata dalla popolazi one macedone che comprende minoranze albanesi, turche, valacche e rumene». D' ora in poi saranno tutti «cittadini della Repubblica di Macedonia». Più delicata la parte militare: disarmo, ma anche amnistia. Quest' ultima dovrebbe riguardare solo i gue rriglieri che non sono colpevoli di crimini giudicabili dal Tribunale dell' Aja. E' il passo più oscuro. Nessuno dice quale giustizia sarà prevista per le vittime di sei mesi di guerra. Maria Grazia Cutuli
giovedi , 23 agosto 2001
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Caso Dutroux, giustizia non è fatta
A cinque anni dall' arresto del «mostro di Marcinelle», l' inchiesta sui pedofili belgi si è arenata. Il processo all' uomo accusato di aver stuprato e ucciso quattro bambine continua a slittare. Sono stati sospesi investigatori, screditati testimoni «scomodi», minacciati i parlamentari che indagano sulla vicenda
Caso Dutroux, giustizia non è fatta A cinque anni dall' arresto del «mostro di Marcinelle», l' inchiesta sui pedofili belgi si è arenata DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES - Cinque anni dopo l' arresto di Marc Dutroux, il belga sospettato di pedofilia e as sassinio, c' è un poliziotto in un bar che tormenta un bicchiere tra le mani. «I vertici della procura di Bruxelles, quelli della gendarmeria, tutti contro di me, Eimé Bille, le "petit policier" colpevole solo di aver denunciato un' indagine zeppa di atti falsi e irregolarità». C' è una giovane avvocatessa dal sorriso gentile, Patricia van der Smissen, che ha dovuto spalare montagne di fango per difendere la sua cliente, «la testimone X1», accusata di mitomania e allucinazioni dopo aver racconta to di minorenni torturati, violentati, uccisi nei festini perversi dell' alta società. Ci sono i genitori di due bambine, Julie Lejeune e Mélissa Russo, stuprate e lasciate morire di fame in un sotterraneo dell' orrore, talmente stanchi da preferire il silenzio. «Troppe parole sono state fraintese», dice uno dei legali, l' avvocato Hissel. Ci sono altri protagonisti messi a tacere, minacciati, rimossi dai loro incarichi per lo stesso motivo: essere entrati in uno degli «affari» più torbidi del B elgio moderno. E' il 13 agosto 1996. Marc Dutroux, 39 anni, un pregiudicato con una lista impressionante di delitti alle spalle - rapimenti, violenze sessuali, furti d' auto - viene arrestato su mandato della procura di Neufchâteau, una cittadina bel ga vicina ai confini con il Lussemburgo. Sotto la sua casa di Marcinelle, periferia di Charleroi, la polizia scopre un cunicolo scavato nella terra con dentro due ragazzine, Sabine (12 anni) e Laetitia (14 anni), terrorizzate ma ancora vive. Niente d a fare invece per Julie e Mélissa, otto anni a testa, scomparse nel 1995. I loro corpi giacciono nel giardino di una seconda residenza dell' uomo, a Sars-la-Buissière, sepolti sotto il cadavere di Bernard Weinstein, complice di Dutroux. Tre mesi dopo , i resti di altre due ragazze: Ann e Eefje, 17 e 19 anni, sparite a Ostenda nel 1995. Non c' è solo Dutroux dietro la catena di orrori. La moglie, Michèle Martin, è accusata di aver filmato gli stupri del marito. Un tossicomane, Michel Lelièvre, è r iconosciuto come complice. Appare un terzo personaggio, Marc Nihoul, il «principe della notte», sospettato di far da tramite in un commercio di minorenni tra Dutroux e le «alte sfere». Il Paese è sotto choc. Spuntano connessioni internazionali. Scena ri foschi dove si materializzano incubi orgiastici, sadismi insospettabili, ma anche interessi d' altro genere. Il Belgio, quartiere generale dell' Unione Europea, della Nato, di migliaia di multinazionali, scopre che dietro l' affare della pedofilia si potrebbe nascondere una rete criminale che mina lo Stato dai vertici alle fondamenta. Cinque anni dopo, nessun imputato è alla sbarra. I grossi nomi sono spariti dai dossier. Le connivenze sospette sono accantonate. L' inchiesta, attualmente in m ano a Jacques Langlois, giudice istruttore di Neufchâteau, è ferma all' esame del Dna di 6 mila capelli prelevati sui luoghi dei delitti. A maggio scorso, e solamente sotto pressione del procuratore Michel Bourlet, il magistrato ha cominciato a ordin are i primi test, per scoprire che su 1.300 capelli analizzati, ce ne sono una ventina che non appartengono ai protagonisti della vicenda. Ma per Langlois, non esiste una rete criminale: il «mostro di Marcinelle» è un un predatore isolato. Non ha stu prato Julie e Mélissa, sostiene il magistrato. La data del processo continua a slittare. Forse settembre 2002. Forse più in là. Forse alla fine Dutroux potrebbe cavarsela con cinque, dieci anni di galera o poco più. Il «mostro di Marcinelle» è rinchi uso nella prigione di Arlon, in una cella d' isolamento dai muri imbottiti. Un secondino lo controlla ogni sette minuti. Ha un team di quattro prestigiosi avvocati che nessuno sa da chi vengano pagati. Sua moglie e il complice Lelièvre si trovano nel la stessa prigione. Libero invece Nihoul, che continua a mandare messaggi ben indirizzati: «E' vero - ammette durante un' intervista televisiva - ho frequentato club dove si tenevano orge. Ho incontrato ministri, magistrati, gente piazzata ancora più in alto». La casa reale? Anche questo è uno dei fantasmi che ossessionano il Belgio. Eppure all' inizio l' inchiesta parte bene. Un magistrato zelante, Jean Marc Connerotte, in brevissimo tempo riesce a trovare Sabine e Laetitia e a scoprire i quatt ro omicidi. La sua rimozione ad ottobre 1996, per aver partecipato a una spaghettata con i parenti delle vittime, fa esplodere la piazza: 600 mila persone protestano davanti al palazzo di Giustizia. Comincia l' affossamento: l' investigatore Patrick De Baets e il suo aiutante Eimé Bille, dopo aver ascoltato una decina di testimoni che chiamano in ballo il jet set belga, vengono messi da parte e accusati di malversazioni. «Tutti i procedimenti a carico nostro non hanno portato a nulla - dice le p etit policier Bille mentre beve acqua minerale in un bar di Bruxelles -. Ma la persecuzione continua. Perché?». Stesse domande in un altro quartiere della città. A parlare è Patricia van der Smissen, l' avvocatessa quarantenne dal viso da ragazzina: «E' il 1997 a segnare la svolta: il giudice decide la rilettura delle testimonianze». La sua cliente, Régina Louf, testimone «X1», ha cominciato a parlare l' anno prima. «Aveva riconosciuto Dutroux e Nihoul alla televisione. Voleva raccontare quello che sapeva degli ambienti pedofili». E' stata violentata e venduta sin da bambina, Régina Louf. Dice di aver preso parte a orge con altri minorenni, di aver visto ragazzini costretti ad accoppiarsi con cani, torturati, uccisi. Ma soprattutto sostiene di aver riconosciuto Nihoul tra gli assassini di una sua amica, Christine van Hees, 16 anni, ritrovata carbonizzata nel 1984. «Régine è stata dichiarata pazza - racconta l' avvocatessa -. E anche noi legali abbiamo passato anni a difenderci dalle ac cuse». Inutile anche il lavoro della commissione d' inchiesta parlamentare, istituita ad ottobre 1996. Un deputato socialista che ne ha fatto parte racconta di minacce e intimidazioni. «Abbiamo raccolto migliaia di testimonianze, ma non avevamo i pot eri di un giudice istruttore. Tutto è rimasto a livello di voci». Non crede, lui, alla teoria del grande complotto. Ma all' effetto domino, sì. «Se si andasse troppo lontano con l' inchiesta, Dutroux potrebbe far cadere una testa dopo l' altra». Il B elgio si ridurrebbe a un castello di carte. Maria Grazia Cutuli
giovedi , 23 agosto 2001
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«Ma il criminale è protetto da ragioni di Stato»
La denuncia di un giornalista: «Re Alberto ha un passato ambiguo risalente agli anni Settanta»
IL LIBRO-INCHIESTA «Ma il criminale è protetto da ragioni di Stato» DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES - La piramide del silenzio arriverebbe fino a re Alberto del Belgio. Alcune macchie sul suo passato avrebbero fatto scattare una rete di protettori occul ti attorno a Marc Dutroux, l' assassino di Marcinelle. E' la tesi di un libro che sarà pubblicato in Francia a settembre da Flammarion: Dossier Pedofilia, lo scandalo dell' affare Dutroux. L' autore è Jean Nicolas, 50 anni, giornalista free-lance che vive in Lussemburgo. «Il legame tra Dutroux e il re è indiretto - spiega il giornalista -. Ma è proprio il coinvolgimento del sovrano in feste ambigue della fine degli anni Settanta a impedire che il criminale venga processato». Che cosa la porta ad affermare che il re partecipasse a certe feste? «Un' inchiesta che si è fermata al 1982. Secondo questi documenti, a partire dal ' 79 Alberto sarebbe stato visto in sex-party dove erano coinvolti minorenni. Non c' è la prova che lui abbia toccato de i bambini, ma la sua presenza è già uno scandalo». Dove si svolgevano i party? «Al golf club di Waterloo, il circolo di Bercuit, o in case private. All' inizio erano riunioni tra notabili con scambio di mogli. Poi sono entrati i bambini. Almeno tre, presi da un orfanotrofio. Uno di loro, Charles, 14 anni, è morto suicida». Ci sono testimoni? «C' è X3, messa in palio dal padre a 8 anni in partite di bridge e poi introdotta nel giro della prostituzione. X3 parla della famiglia reale, racconta di u n castello delle Ardenne dove veniva data la caccia con i doberman a bimbi nudi. Ma non è l' unica». M.G.C.
lunedi , 23 luglio 2001
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Indonesia, Wahid non si arrende
Il presidente proclama lo stato d' emergenza per evitare l' impeachment
Indonesia, Wahid non si arrende Il presidente proclama lo stato d' emergenza per evitare l' impeachment Delicato di salute, quasi cieco. Politicamente debole, caratterialmente incostante. Sono bastati 21 mesi al potere, per trasformare Abdurrahman Wa hid, 60 anni, primo presidente indonesiano eletto per vie democratiche, in un leader da rottamare. Gli oppositori marciano verso la sua liquidazione. Aprono la procedura d' impeachment, lo convocano davanti all' Assemblea consultiva del popolo. Ma il presidente rivela energie inaspettate. Proclama lo stato d' emergenza, preannuncia la sospensioni del Parlamento, accentra i poteri. L' esercito resiste. Non rispetterà gli ordini, fanno sapere gli alti ranghi: l' impeachment deve andare avanti. La democrazia nel quarto Paese più popoloso del mondo (207 milioni di abitanti sparsi per l' arcipelago)sembra già un esperimento abortito. Il primo presidente eletto, dopo l' uscita di scena del dittatore Suharto nel 1998, sta riportando il Paese vicin issimo al caos. E' successo ieri, in una giornata segnata da un doppio attentato - 60 feriti tra i fedeli che assistevano alla messa domenicale -, dalla convocazione del presidente, da minacce e controminacce istituzionali. Quelli che hanno voluto l' impeachment come Amien Rais, presidente dell' Assemblea consultiva del popolo, accusano Wahid di «corruzione e incompetenza». Scandali e non solo. Di aver fatto precipitare l' Indonesia nella crisi economica, con la caduta libera della rupia, di non aver tenuto a freno le spinte secessioniste che stanno disgregando l' arcipelago, di non aver arginato la violenza etnica e religiosa che insanguina le strade di Giakarta. Vogliono far spazio a forze più giovani: alla vicepresidente Megawati Sukarno Putri, figlia dell' ex presidente Sukarno destituito nel 1966, che potrebbe prendere la guida dello Stato già domani; ai gruppi laici e modernisti che si oppongono al grande partito musulmano di Wahid, il Nahdlatul Ulama e ai suoi 30 milioni di segu aci. L' Assemblea consultiva del popolo con i 695 seggi, distribuiti tra 462 membri eletti dal Parlamento, 38 rappresentanti militari e 195 delegati regionali, è il più alto corpo legislativo del Paese. E' l' organismo che ha eletto il presidente e q uello che può decidere la fine del mandato. I suoi componenti addebitano a Wahid due scandali. Il primo riguarda il furto di 4 milioni di dollari di cui si sarebbe appropriato uno dei soci dell' agenzia alimentare pubblica Bulog. Il secondo tocca dir ettamente il capo dello Stato: si sarebbe impadronito di 2 milioni di dollari ricevuti dal sultano del Brunei. I magistrati l' hanno scagionato e Wahid si fa forte di questo. La sua destituzione - sostiene - sarebbe un gesto incostituzionale. Se qual cosa non va nel suo governo, c' è un solo modo per rimediare: «Elezioni entro l' anno». Non è solamente una crisi politica. Le bombe scoppiate in mattinata sono un chiaro segnale. La prima è stata piazzata all' interno della chiesa cattolica di Sant' Anna, la seconda dentro un furgoncino parcheggiato accanto a una chiesa protestante. Nessuna rivendicazione, ma gli inquirenti sostengono che sia un tentativo di far fallire l' impeachment contro il presidente. I sostenitori di Wahid però sono rimas ti a casa. O quanto meno i 40 mila uomini in divisa, poliziotti e miliari, dislocati nella capitale e nei dintorni, sono bastati per il momento a scoraggiare dimostrazioni e scongiurare il rischio di un massacro. Sono loro adesso ad avere in mano le chiavi della crisi. M.G.C. I protagonisti IL PRESIDENTE Abdurrahman Wahid è stato eletto alla guida del Paese - primo presidente democratico in oltre 40 anni - dall' Assemblea Consultiva del Popolo, nell' ottobre 1999, dopo la deposizione del dittato re Suharto e le elezioni del giugno 1999 L' ASSEMBLEA E' il più alto corpo legislativo del Paese. E' composta da 695 seggi: 462 membri eletti, 38 rappresentati militari, 195 delegati regionali e di gruppi sociali L' IMPEACHMENT L' Assemblea che l' ha scelto può adesso dimetterlo: contro Wahid, accusato di concussione, è stato avviata la procedura di impeachment
martedi , 17 luglio 2001
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Emergenza globale, vince la formula Chiapas
Internet e testimonial famosi determinanti per il successo degli aiuti umanitari. Il ruolo delle multinazionali Nella protesta online del sub-comandante Marcos l' abilità di rendersi visibili. L' accusa alle grandi aziende: i miliardi benefici portano a un nuovo colonialismo
Emergenza globale, vince la formula Chiapas Internet e testimonial famosi determinanti per il successo degli aiuti umanitari. Il ruolo delle multinazionali La secessione del Biafra durò un anno, dal 1968 al 1969. Fu una tragedia, ma fu anche una colo ssale operazione di propaganda. Il mondo avrebbe facilmente dimenticato la rivolta di una tribù cattolica esplosa nel cuore della Nigeria, se il conflitto non fosse stato accompagnato dalle immagini di centi naia di migliaia di bambini prossimi alla morte, il ventre gonfio, la testa abnorme, le membra rinsecchite dalla fame. Come racconta Goffredo Parise nei suoi reportage e nel libro Guerre politiche, fu il leader della ribellione, Ojukwu, un ex ufficiale dell' esercito con studi a Eton e a Oxf ord, a trovare la chiave giusta per attrarre l' attenzione dell' Occidente. Il guerrigliero montò una telescrivente nella giungla, attraverso le quale diramava dispacci in tempo reale a Parigi, Londra, Ginevra. Ma le notizie da sole non bastavano. Oj ukwu, grazie a un contratto con una società pubblicitaria svizzera, la Mark Press, imparò a esibire cadaveri e morti viventi facendo giungere all' estero foto e filmati. Il mondo accorse in massa. Arrivò la Caritas e la Croce Rossa, tonnellate di aiu ti da Europa e Cina. La globalizzazione non esisteva ancora, il digitale tanto meno, ma questo del Biafra può essere considerato un primo esempio di emergenza lanciata su scala internazionale con mezzi tecnologici, strategie d' avanguardia e perfino un marchio occidentale, la Mark Press, sul retro. Trent' anni dopo, caduto il muro di Berlino che imponeva una matrice ideologica a ogni mobilitazione (interventi ancorati alle sfere d' influenza, al blocco Est- Ovest, alle partite di armi che arriva vano dalla Cia o dall' Unione Sovietica), le cause dei Paesi poveri emergono a livello mondiale con sistemi che rievocano quelli adottati in Biafra: l' uso dell' hi-tech, l' intervento spesso spregiudicato dei media, talvolta l' etichetta delle multi nazionali. CAMPAGNE ONLINE - «La prima guerriglia post-comunista e post-moderna», come l' ha chiamata lo scrittore Carlos Fuentes, si è combattuta in Chiapas a partire dal ' 94. I campesinos protestavano contro la globalizzazione, ma è stata Internet l' arma segreta del subcomandante Marcos per far proseliti in tutto il mondo. Un computer al posto della telescrivente del Biafra. Oggi non c' è gruppo di resistenza o cellula d' opposizione che non abbia un sito, una chat, una email. E' un varco ne l mondo globale, non sempre una garanzia di successo. Le donne afghane del Rawa (il fronte femminile d' opposizione ai Talebani), per esempio, pur riscuotendo solidarietà, continuano a vivere da clandestine. Più efficaci, per trovare adesioni su scal a «globale», i movimenti trasversali che si battono per fronteggiare emergenze collettive, fra i quali la cancellazione del debito ai Paesi poveri, la difesa dell' ambiente, la lotta all' Aids. «Sono i cartelli online - dice padre Giulio Albanese, di rettore della Misna, l' agenzia di stampa missionaria -, organizzazioni non governative, chiese, movimenti civili che attraverso Internet si trasformano in gruppi di pressione sui governi e le istituzioni internazionali». Il loro impatto sull' opinio ne pubblica è dirompente. Più complesso l' approdo. Gli appelli di Jubilee 2000, per esempio, hanno portato a un alleviamento del debito in 23 Paesi «hipc» (poverissimi e altamente indebitati), dal Ciad alla Bolivia, dall' Uganda al Mozambico, non an cora alla cancellazione totale. Ma dietro questa battaglia, incalzano già a velocità cibernetica nuove proposte: dalla creazione di un fondo per l' Aids alla Tobin Tax, l' imposta sulle transazioni finanziarie. I TESTIMONIAL - Le campagne hanno bisog no di eroi. Morti i leader carismatici capaci di mobilitare le masse nel periodo post-coloniale, lo scettro della militanza passa alle star. Bono si trasforma in ambasciatore dei Paesi disastrati. Richard Gere in portavoce del Dalai Lama. Luciano Pav arotti organizza concerti per i profughi afghani. «Un passaggio cruciale - dice Luca De Fraia, coordinatore di Sdebitarsi, cartello di 60 organizzazioni italiane -. E' stato Bono, per esempio, a trasformare una questione tecnica come il debito in una battaglia popolare». Le star fanno presa sui media. Ed è dai media che dipende l' attenzione dell' Occidente sul Sud del mondo. Non c' è raccolta fondi, intervento umanitario o militare, che non sia orientato, oggi come ai tempi del Biafra, dai mezz i di comunicazione. MISSIONI CIBERNETICHE - Internet velocizza gli interventi umanitari. Jean Fabre, vicedirettore dell' Undp di Ginevra (il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite), disegna una nuova efficienza: «Durante la guerra del Kosovo, ogni funzionario Onu aveva un computer per registrare le generalità dei profughi e procedere alla ricerca dei familiari». Le organizzazioni non governative trasmettono rapporti via email, le liste dei bisogni viaggiano su file, mentre l' Undp vanta c ollegamenti in rete con operatori locali in quasi tutti i Paesi del mondo. Il peso della diplomazia rimane comunque fondamentale ad accelerare o ritardare l' intervento umanitario. Jean Fabre cita ancora un esempio: il Ruanda. «I segnali che lì stava per accadere qualcosa di terribile non mancavano. Boutros Ghali, allora segretario dell' Onu, aveva avvertito le cancellerie politiche. Ma nessuno raccolse l' allarme». I MARCHI DELLE MULTINAZIONALI - La macchina degli aiuti ha bisogno di nuovi fond i. Quelli pubblici non bastano più. Dal 1992 a oggi, il contributo dei Paesi industrializzati allo sviluppo è sceso dallo 0,34% sul Pil (prodotto interno lordo) allo 0,22%: una perdita netta di oltre 18 mila miliardi di lire. «All' interno della coop erazione internazionale il bilancio tra investimenti pubblici e privati è tutto da ridefinire. Saranno i privati ad avere sempre più peso nei progetti di sviluppo» osserva Mark Malloch Brown, numero uno dell' Undp. I mostri prodotti dalla globalizzaz ione, le mega aziende capaci di imporre il loro marchio in ogni parte del mondo, sono costretti a rispondere agli appelli umanitari. La De Beers, il colosso dei diamanti della Anglo American, destina fondi alla cura della tbc in Angola. Bill Gates ha stanziato l' anno scorso l' equivalente di 44 mila miliardi di lire per i Paesi in via di sviluppo. Lo stesso segretario dell' Onu Kofi Annan ha lanciato un programma, il Global Compact, con il quale si propone di coinvolgere 1.000 corporation nella lotta alla povertà. Un' operazione cosmetica? «E' necessario stabilire regole alla globalizzazione - dice Mark Malloch Brown -. Aziende come l' Anglo A merican o la Crysler in Sudafrica distribuiscono farmaci anti-Hiv ai dipendenti. Potrebbe farlo a nche la Coca-Cola». Si profila il rischio di un colonialismo peggiore di quello descritto da Naomi Klein in No Logo: «Non vogliamo interventi paternalistici - dice Malloch Brown -. Sono i governanti locali a doversi fare carico dello sviluppo investe ndo nei settori prioritari come la sanità e l' istruzione». I MIRACOLI AFRICANI - Eppure i soggetti assenti sembrano proprio loro, i Paesi poveri. Quanti sono in grado di inventare operazioni che portino denaro e aiuti, senza la propaganda creata dal l' Occidente? Internet non funziona per tutti. In Africa solo lo 0,2% della popolazione è connessa alla rete. I «miracoli» esistono, ma sono quelli pilotati dalle riforme strutturali imposte dal Fondo monetario. Le istituzioni finanziarie promuovono, per esempio, Botswana, Uganda, Mozambico per i loro tassi di crescita. E i rispettivi presidenti, Festus Mogae, Yoweri Museveni, Joachim Chissano per la solerzia con la quale hanno obbedito alle condizioni imposte. La Chiesa accusa: «Hanno svenduto i loro Pae si con le privatizzazioni», dice padre Albanese della Misna. Gli organismi internazionali rispondono: «Mogae in Botswana, Museveni in Uganda - osserva Jean Fabre dell' Undp - si sono fatti personalmente carico di un impegno come la lotta a nti-Aids». Anche Chissano ha aumentato la spesa per sanità e istruzione di 54 milioni di dollari dal ' 96 al ' 99. In Mozambico 3 persone su 4 vivono con mille lire al giorno, ma il presidente che 9 anni fa è riuscito a riportare la pace nel Paese ri mane un governante esemplare per l' Occidente. Eroi del nostro tempo? Forse solo leader che, come Ojukwu in Biafra, stanno imparando le regole del gioco globale. Maria Grazia Cutuli
martedi , 10 luglio 2001
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«Non è la disfatta, purché si salvino le altre inchieste»
«E' assurdo che le autorità non diano una risposta ai parenti degli uccisi
AMNESTY INTERNATIONAL «Non è la disfatta, purché si salvino le altre inchieste» «Non è un fallimento. Non è nemmeno un passo indietro, ma bisogna capire le ragioni dei giudici, leggere la sentenza riga per riga». Al quartier generale di Amnesty Inter national di Londra, Virginia Shoppee, la colombiana incaricata dell' inchiesta sul caso Pinochet, è da ore al telefono con il Cile. Cerca notizie e retroscena che spieghino la decisione della Corte d' Appello di Santiago di sospendere il processo all ' ex dittatore cileno. Non si sente sconfitta, la signora Shoppee. Ma nervosa, forse sì. Perché sostiene che la sospensione del processo non sia un fallimento per chi chiedeva giustizia? «Il caso Pinochet è il risultato di quello che è successo qui i n Gran Bretagna nel 1998, del lavoro svolto dalle famiglie delle vittime, dell' impegno di chi ha saputo resuscitare il passato cileno per evitare che i crimini della dittatura fossero dimenticati. Tutto questo resta». Ma le famiglie chiedono verità. «Questo è il punto. E' deplorevole che dopo tanto tempo le autorità giudiziarie cilene non abbiamo dato una risposta ai parenti delle vittime della Carovana della Morte. La comunità internazionale deve fare pressione: bisogna assicurarsi che in Cile le inchieste sui crimini della dittatura vadano avanti, che la sospensione del processo a Pinochet non abbia influenza sui processi agli altri militari della giunta». La sospensione del processo è avvenuto per motivi di salute. Non crede che sia una scusa per nascondere pressioni politiche? «Dobbiamo leggere le 60 pagine del verdetto per verificare che si tratti davvero di ragioni di salute. E' un argomento credibile. E quel che importa, è un argomento che non mette in discussione il principio giuridico dell' incriminazione. In quanto alle pressioni politiche, noi di Amnesty siamo andati in Cile a parlare con il presidente Lagos e con i suoi ministri. Ci hanno garantito la loro volontà di portare avanti i processi. Speriamo sia così». Non sarebbe stato meglio un tribunale internazionale per giudicare un ex dittatore come Pinochet? «Il diritto internazionale ha fatto molti progressi in questi ultimi anni e si è affermato il principio che certi crimini possono essere giudicati da tribun ali nazionali. Il Cile ha assicurato di poter processare Pinochet. Perché non crederci? E' un Paese in pace, ha un sistema giudiziario indipendente, dispone di tutta la documentazione relativa al caso». Crede che sia maturo a fare i conti con il pass ato? «Certamente. Il Paese ha cominciato a cambiare con l' arresto di Pinochet. Quando il generale è ritornato in patria, gli ha tolto l' impunità, mettendo in atto una serie di procedimenti per costringerlo a collaborare con la giustizia». Eduardo C ontreras, avvocato di parte civile, sostiene che Pinochet passerà comunque alla storia per essere stato incriminato per delitti contro l' umanità. Basta a consolare chi non riuscirà a vederlo alla sbarra? «Il verdetto della storia resta sospeso. Per questo dico che le inchieste devono andare avanti. Le famiglie delle vittime hanno diritto a sapere chi ha massacrato i loro parenti». Maria Grazia Cutuli
lunedi , 09 luglio 2001
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In Albania urne mezze vuote al ballottaggio, ma i socialisti esultano
Il partito del premier Meta in vantaggio in 37 circoscrizioni su 45. Il leader dell' opposizione Sali Berisha denuncia brogli. E minaccia: «Non riconoscerò il risultato» In Albania urne mezze vuote al ballottaggio, ma i socialisti esultano I socialis ti albanesi annunciano la vittoria, una maggioranza al secondo turno delle elezioni politiche che li riconferma al governo. Netto vantaggio, secondo il segretario generale del partito Gramos Ruci, in 37 circoscrizioni su 45. Il successo è garantito. Ma c' è un guastafeste a turbare il buon umore del giovane premier, Ilir Meta, 32 anni. E' il «solito» Berisha, l' ex presidente che dal centro destra guida le riottose file degli sconfitti. Scaglia accuse che non risparmiano nessuno: il governo, le autorità, le forze di polizia. Tutti responsabili di brogli e di pressioni che avrebbero «bloccato il processo elettorale in decine di distretti sparsi per tutto il Paese». L' aveva già fatto il 24 giugno, quando i socialisti hanno guadagnato 33 segg i su 100, contro i 17 attribuiti al suo schieramento «Unione per la vittoria». Lo fa anche oggi Sali Berisha, minacciando di non rispettare i risultati elettorali. Parole pesanti in un Paese come l' Albania. Il ballottaggio è gonfio di tensioni: timo ri di rivolte, agenti in preallarme, litigi all' interno delle commissioni elettorali locali che fanno saltare il voto in quattro circoscrizioni. E una bomba, piazzata sabato sotto l' acquedotto di Kukes, nelle remote regioni settentrionali. Nessuna vittima, a parte 30 mila persone rimaste senza acqua. Ma come non associare l' esplosione - la terza negli ultimi mesi lungo lo stesso tratto di acquedotto - al controllo della frontiera con il Kosovo e alla disputa elettorale? Un milione e 200 mila persone, su 3 milioni e mezzo di abitanti, sono chiamate alle urne. Se ne presenta meno della metà. «Il dato finale - ha anticipato il portavoce della commissione elettorale centrale Aldrin Dalibi - potrebbero attestarsi tra il 45 e il 46%». Si vota nelle 45 circoscrizioni, rimaste contese al primo turno. I socialisti potrebbero costituire il governo con 71 deputati. Ma, come ha dichiarato quindici giorni fa il premier Ilir Meta, l' obiettivo è recuperare gli alleati che si sono presentati in li ste autonome per raggiungere il tetto degli 84. E' la base che permetterebbe al primo ministro di nominare tra un anno il capo dello Stato ed evitare così elezioni anticipate. L' Albania cerca stabilità. Tempi nuovi che chiudano un decennio di disses ti cominciati nel 1991, quando l' ex presidente Ramiz Alia liquidò l' eredità isolazionista-comunista di Enver Hoxha. Sali Berisha ha probabilmente troppo passato alle spalle per essere in grado di rassicurare i partner occidentali (primo l' Italia, i cui investimenti coprono il 50% del totale di quelli stranieri). Nel 1992 vince le elezioni. Ha fatto il bis nel 1996, ma con il boicottaggio dell' opposizione e la contestazione degli osservatori. Non è un' epoca di gloria. Un anno dopo, con il cr ollo delle piramidi, la piazza entra in rivolta, mentre le gang assalgono gli arsenali. Ci vuole Alba, una missione internazionale a tamponare il disastro. Il 27 giugno 1997, gli amici occidentali applaudono la vittoria dei socialisti e del loro lead er Fatos Nano. L' idillio sopravvive alla crisi dei gommoni, alle accuse di corruzione lanciate dalle organizzazioni finanziarie, alla guerra del Kosovo, alla marea di rifugiati che rischia di far saltare il Paese in aria. L' ultimo premier, Ilir Met a, riempie il palazzo di giovani collaboratori laureati negli Stati Uniti. «Vogliamo un' Albania europea», ha detto qualche giorno fa. La comunità internazionale chiede un passaggio intermedio: un' Albania realmente democratica. Maria Grazia Cutuli
domenica , 08 luglio 2001
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Bush vuol seppellire il trattato internazionale che vieta i test nucleari
La nuova politica militare Bush vuol seppellire il trattato internazionale che vieta i test nucleari Un altro argomento tabù da presentare al G8 di Genova. Un' altra presa di posizione da parte della Casa Bianca destinata a mettere in crisi l' equili brio tra Stati Uniti ed Europa. Dopo aver detto no al protocollo di Kyoto contro il riscaldamento globale, dopo aver proposto la cancellazione dell' Abm (il Trattato sui missili antibalistici) che ostacola il suo progetto di scudo spaziale, George Bu sh vuole affossare un altro importante accordo internazionale: il Ctbt, il Trattato per l' interdizione totale dei test nucleari. Secondo il New York Times, il presidente americano sta studiando come «celebrarne il funerale» evitando la ratifica del patto e, soprattutto, come sottrarre gli Stati Uniti all' impegno preso dal suo predecessore Bill Clinton. Il Ctbt (Comprehensive Test Ban Treaty), approvato il 10 settembre 1996 dall' Assemblea generale dell' Onu, è stato firmato da 161 Paesi e rati ficato da 77. Tra questi ultimi solo 13 delle 44 Nazioni la cui approvazione è fondamentale per farlo entrare in vigore. Mancano all' appello Usa, Cina, India, Pakistan, Nordcorea, Israele. Bill Clinton, che è stato il primo a firmarlo, nel 1999 se l ' è visto bocciare dai repubblicani al senato. «Uno schiaffo alla leadership politica degli Stati Uniti», aveva commentato il New York Times. Ma erano tempi diversi. Lo stesso giornale sottolinea oggi la crescente riluttanza della nuova amministrazio ne agli obblighi internazionali e alle loro gabbie giuridiche. Bush vuole sotterrare il Trattato prima che venga presentato in Senato, dove potrebbe trovarsi di fronte all' ostilità dei democratici. Il Dipartimento di Stato gli ha fatto notare inoltr e, che una volta avviate le procedure di ratifica, diventerebbe impossibile ritirarlo. L' intenzione di Bush sarebbe quella di affrontare il futuro del Ctbt al G8, anche se al monento non c' è traccia dell' argomento sulle bozze dei comunicati discus se. La posizione di Bush rimane ambigua: il presidente vuole cancellare il Trattato, fanno notare gli analisti, ma senza alcun interesse a riprendere i test nucleari. Diverso, invece, il no all' Abm. Anche se il segretario di Stato Colin Powell ha as sicurato che per almeno due anni gli esperimenti che porteranno alla realizzazione dello scudo spaziale non ne violeranno i principi, gli americani non vogliono sentirsi legati per il futuro. I test, dai quali dipende la fattibilità del nuovo sistema di difesa, sono già pronti: la prossima settimana una versione modificata del missile balistico intercontinentale «Minuteman II» partirà dalla California. Lo seguirà, a venti minuti di distanza, un missile intercettore lanciato dall' atollo di Kwaja lein, nel Pacifico. Se la simulazione riuscirà, l' intercettore bloccherà il primo missile, disintegrandolo nell' atmosfera, a 225 chilometri sopra l' Oceano. Maria Grazia Cutuli IL TRATTATO LE FIRME Il Ctbt, il Trattato per l' interdizione totale de i test nucleari, è stato adottato nel 1996 dall' Assemblea generale dell' Onu. I primi a firmarlo furono gli Usa con Bill Clinton, seguiti da altri 160 Paesi. LE RATIFICHE Finora è stato ratificato da 77 Nazioni. Tra gli assenti Usa, Cina, India, Pak istan, Nord Corea, Israele. GLI OBIETTIVI Prescrive la messa al mando dei test nucleari nel mondo, la creazione di una rete di monitoraggio, ispezionI sui siti sospetti.
venerdi , 06 luglio 2001
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Tregua tra governo macedone e ribelli, con l' appoggio della Nato
L' Alleanza pronta a inviare 3 mila uomini. I guerriglieri albanesi: consegneremo le armi solo dopo un accordo politico Tregua tra governo macedone e ribelli, con l' appoggio della Nato Non si sono incontrati, né tanto meno parlati. Ma l' accordo che li impegna entrambi, macedoni e albanesi, ad una nuova tregua sembra più credibile che in passato. Dietro il cessate il fuoco raggiunto tra il governo di Skopje e i ribelli dell' Uck stavolta c' è la mediazione ufficiale della Nato, assieme al lavor o della diplomazia europea e di quella americana. Le due parti hanno firmato separatamente: mercoledì sera gli albanesi, rappresentati da Ali Ahmeti, leader politico dei guerriglieri, nella città kosovara di Prizren; ieri i macedoni con Pande Petrevs ki, capo di Stato maggiore, a Skopje. La tregua, iniziata a mezzanotte, è solo un primo passo - «un atto di fiducia» l' ha chiamato un diplomatico occidentale - verso il dispiegamento di un contingente Nato in Macedonia: 3 mila soldati dall' Italia, Francia, Grecia sotto comando britannico, chiamati a disarmare i ribelli. Il governo macedone azzarda una data: il 15 del mese. Le operazioni di dispiegamento delle truppe dureranno dalle quattro alle sei settimane, ha detto il ministro della Difesa Vlado Bukovski, mentre il disarmo potrebbe essere ritardato di una quindicina di giorni. L' Uck la pensa diversamente: i guerriglieri non consegneranno le armi, ha riferito un loro portavoce, né abbandoneranno le posizioni conquistate fino a quando n on sarà stilato un accordo politico che conceda maggiori diritti. Nella piccola repubblica balcanica, 2 milioni di abitanti (il 30% è albanese), in sei mesi di conflitto altre tregue sono state firmate e regolarmente violate. L' ultimo accordo, una d ecina di giorni fa, prevedeva il ritiro dei ribelli dalla cittadina di Aracinovo sotto scorta Nato. Non è servito a far tacere le armi ed ha finito per scatenare la piazza: migliaia di dimostranti macedoni hanno assalito il Parlamento accusando il pr esidente Boris Trajkovski di aver «svenduto» il Paese, permettendo all' Uck di tenere le armi. E anche ieri si è continuato a combattere a Tetovo, 35 chilometri ad ovest di Skopje, dove sono esplose granate nel centro della città ferendo sette person e, e a Kumanovo, dove è rimasto ucciso un ragazzino albanese di 13 anni. Sulla necessità di un accordo politico tornano a insistere il segretario generale della Nato George Robertson e il capo della politica estera dell' Unione Europea, Javier Solana : «Come abbiamo sempre ripetuto, non ci può essere una soluzione militare al conflitto - hanno dichiarato in un comunicato congiunto - ma solo una soluzione politica che porti pace e stabilità nel Paese e in tutta la regione». I moderati a parole dic ono sì. «Gli albanesi accettano l' integrità dello Stato. Non cercano soluzioni territoriali e sono disposti a riconoscere il nome di Macedonia - ha dichiarato il leader Arben Xhaferi, durante un colloquio con il mediatore della Ue, l' ex ministro fr ancese Lionel Jospin e la sua controparte americana James Pardew, - ma vogliono una maggiore integrazione e il riconoscimento dei propri diritti». Il presidente Trajkovski acconsente, promettendo una nuova costituzione. M.G.C. IL CONFLITTO I RIBELLI La sigla è la stessa usata in Kosovo, Uck, ovvero Esercito di liberazione nazionale. I guerriglieri albanesi in Macedonia (poche centinaia, secondo fonti occidentali) ufficialmente rivendicano maggiori diritti. L' OFFENSIVA I combattimenti sono comin ciati a febbraio, attorno a Tetovo. A giugno i ribelli sono arrivati fino ad Aracinovo, a una quindicina di chilometri da Skopje, la capitale.
giovedi , 05 luglio 2001
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«Un attore perfetto e imprevedibile, aspettatevi sorprese»
«Una pièce teatrale, con un unico attore: Slobodan Milosevic». Louise Arbour dice di non averlo mai incontrato, ma i tre anni passati come procuratore generale all' Aja le sono bastati a farsi un' idea della personalità di «Slobo». «Quello che è succ esso all' udienza preliminare non mi stupisce affatto. L' uomo è imprevedibile, e non escludo che prepari altri colpi di scena». E' stato il suo «pesce grosso», Milosevic. La sua ossessione e il suo vanto. La signora dall' aspetto professorale, giacc he larghe su un fisico minuto, è riuscita a inchiodarlo con l' atto di incriminazione sul Kosovo all' ultimo minuto, maggio 1999, pochi giorni prima di lasciare il Tribunale dell' Onu e il posto a Carla Del Ponte. «Emotivamente mi sento ancora all' A ja, vicina ai miei ex colleghi. Ho addirittura nostalgia, anche se il mio nuovo lavoro mi piace». Louise Arbour, 53 anni, canadese del Quebec, un marito magistrato e tre figli, lavora adesso come giudice presso la Corte suprema del Canada. Parla al t elefono dall' Australia, dove si trova per una conferenza all' Università di Melbourne. Quando si insediò all' Aja, un filo di perle al collo, le unghie tinte di viola, un' esperienza di giudice presso la Corte d' appello dell' Ontario, era il 1996. La «preistoria» del Tribunale. Gli anni delle polemiche sul rodaggio troppo lento della nuova Norimberga, dei difficili rapporti con i soldati della Nato chiamati a pacifare la Bosnia, dell' ostilità manifesta di gran parte delle autorità balcaniche. Louise Arbour ereditava dal precedente procuratore generale, il sudafricano Goldstone, sette detenuti appena chiusi nella prigione di Scheveningen. Piccoli calibri, si polemizzava allora. Ma c' era già un dossier «forte» sulla sua scrivania. Intesta zione: Slobodan Milosevic. «Il Tribunale - ricorda il magistrato - aveva cominciato a esaminare le responsabilità del leader serbo in Bosnia e in Croazia, anche se poi l' atto di incriminazione si è concentrato sulla campagna del terrore orchestrata in Kosovo tra la fine del 1998 e l' inizio del 1999». L' inchiesta sulla Bosnia scivolava in secondo piano? «No, non è mai stata abbandonata, ma rintracciare le responsabilità dirette di Milosevic in Bosnia rimane complicato». Il motivo è semplice: « Negli anni della guerra, Milosevic era presidente della Serbia e non ancora della Federazione jugoslava. Non stava in testa alla catena di comando, com' è successo in Kosovo. Può darsi che il nuovo procuratore Carla Del Ponte riuscirà a modificare le accuse. Ma il crimine di genocidio presuppone un' intenzione di sterminio particolare. Non siamo riusciti a provarlo. Il procuratore non può forzare le carte, deve giocare un ruolo onesto». Anche sul Kosovo le difficoltà non sono mancate. Per mesi L ouise Arbour a veva attaccato il Pentagono: «Non ci aiuta, non fornisce informazione», protestava la signora. Tanto che la sua uscita di scena con un anno di anticipo sul mandato fu letta come una scelta polemica. Allo stesso tempo fu proprio un amer icano, ex agente dell' intelligence, William Walker, capo dei verificatori Osce, a fornirle le prime prove sul massacro di Recak (una quarantina di albanesi trucidati in un villaggio) che tuttora rappresenta uno dei pilastri dell' incriminazione di M ilosevic. Prove controverse? «Su Racak si è speculato molto. Si è arrivati a dire che la strage era stata commessa dall' Uck, che erano stati i guerriglieri albanesi a trasportare i cadaveri. Ma so che quando ho cercato di raggiungere il villaggio so no rimasta bloccata a Skopje: le autorità di Belgrado mi hanno negato l' accesso in Kosovo. Walker era sul posto e, senza dubbio, anche le prove raccolte in seguito dimostrano che l' eccidio fu compiuto dai serbi». Il tempo delle polemiche si è concl uso per Louise Arbour? Non del tutto. L' ex procuratore ha qualcosa da mandare a dire, tanto per cominciare, a Slobodan Milosevic, l' uomo che accusa il Tribunale di essere una struttura «politicizzata» e «illegittima». «Il Tribunale è stato creato d al Consiglio di sicurezza dell' Onu (cioè da un gruppo ristretto di potenze, ndr), ma con l' appoggio dell' Assemblea generale. Tutti i Paesi della comunità internazionale lo sostengono finanziariamente. Non si può metterne in dubbio l' integrità». T anto meno la necessità di tenerlo in piedi. «Nella ex Jugoslavia ci sono ancora regioni da stabilizzare. Finché la Nato rimarrà là, mi sembra prematuro restringere il mandato del Tribunale, che rappresenta comunque un mezzo di dissuasione». Un lavoro ancora a metà. «Capire quanto tempo ci vorrà a far giustizia è affare della Del Ponte, ma è chiaro che bisogna completare le inchieste e arrestare tutti i criminali». Come Radovan Karadzic? Nel 1997 Louise Arbour accusava la Francia di proteggere i latitanti in Bosnia. «E ancor oggi - ammette - non capisco come mai Karadzic non sia stato arrestato. Non credo alle difficoltà logistiche nè alle altre scuse». Il tabù delle manette al ricercato è caduto nel 1997, «quando le forze Nato hanno cattura to Milan Kovacevic e Simo Drljaca a Prijedor, in Bosnia». Fu la prima svolta per il Tribunale. La prima medaglia. L' altra, quella decisiva, era in tv nei giorni scorsi: l' arresto del «suo» uomo, Slobodan Milosevic. «Ma è solo l' inizio. La sua stra tegia difensiva sarà tutta da scoprire». Maria Grazia Cutuli Carta d' identità CANADESE FRANCOFONA Nata 53 anni fa in Quebec, la prima volta che si trovò davanti a testi in inglese all' università di Montreal riuscì a capirne a malapena i titoli. Imp arò velocemente. Ha sposato un magistrato anglofono da cui ha avuto tre figli. LA CARRIERA Prima docente, poi vicepreside alla facoltà di Giurisprudenza di Toronto, Louise Arbour diventa giudice presso la Corte d' Appello dell' Ontario nel 1990. Nel 1996 viene nominata procuratore generale al Tribunale dell' Aja. I DOSSIER DELL' AJA Quando arriva in Olanda, solo sette criminali di guerra della ex Jugoslavia si trovano in prigione. A maggio 1999, prima di lasciare l' incarico con un anno di antic ipo, emette l' atto di incriminazione contro Slobodan Milosevic. Lascia il posto al magistrato ticinese Carla Del Ponte. Oggi Louise Arbour lavora come giudice presso la Corte suprema del Canada, a Ottawa.
venerdi , 29 giugno 2001
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«Ma per essere processato dovrà aspettare il suo turno»
INTERVISTA/ Antonio Cassese, ex presidente della Corte Onu, prevede tempi lunghi «Ma per essere processato dovrà aspettare il suo turno» «Milosevic dovrà aspettare il suo turno. All' Aja ci sono 40 detenuti in attesa di processo, e non vedo perché do vrebbe di scavalcare gli altri». Antonio Cassese, ex presidente del Tribunale dell' Aja, calcola i tempi che serviranno a portare l' ex leader jugoslavo alla sbarra. «Non saranno brevissimi - dice -. Ma è certo che davanti a un personaggio come lui, si dovranno accelerare gli altri processi». Milosevic sarà processato per i fatti del Kosovo. E l' ipotesi di genocidio in Bosnia? «Il procuratore Del Ponte sta lavorando a questo dossier. Ma l' incriminazione per genocidio è complicata. Non è facile provare che Milosevic avrebbe ordinato, pianificato, diretto lo sterminio di un' etnia o che sia responsabile di omissione di controllo». Non è possibile che con la pace di Dayton, si sia deciso di «cancellare» le colpe di Milosevic in Bosnia? «La s ua estradizione dimostra che la giustizia ha comunque trionfato. Fonti Usa sostengono che l' accordo sia stato fatto su Karadzic, per evitare che tiri fuori documenti compromettenti per certe potenze straniere. Gli interessati, i francesi, hanno smen tito, ma Karadzic è ancora latitante». Il Tribunale è accusato di essersi prestato a una partita politica su Milosevic. «Conosco i giudici uno per uno e posso escludere che qualcuno nutra odio contro i serbi. Il Tribunale non è una struttura politici zzata». Milosevic è stato «venduto», contro il volere del presidente Kostunica, in cambio degli aiuti alla Serbia? «Ho incontrato Kostunica a Roma. Abbiamo litigato a lungo sulla sua idea di processare Milosevic a Belgrado. Ma poi è stato lui stesso a dirmi: sono solo un "figurehead", un prestanome». Hanno vinto gli Usa, insomma? «Gli Usa hanno fatto quello che non può fare l' Onu: hanno agito da braccio armato, costringendo Belgrado a cedere. I loro interessi coincidevano con quelli della comun ità internazionale. Ci si deve indignare invece perché operano in maniera selettiva, ignorando i crimini commessi in altri Paesi». Saranno estradati altri imputati eccellenti? «Il prossimo potrebbe essere Ratko Mladic, finora protetto a Belgrado». Ma ria Grazia Cutuli
mercoledi, 27 giugno 2001
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L' Uck: «Fermate gli attacchi o colpiremo nella capitale»
I ribelli hanno lasciato il villaggio di Aracinovo, ma i combattimenti continuano
L' ULTIMATUM L' Uck: «Fermate gli attacchi o colpiremo nella capitale» I ribelli albanesi rilanciano l' ultimatum: se entro la mezzanotte di oggi l' esercito macedone «non cesserà i suoi attacchi», l' Uck colpirà Skopje, la capitale. E' la stessa min accia di 15 giorni fa. Le stesse parole che avevano spinto il governo a trattare una tregua. Ma la scadenza è ormai arrivata: il cessate il fuoco finisce stanotte e niente di quello che è successo nelle ultime 48 ore invita a deporre le armi. L' acco rdo innanzitutto: i guerriglieri se ne sono andati, come stabilito, dal sobborgo di Aracinovo, 10 chilometri da Skopje, scortati da militari americani del contingente Nato. Si sono ritirati più a nord, portandosi dietro kalashnikov e artiglierie. Con cessione che ha fatto esplodere la rabbia dei nazionalisti macedoni davanti al Parlamento. Ma nulla, tra le colline della piccola Repubblica balcanica, fa pensare a una soluzione pacifica del conflitto. Anche se a Skopje è tornata la calma, fuori dal la città esercito e ribelli hanno ripreso a sparare. L' offensiva governativa è cominciata nella notte sulle alture attorno a Tetovo, nella Macedonia nord-occidentale, ed è continuata fino al mattino con un civile albanese ammazzato e altri tre rimas ti feriti. Mentre gli abitanti raccontavano di una massiccia concentrazione di fuoco, il portavoce dell' esercito Blagoja Markovski accusava i guerriglieri di aver attaccato le forze di sicurezza sulle montagne attorno a Tetovo e vicino alla periferi a della città. La tensione cresce e così la paura. Cresce tra i commercianti albanesi di Skopje che già domenica denunciavano di aver ricevuto minacce da un gruppo nazionalista, denominato «Macedonia paramilitare 2000». E cresce tra i macedoni. Il «c omandante Hoxha», nome di battaglia del capo dell' Uck, nel ricordare che stanotte potrebbe partire l' attacco a Skopje, ha precisato: «Io sono già dentro la capitale. E con me due battaglioni in borghese pronti a colpire». M.G.C.
martedi , 26 giugno 2001
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Albania, i socialisti in vantaggio
Il premier Meta: «Con noi in Europa». L' ex presidente Berisha denuncia brogli Il partito al potere si è già assicurato 35 seggi ma per altri 46 ci sarà il ballottaggio
Albania, i socialisti in vantaggio Il premier Meta: «Con noi in Europa». L' ex presidente Berisha denuncia brogli La vittoria è sicura. Il giovane premier dal fisico di lottatore e dal collo possente può annunciarla in tivù. Ce l' ha fatta anche stav olta, Ilir Meta, 32 anni, candidato del Partito socialista, a tenere le redini di un Paese, l' Albania, dove per anni hanno comandato i kalashnikov, gli scontri tra i clan, i rischi di destabilizzazione. Via la paura di nuovi scontri come nel 1997, s congiurato il pericolo di violenze e pestaggi, il primo ministro uscente può rivendicare il secondo mandato con lo slogan che più gli fa gioco: «Sono le migliori elezioni che l' Albania abbia mai avuto». Sono le quinte, da quando è caduto il comunism o nel 1990, con in mezzo un decennio di crisi politica ed economica che ha fatto dell' Albania il Paese più povero d' Europa, di guerra civile sfiorata, di conflitti balcanici che hanno portato profughi e guerriglieri fino alle strade di Tirana, la c apitale. Le quinte elezioni, e solo al primo turno. Troppo presto per cantare vittoria? Tra due settimane, l' 8 luglio, il Paese andrà al ballottaggio in almeno 46 distretti. Lo schieramento socialista dovrà vedersela ancora con l' Unione per la Vitt oria di Sali Berisha, l' ex presidente a capo di una coalizione di centrodestra. Anche le cifre del vantato trionfo, in realtà, sono più basse di quelle annunciate in un primo momento: i socialisti si sono aggiudicati con il maggioritario 35 collegi (anziché 45) su 100; gli avversari 19, mentre 40 seggi si giocano con il proporzionale. Ma Ilir Meta ha pochi dubbi: ritiene di poter superare la soglia della maggioranza al secondo turno, guadagnando voti dagli attuali alleati di governo che si sono presentati con liste separate. «Ne sono sicuro», ha ripetuto ieri, portandosi avanti con i programmi. «Un' Albania nuova, un' Albania europea». E soprattutto, musica per la comunità occidentale, «un' Albania senza corruzione». L' incognita Berisha s vanisce dalla scena? L' ex presidente, gli piaccia o no, si porta ancora addosso il marchio del 1997, il crollo delle piramidi finanziarie che dissestò il Paese con echi d' anarchia, scontri di piazza, centinaia di morti, bande criminali all' assalto degli arsenali. Come un vecchio attore a corto di repertorio, Berisha ripete la sua parte: nega la sconfitta e accusa. «La polizia ha chiuso illegalmente i seggi prima del previsto - è la denuncia di ieri -. Andate a vedere a quanta gente è stato im pedito di votare». Anche ad ottobre scorso, quando aveva inutilmente provato a riguadagnare terreno con le amministrative, aveva fatto lo stesso: parlato di brogli addirittura prima di andare alle urne. Ululati solitari: dalla parte dei socialisti e dal loro deus ex machina, che ovviamente non è Ilir Meta, ma il leader del partito Fatos Nano, c' è l' Occidente, con 355 osservatori sul posto, inviati dal Parlamento Europeo, dall' Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, dal Co nsiglio d' Europa, che hanno elogiato al contrario la condotta «professionale e trasparente della Commissione elettorale». Le violenze si sono limitate all' irruzione di un commando in un villaggio a 200 chilometri da Tirana, con le schede finite in un rogo, e a una pallottola nella gamba di un candidato di Berisha. Certo, Ilir Meta in questo ultimo anno ha fatto la sua parte: da giovane delfino di Fatos Nano a garante della stabilizzazione, con lodi di Washington e della Ue per la moderazione m ostrata di fronte ai conflitti balcanici che toccano l' Albania più da vicino: Kosovo e Macedonia. Sul fronte interno il duello rimane però aperto: i socialisti rappresentano il sud del Paese, il porto di Valona, gli uomini di Berisha le regioni del nord, proprio i confini bollenti con Kosovo e Albania. Maria Grazia Cutuli I risultati di uno spoglio ancora contestato LA VERSIONE SOCIALISTA I socialisti sostengono che i collegi uninominali in cui si sono assicurati la vittoria al primo turno sono 35, mentre sarebbero 46 i collegi in cui tra due settimane ci sarà il ballottaggio, essendo 19 quelli vinti dai democratici. I socialisti ritengono al secondo turno di poter strappare una larga maggioranza. Altri 40 seggi verranno assegnati col calc olo proporzionale LA VERSIONE DEMOCRATICA La coalizione di centrodestra guidata dall' ex presidente Sali Berisha nega però la sconfitta, pur sostenendo di aver vinto al primo turno solo in 27 collegi. Berisha sostiene inoltre di aver raggiunto quasi il 50 per cento nel voto proporzionale
martedi , 26 giugno 2001
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Skopje, la folla assalta il Parlamento
I nazionalisti macedoni: «No all' accordo con i ribelli albanesi». Scontri a Tetovo: ucciso un militare
Skopje, la folla assalta il Parlamento I nazionalisti macedoni: «No all' accordo con i ribelli albanesi». Scontri a Tetovo: ucciso un militare I nazionalisti macedoni si ribellano all' accordo tra il governo di Skopje e la guerriglia albanese. Una ma nifestazione di protesta, organizzata ieri nella capitale, si è trasformata nella notte in una assalto al Parlamento. Il palazzo, circondato da migliaia di dimostranti, tra i quali numerosi poliziotti e riservisti in uniforme e armi, è stato evacuato , mentre da una finestra del secondo piano gente inferocita ha cominciato a lanciare in strada documenti e materiale d' ufficio. Si sono sentiti spari e molte finestre sono finite in frantumi. I nazionalisti hanno strappato la bandiera macedone, inna lzando il vecchio vessillo nazionale con il sole a sedici raggi. Tra la folla, gli stessi corpi di sicurezza impegnati fino all' altro ieri nell' offensiva su Aracinovo, il sobborgo a 10 chilometri dalla capitale in mano ai ribelli. Al grido di «Mace donia, Macedonia», e «traditori, traditori», i dimostranti hanno invocato un' azione più dura del governo contro i ribelli dell' Uck, l' Esercito di liberazione nazionale. Hanno chiesto la presenza dell' ex presidente della Repubblica Kiro Gligorov, domandando invece le dimissioni dell' attuale capo dello stato, Boris Trajkovski. Da lui i nazionalisti esigono spiegazioni sul perché abbia accettato un accordo con «i terroristi albanesi». Ma il capo della Stato, che aveva iniziato colloqui con i l eader dei partiti albanesi e macedoni mentre i dimostranti scendevano in strada, sarebbe stato costretto a scappare da una porta secondaria. A innescare la rivolta è stato infatti proprio il ritiro accordato dal governo macedone ai guerriglieri da Ar acinovo: accompagnati con pullman della Kfor, la forza di pace a guida Nato, i ribelli avevano cominciato nel pomeriggio una retromarcia verso il comune settentrionale di Lipkovo, ottenendo come concessione di portarsi dietro le armi pesanti. Condizi oni perentorie quelle della guerriglia: il comandante locale dell' Uck, nome di battaglia Hoxha, ha riferito che le forze di sicurezza di Skopje non potranno comunque rientrare ad Aracinovo, per evitare rappresaglie contro i civili albanesi rimasti. Il patto era stato inoltre accompagnato dall' annuncio di incontri ufficiali tra i guerriglieri e rappresentanti della Nato e dell' Unione Europea. Smentendo quella parte della comunità internazionale che aveva escluso qualsiasi dialogo con estremist i armati, il leader politico dell' Uck, Ali Ahmeti, ha attribuito a una trattativa con i rappresentanti internazionali l' accordo «raggiunto il 24 giugno nella zona di Tetovo» sul ritiro della guerriglia da Aracinovo. E in effetti fondamentale è stat o il ruolo responsabile della politica estera dell' Unione Europea, Javier Solana, che durante la sua visita in Macedonia, ha premuto per i negoziati sul riconoscimento dei diritti della minoranza albanese. Ad esacerbare i nazionalisti anche le condi zioni dettate ieri dai ministri degli Esteri della Ue. Riuniti a Lussemburgo hanno ribadito che «non ci deve essere una soluzione militare alla crisi», e che non saranno concessi fondi alla Macedonia fin quando non sarà raggiunto un accordo. In vista di una soluzione pacifica i Quindici hanno nominato rappresentante della Ue in Macedonia l' ex ministro degli Esteri francese Francois Leotard. I nazionalisti gridano al tradimento. «Non riusciamo a capire perché i ribelli siano stati autorizzati a ritirarsi con le armi e a rimanere nel Paese», diceva ieri uno dei dimostranti. Anche sul terreno, i segnali si contraddicono: la tregua strappata ad Aracinovo è stata seguita ieri da combattimenti intorno a Tetovo, 80 chilometri più a ovest. Un agen te macedone è rimasto ucciso e altri quattro feriti. Nei pressi di Aracinovo è stato ferito accidentalmente il diplomatico americano John Green. Maria Grazia Cutuli I RIBELLI Riuniti sotto la sigla Uck, Esercito di liberazione nazionale, i ribelli al banesi hanno lancianto una prima offensiva in Macedonia a febbraio, respinta dal governo LE RICHIESTE Ufficialmente chiedono maggiori diritti per la minoranza albanese. In realtà nutrono progetti indipendentisti e mirano all' annessione con il Kosovo LA TREGUA A fine giugno, dopo la minaccia di assalto alla capitale Skopje, il governo ha stipulato una tregua con i ribelli in vista di una soluzione pacifica del conflitto, con il supporto delle truppe delle Nato.
mercoledi, 13 giugno 2001
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Muore nel mistero la figlia dello Scià
La principessa Leila trovata senza vita in una stanza d' albergo a Londra. Giallo sull' autopsia. La madre Farah Diba: «Il tempo non è servito a guarire le sue ferite» Aveva detto: «Mi sono sentita in colpa per non essere stata vicina a mio padre»
Costretta all' esilio all' età di nove anni, nel 1979, dalla rivoluzione islamica, viveva fra gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna. Sarà sepolta a Parigi, sua città d' adozione Muore nel mistero la figlia dello Scià La principessa Leila tro vata senza vita in una stanza d' albergo a Londra. Giallo sull' autopsia E' morta da sola, a Londra, nella suite di un albergo di lusso. E' spirata nel sonno, chiudendo a 31 anni i nomadismi disperati e griffati da principessa in esilio. Leila era l' ultimogenita dello Scià di Persia. Bruna e aristocratica come il padre, Reza Pahlevi. Elegante e mondana come la madre, l' ex imperatrice Farah Diba. Fragile e tormentata, come un' adolescente rimasta intrappolata nei suoi traumi. Soffriva di depres sione, negli ultimi anni. Di disordini alimentari, azzardano i tabloid britannici. Anoressia o bulimia, persa nei vortici dell' inquietudine. «Il tempo non è servito a guarire le sue ferite», rivela la madre, a sanare il morbo della nostalgia, quel m isto di sprezzo e vittimismo, che accompagna i sovrani senza trono. «Non ha mai superato la morte del padre, sua Maestà Mohammed Reza Scià Pahlevi, al quale era particolarmente legata». Un cocktail di sonniferi l' avrebbe stroncata, domenica notte. M a è solo un' ipotesi, la più ovvia, che i medici si rifiutano di confermare. Anche l' autopsia, eseguita all' obitorio di Westmister, rimane un giallo: decesso senza causa, si limita a riferire la polizia. Una notte d' angoscia. Il mistero resta nasc osto dietro ai tendaggio del Leonard Hotel, atmosfere vittoriane affacciate sul Marble Arch, l' albergo da 450 sterline a notte, un milione e mezzo di lire, che Leila frequentava durante i soggiorni londinesi. Mentre la morte diventa il simbolo di un a battaglia politica. «Non poteva vivere lontana dall' Iran, le sofferenze dei connazionali esiliati erano anche le sue», aggiunge addolorata ma battagliera Farah Diba, l' ex imperatrice spodestata che continua ad alimentare rivendicazioni e illusion i degli iraniani della diaspora contro l' attuale teocrazia degli ayatollah. Nel peso dell' esilio, la chiave del giallo. Leila aveva nove anni, la mattina del 13 gennaio 1979, quando venne accompagnata assieme al fratello e alle due sorelle sulla pi sta dell' aeroporto di Teheran. Credeva di partire per una vacanza, mentre la piazza abbatteva le statue del padre e nei bazaar i giovani rivoluzionari agitavano le bandiere nere dell' Islam sciita. Padre e madre la seguirono tre giorni dopo, convint i anche loro che le acque si sarebbero calmate, che gli alleati americani sarebbero tornati al loro fianco, che il fuoco della rivolta si sarebbe spento da sè. Si lasciava dietro, lo Scià, 38 anni di potere, migliaia di morti, il crollo di un regno c he non aveva saputo imboccare la strada del modernismo, che aveva fatto dei privilegi di casta e degli introiti del petrolio l' unica sua forza. «Lo scià fugge, Allah è grande», gridavano i mullah mentre spianavano la strada alla futura guida suprema , l' ayatollah Khomeini. I minareti e le moschee di Teheran svanivano nella nebbia. Leila aveva in mano un album di fotografie, ha raccontato l' anno scorso in un' intervista a Gente, l' ultima reliquia salvata dalla governante prima di lasciare il p alazzo reale. Il primo trauma fu la morte del cugino, assassinato a Parigi. Le peregrinazioni e la malattia del padre, un cancro al sistema linfatico, l' avrebbero portata un anno dopo in Egitto. «Quando lui morì al Cairo, io mi trovavo ad Alessandri a. Ero andata a visitarlo tutti i giorni, ma negli ultimi dieci non ero riuscita a vederlo - ha racontato ancora -. Quando mi hanno portata in ospedale, l' infermiera mi ha detto: è meglio che non entri. Per molto tempo mi sono sentita in colpa per n on essergli stata vicina nel suo letto di morte. Ma forse lui preferiva che lo ricordassi nei momenti migliori». Con la scomparsa dello Scià, la famiglia Pahlevi si trasferisce nel Massachuttes. Nel 1992 Leila si laurea in letteratura comparata preso la Ivy League Brown University, l' università storica del nord-est americano. Viaggia spesso, dagli Usa, dove ha casa, a Parigi, dove vive Farah Diba, fino a Londra, «città in auge», la chiama, dove ha molti amici. Ama l' Europa e rimpiange la Persi a. Non si sposa. La notte sogna il padre e l' Iran, al mattino scrive quello che ha sognato. Compone poesie. «A mia madre racconto tutto», ha detto ancora nell' intervista dell' anno scorso. Altrettanto al fratello, Ciro Reza Pahlevi. «E' il mio eroe . E' come mio padre». Qualcosa di più: è l' erede che vuole riconquistare il trono. A 41 anni tiene le fila della diaspora, guida movimenti d' opposizione attivi anche dentro l' Iran, ha un sito - www.rezapahlevi.com - dal quale lancia appelli contro il regime islamico. Anche il rieletto presidente, il riformista Khatami, è lontanissimo dal soddisfarlo, La sua vittoria alle urne con il 75% dei voti, è «una frode», ha dichiarato sull' ultimo numero di Time. Le sue promesse di democrazia, un ingan no per i giovani dell' Iran. Leila, con il suo dramma, si trasforma così nell' ultima vittima della rivoluzione. Farah Diba cita come causa scatenante della sua depressione il gennaio del 1979, «l' ingiustizia e la condizione drammatica della sua par tenza». Poi si fa madre della nazione perduta: «La morte della mia amata figlia mi fa sentire sempre più vicina a quelle iraniane che sono state costrette a vivere gli stessi lutti». L' ex imperatrice non ha bisogno dei risultati delle indagini, sa g ià abbastanza dei tormenti che hanno ucciso la ragazza. Celebrerà i suoi funerali a Parigi. E la seppellirà lì, nella sua capitale d' adozione. Maria Grazia Cutuli ALBUM DI FAMIGLIA UN LUNGO REGNO Mohammed Reza Pahlevi nasce il 26 ottobre 1919. Sale al trono nel 1941, dopo che russi e britannici depongono il padre, accusato di simpatie per la Germania nazista. Crea un impero sui proventi del petrolio. Muore il 27 luglio 1980 IN FUGA Lo Scià di Persia Reza Pahlevi con la moglie, l' imperatrice Fa rah Diba e la figlia minore, la principessa Leila, in una foto del 1979 alle Bahamas, all' inizio del loro esilio dovuto al trionfo della rivoluzione islamica in Iran guidata dall' ayatollah Khomeini. «Lo Scià è in fuga - gridava la piazza il giorno della sua partenza -. Allah è grande» GUIDA SPIRITUALE L' ayatollah Ruhollah Khomeini nasce nel 1900. Nel 1964 viene esiliato dallo Scià. Da Parigi organizza la rivoluzione islamica destinata nel 1979 a far crollare l' impero. Dopo aver trascinato il Paese in una guerra decennale con l' Iraq, muore nel 1989.
domenica , 03 giugno 2001
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Nepal, il principe assassino nominato re
Dipendra in coma dopo aver sterminato la famiglia ed essersi sparato: reggente è lo zio
Dipendra stermina la famiglia e si spara. E' in coma. Un massacro paragonabile all' esecuzione dei Romanov in Russia Nepal, il principe assassino nominato re Migliaia di persone alle esequie dei sovrani uccisi dal figlio. La reggenza allo zio Il suo corpo, attaccato a macchine e tubicini in un ospedale militare di Kathmandu, è stato giudicato «clinicamente morto». Ma il Consiglio di Stato ha deciso comunque di rispettare le regole della successione: Dipendra, 30 anni, principe ereditario al tron o del Nepal, assassino dei genitori, sterminatore della famiglia reale, è stato nominato re. Signore delle nuvole himalayane, ombra tra le ombre che ormai assediano il Narayanhiti Palace, il giovane principe in una notte di follia si è lasciato dietr o il cadavere del padre, il re Birendra, quello della madre, la regina Aishwarya, le spoglie della sorella Shruti, di due zie, del marito di una di loro e di tre feriti. L' ultimo colpo, quello destinato a se stesso, l' ha portato in coma. Un massacr o epocale, paragonabile all' esecuzione dei Romanov durante la Rivoluzione d' ottobre del 1918. Eppure, per quanto la monarchia nepalese fosse contrastata - all' esterno dai ribelli maoisti, all' interno dai malumori dell' esercito - non trapelano ra gioni politiche dietro la strage. Solo una fosca previsione astrale. Il peso degli indovini di corte su un' importante decisione di famiglia. Secondo le prime ricostruzioni, venerdì sera i membri della corona si erano riuniti all' interno del Naryanh iti Palace per discutere le prossime nozze del principe Dipendra. L' erede al trono voleva sposare Devyni Rana, la figlia ventiduenne di un ex ministro. Pare, anzi, l' avesse fatto già secondo il rito indù. Era la regina Aishwarya la prima ad opporsi : aveva in mente qualcun' altra. E in coro, il padre, la sorella, le zie a dir di no, a chidere di aspettare cinque anni almeno. Secondo gli astologi sulla famiglia si sarebbe abbattuta infatti una terribile disgrazia se l' erede si fosse sposato pri ma dei 35 anni. Così è stato. Dipendra fuori di sé, mezzo ubriaco, ha lasciato i parenti per tornare poco dopo con due armi semi-automatiche in mano. Ha sparato all' impazzata. Quando sono arrivate le guardie reali aveva addosso una divisa militare e un fucile puntato alla tempia. Si è accasciato per terra, mezzo morto in un lago di sangue. Affari di cuore, superstizioni, ragioni di Stato? Il giallo resta, assieme all' incertezza per il futuro del Paese. Il Consiglio supremo ha rispettato il pro tocollo, ma non ha perso d' occhio lo stato d' emergenza in cui si trova il Nepal. La «guerra popolare», portata avanti dai guerriglieri maoisti - 1700 morti in cinque anni - continua a far proseliti tra le montagne dell' Himalaya. L' esercito premev a da tempo sul defunto re per aver via libera contro di loro. Non c' è mai riuscito, ma i generali sono in fermento. E anche se a Kathmandu, durante i funerali, la folla si è mantenuta tranquilla, un re in coma, praticamente morto, non basta a garant ire la corona. La reggenza è nelle mani dello zio, il principe Gyanendra, 54 anni, uno dei pochi che non si trovavano nel palazzo reale quando è esplosa la follia omicida del nipote. Potrebbe essere lui a decidere se staccare la spina e diventare cos ì il prossimo vero sovrano nepalese. Non era forse il migliore dei regni possibili quello del re Birendra. Unica monarca induista del mondo, a base teocratica, negli ultimi dieci anni, pressata dall' opposizione, ha dovuto rinunciare a gran parte dei propri poteri per il multipartitismo. I pettegoli di corte accusavano il re di essere troppo sottomesso alla moglie, donna odiatissima, ma il popolo nutriva nei suoi confronti un certo affetto. Più spregiudicato il principe Dipendra: negli anni in c ui studiava a Eton, in Gran Bretagna, pare frequentasse l' ambasciata nepalese per far scorta di bottiglie di wisky a prezzo ridotto e venderle ai compagni di scuola. Uno degli zii andava regolarmente nei guai con la moglie per la quantità di fanciul le che si faceva procacciare dalla guardia reale. Peccati veniali? Di certo il Nepal ha celebrato sotto choc le esequie dei sovrani, ultimo simbolo di unità nazionale. Migliaia di persone hanno seguito in corteo le spoglie coperte di fiori del re Bir endra, della regina Aishwarya e degli altri membri della famiglia reale. I sacerdoti brahamini hanno trasportati i corpi su lettighe di bambù, mentre l' orchestra intonava l' inno nazionale e i cannoni sparavano 55 colpi a salve. La processione ha pe rcorso le strade di Kathmandu fino al Tempio d' oro, lungo le rive del fiume sacro Bagmati dove il rito si è concluso con la cremazione dei corpi e la proclamazione di cinque giorni di lutto. La religione prescrive le esequie entro 24 ore dalla morte . Un atto doveroso, ma anche provvidenziale per chiudere in fretta la tragica saga con tutti i suoi misteri Al popolo resta lo stupore: «Non potevo crederci - ripeteva uno studente attonito - sono dovuto arrivare fin qui per rendermi conto di persona che il re è veramente morto». Restano i telegrammi di condoglianze: le parole del Papa, il cordoglio di Bush, i ricordi di Carlo d' Inghilterra, amico personale dei reali. E tra le righe, un briciolo di preoccupazione per le sorti politiche del Nepa l, Paese cuscinetto tra India e Cina. Il resto è una carrellata di fantasmi, seppelliti tra gli incubi di un principe in coma. Maria Grazia Cutuli Il giovane killer dalle Olimpiadi alle nozze proibite con una 22enne IL PAESE ha 24 milioni di abitanti , è grande quanto metà dell' Italia. Dal ' 90 è una monarchia costituzionale LA DINASTIA Nelle valli del Nepal la monarchia esiste da 2500 anni. La dinastia Shah è al potere dal 1768. E' originaria della città di Gurkha IL RE BIRENDRA Educato a Harva rd, monarca assoluto dal 1972 al 1990 quando - dopo una repressione che costò la vita a 300 persone - aprì alla democrazia parlamentare. Era venerato come un dio L' ASSASSINO Dipendra, 30 anni. Negli ultimi tempi ha rappresentato il Nepal all' estero (funerali, matrimoni, Olimpiadi di Sydney). Paladino della campagna anti Aids. Era da poco rientrato da una visita all' imperatore Akihito del Giappone LA DONNA PROIBITA Ci sarebbe una donna all' origine della lite degenerata in massacro. Dipendra v oleva sposare Devyani Rana, 22 anni. I genitori erano contro e avevano minacciato di diseredarlo. Il motivo? Devyani discende da una famiglia nemica degli Shah: il generale Bahadur Rana nel 1846 a Kathmandu fece massacrare a una festa centinaia di di gnitari e militari. Si proclamò primo ministro, creò una monarchia ombra e mise da parte gli Shah che solo nel 1951 tornarono al potere
sabato , 02 giugno 2001
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Nepal, massacrata l' intera famiglia reale
Il principe ereditario uccide il re Birendra, la regina Aishwarya e altri nove parenti. Poi si suicida
Testo non disponibile E' stata la notte del regolamento dei conti, dello sterminio, dell' abisso sanguinario che si è spalancato sotto i piedi dell' ultima teocrazia d' Oriente. L' intera famiglia reale del Nepal, almeno 12 persone, è stata inghiottita da un raptus di follia. La tragedia si è consumata alle 22.40 (ora locale) all' interno del Narayan Hiti Palace, il palazzo reale di Kathmandu. Una lite degenerata in strage: il giovane principe Dipendra, 30 anni, ha aperto il fuoco contro i suoi parenti, uccide ndo il re Birendra, la regina Aiswarya e altri nove membri della famiglia, tra i quali il principe Nirajan e la principessa Shruti. L' ultimo colpo il principe l' ha riservato a se stesso: si è accasciato tra i cadaveri dei suoi consanguinei, suggell ando con la sua morte il dramma di una monarchia politicamente traballante, in un Paese sperduto tra le montagne dell' Himalaya, assediato da quattro anni da un' agguerrita ribellione maoista. Notte da tragedia shakespeariana. Rivolta dei figli contr o i padri. C' era un tormento che avvelenava la vita del giovane Dipendra: il contrasto con la madre Aiswarya sulle sue recenti nozze, l' odio della regina verso la nuora. Donna autoritaria e ambiziosa, la sovrana. Arrogante secondo molti, pugno di f erro dell' intera casa reale. Il principe, cresciuto in Gran Bretagna, diplomato nel college di Eton, lo stesso frequentato da William, primogenito di Carlo d' Inghilterra, era stato designato come l' erede al trono di questa strana monarchia fuori d al tempo. Non è solamente una delle ultime teocrazie d' Oriente, ma anche l' unico regno indù del mondo. Il padre, il re Birendra Bir Bikram Shah Dev, 55 anni, primo sovrano nepalese ad aver studiato all' estero, aveva frequentato prestigiosi college indiani, la stessa Eton, l' università di Tokio, per poi specializzarsi ad Harvard negli Stati Uniti sul sistema presidenziale americano. Arroccato nei suoi privilegi, e allo stesso tempo curioso e assetato di confronti, il re aveva viaggiato in Ame rica Latina, Canada ed Europa. Salito al trono nel 1972, insediatosi ufficialmente tre anni dopo, si considerava discendente diretto di Visnù, nonostante le pesanti concessioni che negli anni aveva dovuto fare al Paese. Nel 1979 le rivolte popolari l ' avevano obbligato a indire un referendum nel quale si sarebbe deciso la natura del futuro governo e l' eventuale continuazione del «panchayat», i consigli di notabili sui cui si fondava dal 1962 la «democrazia senza partiti» nepalese. Il sovrano in quell' occasione vinse di stretta misura concedendo alcune riforme. Ma il malcontento popolare continuava a incalzarlo. Nel 1990, l' opposizione ha cominciato a lanciare scioperi e manifestazioni nelle maggiori città del Nepal, chiedendo democrazia vera con l' apertura al multipartitismo. Il re ha tentato la repressione, ma poi è stato costretto a cedere, tanto da trovarsi da lì a tre anni a capo di un governo diviso tra comunisti e conservatori. Altra anomalia della storia: la monarchia per di ritto divino costretta a coabitare fino al 1997 con i marxisti. Una mozione di sfiducia, votata dai moderati ha fatto crollare la strana coalizione che per quattro anni aveva bloccato il Paese nell' immobilismo, fatto scoppiare scandali e dilagare l' analfabetismo. Il re, in visita in Italia negli stessi giorni in cui il governo si sfaldava, sembrava soddisfatto di poter liquidare quell' accozzaglia politica. Tanto rilassato da concedere un giro di shopping alla Rinascente di Roma per comprarsi i calzini. Aveva cercato la pace sociale il re, ma non l' ha mai ottenuta: dal 1996 il Nepal, paradiso del turismo d' alta quota, ha visto il dilagare della guerriglia maoista. Villaggi saccheggiati, sequestri, assalti alle caserme. Il sovrano sapeva che il regno marciva, ma continuava a credere nella sacralità del suo ruolo. Continuava a cavalcare i suoi destrieri, a guidare elicotteri, a promuovere l' arte tradizionale e moderna del Nepal. Un esteta, ma con poco polso. Era la regina a comandar e a Palazzo reale. Persino il settimanale Nepali Times lo ha accusato più volte di esserne succube. Lui e i figli. Ma qualcosa è saltato, ieri notte, nel meccanismo della monarchia. La guerra è arrivata in casa, trasformando il regno incantato in una palude di sangue. Maria Grazia Cutuli
lunedi , 28 maggio 2001
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La regina Rania di Giordania «Compromesso per la pace»
La sovrana in visita al Corriere: «Un piano per proteggere i diritti dei bambini»
La regina Rania di Giordania «Compromesso per la pace» La sovrana in visita al Corriere: «Un piano per proteggere i diritti dei bambini» MILANO - Salta il protocollo. Niente inchini come si farebbe a corte. Rania di Giordania ha lo sguardo diretto, i l sorriso luminoso mentre stringe la mano ai suoi ospiti. «Piacere, sono lieta di conoscerla», ripete con cortesia. La regina percorre il corridoio con una tracolla in spalla, il passo sicuro sui tacchi a spillo, un incedere da manager più che da sov rana. E' la sua prima visita nella redazione di un quotidiano straniero, il Corriere della Sera. «Tempo fa sono stata al Washing ton Post - racconta -. Ma solamente per fare compagnia a mio marito». Re Abdallah le rubava la scena? Difficile pensarlo. La regina conferma la sua fama: bella da far invidia a una modella, elegante da offuscare sui giornali di moda il primato che fu di Jacqueline Kennedy. «Donna più chic del mondo»: l' intensità orientale delle sue origini palestinesi mescolata al gus to dell' Occidente. Ma anche donna vicina alle barricate: la freschezza dei 30 anni e la responsabilità di un regno, quello di Giordania, Paese cruciale per gli equilibri del Medio Oriente, da dividere con re Abdallah, uno dei protagonisti delle iniz iative diplomatiche per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Arrivata in Italia sabato per un convegno a Napoli sull' osteoporosi, Rania ha preso l' aereo per Milano ieri mattina accompagnata dall' ambasciatore giordano Omar Rifai con la m oglie, e dalla sua «chief of staff», la signora Atalla. All' aeroporto sfoggiava una camicia grigia con le testate dei giornali stampate sopra. Qualche ora dopo riappare, sottile e slanciata, dentro un tailleur-pantaloni di shantung bianco. La regina è abituata a seguire il marito - è uno dei modi per riuscire a stargli più vicino - ma anche a viaggiare da sola: Bosnia, Kosovo, Iran, a occuparsi di bambini traditi dalla guerra, di donne alla conquista del mondo, di pianificazione familiare, di d ifesa dei diritti umani. Sono i temi che le stanno a cuore. Un ponte tra la reggia di Amman e il mondo di fuori. Se suo marito Abdallah ha amato travestirsi per mescolarsi alla gente comune e capirne i problemi, Rania fa del sociale il suo terreno. « Ero felice della sua idea, credo che abbia funzionato. Lo farà ancora. Abbiamo in mente tutta una serie di nuovi travestimenti», dice scherzando. E spera che anche i suoi tre figli, la più piccola di 8 mesi appena, non perdano il contatto con le stra de, i bazaar, la vita vera della Giordania. «I bambini frequentano scuole private. E' difficile per loro condurre un' esistenza da ragazzini qualunque. Ma vorrei scongiurare il rischio che dimentichino la realtà del Paese». Seduta nel salone Albertin i tra il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli e l' inviato in Medio Oriente Antonio Ferrari, la regina si mostra sicura di sé. Il Parlamento giordano ha appena approvato il piano per la famiglia. «Viviamo nell' era della globalizzazione - sott olinea -. Dobbiamo fare in modo di preservare l' unità familiare, di proteggere i figli, di coinvolgere in questo progetto quante più organizzazioni e strutture possibili». La Giordania, ricorda, ha bisogno di potenziare il proprio sviluppo economico , di attrarre investimenti stranieri, di rilanciare il turismo, ma anche di rafforzare il tessuto sociale: «Vogliamo portare l' informatizzazione in tutte le scuole, daremo un computer a ogni bambino. Ma soprattutto ne proteggeremo i diritti». Un alt ro impegno della casa reale hashemita è la legge per la difesa dell' infanzia. «Un argomento delicato. Quando si parla di violenza sui bambini, la prima reazione è dire "non è un problema che tocca il nostro Paese". E invece no. Tocca tutti. Serve un ' opera di prevenzione, ma serve anche creare strutture per coloro che hanno subito abusi, offrire supporti psicologici, coordinare una campagna nazionale». Alcuni esponenti dei Fratelli musulmani l' hanno accusata di essere filo-occidentale? Rania p aga forse lo scotto di voler dare al Paese un' impronta di modernità ed efficienza. Non è una rivoluzione. E' la tradizione delle donne della casa reale. Anche la suocera Noor, l' americana trapiantata in Medio Oriente, la moglie del defunto re Husse in, veniva attaccata per la stessa ragione. La giovane regina non desiste. «Ci sono in giro troppi stereotipi sulle donne arabe. Tanto in Giordania, quanto in Iran, ho visto donne attive nella politica e nell' economia. Donne avanzate». E ricettive. «Quando abbiamo lanciato i primi progetti sul microcredito sono state loro a rispondere, le più giovani chiedendoci di appoggiare piani per piccole imprese e attività commerciali, le anziane domandandoci di finanziare l' artigianato tradizionale». «R egina manager», l' hanno chiamata. In due anni passati sul trono, Rania (nata Yassin) sembra aver messo a profitto il curriculum di studentessa modello - laurea con lode in Business Administration - seguito da un' assunzione tra 200 candidati presso la Citibank e una carriera lampo alla Apple. Nel 1993, quando a una festa organizzata dalla sorella conobbe il futuro marito, Abdallah non ancora coronato, il trono era in mano a re Hussein e la linea di successione incerta. «Non mi sarei mai sognata di diventare regina», ha detto tempo fa durante un' intervista. Non si trattava solo di sogni. Da lì a sei anni, Rania si sarebbe trovata al centro di una regione-polveriera. Portandosi dietro il peso politico delle sue radici: nata in una famiglia di Tulkarem, città passata sotto il controllo di Arafat, emigrata con i genitori in Kuwait, fu costretta a riparare in Giordania in seguito alla guerra del Golfo, per le sue origini palestinesi, dopo l' appoggio dato dall' Olp a Saddam Hussein. Se le iniziative diplomatiche restano in mano a re Abdallah, suo marito, anche la regina esprime la sua idea: «Stiamo vivendo un momento molto difficile. Vedo l' odio crescere nella regione. Ma credo che ciascuna parte debba fare qualcosa. Non c' è altra strada se non quella del compromesso». Il Medio Oriente ha bisogno di aiuto. La regina Rania accetta quello offerto da Ernesto Olivero, direttore del Sermig di Torino, intervenuto al dibattito come ambasciatore di pace in Medio Oriente (18 spedizioni nella regione). «Abbiamo bisogno di assistenza umanitaria», come di iniziative diplomatiche. La sovrana sospesa tra Oriente e Occidente chiede infine a Washington un impegno per la pace, affinchè si riapra il dialogo. Maria Grazia Cutuli LA BIOGRAFI A NASCITA Rania è nata in Kuwait il 31 agosto 1970. La sua famiglia è di origini palestinesi STUDI Laurea in «business administration» all' American University del Cairo, nel ' 91. Parla arabo e inglese. Ha lavorato nel settore bancario MATRIMONIO Ra nia e Abdallah si sono sposati nel ' 93. Abdallah, 39 anni, è re dal giugno 1999. Tre figli: Hussein, 6 anni, Iman, 4, Salma, 8 mesi IMPEGNO La regina presiede molte organizzazioni benefiche. Ha promosso, fra l' altro, il Progetto per la prevenzione degli abusi sui minori e presiede l' Organizzazione giordana per la donazione degli organi HOBBY Lettura, sci d' acqua, corsa, bicicletta. Ama cucinare LA DINASTIA HASHEMITI Quella hashemita è la più prestigiosa dinastia araba. Il nome deriva da «ban u hashem», letteralmente «il clan di Hashem» MAOMETTO Gli hashemiti vengono fatti discendere dal matrimonio tra Fatima, figlia di Maometto, e Ali. In epoca moderna hanno governato, tra l' altro, in Iraq e brevemente in Siria GIORDANIA Nel 1916 gli Ha shemiti sostengono la rivolta araba contro l' impero Ottomano. Nel 1921 re Abdallah, bisnonno e omonimo dell' attuale re, è designato dagli inglesi a governare la Transgiordania. Nel 1947 diventa re del regno hashemita di Giordania, nel 1951 viene uc ciso a Gerusalemme da un palestinese. Sale al trono suo nipote Hussein, che vi rimarrà fino alla morte nel 2000, lasciando lo scettro al figlio Abdallah II
sabato , 05 maggio 2001
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In Macedonia granate sui ribelli «Civili usati come scudi umani»
Gli ultimi attacchi della guerriglia hanno ucciso 13 militari, 7 poliziotti, 3 abitanti
In Macedonia granate sui ribelli «Civili usati come scudi umani» I civili sono rimasti chiusi nelle cantine, sordi all' ultimo appello del governo. «Gli abitanti abbandonino immediatamente le loro case. Lasciano i villaggi entro le 16,15». In Macedon ia l' offensiva contro i guerriglieri albanesi dell' Esercito di liberazione nazionale, cominciata giovedì, si è fermata solo per qualche ora. Dopo le quattro e un quarto del pomeriggio, alla scadenza dell' ultimatum, gli elicotteri da combattimento hanno ricominciato a bombardare nell' area di Kumanovo, 40 chilometri da Skopje. Fuoco su Vakcince, su Lipkovo, su Slupcane. Attacchi all' arma pesante, come risposta all' imboscata dell' altro ieri: due soldati macedoni morti sotto i tiri dei ribell i, un terzo prigioniero. In totale, 23 vittime cadute negli ultimi agguati della guerriglia: 13 militari, 7 poliziotti, tre civili. Una fonte del ministero dell' Interno ha dovuto ammettere perdò che le operazioni sarebbe andate avanti lentamente, pr oprio «a causa dei civili». Nonostante l' ordine di evacuazione, seguito da avvertimenti precisi - unica via di fuga l' autostrada, «chiunque prendesse un percorso periferico potrebbe diventare bersaglio delle forze armate» - un solo convoglio di tra ttori, carico di donne e bambini, è stato visto uscire dall' area di Kumanovo. Duecento persone. Altre 3.500 sarebbero rimaste sotto le bombe. Scudi umani, denuncia la Macedonia. I «terroristi», annidati tra le case, li avrebbero presi in ostaggio. O si tratta invece di sostenitori dei ribelli? La seconda ipotesi disegna scenari preoccupanti: una guerriglia supportata dalla popolazione diventa un bubbone difficile da estirpare. Il bilancio rischia comunque di farsi pesante. Un medico di Slupcane , raggiunto telefonicamente, nel pomeriggio parlava di tre morti e 15 feriti, in maggior parte bambini, mentre il sindaco di Lipkovo, Ysamedin Halili, contava sette vittime. «I villaggi sono senza luce - ha detto-. La gente è nascosta nelle cantine s enza cibo». Il governo della piccola repubblica balcanica, 2 milioni di abitanti tra i quali 600 mila albanesi, due mesi fa aveva giurato che avrebbe fermato i ribelli e stroncato le loro aspirazioni etno-secessioniste. Oggi si ritrova a fare i conti con quest' armata raccogliticcia, eppura insidiosa, che a parole rivendica uguali diritti per la minoranza albanese, ma nei fatti coltiva il sogno di una Grande Albania. Il rischio di una guerra civile è altissimo. L' ha ricordato il segretario dell a Nato George Robertson: «La comunità internazionale faccia qualcosa - ha dichiarato ieri - per evitare che accada». M.G.C.
venerdi , 04 maggio 2001
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Mille morti sulle barricate dei media
Russia e Iran tra i «predatori» della libertà di stampa. Negli Usa targa per Antonio Russo
I «predatori» hanno metodi di caccia diversi, ma artigli ugualmente affilati. Si muovono dietro le cortine delle finte democrazie, dietro i fanatismi spacciati per fedi, dietro i sipari logori delle ultime ideologie. I peggiori sono una trentina, cla ssificati nel rapporto annuale di Reporters sans Frontières come i nemici giurati della libertà di stampa, «predatori» della parola e dell' indipendenza dei media. E qualcosa di più: carcerieri, aguzzini, torturatori. Altri settanta agiscono meno sco pertamente, ma senza rinunciare a intimidazioni e censure. L' organizzazione accusa Vladimir Putin, ispiratore di uno Stato vorace che sta inghiottendo uno dopo l' altro ogni organo di stampa russo, ultimo la catena televisiva Ntv, caduta ad aprile n elle mani della Gazprom, il colosso dell' energia. Denuncia il grande fratello cinese, l' elaborato meccanismo di controllo messo a punto da Jiang Zemin; le persecuzioni operate da Robert Mugabe, nelle sue campagne d' odio in Zimbabwe; l' offensiva i ntegralista dell' ayatollah Ali Khamenei, la suprema autorità religiosa che ha trasformato l' Iran nella più grande prigione per giornalisti del mondo, 21 reporter in carcere, senza contare gli omicidi contro intellettuali e dissidenti. E il vecchio Fidel. Un veterano, Castro. Segnalato per la settima volta, il líder maximo ha raffinato le sue tecniche: la persecuzione passa attraverso l' arresto dei giornalisti dissidenti e la loro liberazione a centinaia di chilometri da casa. Ultimo lager: il Medio Oriente. E' in una prigione siriana che si consuma l' agonia di Nizar Nayyouf, 9 anni di detenzione per «falsa informazione» e «appartenenza a un' organizzazione non autorizzata». Il giornalista, direttore della newsletter «La voce della democ razia», soffre di una rara forma di tumore che, assieme alle torture subite in carcere, l' ha paralizzato dalla vita in giù e reso quasi cieco. L' organizzazione del «Premio Ilaria Alpi» ha chiesto ieri al Papa di intercedere per lui, in occasione de lla sua visita a Damasco. Mentre Reporters sans Frontières ricorda che nello stesso Paese 10 giornalisti stanno scontando pene dagli 8 ai 15 anni. Il primato dell' arbitrio spetta però alla Libia di Gheddafi: Abdullah ali al-Sanussi al Darrat, opposi tore del colonnello, è in prigione dal 1973, in attesa di processo. L' uomo simbolo delle persecuzione rimane il settantunennne U Win Tin, 12 anni nelle galere birmane per militanza nel partito comunista: l' Onu l' ha voluto premiare per la sua resis tenza al regime militare. Nella giornata mondiale della libertà di stampa, le denunce si sono accavallate da più parti. La Federazione internazionale dei giornalisti, con sede a Bruxelles, conta mille vittime in dieci anni. Giornalisti, fotografi, op eratori uccisi nell' esercizio della loro professione. Centodiciassette solamente in Russia, morti durante le guerre che hanno seguito la dissoluzione dell' Urss. Antonio Russo era un italiano, ma è scomparso anche lui alla periferia dell' ex impero. E' stato massacrato a ottobre scorso in Georgia, mentre indagava sulle violenze commesse dall' esercito di Mosca in Cecenia. Il Newseum, il Museo della stampa di Washington, ha inciso il suo nome nella targa dei martiri, assieme ad altri 25 giornali sti scomparsi nel 2000. La Federazione internazionale insiste: «tolleranza zero» contro i «predatori della libertà di stampa». Ma teme anche altre forme di controllo: la concentrazione dei mezzi d' infomazione, l' aggressività dell' imprenditoria, la globalizzazione economica. In tanti si chiedono: sarà Internet la palestra della nuova informazione? La libertà dello spazio cibernetico contro i reticolati dei regimi? Per Paesi come Arabia Saudita, Sudan, Iraq, la «rete» è il nuovo Grande Satana. Maria Grazia Cutuli
domenica , 08 aprile 2001
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«A Mostar un giorno di terrore»
L' Alto commissario in Bosnia: pistole alle tempie dei miei funzionari
Dopo la rivolta degli estremisti croati, i carabinieri feriti tornano alla base «A Mostar un giorno di terrore» L' Alto commissario in Bosnia: pistole alle tempie dei miei funzionari Wolfgang Petritsch, l' Alto commissario per gli affari civili in Bo snia, li ha liquidati come «plebaglia». «Non intendiamo trattare con loro - ha detto ieri, rosso di rabbia - né tanto meno cedere alle minacce degli estremisti». Ma la ribellione dei croati, scoppiata sabato a Mostar e in altre tre cittadine della Bo snia Erzegovina, contro il commissariamento della Hercegovcka Banka, ha lasciato un' ombra sinistra sugli equilibri regionali. Lo sbarramento creato attorno alle filiali dell' istituto bancario gestito dall' Hdz, il partito nazionalista croato, non è stato una semplice rivolta di piazza. Piuttosto una prova di forza con il contingente multinazionale di pace, che rende pesanti come piombo le recenti richieste autonomiste dei falchi croati. L' operazione Athena, gestita dalla Sfor, la Forza di sta bilizzazione multinazionale, mirava a una serie di ispezioni finanziarie per verificare che 57 miliardi di lire versati dalla comunità internazionale non fossero stati stornati dall' Hdz. Si è conclusa con militari feriti, funzionari picchiati, pisto le puntate alla tempia, minacce di esecuzione sommaria, ostaggi costretti a dichiarare che l' operazione faceva parte di un piano internazionale per appropriarsi del denaro della banca. «A Mostar - ha raccontato ieri Wolfgang Petritsch - uno dei miei funzionari è stato costretto a nascondersi in bagno, mentre la folla tentava di sfondare la porta. Una rappresentante del governo è rimasta gravemente ferita da frammenti di vetri esplosi durante la sparatoria. Un agente, minacciato di morte, si è s alvato grazie all' aiuto di un frate francescano». Ventuno feriti, tra i quali 11 carabinieri. Gli agenti sono rientrati ieri nel quartier generale di Butmir, vicino a Sarajevo. «Stanno meglio. A parte i due militari che hanno riportato fratture alla mandibola e a un braccio - ha dichiarato il colonnello Elio Tagliaferri, comandante delle Msu, le Unità di polizia - gli altri hanno subito solo contusioni». Ma per tutti sono state ore di tensione e paura: «Avevo con me dei professionisti, i nervi non hanno mai ceduto», racconta il capitano Gianni Fedeli, 32 anni, comandante dell' unità di manovra dell' Msu, preso in ostaggio con otto dei suoi uomini a Grude. «Siamo arrivati alle 7.30, all' apertura della banca. Siamo entrati in quattro. Alle 11 avevamo finito. Le casse con i documenti sequestrati erano già state caricate su un blindato spagnolo». Pochi minuti dopo, ecco la folla. E l' ultimatum degli estremisti: «Non uscirete da qui fino a quando non restituirete i documenti». Il capitan o sapeva che sarebbe bastato spianare le armi. Non l' ha fatto: «Non si corrono rischi inutili. Una folla aizzata può diventare estremamente pericolosa». L' unico tormento, dice, è che «la Sfor ha perso un po' di credibilità». L' operazione continuer à, ha assicurato ieri l' Alto commissario. Continueranno le supervisioni bancarie, così come il lavoro dell' amministrazione provvisoria nominata da Petritsch. Ma la calma ritrovata non inganna nessuno. Da un mese i nazionalisti dell' Hdz ripetono ch e non intendono rimanere nella Federazione croato-musulmana, una delle due entità bosniache create dagli accordi di Dayton. Come i serbi hanno avuto il loro territorio, la Srpska Republika, anche i croati rivendicano uno spazio etnicamente «puro» e n on condiviso con i musulmani. La Hercegovcka Banka, doveva servire a questo: su alcuni dei suoi conti sarebbero transitati fondi destinati a sostenere il progetto autonomista. «Pura menzogna», ha reagito il direttore della sede di Mostar, Ivica Karlo vic. «La Banca ha un capitale di 20 miliardi di lire, appartiene a 21 aziende private dell' Erzegovina e per il 2,5% alla Chiesa cattolica». La Sfor si è limitata a sequestrare documenti e codici di conti correnti. «Uso minimo della forza», ha assicu rato il generale Michael Dodson. E grande allerta. Una pattuglia olandese è stata spedita a Vitez e Busovaca per ripulire un arsenale federale preso di mira dai croati. Come dire: meglio prevenire che reprimere. O fronteggiare una nuova guerra bosnia ca. Maria Grazia Cutuli
sabato , 07 aprile 2001
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«Qui c' è il rischio di una nuova rivolta»
IL COMANDANTE TAGLIAFERRI «Qui c' è il rischio di una nuova rivolta» «Qualcosa nell' aria c' era già». Il colonnello Elio Tagliaferri, comandante delle Msu a Sarajevo, le Unità multinazionali specializzate di cui fanno parte 344 carabinieri italiani, allude al malcontento croato: «E' la terza entità bosniaca, quella rimasta senza riconoscimento. Chiede il suo spazio, vuole la propria autonomia». Vi aspettavate dunque una rivolta? «Sono arrivato in Bosnia ad aprile dell' anno scorso. Per quasi un dici mesi tutto è andato liscio. Negli ultimi quindici giorni dico solo che l' atmosfera non è più la stessa». Che cosa è successo esattamente? «L' Ufficio dell' Alto rappresentante ha chiesto un intervento dei carabinieri nell' Operazione Athena. Si trattava di ispezionare le filiali dell' Hercegovacka Banka per acquisire documenti sulla situazione finanziaria dell' Hdz, il partito nazionalista croato, in 8 località diverse. Dovevamo verificare che fine avessero fatto 54 miliardi di lire stanzi ati dalla comunità internazionale. In quattro centri è andato tutto bene, negli altri quattro la folla è insorta». Ritirerete i carabinieri? «I miei uomini sono di base a Sarajevo. Ritornano qui alla fine di ogni operazione. Se la Forza di Stabilizza zione, la Sfor, ci chiederà altri interventi, li faremo». Vi siete mai trovati in situazioni come questa? «Dal 1999 i carabinieri hanno gestito tra i 370 e i 380 servizi di ordine pubblico. E' la terza volta che si trovano a fronteggiare scontri con la popolazione». Temete che le rivendicazioni croate si possano trasformare in una nuova ondata di violenza? Che possano mettere a rischio gli equilibri bosniaci? «Non possiamo escluderlo». Che cosa pensate di fare? «Per il momento fiutiamo l' aria p er evitare di essere presi alla sprovvista». Maria Grazia Cutuli
giovedi , 05 aprile 2001
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India, crisi per uno scialle proibito
La moglie dell' ambasciatore Usa denunciata per il possesso di una sciarpa di «shahtoosh»
Il filato, ricavato da una specie rarissima di antilope, è fuori legge. Ma rimane un oggetto di culto India, crisi per uno scialle proibito La moglie dell' ambasciatore Usa denunciata per il possesso di una sciarpa di «shahtoosh» I venditori di Jaipu r, di Bombay o di New Delhi sanno come incantare i loro clienti. Con la prova dell' anello: se lo scialle passerà dentro una fedina, la qualità è assicurata. Si tratta senz' altro di vero shahtoosh. Proibito? Non importa. Più prezioso del cachemire, due volte più leggero della pashmina, il filato ricavato dal sottopancia del chiru, una rarissima antilope che vive negli altipiani del Tibet e nei deserti cinesi del Xinjiang e del Qinghai, rimane ricercatissimo. Un miraggio di lusso ed esotismo, pe r quell' aria radical-chic che regala a chi lo indossa. «Accessorio futile, assolutamente sostituibile», ha ricordato il Wwf nella sua campagna ecologista. La moda, compreso il «made in Italy», si è rassegnata a farne a meno. Non altrettanto la signo ra Jacqueline Lundquist, moglie di Richard Celeste, l' ambasciatore americano a New Delhi. Si è portata dietro il suo scialle per un anno, esibendolo senza troppe precauzioni a feste e ricevementi. Fin quando, inevitabile, non è scattata la denuncia. «Il fatto è di dominio pubblico», ha tuonato mister Ganjiu, segretario privato del ministro indiano per l' Ambiente, e con lui una schiera di appassionati difensori della natura. La signora si è scusata. Non sapeva, ha giurato, di avere al collo l' arma del delitto. Dalle cinque alle tre antilopi trucidate per ricavare una sciarpa. Lo shahtoosh, «lana da re» come recita il nome, secondo lei era un tessuto come un altro. Unica riparazione possibile: Jacqueline Lundquist ha promesso che lo conseg nerà alle autorità indiane molto presto, prima di lasciare l' India in occasione della scadenza del mandato del marito. Il consorte, ex governatore dell' Ohio, nominato da Bill Clinton, ha lasciato che fosse la sua segreteria a gestire l' incidente d iplomatico. «La signora non ha fissato nessuna data - ha dichiarato ieri Gordon Diguid, l' addetto stampa dell' ambasciata -. Ma è pronta a rinunciare al suo scialle». Peccato veniale? Mica tanto. Il governo indiano punisce i possessori di shahtoosh con pene fino a sette anni di prigione. E anche gli Stati Uniti, come la maggior parte dei Paesi occidentali, da oltre 20 anni si sono adeguati alla Convenzione internazionale sulle specie in vie d' estinzione che ha messo fuori legge la compra vendi ta del filato. Un lusso crudele, secondo gli ecologisti. Una moda assassina. Per ricavarlo dal sottopancia del chiru, non basta tosare l' animale. Bisogna ucciderlo, trascinare la carcassa per le zampe, scuoiarla all' istante. Il rito è antico. I re persiani importavano shahtoosh dai nomadi tibetani alla fine del 1700. Napoleone III ne regalò un' intera collezione all' imperatrice Eugenia. Ma con l' avvento della globalizzazione il commercio non si è arrestato sulla Via della Seta. La caccia all ' antilope ha portato una specie, capace di sopravvivere a 5 mila metri d' altezza con temperature che sfiorano i 40 gradi sotto lo zero, sulla soglia dell' estinzione. Da un milione e mezzo di esemplari di un secolo fa, ai 75 mila di oggi. La messa al bando ha fatto lievitare i prezzi sul mercato clandestino: uno scialle costa dai 5 ai 10 milioni di lire. E anche gli appelli che si ripetono ogni anno, in concomitanza alle sfilate di Londra, Parigi o Milano, non hanno impedito ad alcuni stilisti di continuare a regalare preziosi shahtoosh a direttrici e redattrici dei giornali di moda. L' antilope resta la vittima preferita dei bracconieri. «Per i trafficanti la pelle del chiru è più preziosa dell' oro - denunciava l' anno scorso Grace Gabr iel, direttrice dell' ufficio cinese del Fondo internazionale per la salvaguardia degli animali -. Inseguono le femmine gravide fino a luoghi in cui vanno a partorire e le uccidono indiscriminatamente. È terribile vedere i piccoli che succhiano dalle mammelle della madre anche se questa è stata già scuoiata». La moglie dell' ambasciatore forse non lo sapeva, ma agli occhi degli ecologisti indiani dev' esser apparsa peggio di Crudelia Demon. Maria Grazia Cutuli
martedi , 12 giugno 2001
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Una tregua in Macedonia per distribuire i viveri
Il governo negozia con i ribelli la riapertura dell' acquedotto. Nella notte la guerriglia torna all' attacco: sei poliziotti feriti
La città di Kumanovo assediata dalla sete. Migliaia di persone in fuga dai sobborghi di Skopje. I Quindici: «Disarmate gli estremisti» Una tregua in Macedonia per distribuire i viveri Il governo negozia con i ribelli la riapertura dell' acquedotto. N ella notte la guerriglia torna all' attacco: sei poliziotti feriti Prima il silenzio. Si fermano le artiglierie, tacciono i fucili, la quiete scende all' improvviso, dopo giorni di bombardamenti, sulle colline macedoni. Subito dopo, l' annuncio: il g overno tratta una tregua con i guerriglieri albanesi dell' Esercito di liberazione nazionale-Uck. Non vuole essere un atto politico, lascia intendere il consigliere Nikola Dimitrov. Il cessate il fuoco permetterà di alleviare il «disastro umanitario» che attanaglia la regione: ondate di profughi, penuria di cibo, una città come Kumanovo in ostaggio della sete. I miliziani tengono sotto controllo la diga che sbarra le acque del lago Lipkovo. Da cinque giorni hanno chiuso i rubinetti. Centomila pe rsone soffocano nelle loro case, sopravvivono con le autobotti, i miasmi si sono fatti insopportabili, si rischiano morti ed epidemie. La tregua, arriva all' indomani di un minacciato attacco a Skopje da parte dei ribelli. Il governo prepara convogli per la distribuzione del cibo nel nord della Macedonia, da Kumanovo ai villaggi vicini dove vivono dai 10 mila i 15 mila albanesi. I guerriglieri si impegnano a riportare l' acqua nelle case, autorizzando i tecnici dell' acquedotto, assieme agli esp erti dell' Osce (l' Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), a raggiungere la diga. Ma l' accordo incontra subito degli intoppi: l' apertura delle chiuse slitta ad oggi. Anche i camion con gli aiuti sarebbero bloccati dalla poliz ia. Nella notte, la tregua è già violata: i guerriglieri colpiscono una pattuglia della polizia, nella zona di Tetovo, ferendo i sei uomini a bordo. Anche la minaccia degli autonomisti a Skopje è solo rimandata. Avevano giurato che ieri avrebbero att accato la capitale, che avrebbero portare la guerra dentro al cuore del traballante baluardo balcanico. Ormai così vicini, dopo aver conquistato il sobborgo di Aracinovo, 10 chilometri dalla città, da costringere migliaia di albanesi alla fuga, terro rizzati di finire coinvolti nell' insurrezione. Così temibili da spingere le autorità a distribuire armi ai civili e invitare tutti alla mobilitazione. «Primo obiettivo, l' aeroporto», ha mandato a dire uno dei comandanti dell' Uck, il sedicente Hoxh a, al premier macedone Ljubco Georgievski, mentre un altro leader delle milizie dichiarava in tv che anche la raffineria, la sede del governo e l' arteria che porta in Grecia sono ormai a tiro di fucile. La tregua ferma i ribelli per 24 ore: il tempo concesso, secondo un fax inviato all' Associated Press, fino alle 14 di oggi. L' aeroporto continua a funzionare, ma la British Airways e la Jat, le linee aeree jugoslave, hanno preferito bloccare i voli, mentre la Swissair, li ha dirottati a Ohrid, nel sud del Paese. «Non permetteremo incidenti», reagisce il direttore Ernad Fejzulahu, precisando che sono state rafforzate le misure di sicurezza. Nessun commento sul nuovo ultimatum. Propaganda dell' Uck? L' Esercito di liberazione a parole chied e parità di diritti per la minoranza albanese (circa 500 mila persone su 2 milioni di abitanti). Di fatto mira ad aggregarla alla popolazione del Kosovo. Intenti esplosivi. Il governo macedone trema, ma tiene il profilo basso, fino a respingere la di chiarazione di stato di guerra. Nel frattempo la guerriglia annuncia la creazione di una terza brigata, la numero 114, finalizzata all' assalto a Skopje. E se c' è qualcuno che la prende sul serio sono i civili: 12 mila profughi in tre giorni, second o l' Onu, per un totale di 33 mila, a partire da febbraio quando sono cominciati i primi attacchi. La diplomazia è in allarme. Da Lussemburgo i ministri degli Esteri dei Quindici invocano il disarmo degli estremisti e il dialogo interetnico. Maria Gr azia Cutuli
domenica , 18 febbraio 2001
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E Belgrado rende la libertà alla vedova di Tito
Jovanka Broz vive dal 1977 agli arresti domiciliari. Ma per i familiari «è una donna terrorizzata»
La moglie del Maresciallo sparì dalla circolazione dopo essere stata sospettata di aver tramato con i generali jugoslavi E Belgrado rende la libertà alla vedova di Tito Jovanka Broz vive dal 1977 agli arresti domiciliari. Ma per i familiari «è una do nna terrorizzata» Il maresciallo Tito l' aveva fatta sparire nel segreto delle sue stanze, togliendole di colpo talamo e ribalta. Slobodan Milosevic aveva fatto in modo che ci si dimenticasse di lei, ombra tra le ombre di Belgrado, vestale scomoda di un passato che nessuno aveva interesse a resuscitare. Per 24 anni Jovanka Broz, quarta e ultima moglie del leader jugoslavo Josip Broz Tito, accusata di complotto contro il marito, è rimasta reclusa in una villa di Dedinje, il quartiere della nomenc latura, senza passaporto o diritti civili, circondata solo da guardie, delegate a sorvegliarla giorno e notte. Ogni spostamento doveva essere autorizzato. Ogni visita ai parenti o alla tomba del marito controllata a vista. L' esilio della regina potr ebbe però finire presto. Secondo il quotidiano britannico The Independent, il nuovo presidente Vojislav Kostunica le ha già aperto i cancelli. «Non è più il caso che Jovanka Broz, vedova di Tito, continui a vivere in questa sorta di arresti domicilia ri - ha dichiarato Dragan Supanovac, consigliere del ministro dell' Interno -. E' una libera cittadina e non intendiamo porre nessuna restrizione ai suoi movimenti». Ribaltoni della storia. Adesso è Slobodan Milosevic a essere confinato in casa, nell o stesso quartiere di Dedinje, in attesa di un processo per corruzione e frode elettorale. E' un' altra first lady, Mirjiana Markovic, la moglie di «Slobo», a doversi guardare le spalle. Non è detto però che il nuovo governo voglia riaprire i conti c on l' epoca di Tito. Jovanka è libera, ma alcune precauzioni sono ancora necessarie: «Dobbiamo provvedere alla sua sicurezza», ha aggiunto Supanovac. E' una donna sola e ha bisogno che qualcuno le dia un occhio. Inutile avvicinarsi ai cancelli. La ve dova di Tito non parla. Accetta un pacco di cioccolatini che il giornalista dell' Independent le porta in regalo, ma respinge ogni richiesta di intervista. «E' terrorizzata», dicono i familiari. Ma è anche molto felice, riporta qualcun altro, di non essere stata vittima di un «incidente automobilistico» organizzato dal regime. Misteri di Belgrado. Quanti ne conosce davvero Jovanka Broz? Serba, nata nelle campagne della Croazia nel 1924, cresce dopo lo scoppio della Seconda Guerra tra indottrinam enti marxisti e attività partigiane. Tito la incontra - bruna, giovane e formosa - quando la ragazza ha già conquistato i gradi di tenente. Nel 1950 la ritrova come segretaria nel palazzo del governo di Belgrado. L' ex pastorella con vocazione da gue rrigliera gli farà da moglie, da consigliera, da spalla. In casa e all' estero, coperta di diamanti e di pellicce. Fino al 1977. Nell' estate di quell' anno, dopo un ricevimento a Belgrado in onore del premier norvegese, Jovanka scompare. Si parla di una malattia. Si sussurra di complotti: la first lady, è una delle ipotesi, avrebbe tentato manovre con i generali serbi contro il marito. La scarica lui o i gerarchi di regime? Quando Tito muore, le viene ordinato di lasciare la residenza presidenz iale, dove viveva relegata nelle sue stanze, e trasferirsi a Dedinje. Comincia una lunga battaglia per rimpossessarsi di 860 articoli, tra cui vestiti, gioielli, argenterie, porcellane. Poi un lungo silenzio. Jovanka si fa sentire nel 1996 con un' in tervista dai toni esasperati: «Il regime di Slobodan Milosevic mi tiene in ostaggio». Paura del passato o pura persecuzione? Lo Stato per la verità le passa una pensione, ma a sentire i familiari gli ultimi anni sono stati grami. «Abbiamo dovuto lasc iarle il cibo dietro ai cancelli, altrimenti sarebbe morta di fame», dice un parente. Kostunica la resuscita. Ma Jovanka sembra avere più paura di prima. Maria Grazia Cutuli
giovedi , 15 febbraio 2001
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Il Salvador sepolto ancora dalle macerie
Oltre 270 le vittime del nuovo terremoto. La gente in lacrime: «Una catastrofe dopo l' altra»
A un mese da un altro sisma devastante, decine di migliaia di persone senza casa. Il presidente: «Il Paese ce la farà» Il Salvador in una morsa di macerie Oltre 270 le vittime del nuovo terremoto. La gente in lacrime: «Una catastrofe dopo l' altra» « Il Salvador ce la farà», ripete il presidente Francisco Flores. Ma chi scava tra le macerie, nel nuovo triangolo della morte che si apre in mezzo al Paese tra La Paz, San Vicente e Cuscutlan, sente solo il peso insostenibile di una disgrazia ciclica. Una calamità periodica che sembra trasformare questo pezzo di terra centramericana in una tela di Penelope. Dopo gli anni della guerra, dopo i tanti terremoti che hanno flagellato i suoi abitanti, dopo l' uragano Mitch e le alluvioni, dopo l' ultimo sisma del 13 gennaio, di nuovo una distesa di case distrutte, di tonnellate di detriti da rimuovere, di gente senza acqua, senza luce, senza casa. L' ultimo bilancio provvisorio del terremoto che martedì mattina ha colpito il Salvador parla di 274 m orti, 2 mila 432 feriti, più di 83 mila senzatetto. Sono i dati forniti dal Comitato di emergenza nazionale. Ma non è tutto. A San Vicente, 40 mila abitanti, dove il 50% delle case è stato raso al suolo e i morti sono stati 120, le squadre di soccors o cercano ancora superstiti sotto le macerie. «Ho visto la mia casa crollare di colpo - racconta Maria Agilare, una donna di 80 anni ricoverata all' ospedale della città -. Pezzi di muri mi cadevano addosso». Sembrava la fine. Poi la voce del nipote e una mano che la tirava fuori di peso. Clemente Lozano, un uomo di 86 anni, non ce l' ha fatta. È spirato, dietro una cortina di polvere. Sua moglie dispersa. «È stato orribile», balbetta la figlia Maria, mentre attende che il corpo del padre arrivi all' obitorio. La maggior parte della gente è per le strade, molti hanno montato tende dove capita. Altri sono allo stadio, trasformato per l' occorrenza in un campo di sfollati: aspettano di essere sistemati negli alberghi rimasti in piedi. «Abbiam o cercato di salvare quel po' che avevamo - singhiozza una donna, mostrando un gruzzolo di monete in un pugno e una foto di famiglia nell' altra mano -. Ma questa è la nostra vita in Salvador: sopravvivere alla sfortuna che ci perseguita e continuare così». Un destino di miseria e paura. «Per adesso possiamo solo pensare a salvare vite - dice il capo delle forze speciali, il colonnello Mauricio Somoza -. La situazione è veramente grave». Il Guatemala ha inviato 50 pompieri che adesso lavorano as sieme ai militari salvadoregni per tentare, oltre alle operazioni di salvataggio, di riallacciare acqua e luce. Nella città di Candelaria, 40 chilometri dalla capitale San Salvador, tra i morti ci sono sei bambini di un asilo e la loro maestra, Anabe l Chavez, 25 anni, ritrovata con alcuni piccoli tra le braccia. «La chiesa e la scuola sono state letteralmente spianate. La nostra comunità è distrutta», è tutto quello che ha potuto spiegare Oswald Guerra, vice commissario della guardia civile. All ' ospedale di Santa Gertrudis, i medici hanno improvvisato una sala operatoria nel patio, dividendosi tra pazienti con fratture alle ossa, alla testa o al petto. «Ne abbiamo trattati 206, ma 18 non ce l' hanno fatta», è il primo conteggio del diretto re Napoleon Virgil. Molte aree rurali del Paese sono rimaste isolate, le autostrade bloccate, mentre è collassata la rete idrica della capitale San Salvador, dove il sisma si è sentito solo marginalmente. In tutte le aree colpite, scuole e uffici son o rimasti chiusi. Secondo i sismologi salvadoregni, il terremoto - cominciato poco dopo le otto del mattino con una scossa del 6,1 della scala Richter durata una trentina di secondi - è stato causato dalla riattivazione di una vecchia faglia, la stes sa che fu all' origine del sisma del 10 ottobre 1986, nel quale morirono mille e 500 persone. Era stato quello il peggiore di una lunga serie di disastri naturali, ai quali si è aggiunta, dal 1980 al 1992, la guerra tra il governo filo-americano e le milizie marxiste del Fronte Farabundo Marti di liberazione nazionale. «È vero che questo è un altro colpo per il Salvador - ha detto ieri il presidente Francisco Flores -. Ma io chiedo di star tranquilli e di mantenere la calma». Difficile per il Pa ese, con i suoi 6 milioni di abitanti condannati per il 22% a vivere sotto la soglia la povertà. E difficile per lo stesso capo dello Stato. Il governo neo-liberale del Salvador aveva lanciato il primo gennaio un ambizioso programma economico che pre vedeva l' abbandono della moneta nazionale, il colon, a vantaggio del dollaro. Una misura che avrebbe dovuto attirare gli investimenti stranieri. Si è ritrovato, dopo il terremoto del 13 gennaio, con 827 morti e danni per un miliardo di dollari. Nean che il tempo di pensare alla ricostruzione. Un nuovo strato di macerie ha riportato il Salvador nell' emergenza dei suoi giorni più bui. Maria Grazia Cutuli
mercoledi, 24 gennaio 2001
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Il serbo Kostunica litiga con Carla Del Ponte. «Non vi darò Milosevic»
Il procuratore Onu a Belgrado Il serbo Kostunica litiga con Carla Del Ponte «Non vi darò Milosevic» Il nuovo governo jugoslavo ha aperto le porte a Carla Del Ponte, procuratore generale del Tribunale Onu dell' Aja. L' ha accolta all' aeroporto di Bel grado, con dispiego di corpi speciali, mitragliatrici e auto blindate. Una visita impensabile fino a qualche mese fa. Ma i sorrisi, sfoggiati ieri all' ingresso del Palazzo federale, si sono trasformati in una smorfia. L' incontro tra il procuratore e il presidente Vojislav Kostunica non ha prodotto nessun risultato. Né tanto meno si sono appianate le ostilità tra un governo che rimane orgogliosamente nazionalista, e la donna che vorrebbe mettere in galera i ricercati balcanici ospitati all' int erno della Federazione jugoslava. Il presidente ha chiesto «una normativa coordinata con le leggi federali». Il procuratore l' ha rifiutata. Kostunica ha avanzato «forti obiezioni alla procedura giuridica, all' esistenza di incriminazioni tenute segr ete e al lavoro politicizzato dal Tribunale dell' Aja». Carla Del Ponte le ha respinte. «Il colloquio - ha fatto dire alla sua portavoce Florence Hartman - non è stato né facile né difficile». Il magistrato avrebbe però deciso, a questo punto, di non consegnare i documenti relativi alle incriminazioni segrete al presidente, ma al ministro della Giustizia, Momcilo Grubac, che si è sempre mostrato molto più morbido verso il Tribunale dell' Aja. Carla Del Ponte ha la determinazione e l' irruenza de l magistrato d' assalto. È arrivata a Belgrado con il piglio di sempre, portandosi in tasca una lista di nomi, in testa alla quale c' è molto probabilmente quello di Slobodan Milosevic. L' ex presidente è l' ossessione numero uno del Tribunale intern azionale. Il procuratore non fa che ripeterlo: «Dev' essere trasferito all' Aja». E ieri, a sottolineare la sua volontà di mettere alle strette Kostunica, il Tribunale ha riconfermato il mandato d' arresto contro Slobo e contro i suoi quattro collabo ratori (l' attuale presidente della Serbia Milan Milutinovic, l' ex vice-premier Nikola Sainovic, l' ex capo di Stato maggiore Dragoljub Ojdanic e l' ex ministro dell' Interno serbo Vlajko Stojiljkovic) per le violenze commesse in Kosovo. Il procurat ore ha chiesto inoltre il congelamento di tutti i beni di Milosevic (più di 4 miliardi di dollari rubati alla popolazione serba secondo la Banca centrale) e cooperazione ampia sui ricercati della mattanza balcanica. Da Radovan Karadzic a Ratko Mladic . Ma il regime non ci sente. Tutto quello che promette è la sorveglianza continua, notte e giorno, dell' ex presidente. Vojislav Kostunica non è uomo da lasciarsi piegare. Ha accettato di incontrare Carla Del Ponte con riluttanza, e senza far mistero delle sue intenzioni: non per discutere di latitanti, ma di uranio impoverito. Il procuratore dell' Aja ha già dichiarato che potrebbe aprire un' inchiesta. Kostunica la vuole a tutti i costi. Ma lo scambio di favori tra la dama di ferro e il presid ente per adesso è a un punto morto. Maria Grazia Cutuli
venerdi , 19 gennaio 2001
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Soddisfatta Carla Del Ponte «Adesso aspetto il processo»
Soddisfatta Carla Del Ponte «Adesso aspetto il processo» «Sono felice, anzi beata di sapere che Pavel Borodin sia stato finalmente arrestato». Carla Del Ponte, procuratore generale del Tribunale dell' Aja, parla al telefono dai suoi uffici olandesi. «L' inchiesta - si schernisce - non mi appartiene più. Non mi sembra il caso di pronunciare giudizi». Ma è difficile nascondere la soddisfazione. Guardare con occhio distante la cattura di uno dei protagonisti del Russiagate. «Non riesco a pensare a quell' inchiesta come a un episodio lontano: ha fatto talmente scalpore». Era l' autunno del 1997. La Del Ponte era il capo della Procura svizzera, quando le venne consegnato un rapporto della polizia elvetica: più di 300 società della Confederazione erano sotto il controllo della mafia russa, un giro d' affari di 27 miliardi di dollari che avrebbe condotto, con il sospetto di riciclaggio, al presidente Boris Eltsin e alla sua «famiglia». Ci lavorò per quasi due anni. Quando la mappa della corru zione venne alla luce, Carla Del Ponte era già stata nominata all' Aja. Il magistrato consegnò i dossier, non senza il timore che l' inchiesta potesse finire affossata. «L' arresto - dice - di Borodin mi risolleva. Si potranno finalmente chiarire i f atti e i sospetti di corruzione che avevamo formulato contro di lui». Soddisfazione doppia: «Non dimentichiamoci delle accuse che Borodin aveva rivolto a me e al mio collega Daniel Devaud. Aveva detto che eravamo dei corrotti, che la nostra inchiesta era stata orchestrata». L' arresto è solo il primo passo: «Ci sarà parecchio d' attendere prima che la Svizzera riesca a processarlo. Con gli Usa esiste un trattato d' estradizione, ma le procedure sono più complicate di quelle in uso con i Paesi de ll' area Schengen». Ostacoli? «Potrebbero venire da Borodin. Se si opponesse alla richiesta di estradizione, tutto potrebbe diventare più complicato». Maria Grazia Cutuli
martedi , 16 gennaio 2001
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L' eredità delle bombe: bambini deformi e malati di cancro
LA CATASTROFE SANITARIA L' eredità delle bombe: bambini deformi e malati di cancro Gli americani li sventrarono con proiettili all' uranio impoverito. A distanza di 10 anni, le carcasse dei T-52 e dei T-55, i carrarmati di Saddam, sono ancora intrappolati nella sabbia, lungo il confine con il Kuwait e con l' Arabia Saudita. Ce ne sono cinque all' entrata della zona smilitarizzata, altri accanto alla stazione di pompaggio di Kharanj, altri ancora nella regione meridionale di Rumaila. Relitti imbo ttiti di ruggini e polveri radioattive. Gli ultimi test mostrano indici impazziti: accanto alle loro corazze, un aumento delle radiazioni da uno a dieci. «Quando il vento si alza sul deserto miliardi di particelle vengono trasportate lontano - raccon ta al Corriere padre Jean Marie Benjamin, il sacerdote della Fondazione Beato Angelico d' Assisi che da anni denuncia gli effetti dei bombardamenti, oltre che dell' embargo, sulla popolazione civile -. Non c' è terra, aria, acqua in Iraq che si salvi dal pericolo dalla contaminazione. Non c' è regione che non abbia visto crescere il numero dei malati e dei morti». La «sindrome del Golfo» affligge anche gli iracheni, oltre che i veterani americani. Nelle province meridionali - dal 1991 al ' 97 - la leucemia, i linfomi, i tumori ai polmoni, alla pelle, all' apparato gastro-intestinale sono aumentati del 50%, e per tre-quarti hanno toccato i bambini. Sono venuti alla luce neonati senza occhi, con atrofia agli arti, danni al cervello, agli orga ni vitali. Non sono «invenzioni» del ministero della Sanità di Bagdad. Sono dati confermati dalle agenzie dell' Onu, da ricerche indipendenti, da organizzazioni come l' International Action Center, il gruppo creato dall' ex ministro americano alla Gi ustizia, Ramsey Clark. Fu proprio in Iraq, nel 1991, che gli americani testarono per la prima volta in modo massiccio le armi all' uranio impoverito: 300 tonnellate di materiale radioattivo scaricato dagli A-10. Ma non fu l' unica. «Le stesse armi ve nnero usate su Bagdad durante i raid del 1998», dice padre Benjamin. Un episodio lo prova: «Dei giornalisti raccolsero una scheggia accanto al palazzo dei Congressi la fecero esaminare e si scoprì un' altissima radioattività». L' organizzazione italiana «Un ponte per Bagdad» ha raccolto altri dati: l' inquinamento elettromagnetico, per esempio, provocato dai bombardamenti del 1991, ma anche da quelli successivi sulle no fly zone a nord e a sud, sarebbe una delle cause di infarti in giovane età. Ma c' è anche un' altra verità: le sanzioni. «Dieci anni di embargo hanno impedito che arrivassero in Iraq i vaccini contro le epidemie, i macchinari per i test sulla leucemia, il sangue per le trasfusioni - conclude padre Benjamin -. Tutto quello ch e è stato recapitato sono solo farmaci scaduti». Maria Grazia Cutuli
domenica , 14 gennaio 2001
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«L' uranio, un crimine di guerra»
Carla Del Ponte critica l' Italia: «Non ratificata l' intesa con la Svizzera sulle rogatorie»
Il procuratore del Tribunale internazionale attende i risultati dei rapporti sulle malattie dei militari «L' uranio, un crimine di guerra» Carla Del Ponte critica l' Italia: «Non ratificata l' intesa con la Svizzera sulle rogatorie» DAL NOSTRO INVIAT O DOGLIANI (Cuneo) - L' ultima frontiera sta per aprirsi. Carla Del Ponte, procuratore capo del Tribunale internazionale dell' Aja, partirà per Belgrado. «Una visita di tre giorni dal 23 al 25 gennaio - annuncia - per parlare del futuro di Slobodan M ilosevic, ma anche degli altri latitanti che hanno trovato rifugio in Serbia». È un pomeriggio di festa a Dogliani, nel cuore delle Langhe. Carla Del Ponte è arrivata per prendere in consegna un premio, lo «Zolfanello d' oro», che le viene attribuito - a un anno e mezzo dall' inizio del suo mandato all' Aja - per «aver saputo accendere la speranza nella giustizia». Il procuratore ricorda lo choc della prima visita in Kosovo: «Una cella frigorifero con 600 cadaveri, e puzzavano ancora». Il lavoro delle squadre del Tribunale: «Chinati sulle fosse, con i paraginocchia sui pantaloni a grattare i corpi cementificati nel terreno». Poi affronta l' ultimo caso, il più imbarazzante per chi aveva sostenuto le ragioni umanitarie della campagna Nato ne i Balcani: l' utilizzo dei proiettili all' uranio impoverito e le sindromi tumorali denunciate dai militari impegnati in Kosovo e in Bosnia. Come intende agire il Tribunale dell' Aja? «Se si dimostrerà che l' uso di quelle armi è la causa delle malat tie, l' affare diventa di nostra competenza, secondo l' articolo 55 del protocollo della convenzione di Ginevra del 1949. Ce n' eravamo già occupati durante i bombardamenti sul Kosovo, ma non avevamo trovato elementi sufficienti per procedere». Si pu ò ipotizzare un' accusa alla Nato per crimini di guerra? «Esatto. Non escludo di aprire un' inchiesta, stiamo solo aspettando i risultati dei rapporti scientifici e sanitari». Lei si recherà in Jugoslavia. Ma i segnali che arrivano dalla nuova nomenk latura non sono tutti positivi. Il ministro degli Esteri Goran Svilanovic avrebbe discusso a Washington di processare Milosevic a Belgrado, e solo per corruzione. Il grande ricercato rischia di sfuggire al Tribunale dell' Aja? «È assurdo che Milosevi c, responsabile di crimini gravissimi, venga processato per frode elettorale. Ma dirò di più: non credo affatto che sia possibile un processo nella capitale jugoslava. Ha ancora molti amici laggiù. E poi l' indipendenza della magistratura jugoslava m i sembra tutta da dimostrare». Quale strada le rimane? «Cercherò di convincere il nuovo presidente Vojislav Kostunica a collaborare. È un giurista, dovrà ascoltarmi». La resa di Biljana Plavsic, ex presidente dei serbi di Bosnia, apre uno spiraglio? «La Plavsic aveva cercato rifugio a Belgrado. Non l' ha ottenuto e ha preferito costituirsi. È una donna forte, nazionalista. Si proclama innocente, ma davanti alle nostre prove la sua posizione potrebbe cambiare». La collaborazione dei Paesi con il Tribunale sta migliorando? «Il Tribunale si occupa anche dei crimini di guerra in Ruanda. Gli Stati africani ci stanno aiutando molto con le estradizioni. Con la ex Jugoslavia è tutto più difficile. Siamo di fronte a una globalizzazione del crimine, ma l' assistenza giudiziaria tra gli Stati è ancora troppo burocratizzata». Parla a nome del Tribunale o da ex capo della Procura ticinese? «Parlo in generale. E potrei citare il caso dell' accordo bilaterale italo-svizzero per le rogatorie: il minis tro Flick fece di tutto per ottenerlo, nel ' 98. Poi il governo cadde. E udite, udite: Roma deve ancora ratificarlo». Maria Grazia Cutuli
sabato , 13 gennaio 2001
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I nordici: «Moratoria» Ma per l' Oms «non esistono rischi»
Un ex parà di Como accusa: «Ho avuto un cancro dopo la missione in Iraq»
GOVERNI & ORGANIZZAZIONI I nordici: «Moratoria» Ma per l' Oms «non esistono rischi» Il pericolo è «improbabile», il rischio di cancro solo «teorico». Ma comunque «tenete lontani i bambini». «Bonificate, recintate, chiudete al passaggio qualsiasi area infestata da particelle radioattive». L' Organizzazione mondiale per la Sanità ondeggia sugli effetti dell' uranio impoverito. Nessun nesso accertato - dicono gli esperti - tra l' uso dei proiettili incriminati e i casi di leucemia denunciati dai so ldati dei contingente Nato. E' troppo presto per le conclusioni. Un consesso di scienziati, assicura l' Oms, si riunirà per discuterne. Naomy Harley, docente di medicina ambientale alla New York University, è ancora più radicale: «Le radiazioni dell' uranio impoverito - ha sostenuto ieri durante una videoconferenza trasmessa all' ambasciata Usa a Roma - non sono in grado di raggiungere le cellule profonde del midollo osseo», quelle che producono la leucemia. GRECIA - Rassicurazioni amare per chi sta nei Balcani. Il ministro della Difesa greco, Apostolos Tsochatzopoulos, in visita in Kosovo, ha offerto ai militari libera scelta: rimanere o andarsene. Il governo di Atene non forzerà nessuno a continuare la missione di pace contro la sua volon tà. Il contingente greco nei Balcani è formato da 1.481 militari, 328 erano pronti a dare il cambio ai compagni, ma un centinaio ha rinunciato all' incarico. Uno su tre. GLI SCANDINAVI - A rompere il fronte filo-americano, anche i governi scandinavi di Norvegia (Paese Nato, non Ue) e Finlandia (neutrale, Ue): pronti a sostenere una moratoria sull' impiego delle armi all' uranio impoverito. IL REDUCE DELL' IRAQ - Walter Cecchettin aveva 19 anni quando è partito per Zaku, nella fascia di sicurezza tra Turchia e Iraq, istituita nel ' 91 per i curdi in fuga dalla guerra. Era impiegato presso il battaglione logistico della Folgore: «Scavavamo trincee - racconta al Corriere - piantavamo tende, montavamo campi». Era aprile. Ad ottobre gli vengono asportati due cisti. A marzo 1992, la diagnosi: «Linfoma Nh» ad alto grado di malignità. L' ex parà, che vive a Lasnigo in provincia di Como, ha già subito 4 interventi. «Sono certo - dice - che il male sia conseguenza di quella missione». La sindrom e del Golfo che ha colpito 100 mila militari Usa? In Italia sarebbe il primo caso. Ma c' è un dubbio: Zaku non rientra nelle aree bombardate con proiettili con l' uranio impoverito e neanche nelle zone dove Saddam avrebbe usato gas tossici. Maria Gra zia Cutuli
venerdi , 12 gennaio 2001
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Un anno di avvertimenti al governo Ma Roma aspettava risposte dalla Nato
Occhetto: «Non è stato un inganno ordito dai generali dell' Alleanza. Tutti sapevano e nessuno agiva»
IL FRONTE INTERNO Un anno di avvertimenti al governo Ma Roma aspettava risposte dalla Nato C' è voluto un anno e mezzo per capire a quali rischi fossero stati esposti i soldati della Nato in Kosovo, cinque anni per resuscitare le tracce radioattive l asciate in Bosnia dai proiettili all' uranio impoverito. Ma è stato solo un «grande inganno», ordito dai vertici dell' Alleanza atlantica ai danni dei singoli governi? O ci sono state responsabilità nazionali nei ritardi con cui si è affrontata l' em ergenza sanitaria? In Gran Bretagna le prime avvertenze cominciarono a circolare quattro anni fa. Un documento segreto, stilato dal dipartimento sanitario dell' esercito, metteva in guardia i soldati sui pericoli che correvano venendo a contatto con polveri, detriti, sostanze contaminate dall' uranio impoverito: cancro ai polmoni, al cervello, al sistema linfatico. Anche l' Italia sapeva - l' ha confermato il ministro della Difesa, Sergio Mattarella - che, almeno in Kosovo, gli americani stavano usando quel tipo di proiettili. Tuttavia, nessuno aveva fatto scattare l' allarme. Parecchi governi nazionali, Londra in testa, fino a oggi hanno continuato a smentire un legame tra le munizioni all' uranio impoverito e le patologie tumorali. Perché ? Achille Occhetto, presidente della commissione Esteri della Camera ribadisce le sue accuse: «Le responsabilità dei governi sono precise. Non si tratta di un problema emerso adesso». Proprio la sua Commissione approvò una prima risoluzione l' 11 nov embre 1999. Un documento che impegnava il governo a istituire un organismo tecnico scientifico, «in grado di procedere a una valutazione esauriente e imparziale di tutta la documentazione disponibile a livello nazionale e internazionale». Non se ne f ece nulla (l' organismo sarà creato mesi dopo dal ministero dell' Ambiente) e Occhetto si chiede ora «a chi deve essere attribuita la responsabilità di ritardi e omissioni». Non è il solo. Domande d' intervento fioccarono da tutte le parti. Vennero s ostenute anche dalla commissione Esteri del Senato e in particolare dalla diessina Tana de Zulueta. «A maggio 1999, quando i raid della Nato erano ancora in corso - racconta al Corriere - avevo visto a Washington un comunicato del Pentagono in cui si ammetteva l' uso di proiettili all' uranio impoverito». A luglio la senatrice spinse per un ordine del giorno che inducesse il governo italiano a sostenere l' indagine sui rischi condotta dall' Unep (il programma Onu per l' ambiente). Un' altra inte rrogazione partì a novembre 1999, una terza a gennaio 2000. Nessuna risposta. «Il governo attendeva - secondo Tana de Zulueta - chiarimenti dalla Nato». A febbraio, la conferma ufficiale: l' Alleanza ha sparato 31 mila proiettili all' uranio impoveri to in Kosovo. Per scoprire che gli stessi proiettili erano stati usati anche in Bosnia bisogna aspettare il 21 dicembre scorso. Nel frattempo, c' è stato qualcun altro che si è dato da fare. E' il sottosegretario all' Ambiente Valerio Calzolaio. Anch e lui ha spedito le sue missive: la prima è datata 24 febbraio 2000. Destinatario: il presidente del Consiglio Massimo D' Alema. Chiede «un incontro urgente», «ulteriori studi», e «un' iniziativa di governo» sui pericoli corsi dai nostri soldati in K osovo. Il governo mantiene profilo basso. «C' è stata di mezzo la crisi politica che per due mesi ha bloccato tutto», dice il sottosegretario al Corriere. Ma di mesi ne sono passati molti di più. Il 28 settembre è partita un' altra richiesta di chiar imento, stavolta indirizzata a Giuliano Amato, al ministro della Difesa Sergio Mattarella, al sottosegretario Marco Minniti. Secondo il numero dell' Espresso in edicola oggi, tutto quello che arrivò è «qualche replica tra il burocratico e l' inutile» . Calzolaio adesso ammette: «I ritardi ci sono stati, eccome. L' allarme doveva essere lanciato con più forza. Si poteva controllare prima che gli stessi proiettili non fossero stati usati in Bosnia». Ma si consola: «Siamo stati i primi a far scoppia re il caso». Maria Grazia Cutuli
domenica , 17 dicembre 2000
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Kostunica: «Difenderemo i nostri confini»
Il presidente jugoslavo chiede alla Nato di fermare i guerriglieri albanesi alla frontiera con il Kosovo
Gruppi armati starebbero preparando un' offensiva contro i serbi. Martedì riunione del Consiglio di sicurezza dell' Onu Kostunica: «Difenderemo i nostri confini» Il presidente jugoslavo chiede alla Nato di fermare i guerriglieri albanesi alla frontie ra con il Kosovo La Jugoslavia è pronta a difendere i propri confini. Il governo di Belgrado ha avvertito ieri la Nato e le Nazioni Unite sui pericoli che minacciano la «zona cuscinetto» tra Serbia e Kosovo, dove gli indipendentisti albanesi stanno a mmassando mortai e pezzi di artiglieria pesante, costruendo ponti, potenziando le comunicazioni, con l' intenzione di sferrare un' offensiva nel sud del Paese. L' Onu ha promesso di affrontare la questione martedì in una seduta straordinaria del Cons iglio di sicurezza. Ma se la comunità internazionale non prenderà provvedimenti, hanno fatto sapere le autorità jugoslave, Belgrado «invocherà il legittimo diritto di risolvere da soli i propri problemi, con l' adozione di misure lecite per combatter e il terrorismo». Non è la prima volta che il presidente Vojislav Kostunica si rivolge ai soldati di pace stanziati in Kosovo per chiedere loro di far pulizia contro l' Ucpmb, la formazione guerrigliera che opera da oltre un anno nelle tre enclavi al banesi di Presevo, Medvedja e Bujanovic. Ma le truppe della Kfor finora si sono limitate a pattugliare i confini. E gli agguati contro poliziotti e civili sono continuati. Anche ieri qualcuno ha sparato contro due automobili serbe, ferendo un passegg ero. È qualcosa di più di una frizione tra etnie. Secondo il generale serbo Vladimir Lazarevic, i «terroristi» starebbero preparando un' attacco su larga scala il 27 dicembre. Nella «fascia di sicurezza» istituita nel 1999, una striscia di terra larg a 5 chilometri, agirebbero tra gli 800 e i 1500 combattenti, molti dei quali provenienti dalle file dell' ex Uck, l' Esercito di liberazione del Kosovo. Decine di villaggi, duecento chilometri quadrati di Serbia, sarebbero sotto il loro controllo. Em ergenza a tutti gli effetti. Ieri, a metà giornata si sono ritrovati a Bujanovic sia i vertici della Repubblica serba sia quelli della Federazione jugoslava, compreso il presidente Kostunica, per creare un organo di coordinamento, guidato dal vicepre mier serbo Nebojsa Kovic, incaricato di seguire gli sviluppi della situazione. È stata preparata anche una Dichiarazione da presentare al parlamento jugoslavo, nella quale si parla di «garanzia a protezione degli interessi del popolo serbo», senza tr ascurare quelli dei 70 mila albanesi che vivono nella zona. L' accordo militare firmato dall' esercito jugoslavo e dalla Nato a giugno 1999, in realtà lega le mani a tutti. Alle truppe jugoslave che, pur mantenendo il controllo dell' area, non sono a utorizzate a trasportare armi pesanti nella «zona cuscinetto». Agli stessi militari della Nato che, a loro volta, non possono sconfinare in territorio jugoslavo. Quasi una terra di nessuno, che ha permesso ai guerriglieri di agire indisturbati, sband ierando nuovi programmi secessionisti. Ma non c' è solo l' indipendenza delle enclave in ballo. L' annessione di questi territori al Kosovo permetterebbe agli albanesi di controllare uno dei principali assi stradali del sud est dell' Europa. M.G.C.
lunedi , 13 novembre 2000
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«Chat-line» con barzellette sconce E' l' ultimo segreto sporco della Cia
Uno scandalo coinvolge decine di agenti Usa «Chat-line» con barzellette sconce E' l' ultimo segreto sporco della Cia «Inappropriate», stavolta è la Cia a dirlo. L' eufemismo che accompagnò il Sexgate, Bill Clinton in mondovisione che confessava contr ito «sì, ho avuto una relazione impropria con la signorina Lewinsky», torna ad addolcire episodi poco lusinghieri, storiacce terra terra, basic insticts consumati nelle stanze segrete del potere americano. Segrete, è la parola giusta. A spassarsela c on e-mail «inappropriate», o meglio spudorate, con sesso cibernetico e barzellette a luci rosse, erano infatti 160 impiegati della Central Intelligence Agency, il tempio delle spie e dei sospetti, il mausoleo degli intrighi che governano il mondo da più di mezzo secolo. Passatempi meno fattuali di quelli praticati dal presidente Clinton, ma sufficienti ad allarmare i vertici dell' Agenzia, se si considera che le chat-line scoperte all' interno del palazzo dei misteri, passavano attraverso lo ste sso sistema informatico utilizzato per incamerare dati ultra-riservati, dossier capaci di far saltare governi o far esplodere intere regioni del globo. I 160 impiegati «indisciplinati», finiti sott' inchiesta della stessa Cia, agenti di tutti i livel li, compresi funzionari di consumata esperienza, hanno agito per anni con la discrezione del mestiere. Si erano creati una loro chat-room, ben nascosta agli occhi dei vertici. Un network, al quale si accedeva solo per inviti. Un club esclusivo, insom ma. Più democratici comunque dell' ex direttore della Cia, John M. Deutch, che nel 1996, dopo aver presentato le dimissioni, si era portato un computer nella sua villa di Washington a suo uso e consumo, zeppo di file segreti. Spiate sull' Iraq, retro scena sull' attacco terroristico in Arabia Saudita, e per non guastare, navigazioni a vele spiegate sui siti porno di Internet. Deutch se la cavò con la revoca dei privilegi accordati agli 007. Ma il direttore che ne ordinò l' espulsione dalla lobby delle spie, George Tenet, a febbraio di quest' anno è finito sotto inchiesta proprio per essersi mostrato troppo morbido con lui. Insabbiamento, o cos' altro? Lo scandalo che adesso fa arrossire i vertici della Cia, sembra solo un peccato veniale se paragonato a quello di Deutch. Tanto è vero che, per il momento, l' unica punizione applicata ad alcuni dei funzionari coinvolti è la sospensione dello stipendio. Nessun pericolo per la sicurezza nazionale, dicono all' Agenzia. «Il cattivo uso fatto dei computer non riguarda informazioni riservate», si è premurato di assicurare il portavoce, Bill Harlow. Ma una fonte anonima, consultata dal Washington Post, semina qualche dubbio: i boss dell' intelligence americana hanno a disposizione un progra mma di software, battezzato «Shadow», che permette loro di individuare ogni operazione sospetta effettuata dai dipendenti. Come mai non si sono accorti che 160 persone per anni hanno usato i terminali per i loro giochetti? «Erano esperti, sapevano co me non farsi scoprire», rispondono ancora i portavoce. «Un paio di loro - dice Robert D. Steele, un ex funzionario - sono personaggi creativi. I veri hacker della Cia». Spie delle spie. Agenti doppiamente segreti. «Se l' avessero fatto con i computer del Kgb - commenta un collega - gli avremmo dato una medaglia. Sfortunatamente l' hanno fatto con i nostri». Il Kgb, del resto, non c' è più e anche la Cia non è quella di una volta. L' impenetrabile palazzone, nascosto nel bosco di Langley, sul fiu me Potomac, in Virginia, ha bisogno di una mano di vernice. Dopo la fine della Guerra Fredda l' agenzia ha perso gran parte del vecchio carisma. La sua leggenda fatta di gloria e nefandezze, colpi di Stato imposti, guerre manipolate, assassini politi ci, si è trasformata in un resoconto quasi burocratico dei soldi versati all' opposizione balcanica, delle finte ispezioni in Iraq, delle sbandate politiche in Afghanistan. Scandali e scandaletti - c' è anche quello scoppiato l' anno scorso dei 25 co mputer venduti all' asta con ancora dentro i dati top-secret dell' Agenzia - hanno mostrato che non è un monolite come si credeva. Spie più cialtrone. James Bond, almeno, frequentava donne in carne e ossa. Sesso vero, mica virtuale. Maria Grazia Cutu li
mercoledi, 08 novembre 2000
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Serbia, la rivolta delle carceri
I detenuti chiedono al governo rispetto dei diritti umani e amnistia Il presidente Kostunica continua a vivere in un bilocale nel quartiere turco di Belgrado
Scontri e incendi nei principali istituti di pena del Paese. Un morto tra i ribelli Serbia, la rivolta delle carceri I detenuti chiedono al governo rispetto dei diritti umani e amnistia Una nuova rivolta agita la Jugoslavia, partorita dalla stessa pr omessa di democrazia che ha portato l' opposizione al potere. E' esplosa nei sotterranei del vecchio regime, nelle patrie galere dove l' ex presidente Slobodan Milosevic aveva confinato senza troppa distinzione dissidenti, terroristi, criminali comun i. E' partita domenica sera, dalla prigione di Sremska Mitrovica, nel nord della Serbia, tra roghi appiccati alle celle, la falegnameria in fiamme, la tipografia devastata. Si è allargata alla galera di Nis, nel sud del Paese, dove lo sciopero della fame si è trasformato in rissa, fino a Zabela, a est, vicino a Pozarevac. Le truppe anti-sommossa hanno circondato i tre edifici. Si sono sentiti spari, si è visto il fumo dei lacrimogeni dentro le mura, centinaia di detenuti sui tetti, diversi ferit i. E un morto: Vasilije Kuojoivic, 30 anni, scivolato dalle tegole, nel carcere di Nis. I detenuti urlano come manifestanti in piazza. E' il loro turno, adesso. Denunciano vessazioni, violenze, torture, l' angosciante routine carceraria che in questi anni si è consumata in silenzio, nella zone d' ombra dell' ultima dittatura dell' Europa orientale. Reclamano condizioni di vita migliori, rispetto dei diritti umani, con la stessa ansia di normalità che si respira a Belgrado. Raccontano i segreti c ustoditi dal regime: si mangia poco nelle tre prigioni principali del Paese, si vive in celle sovraffollate, i secondini si comportano da aguzzini, i dirigenti rubano tutto. Peggio ancora per i detenuti politici: due pasti al giorno anziché tre, nien te brande per dormire, ci si stende sul pavimento. «Noi fuori, lo Jul dentro», dice uno striscione esposto a Pozarevac, alludendo al partito di Mirjana Markovic, la moglie di Milosevic. I detenuti chiedono sconti di pena del 30% e il siluramento dell e autorità carcerarie. «Siamo pronti al dialogo - ha detto per telefono uno di loro -. Ma non con le guardie, perché sono corrotte». Vogliono anche l' amnistia. Azzerare il passato, ora che il nuovo presidente Vojislav Kostunica dimostra di voler cam biare davvero tutto. La questione è delicata. I serbi chiedono di poter usufruire del provvedimento che potrebbe essere varato per gli albanesi del Kosovo. Kostunica, incalzato dagli «amici» occidentali, si è impegnato infatti ad affrontare il proble ma degli 850 kosovari imprigionati in Serbia a giugno 1999, alla fine della campagna militare Nato. Accusati di «terrorismo», o anche senza accusa, per puro odio etnico, non hanno mai incontrato un avvocato, né hanno mai visto una sentenza che giusti ficasse la prigionia. Kostunica ne ha già liberato una dozzina e promette di rilasciarne altri. Ma tra i serbi si è acceso il rancore: a Srmeska Mitrovica hanno dato fuoco alle celle dei kosovari. A Nis una testimone, Bosiljka Sumas, racconta di «un' orgia di stupri». I ribelli «hanno fatto irruzione nel nostro reparto e adesso è l' inferno. Costringono i compagni a violentare le albanesi e si scagliano gli uni contro gli altri». Kostunica dovrà affrontare loro e tutto il resto. I conti con il p assato includono anche quelli con la giustizia internazionale e i crimini di guerra. Il nuovo presidente ha accettato di aprire un ufficio del Tribunale Onu a Belgrado. Che cosa farà di Slobodan Milosevic, non si sa ancora. Ma da quel regime continua a prendere le distanze. Anche nella forma. Ha rifiutato la storica residenza di Tito che gli aveva offerto Milosevic il 6 ottobre, giorno del suo insediamento, continuando a vivere con la moglie Zorica e una colonia di gatti al quarto piano di un pa lazzo modesto, piantato a un incrocio del quartiere turco di Dorciol. Un salotto, una camera da letto, bagno e cucina: la sua reggia è tutta qui. I vicini giurano di vederlo spesso andar giù con i sacchi della spazzatura. Maria Grazia Cutuli
sabato , 04 novembre 2000
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Manila, i giochi proibiti di Estrada Il presidente filippino verso l' incriminazione per tangenti sulle lotterie
Testo non disponibile La gente lo preferiva sul grande schermo, quando recitava da giustiziere del popolo, annientava i nemici e trionfava sempre, a fianco dei più poveri. Erano film di serie B, ma non importa. Anche Ronald Reagan aveva fatto la star di secondo pia no prima di diventare presidente degli Stati Uniti. Il problema è un altro: Joseph Estrada, 63 anni, l' ex attore dai baffetti sottili messo alla guida delle Filippine, si è comportato come i cattivi dei suoi film. Si sarebbe arricchito con bische e casinò. Avrebbe svaligiato interi tavoli da gioco con le sue voraci tangenti, sbancato lotterie, saccheggiato i super Bingo. In 28 mesi al potere si sarebbe intascato 12 milioni di dollari, quasi 30 miliardi di lire. Altro che Robin Hood. Altro che E rap, l' «amicone». Estrada non è più amico di nessuno. «Dimissioni», chiedono a Manila. «Impeachment», minacciano in Parlamento. A organizzare la fronda non c' è solo l' affascinante e ambiziosissima vice-presidente, la signora Gloria Macapagal Arroy o, che da sempre scalpita per prendere il suo posto. Anche gli alleati chiave l' hanno abbandonato. Proprio ieri, il presidente del Senato, Franklin Drilon, e il portavoce della Camera, Manuel Villar, hanno lasciato il Lamp, il partito al governo, tr ascinandosi dietro 40 parlamentari. Giovedì li aveva preceduti il sottosegretario al Commercio, Manuel Roxas, dimettendosi dall' incarico. Estrada resiste, rispolverando la vocazione dell' outsider: «Credo che debba essere il popolo a decidere». Vogl iono l' impeachment? Che facciano pure: «La verità è dalla mia parte». Per procedere all' incriminazione è necessario il voto di un terzo della Camera dei rappresentanti, 73 deputati. Secondo Heherson Alvarez, il leader dell' opposizione che guida la protesta, ce ne sono 78 disposti a dare il via al processo contro il presidente. L' ostacolo potrebbe presentarsi al Senato, dove Estrada conta ancora su una maggioranza a suo favore. Ma il leader ha un altro nemico da fronteggiare: la Chiesa cattol ica. Raduni di preghiera in tutto il Paese per chiedere le sue dimissioni, le terribili parole del cardinale Jaime Sin - Estrada ha «perso ogni ascendente morale» - rischiano di farlo fuori più velocemente dei suoi avversari politici. Corrotto e anch e un po' depravato, questo presidente. La Chiesa non gli ha mai perdonato le notti alcoliche, le scorribande sessuali, i tre figli illegittimi. Meglio Gloria Arroyo. Isolato o tradito, Joseph Estrada? Lo scandalo, che lo infanga davanti al mondo e ri schia di mettere in seria difficoltà l' economia delle Filippine, comincia con il voltafaccia di un amico, Luis Singson, governatore della provincia di Ilos Sur. Avevano passato notti intere a bere whisky loro due, sin dagli anni Sessanta. Singson, p adrino di uno dei suoi figli, l' aveva aiutato a vincere le presidenziali. Ma poi, tutto a un tratto, il governatore decide di cantare. Lo fa in conferenza stampa, poco più di un mese fa, raccontando di aver raccolto per conto del presidente tangenti per 9 milioni di dollari tra gli operatori del jueteng, una lotteria illegale. Altri 2 milioni e 800 mila dollari sarebbero stati prelevati dalle tasse sui tabacchi. Perché Singson parla? Estrada gli avrebbe fatto un grosso sgarbo: assegnare un cont ratto a un gruppo rivale per il lancio di una nuova lotteria, il «Bingo Due Palle». L' accusato controbatte: bugie dell' ex amico per coprire i buchi nelle finanze della provincia. A Manila ricompare l' ombra della grande corruzione, il peccato capit ale dell' ex dittatore Ferdinando Marcos scacciato dal Paese 14 anni fa. Si annuncia il tonfo economico del peso, la valuta nazionale, sempre più barcollante di fronte al dollaro. E soprattutto si affaccia la delusione di una presidenza che sembrava partita con i migliori auspici. Estrada, eletto il 30 giugno 1998, aveva ottenuto 11 milioni di voti, il consenso più vasto nella storia delle Filippine. Mentre le Tigri asiatiche vacillavano, lui ereditava dal predecessore, Fidel Ramos, un' economia relativamente sana. Ma non ha saputo fare nessun passo avanti. Ha promesso riforme che non ha mantenuto. Ha sostanzialmente fallito anche sulla liberazione degli ostaggi occidentali catturati dai ribelli del fronte Abu Sayyaf. All' ex attore, ormai gonfio di alcol e di gotta, non rimane forse nemmeno la vanità. «Mi sento più bello ogni giorno che passa», diceva un anno fa. Oggi può sentirsi semplicemente più solo. Maria Grazia Cutuli ARCIPELAGO DIFFICILE IL PAESE Le Filippine sono un arcipelago in cui le 11 maggiori isole formano il 92% del territorio. Oltre 70 milioni gli abitanti. La capitale è Manila LA STORIA Colonia spagnola dal XVI secolo, le Filippine (cattoliche) sono divenute possedimento degli Stati Uniti nel 1898. L' indipendenz a è del 1946 LA DITTATURA Nel Paese è ancora vivo il ricordo della ventennale dittatura di Ferdinando Marcos, terminata grazie alla rivolta popolare guidata da Corazon Aquino nel 1986. Dopo di lei si sono succeduti alla presidenza Fidel Ramos e Josep h Estrada, oggi sotto accusa L' ECONOMIA Tra i Paesi asiatici, le Filippine sono tra quelli che hanno meno patito la crisi del ' 97-98. Le rimesse degli emigranti rimangono fondamentali nell' economia locale
lunedi , 30 ottobre 2000
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Il Gandhi dei Balcani sconfigge i «falchi» e sogna l' indipendenza
IL PADRE DELLA RIVOLTA Il Gandhi dei Balcani sconfigge i «falchi» e sogna l' indipendenza Il Kosovo l' ha scelto di nuovo, come nel mito dell' eterno ritorno. Come se di mezzo non ci fossero stati la lotta armata, i bombardamenti della Nato, la puliz ia etnica ordinata da Belgrado. Come se questi ultimi due anni di sangue e rivolta, dominati dai falchi dell' Uck, fossero stati solo una parentesi, dolorosa ma necessaria. Ibrahim Rugova, l' ex presidente «non riconosciuto» del Kosovo, l' intellettu ale pacifista eletto nel ' 92 e ancora nel ' 98, quando il voto albanese era l' unica sfida al potere serbo, trionfa alla prima prova di democrazia concessa alla sua terra. Torna sul podio come allora, con la stessa sciarpa di seta al collo e la stes sa linea politica, improntata alla moderazione. Ma il viso non è più quello da penitente esangue. È la faccia di un vincitore. Lo sguardo, cronicamente triste, brilla sotto i riflettori. È quello di un vero leader. Rugova non è più il «Gandhi dei Bal cani», troppo passivo per le esigenze della guerra di liberazione. Nemmeno l' ambigua figura che in piena campagna Nato apparve a fianco di Slobodan Milosevic chiedendo la fine dei raid. A 56 anni il teorico dell' irredentismo diventa l' interlocutor e privilegiato della comunità internazionale, il fiduciario più pacato nel quale poteva sperare l' Occidente. Il Kosovo ha bisogno di ordine. L' arroganza degli ex comandanti dell' Uck e la prepotenza dei nuovi clan fanno paura. Per questo il popolo ha scelto Rugova. La gente lo ha assolto dai suoi peccati, la diplomazia l' ha resuscitato restituendogli onore e credibilità. Anche la sua storia sembra adesso la parabola perfetta per veleggiare verso una quieta indipendenza. Nato nel 1944 nel vill aggio di Crnce d' Iskod, da una famiglia di proprietari terrieri, Rugova perde il padre e il nonno per mano dei partigiani di Tito. Allo stesso modo vede morire due zii. Non può che crescere ribelle. Nel ' 76 ottiene una borsa di studio a Parigi per un dottorato alla Sorbona: la voce del filosofo Roland Barthes risuona tra i banchi. Altro segnale: l' intellettuale deve uscire dal guscio, deve farsi «impegnato». Non c' è arena migliore del Kosovo. Nel 1989 Rugova viene espulso dalla Lega dei comu nisti per aver firmato la petizione «Apel 215», contro la decisione di Milosevic di cancellare l' autonomia della provincia. Tre anni dopo, la prima elezione «non riconosciuta». È il 1992. In Bosnia, i musulmani subiscono l' assedio dei serbi. Ma Rug ova sceglie una strategia diversa: un governo ombra con istituzioni parallele per gli albanesi. Sfiora il Nobel per la pace. Comiciano i primi sospetti. Troppa arrendevolezza, troppo pacifismo. Che stia tramando con Belgrado? Intanto si apre il tempo della lotta: l' Uck nasce sotto al suo naso, la «causa» gli sfugge di mano. Quando i morti si contano a decine, il segretario di Stato americano Madeleine Albright entra in idillio con Hashim Thaci, il capo dell' Uck . Anche l' Occidente scarica Rug ova. Il «Gandhi dei Balcani» crea una sua milizia, le Fark (le Forze armate della repubblica del Kosovo), appoggiata dall' ex presidente albanese Sali Berisha, ma resta marginale. Durante l' intervento Nato si teme per la sua vita. E invece eccolo in tv, accanto a Milosevic a pregare l' Occidente di smetterla con le bombe. «Ero in ostaggio», si giustificherà quando arriverà a Roma con 11 familiari al seguito, per incontrare Lamberto Dini e Massimo d' Alema. Il mistero resta. Le malelingue aggiun gono che di ritorno in Kosovo si sia portato dietro 14 chili di fusilli. Maria Grazia Cutuli IL PERSONAGGIO I PRIMI ANNI Ibrahim Rugova nasce nel villaggio di Crnce d' Iskod nel 1944. Si laurea a Pristina, poi ottiene un dottorato a Parigi LA LOTTA N el 1992 viene eletto presidente dell' autoproclamata Repubblica del Kosovo. Viene riconfermato nel 1998, ma si scontra presto con i radicali passati alle armi L' APPELLO Durante i raid Nato appare accanto a Milosevic per chiedere la fine dei bombarda menti
venerdi , 27 ottobre 2000
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Kursk, per i marinai è stata una lenta agonia
Trovato un biglietto sul corpo di un ufficiale: «Sto scrivendo al buio, qui dentro siamo ancora in 23»
Dragosei Fabrizio,
Kursk, per i marinai è stata una lenta agonia Trovato un biglietto sul corpo di un ufficiale: «Sto scrivendo al buio, qui dentro siamo ancora in 23» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MOSCA - Ammassati in 23 nella sezione di poppa numero 9, senza più speranze , al buio e al freddo delle profondità artiche. Così sono morti, per soffocamento o annegamento, i membri dell' equipaggio del sottomarino Kursk sopravvissuti alla terribile esplosione che il 12 agosto aveva fatto affondare il gioiello della marina r ussa. L' agonia dei 23 uomini è durata almeno due ore e mezzo, mentre le speranze di riuscire a lasciare la carcassa del Kursk, ormai irrecuperabile, svanivano. Qualcuno ha tentato di passare attraverso il boccaporto d' emergenza, ma senza successo. E mentre l' aria si faceva sempre più irrespirabile, un ufficiale ha scritto poche righe alla moglie, un ultimo addio. Una lettera che è stata ritrovata sul suo corpo (uno dei quattro recuperati mercoledì) e che ora getta un minimo di luce sulle ulti me ore del pachiderma subacqueo ferito a morte. Il tragico documento è stato in parte letto ieri a un gruppo di vedove dei 118 marinai del Kursk dall' ammiraglio Kuroyedov, comandante in capo della marina. Scrive dunque Dmitrij Kolesnikov, capitano, responsabile delle turbine e del settimo settore: «Ore 13,15, tutto l' organico del sesto, settimo e ottavo compartimento è passato nel nono. Siamo qui in 23. Abbiamo preso questa decisione in seguito all' incidente. Nessuno di noi riesce a salire su ». Questa prima parte del messaggio è scritta in maniera chiara, su righe allineate. Poi, sul retro del foglio segue una parte personale, diretta alla moglie Olga con la quale si era sposato appena tre mesi prima e che ieri tra le lacrime ha detto di voler salutare un' ultima volta il suo Dima. E' confusa, quasi scarabocchiata. Inizia con un' altra ora: «13,5... sto scrivendo alla cieca...» Il resto non è stato divulgato. Si sa solo che in un altro punto il capitano Kolesnikov dice che due o tre marinai avrebbero tentato di passare attraverso il boccaporto d' emergenza, che si trova proprio in cima al nono compartimento stagno. Se 13,5 significa le 13 e 50 o 59 minuti, vuol dire che dal momento dell' esplosione e dell' affondamento, avvenut i alle 11,30 sono passate poco più di due ore e mezzo. Il fatto che Kolesnikov non abbia aggiunto messaggi successivi indica che con ogni probabilità è morto poco dopo. Non sappiamo invece se altri marinai sono sopravvissuti più a lungo, addirittura per giorni, come si era pensato immediatamente dopo la tragedia, quando si erano sentiti dei rumori, interpretati come colpi battuti sullo scafo dai sopravvissuti. Non sappiamo dunque se era possibile salvare qualcuno a bordo del Kursk. Forse ulterio ri ricerche da parte dei sommozzatori potranno chiarire ulteriormente gli eventi, se le condizioni climatiche lo permetteranno. Ieri infatti tutte le operazioni sono state sospese a causa dei venti a più di 70 chilometri l' ora e di una tempesta di n eve in arrivo. Gli esperti non riescono ancora a capire esattamente come mai i 23, o almeno alcuni di essi, non siano riusciti a salire alla superficie. Ad agosto i sub norvegesi trovarono il boccaporto di sicurezza allagato. All' interno del compart imento nove c' erano invece ancora alcune bolle d' aria. I marinai potrebbero aver tentato di allagare lo stesso compartimento per equilibrare la pressione interna (1 atmosfera) con quella esterna (11 atmosfere, visto che il sottomarino si trovava a 108 metri di profondità). A quel punto i marinai sopravvissuti all' impatto violento dell' acqua che entrava nel compartimento avrebbero potuto salire in pochi secondi alla superficie, senza subire alcun danno fisico. Contrariamente a quanto affermat o dalle autorità russe ad agosto, infatti, la pressione a quelle profondità non provoca alcun danno all' organismo umano. Inoltre anche una risalita rapida non avrebbe comportato il rischio di embolie o scoppio dei polmoni (rischio esistente per i su bacquei che scendono con le bombole) in quanto l' aria presente sul sottomarino era a 1 atmosfera, esattamente come in superficie. Ma forse i marinai erano già stremati dalla mancanza di aria fresca, oppure feriti. Solo ulteriori recuperi potranno ch iarire questo punto. La lettera del capitano Kolesnikov non ci dice nulla invece sulle cause dell' affondamento del Kursk o sulla natura delle due esplosioni avvenute a bordo. E questa è, per ora, una grave delusione per i militari i quali hanno avvi ato l' operazione di recupero delle salme proprio allo scopo di cercare biglietti o messaggi che spieghino l' accaduto. Per ora le operazioni vanno avanti. Il presidente Putin ha detto che la Russia intende «mantenere le promesse fatte alle famiglie dei marinai e fare tutto il possibile per rendere gli onori finali agli eroici marinai». Non appena le condizioni del mare lo permetteranno, si praticherà un altro foro all' altezza del settore nove (probabilmente in basso) per poter così trovare alt ri corpi. Ma dopo, con ogni probabilità, le ricerche verranno sospese perché nelle altre sezioni non dovrebbe più essere possibile trovare corpi, a causa dei danni provocati dalla seconda esplosione che è stata di portata devastante. In ogni caso, se condo esperti militari, la marina ha affittato la piattaforma norvegese solamente fino al 13 novembre. Fabrizio Dragosei AMORE E MORTE L' angoscia della moglie «Avevo un presentimento» Era un' esercitazione come tante, quella nel Mar di Barents. Non c' era ragione di aver paura, niente che facesse pensare al peggio. Dmitri Kolesnikov, «Dima» per gli amici, deve esserselo ripetuto decine di volte indossando l' uniforme con i galloni da capitano di vascello che l' avrebbe accompagnato nel ventre d el Kursk. Ma l' inquietudine, quando prende allo stomaco, è difficile da scacciare. I gesti non furono quelli di sempre. Il giovane ufficiale russo fece qualcosa di nuovo, mentre si preparava alla missione: si tolse la catenina con la piastrina milit are e un piccolo crocefisso che teneva al collo, la lasciò sul comodino, prese carta e penna e scrisse dei versi alla moglie Olga, la ragazza sposata qualche settimana prima. Versi d' amore e di paura, marcati dal retrogusto tragico che accompagna l' animo russo: «Se verrà l' ora della mia morte, un' ora inevitabile prima o poi, voglio che mi colga con le parole "t' amo" sulle labbra». Premonizione della fine, in un tiepido mattino di mezz' agosto. Eros e thanatos a tormentare l' inconscio. Nel freddo del Mar di Barents, il giovane ufficiale ha visto i suoi 27 anni sprofondare nel buio, la paura trasformarsi in terrore, l' amore trasmigrare nella morte. Qualche ora prima della fine, «Dima» ha scritto ancora, un lungo messaggio d' addio, con una matita speciale impermeabile all' acqua, trovata nei kit del sottomarino. Due pagine fitte. All' inizio parole chiare, caratteri a stampatello, per raccontare la fuga dalle acque che allagavano il Kursk dopo le due esplosioni a prua: «Tutto l' e quipaggio si è spostato dai compartimenti sesto, settimo, ottavo al nono. Siamo 23 persone qui dentro». Poi, quando anche l' ultima luce si spegneva, sillabe sovrapposte, note «scritte a tentoni». Il diario di bordo diventa testamento sentimentale, a ncora una volta per Olga. Con sangue freddo da veterano e la disperazione del naufrago, il capitano Kolesnikov ha depositato l' ultimo messaggio dentro una tasca impermeabile, tra le lamiere di un sottomarino nucleare, a 108 metri di profondità. La l ettera è riemersa dalle onde, macabra, inquietante, disperata come un fantasma dell' abisso. Sbugiarda le versioni ufficiali: quei marinai non sono morti subito come Mosca ha voluto far credere, è stata un' agonia. Fa a pezzi la pietà di chi ha volut o pensare che dentro al Kursk la tragedia si fosse consumata in un secondo. Riaccende il dolore di chi ha tentato di rassegnarsi. Olga, la maestra diventata vedova a 20 anni, ieri ha pianto di nuovo davanti alle telecamere, pensando all' ultima parte di quel messaggio, alle parole segrete e private dedicate a lei che i vertici militari non hanno voluto diffondere, ai frammenti di un' intimità sopravvissuta alla morte. «Sento un immenso dolore. Avevo la sensazione che mio marito non fosse morto s ubito e il tormento che mi portavo dentro è diventato realtà». Son rimasti in silenzio i genitori di Dmitri, il padre Roman, insegnante all' accademia navale di San Pietroburgo che aveva trasmesso al figlio la passione per la carriera militare, e la madre Irina, vicepreside di una scuola media, tutti e due inchiodati assieme alla nuora sulla banchina del porto di Vediaevo, il piccolo villaggio della Marina sul Mar di Barents. Olga portava al collo l' ultimo ricordo: la catenina con la piastrina militare e il crocefisso, abbandonata sul comodino. Maria Grazia Cutuli
mercoledi, 25 ottobre 2000
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Kostunica: «Crimini serbi in Kosovo»
Un rapporto all' Onu raccomanda l' indipendenza per la provincia a maggioranza albanese
Il nuovo presidente jugoslavo si assume la responsabilità delle azioni commesse dalle milizie di Milosevic Kostunica: «Crimini serbi in Kosovo» Un rapporto all' Onu raccomanda l' indipendenza per la provincia a maggioranza albanese E' la prima ammiss ione di colpa, la prima assunzione di responsabilità e anche il primo segno di rimorso per le vittime del Kosovo. Vojislav Kostunica, il nuovo presidente della Federazione jugoslava, continua la corsa verso la normalizzazione dei rapporti con l' Occi dente, facendosi carico dei delitti commessi dal suo predecessore, Slobodan Milosevic. «Sono pronto ad accettare la colpa per tutta quella gente che è stata uccisa, per quello che Milosevic ha fatto e, come serbo, mi assumerò la responsabilità di mol ti di quei crimini», ha detto il leader durante un' intervista alla televisione americana Cbs. Una verità che crocefigge una volta di più Milosevic, il suo esercito, la polizia dislocata nella provincia serba a maggioranza albanese, prima e durante l a campagna Nato del 1999. Crimini di guerra e crimini contro l' umanità, è l' accusa rivolta dal tribunale penale dell' Aja a «Slobo». Genocidio, è il termine usato dal giornalista della Cbs. Kostunica conferma: «Questi sono i crimini e tutti coloro che sono stati uccisi sono vittime». C' è solo un attimo in cui l' orgoglio nazionale risorge: «Devo dire che molti crimini sono stati commessi anche dall' altra parte e che molti serbi sono stati uccisi». E subito dopo, quando ammette che Milosevic «sarà sì processato da qualche parte», ma che il suo arresto non è nelle priorità dell' attuale governo. Kostunica accetta le condizioni della comunità internazionale, ma non è disposto a varcare l' ultima soglia: consegnare l' ex presidente al tribu nale dell' Aja potrebbe mettere in difficoltà la nascente democrazia, ha detto ieri. L' ammissione di colpa significa molto, ma non ancora tutto. Il nodo del Kosovo si ripropone in un rapporto, 297 pagine, presentato al segretario dell' Onu Kofi Anna n da una commissione indipendente, creata dal premier svedese Göran Persson. «Indipendenza condizionata», propongono gli esperti. Un processo per sganciare definitivamente la provincia dalla Federazione jugoslava. «Non è realistico né giustificabile che gli albanesi del Kosovo accettino il regime di Belgrado», ha commentato il presidente della commissione, il giudice sudafricano Richard Goldstone. E' quello che vogliono i kosovari, e che l' Onu, almeno sulla carta, esclude, continuando a parlare di «autonomia». La provincia resta area «protetta». Una strana creatura della diplomazia internazionale, pattugliata da 40 mila soldati Nato e amministrata dall' Onu. Impensabile, con le faide etniche e i regolamenti di conti che ancora la insanguin ano, lasciarla a se stessa. L' unica prova di democrazia concessa saranno le elezioni amministrative, fissate per domenica prossima. I partiti principali sono tre: l' Ldk di Ibrahim Rugova, il leader moderato, il Pdk di Hashim Thaci, l' ex capo dell' Esercito di Liberazione del Kosovo, e l' Aak di Ramush Haradinaj, anche lui con meriti sul campo, come comandante dell' Uck. I sondaggi favoriscono Rugova, ma c' è chi prevede incidenti ai seggi, blocchi stradali, violenze interetniche. I serbi si a sterranno. I 100 mila sopravvissuti alla grande fuga, cominciata a giugno 1999, con l' entrata delle forze di pace in Kosovo, hanno rifiutato di presentare candidati e di registrarsi nelle liste elettorali. Denunciano una vita blindata: insicurezza, impossibilità di muoversi fuori dai loro quartieri, «illegittimità» del governo Onu. Il mea culpa di Kostunica a Belgrado non basta a rassicurarli. Proprio due giorni fa, come avviene ormai da oltre un anno, scoppiava una granata nel quartiere di Ulp jana, contro le loro case. Maria Grazia Cutuli
mercoledi, 25 ottobre 2000
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La nazionale croata all' attacco contro il Tribunale dell' Aja
CALCIO E POLITICA La nazionale croata all' attacco contro il Tribunale dell' Aja Da una parte c' è il nuovo governo croato, filo-occidentale, disposto a collaborare con il Tribunale dell' Aja. Un presidente come Stipe Mesic, un premier come Ivica Rac an, saliti al potere sotto bandiere democratiche. Dall' altra c' è la passione dei tifosi, la nazionale di calcio, il cuore dell' orgoglio patrio, che si rivela all' improvviso una lobby nostalgica, arroccata nella difesa di un passato bellicoso e sa nguinario. Lo scontro si è aperto a Zagabria l' 11 ottobre, quando l' intera squadra ha deciso di firmare una petizione per bloccare l' arresto di alcuni ufficiali, sospettati di crimini di guerra in Bosnia. Citando «la difesa della dignità della gue rra» come strumento al servizio della patria, i calciatori se la son presa con il governo di centrosinistra. Responsabile di «aver tradito la centenaria lotta croata per la libertà». E anche peggio. Asservito all' Occidente. Pronto a svendere l' ered ità del passato. Convinzioni profonde? Parole ispirate? C' è voluto poco, praticamente niente, per riconoscere la mente della protesta: Miroslav Blazevic, l' allenatore della squadra, un vecchio nazionalista cresciuto all' ombra dell' ex presidente F ranjo Tudjiman. Sport e politica si sono confusi subito in un unico guazzabuglio, con il «Mister» tra due mannaie. Da una parte accusato di non esser riuscito a qualificare la squadra per gli Europei di quest' anno e di aver cominciato la campagna pe r la Coppa del mondo del 2002 con due pareggi, contro il Belgio e contro la Scozia. Dall' altra invitato a starsene zitto su una materia delicata come quella dei criminali di guerra. Bombardato dai media, l' allenatore, dopo nove anni di incarico, ha deciso la resa: le dimissioni, presentate ieri, sono state accettate dal Comitato generale della Federazione nazionale. «Non riesco più a sopportare la pressione degli organi di informazione - ha detto prima di lasciare i campi di calcio - e nemmeno lo stress. Ho perso la credibilità del pubblico e questo mi ha distrutto». La maggior parte dei calciatori si è schierata con lui e Alen Boksic, ex bomber di Juve e Lazio passato al Middlesbrough, ha commentato: «Ci penserò molto prima di accettare la convocazione del nuovo tecnico». Per l' allenatore il rimpianto è doppio: lasciare la squadra che gli era stata affidata dallo stesso presidente Tudjiman e non avere nemmeno il conforto del suo ex tutore, morto nel dicembre 1998. «Se Tudjiman mi a vesse detto di rimanere, l' avrei fatto. Sono stato l' ultimo membro dell' Hdz (il partito nazionalista del defunto presidente, ndr) a occupare un posto di rilievo». Tempi passati. L' Hdz è stata sconfitta su tutti i fronti dopo la scomparsa del lead er. E con essa anche la linea intransigente voluta da Tudjiman, superfalco del nazionalismo balcanico, sui criminali di guerra: per anni nessuna collaborazione con il Tribunale dell' Aja, nessun cedimento alle pressioni internazionali, né riconoscime nti delle responsabilità croate nei massacri in Bosnia. Il centro-sinistra al potere ha invertito la rotta, la Croazia più vicina all' Europa, piena apertura alle richieste del Tribunale penale dell' Onu. Anche a costo di mettere le manette ai vecchi riottosi vertici militari. M. G. C.
venerdi , 20 ottobre 2000
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Affari d' oro per i mercanti d' armi
L' allarme dell' Istituto di studi strategici: 94 mila morti nelle guerre del mondo
Affari d' oro per i mercanti d' armi L' allarme dell' Istituto di studi strategici: 94 mila morti nelle guerre del mondo Hanno comprato più armi loro nell' ultimo anno, che ogni altra regione del mondo. Grazie ai profitti del petrolio, i Paesi del Me dio Oriente tornano a investire nel settore militare. E lo faranno ancora, se i prezzi del greggio continueranno a salire, 37 dollari al barile sfiorati nei giorni scorsi, con la crisi in Israele. Clienti di lusso al gran bazar della morte, secondo l ' Istituto internazionale di studi strategici di Londra, con le tasche piene di petrodollari e vocazione da barricata. Il rapporto pubblicato ieri, il «Military Balance» per l' anno 2000-2001, pronostica un futuro bellicoso tra i Paesi arabi: 60 mili ardi di dollari (quasi 140 mila miliardi di lire) spesi in armamenti. E' la stessa cifra dell' anno prima, ma con la prospettiva di spendere di più. Le potenze regionali, anziché ridurre il budget del 5% come previsto, dato che le entrate non mancano , sembrano orientate a comprare altri missili, altri cannoni, altri aerei da combattimento da schierare in una regione già rovente. A venderli, il rapporto non lo dice, ci pensano i sette mercanti di sempre: Stati Uniti, Russia, Germania, Cina, Franc ia, Gran Bretagna, Italia. Il primo acquirente è l' Arabia Saudita, che rinforza il budget militare del 2,2%, fino a 18,7 miliardi di dollari (40 mila miliardi di lire). E forse anche di più, se le cose andranno come l' anno scorso, quando Ryad ha sf orato i conti del 19%. Il secondo non è uno Stato arabo, non possiede pozzi, ma sulla difesa mostra di voler tornare a giocare gran parte della sua politica. E' Israele. Assieme alle prospettive di pace con i palestinesi, sembra aver seppellito anche la moderazione seguita fino all' anno scorso, quando le sue spese militari erano scese al 9% del prodotto interno lordo. L' aria di guerra che soffia nel Paese si traduce in un incremento del 3,9% negli acquisti in armi. Ed è anche la causa dell' ul timo aumento del petrolio. I prezzi del greggio, che sarebbero dovuti scendere con le misure adottate al vertice di Caracas di fine settembre, sono risaliti non appena è partita la rivolta nei Territori. Nuovi acquisti anche per gli Emirati Arabi: 80 aerei da combattimento F-16 Block 60 per un totale di 6,4 miliardi di dollari. La sindrome del bunker, secondo il rapporto dell' Istituto di studi strategici, sembra contagiare gli Stati Uniti che tornano a stanziare nuovi fondi per la Difesa. Nonos tante la decisione sul progetto di scudo spaziale sia stata rimessa nelle mani del prossimo presidente, il Pentagono si sta comunque preparando «a realizzare entro il 2007 un sistema destinato a contrastare quella che viene percepita come la minaccia più immediata, la Corea del Nord». Secondo i primi calcoli, ci saranno da spendere 26 miliardi di dollari nell' arco di un ventennio. Chi invece non vuole investire, e rischia di rimanere anche politicamente indietro, è l' Europa. A dispetto delle s ue ambizioni militari, del progetto di difesa comune che dovrebbe vedere entro i prossimi tre anni la nascita di un esercito di 60 mila uomini, il continente lesina le spese e riduce del 6% il budget. Con un' eccezione: la Gran Bretagna. L' Istituto di studi strategici ricorda che l' esercito europeo è anche un «impegno», dubita delle capacità dell' Europa di mantenerlo e fa notare che all' interno della Nato gli Stati europei non spendono che un quarto dei fondi a disposizione per la ricerca e lo sviluppo militare. «I segnali che i governi europei abbiano intenzione di dare il supporto finanziario necessario per costruire la difesa comune sono molto pochi», ha detto ieri John Chipman, direttore dell' Istituto londinese. Il bilancio alla fi ne rimane stabile: le spese militari mondiali ammontano a 908 miliardi di dollari tanto nel 1998 quanto nel 1999. Ma anche le guerre continuano allo stesso ritmo: 27 conflitti civili e 9 conflitti internazionali hanno ucciso 94 mila persone, due terz i delle quali nell' Africa subsahiarana. Etiopia ed Eritrea, ricorda il rapporto, hanno impegnato fino a 14 divisioni negli scontri di maggio. In Angola, «quasi 6 mila persone sono state uccise nel giro di un anno». Le uniche misure promosse dall' Oc cidente, come quelle contro il commercio illegale dei diamanti per impedire che i profitti delle vendite si trasformino in armi, sono poca cosa. Kalashnikov e machete non mancheranno mai nel bazar di morte dei poveri. Maria Grazia Cutuli
martedi , 10 ottobre 2000
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L' Haider del Belgio: «Gli africani? A casa loro»
Laurea in scienze politiche, tre figli e un ombrello con lo stemma della Carinzia: «Se uno è nato nel Burkina Faso non capisco perché debba venire qui» Filip Dewinter, 38 anni, leader dell' estrema destra: «In Italia le nostre simpatie vanno ad Alleanza nazionale e Lega»
Intervista con il capo del Vlaams Blok: «Con noi proletari e borghesi. Come possono definirci estremisti se abbiamo raccolto il 33% dei voti?» L' Haider del Belgio: «Gli africani? A casa loro» Filip Dewinter, 38 anni, leader dell' estrema destra: «In Italia le nostre simpatie vanno ad Alleanza nazionale e Lega» DAL NOSTRO INVIATO ANVERSA (BELGIO) - Nubi nere nei cieli di Anversa, dicono a Bruxelles. Forse tempesta. Le amministrative sarebbero anche andate bene, con la coalizione Arcobaleno (libe rali, socialisti, verdi) in testa nei principali comuni del Belgio, se l' ombra scura non si fosse allargata sulle Fiandre, sul capoluogo che è anche la seconda città del Paese. La regione, da sempre terra di rivendicazioni secessioniste, da domenica è anche il nuovo e incontrastato feudo dell' estrema destra, un «regno dell' odio» titola Le Soir, conficcato nel cuore d' Europa. Neanche la Carinzia di Jörg Haider viene dipinta alla stessa maniera. Neanche lo stesso Haider è guardato con sospetto quanto Filip Dewinter, il giovane leader del Vlaams Blok, il Blocco fiammingo che ha trionfato ad Anversa con il 33 per cento dei voti. La sede del partito è sobria, un palazzotto del secolo scorso, con pochi mobili e qualche poster in cornice. Nien te teste rasate. Lui, Filip Dewinter, ha la faccia da bravo ragazzo, cravatta sullo spezzato di tweed, occhi scuri e ciuffo ribelle. Ma le parole parlano chiaro: «Il nostro è un partito nazionalista, ovviamente di destra, come la Fpö di Haider, come il fronte nazionale francese, come la vostra Alleanza nazionale. Siamo della stessa famiglia: crediamo nei valori morali e vogliamo tornare a essere i padroni della città che abitiamo». Ha 38 anni Filip Dewinter, una moglie e tre figli. Suo padre fac eva il capostazione. Quando non gioca a squash, non si lancia col parapendio, o non porta a passeggio il pastore tedesco per i giardini di Ekeren, il sobborgo residenziale dove vive, Filip si dedica alle letture e alla scrittura. Si è laureato in sci enze politiche e ha lavorato come giornalista per un paio di anni presso la redazione del Popolo, quotidiano democristiano. Due libri negli scaffali dell' ufficio portano la sua firma: «La nostra gente prima di tutto» e «Signori nella nostra terra». «La lotta all' immigrazione è uno dei pilastri del nostro programma - dice - oltre all' indipendenza del Belgio, la battaglia contro la criminalità, la diminuzione delle tasse». Tolleranza zero è lo slogan unificatore. «Bisogna fermare tanto i clande stini quanto i rifugiati politici. Non credo alle storie delle persecuzioni, sono tutti in fuga per motivi economici. E il paradosso qui ad Anversa è che tocca alla nostra gente integrarsi nelle comunità marocchine e non viceversa. Se uno è nato nel Burkina Faso non capisco perché debba venirsene qui, che se ne stia a casa sua». Lui farebbe lo stesso, assicura. Qualche mese fa, quando la borgomastra socialista della città, la signora Leona Detiege, vietò al Vlaams Blok la sala richiesta per il c ongresso del partito, fu sentito protestare ad alta voce. «Volete forse che i nostri figli imparino la musica dei negri, cioè il tam-tam?». Estremisti? «Come possono definirci estremisti se abbiamo raccolto il 33% dei voti? Qui la gente è stanca di p agare i conti per il resto del Belgio, di subire l' attacco dei criminali e di vedere la città sprofondare in un debito pubblico di 50 milioni di franchi». Fa parte, Filip, della cosiddetta «Direzione carismatica» del partito, un triumvirato con Fran k Vanhelke e Gerolf Annemans, che ha saputo sviluppare la struttura regionale, guadagnandosi molti seguaci che sono rimasti fedeli negli anni. È stato necessario però un aggiustamento: «Il Vlaams Blok, nato a metà degli anni Settanta come filiazione del Volk Sunie, ha attraversato un periodo molto difficile in cui la stampa ci attaccava in continuazione», racconta il leader. La resurrezione è avvenuta a metà degli anni Novanta, quando il partito ha conquistato le simpatie dei giovani e non solo dei sottoproletari, con la strategia della «diversificazione». I nazionalisti vanno nei quartieri popolari e promettono meno tasse, entrano nei quartieri borghesi e predicano la difesa dei valori cattolici contro il libertinaggio sessuale, l' aborto, la decadenza dei costumi, e soprattutto la sconfitta della criminalità. Mire espansionistiche? «A Bruxelles non possiamo sperare più di tanto, con l' 80 per cento della popolazione francofona, ma tra i fiamminghi siamo andati bene anche lì». Nessuna paura di essere messo all' indice? «L' esperienza austriaca è stata molto importante per noi. Tutta la storia delle sanzioni contro Haider era solo un modo per spaventare l' elettorato. Oggi l' atteggiamento dell' Europa si è normalizzato e non vedo perché qualcuno dovrebbe insorgere contro di noi». Dell' Italia Filip Dewinter apprezza varie cose: «Vedo bene la coalizione fra Forza Italia e Alleanza nazionale. Stimiamo il partito di Berlusconi, ma è chiaro che le mie simpatie vanno ad An e alla Lega». Spera di conoscerli presto, gli altri «padri» della destra europea, compreso Haider. Per il momento il giovane leader si accontenta di sfoggiare l' ombrello con lo stemma della Carinzia. Nubi nere qui ad Anversa, come protestano a Bruxelles. Maria Grazia Cutuli FRATELLI DIVISI IL PAESE Il Belgio ha una popolazione di 10.241.506 abitanti. Divisa in due gruppi etnici fondamentali, i fiamminghi (58%) e i Valloni (31%). La religione più diffusa è il cattolicesimo (75%), i protestanti sono il 20%. La lingua più parlata è l' olandese (58%), il 32 % della popolazione invece parla francese, il 10 il tedesco TENSIONE Tensioni tra i fiamminghi del Nord del Paese (che parlano olandese) e i Valloni del Sud (che parlano francese) hanno portato i n anni recenti a emendamenti costituzionali per il bilinguismo
lunedi , 09 ottobre 2000
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Il Kosovo rivendica l' indipendenza Gli albanesi al nuovo leader jugoslavo: inutile coltivare illusioni nazionaliste
Il Kosovo rivendica l' indipendenza Gli albanesi al nuovo leader jugoslavo: inutile coltivare illusioni nazionaliste A Belgrado danzano per strada, felici di essere stati liberati. A Pristina si barricano, nervosi più che mai. Slobodan Milosevic è ca duto, ma c' è poco da festeggiare. Il suo successore Vojislav Kostunica ha pronunciato parole pericolose: «Il Kosovo ritornerà sotto la nostra sovranità». Intenzioni che si scontrano con i trionfalismi precipitosi e le speranze coltivate dai nuovi le ader kosovari. «Questa è una chiamata alle armi», titolava ieri in prima pagina il quotidiano di Pristina Kosova Sot. Alla base c' è un mezzo equivoco, quello di aver ottenuto di fatto, con la campagna militare della Nato, l' indipendenza dalla Feder azione jugoslava. L' Occidente lo ripete da più di un anno: la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite prevede l' «autonomia» della provincia serba a maggioranza albanese, e non l' indipendenza. Ma con i 40 mila soldati della Nato stanziati in Kosovo, l a più grande base militare americana nell' Europa orientale, Camp Bondsteel, piantata in mezzo alla regione, la comunità internazionale ha finito per accreditare le convinzioni dei facinorosi leader locali. A maggior ragione ora che si avvicinano le elezioni amministrative del 28 ottobre, con le quali si comincerà a disegnare e legittimare una prima struttura di potere. LE MINACCE ALBANESI - I vecchi combattenti, ormai in doppiopetto e cravatta, insorgono a uno a uno. Il più esplicito è Jakup Kr aniqi, ex portavoce dell' Uck, oggi segretario generale del Partito democratico del Kosovo: «Kostunica non coltivi illusioni nazionaliste, altrimenti farà la stessa fine di Milosevic. Qualsiasi tentativo di far tornare il Kosovo sotto la sovranità se rba finirà in una sconfitta totale». Altro che democratico, Kostunica. Gli albanesi avevano già lanciato accuse pesantissime nei giorni scorsi: «E' un estremista, amico dei paramilitari». La prova starebbe in una foto che ritrae il neopresidente con un Kalashnikov accanto a un paramilitare serbo, scattata, secondo Pristina, nei giorni in cui Belgrado ordinava la pulizia etnica in Kosovo, durante l' attacco Nato. Il «serpente», l' ex leader dell' Uck Hashim Thaci, sibila come al solito: «Per i Ba lcani è cominciata una nuova era. Ma per il Kosovo non servirà a un granché. Vogliamo essere indipendenti da Belgrado e da Kostunica», ha dichiarato dalla Svizzera, dove si trova a far campagna elettorale presso gli albanesi della diaspora. Ha tolto la mimetica, ma la sua posizione non cambia. Anche a giugno, in un' intervista al Corriere, aveva detto che non ci sarebbe stata nessuna trattativa con l' opposizione serba: «I loro leader sono più nazionalisti di Milosevic. La ragione per cui l' acc usano è proprio quella di aver perso il Kosovo». Anche i «moderati» concordano: «Il Kosovo non sarà mai più parte della Serbia né della Jugoslavia», ripete Naim Jerliu, braccio destro di Ibrahim Rugova. LE SPERANZE SERBE - Rinchiusi in enclave, contr ollate dai blindati della Nato, i pochi serbi rimasti in Kosovo sperano, ma senza troppa convinzione, che l' avvento di Kostunica spezzi l' isolamento. E' una comunità minoritaria e divisa, la loro, tra la roccaforte «moderata» di Gracanica stretta a ttorno al monastero ortodosso del vescovo Artemjie, e i «falchi» di Mitrovica Nord, la città spaccata da un ponte e dal filo spinato. Il leader di questi ultimi, Oliver Ivanovic, un ex dirigente della FeroNikel, ha cercato di convincere i suoi che la caduta di Slobo «non è un disastro, non è una tragedia», che «non devono aver paura», che «forse sarà meglio». Milosevic, ha detto Ivanovic, «era pronto a dimenticarci». Kostunica invece «sarà libero di venire qui a dialogare». Illusioni, come quell e di chi spera che possano tornare i 190 mila serbi e rom fuggiti a luglio dell' anno scorso, sotto l' incalzare delle vendette albanesi? «Temo una nuova guerra», dice Vjosa Dobruna, responsabile per la democrazia e la convivenza dell' Onu. IL DILEMM A - La prima mossa, adesso, tocca all' Occidente. Bodo Hombach, il responsabile del Patto di stabilità per i Balcani, non si sbilancia: «La situazione è ancora troppo confusa - dice al Corriere - e i nervi troppo scoperti per azzardare giudizi veloci ». Ma a Pristina, il francese Bernard Kouchner, «governatore» incaricato per conto dell' Onu, si arrovella. Si era premurato a congratularsi con Kostunica, lui. A invitarlo a risolvergli alcuni problemi cruciali del Kosovo, come il ritorno di 950 alb anesi prigionieri nelle carceri serbe. A ricordare che la missione Onu «continua ad applicare la risoluzione 1244 per preparare la provincia a un' autonomia sostanziale». Ora è nei guai: come costruire relazioni con Belgrado senza perdere la fiducia degli albanesi? E' vero che l' Onu non ha parlato d' indipendenza. Ma l' impressione l' ha data. Anche nei dettagli: gli amministratori occidentali hanno distribuito nuovi documenti, nuove carte di riconoscimento, nuovi fogli per viaggiare. Persino n uove targhe. Più costose di quelle jugoslave, 500 marchi d' assicurazione contro 100, non riconosciute all' estero, impossibile circolarvi, ma autenticamente e finalmente «kosovare». Maria Grazia Cutuli
domenica , 08 ottobre 2000
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Si sgretola il clan di Slobo, il figlio a Mosca Marko, 30 anni, è fuggito con la moglie e il bambino. Anche la sorella Marjia sarebbe partita
Si sgretola il clan di Slobo, il figlio a Mosca Marko, 30 anni, è fuggito con la moglie e il bambino. Anche la sorella Marjia sarebbe partita Milosevic resta a Belgrado, ma non ha passato il suo primo pomeriggio da pensionato ai giardinetti con il ni potino. Quei piaceri domestici, vagheggiati venerdì sera dal leader serbo durante l' ultimo discorso alla nazione, non si addicono ancora al granitico dinosauro dei Balcani. Il nipotino, due anni appena, è stato portato a Mosca da padre e madre, lont ano dai tumulti della capitale, dalle sue rivolte e dalle sue mille trame. La Storia insegna, soprattutto qui nell' Europa dell' Est, quando gli dei cadono è meglio sparire. E' il nuovo giallo che circonda la fine del regime. Una storia che odora di traffici, affari e paura. Il bimbo c' entra poco. E' suo padre Marko, l' erede di Slobodan Milosevic, ad avere buoni motivi per allontanarsi dalla Jugoslavia, nel momento in cui i privilegi del nome si trasformano in lettere scarlatte. Sul suo viaggi o, il riserbo è ovviamente assoluto. Ma gli occhi indiscreti, che hanno riconosciuto la sua chioma bionda platino all' aeroporto di Belgrado, non si sono sbagliati. Marko Milosevic, 30 anni, si è imbarcato ieri mattina sul volo di linea della Jat, di retto a Mosca. Con lui c' era la moglie Milica Gajc, l' appariscente compagna di sempre, e il bambino, che si chiama Marko come lui. Secondo fonti dell' opposizione a Belgrado, si è presentato sotto falso cognome, Jovanovic. Il comandante l' ha tratt enuto per un' ora e mezza, rifiutandosi di farlo partire. Poi, avrebbe ceduto. L' agenzia Itar-tass ha confermato il viaggio. La famiglia si sgretola. Anche Marjia, l' altra figlia di Milosevic, sarebbe partita. Mentre la moglie, Mira Markovic, la ma triarca comunista che ha accompagnato la scalata di Slobo sin dagli anni dell' università, sarebbe ricoverata in una clinica per un crollo di nervi. Qualcuno si aspettava di vederla in Parlamento ieri, con i deputati dello Jul, il suo partito, per l' insediamento del nuovo presidente Vojislav Kostunica. Non si è presentata. Tra tutti coloro che hanno fatto parte del clan dell' ex leader, il più esposto è Marko Milosevic. Si è sempre tenuto lontano dalla politica, come la sorella Marjia. Ma a dif ferenza della ragazza, che si è limitata a fondare una radio privata, il giovanotto ha messo su un feudo economico, con quartier generale a Pozarevac, città di famiglia. Affari leciti, mescolati a sospetti. Si è detto di tutto: Marko mente del contra bbando di sigarette, organizzatore del traffico di carburante nella Jugoslavia assetata dalla sanzioni, riciclatore di denaro sporco. Tinto di biondo in onore del suo idolo, il pilota di Formula uno Jacques Villeneuve, il giovane Milosevic oltre a es sere un guidatore spericolato (ha distrutto una ventina di macchine) e un appassionato collezionista di motoscafi (parcheggiati in Grecia), possiede diverse pizzerie, la discoteca «Madona», un parco di divertimenti, il «Bambiland», e una profumeria, saccheggiata nei giorni scorsi dagli oppositori. Nonostante i complessi - «ho vissuto isolato da quando avevo 13 anni, non ho mai capito se le donne volessero me o puntassero ad altro» - il ragazzo gode di fama di play boy e di vero duro. Risse, mina cce e quanto altro. Si è sempre portato dietro un battaglione di gorilla, ma ogni tanto ha avuto paura: «C' è spesso qualcuno che vuole uccidermi». Soprattutto nei mesi scorsi, quando Belgrado era diventata peggio della Palermo degli anni più bui. Om icidi eccellenti, uno dopo l' altro, a cominciare dall' uccisione di Arkan, l' ex capo dei paramilitari serbi, sedicente imprenditore all' ombra di «Slobo». Marko è fuggito in Russia per mettersi al riparo? A Mosca i Milosevic hanno un uomo di fiduci a: Borislav, il fratello dell' ex presidente, ambasciatore serbo accreditato. Lo stesso che fino a ieri ha ripetuto alla stampa: «Il posto di Slobodan è in Jugoslavia. Non ci sono stati né colloqui né richieste d' asilo in Russia o in altri Paesi». Q ualcuno nel pomeriggio ha visto un' auto dai vetri neri superare il cancello della sua residenza e si è subito pensato a Marko. Ma chi si aspetta che Slobodan vada a trovarlo per visitare il nipotino, azzarda troppo. Il suo messaggio alla nazione, la stretta di mano con l' avversario Kostunica, il tentativo di spacciare la rivolta per una pacifica transizione, non bastano a garantire un futuro tranquillo al vecchio leader. I nemici sono troppi. In casa, c' è l' opposizione con Zoran Djindjic, ca po storico del dissenso, pronto ad accusarlo: «Non mi fido di Milosevic - ha detto ieri -. Temo che stia cercando di proteggersi le spalle per provocare nuovi disordini». All' estero c' è l' implacabile procuratore generale del Tribunale dell' Aja, C arla Del Ponte, che ancora una volta si è rivolta a Kostunica chiedendo di consegnarle Milosevic, accusato di crimini di guerra e crimini contro l' umanità: «Ci sono due strade - ha specificato il presidente del Tribunale Claude Jorda -. O si consegn a o viene arrestato». Gli Stati Uniti sono d' accordo. L' Europa non è così compatta: «Sarà la Jugoslavia a decidere», ha detto ieri il cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Maria Grazia Cutuli Le due settimane che hanno sconvolto la Federazione 24 S ETTEMBRE Nella Federazione jugoslava si vota per le presidenziali e le legislative. I candidati alla guida del Paese sono il presidente Slobodan Milosevic e Vojislav Kostunica, dell' Opposizione democratica serba 25 SETTEMBRE L' opposizione festeggia la vittoria, ma secondo il regime Kostunica non ha la maggioranza assoluta e si andrà al ballottaggio 26 SETTEMBRE La commissione elettorale centrale, a scrutinio quasi ultimato, annuncia che si andrà al secondo turno l' 8 ottobre. L' opposizione co ntesta gli exit poll 27 SETTEMBRE A Belgrado 200 mila persone partecipano al comizio del «presidente eletto» Kostunica 28 SETTEMBRE I risultati definitivi confermano il ballottaggio. Protestano tutti i partiti non governativi 30 SETTEMBRE Milosevic r ifiuta l' ipotesi di mediazione del ministro degli Esteri russo Ivanov, proposta dal presidente russo Putin 2 OTTOBRE Comincia uno sciopero generale per rivendicare la vittoria di Kostunica 3 OTTOBRE Decine di migliaia di persone sfilano per le strad e di Belgrado. Manifestazioni di protesta in tutta la Serbia 4 OTTOBRE L' opposizione chiede che Milosevic si ritiri, che la commissione renda pubblici i dati e che i vertici della tv di Stato si dimettano. La Corte costituzionale dichiara nullo tutt o il procedimento elettorale 5 OTTOBRE La manifestazione dell' opposizione contro il «furto elettorale» si trasforma in un assedio alla capitale. I manifestanti occupano il Parlamento e la tv di Stato 6 OTTOBRE La Corte costituzionale riconosce Kostu nica come nuovo presidente jugoslavo Testo non disponibile Testo non disponibile Testo non disponibile Testo non disponibile
sabato , 07 ottobre 2000
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Ricompare Milosevic e ammette: «Ho perso»
Stretta di mano all' avversario democratico: "Complimenti a lui, ora penso alla famiglia, ma resto in politica"
Ricompare Milosevic e ammette: «Ho perso» Stretta di mano all' avversario democratico: «Complimenti a lui, ora mi riposo, ma voglio restare in politica» Il re è caduto, ha gli occhi pesti, le labbra contratte. E' assediato dalla giustizia internazion ale. Ma accetta la resa e gioca d' astuzia. Via le barricate del regime. Slobodan Milosevic riconosce la vittoria dell' avversario, Vojislav Kostunica. Gli stringe la mano in un clamoroso gesto di pace. Si rivolge alla Nazione, ringrazia coloro che « l' hanno votato e quelli che non l' hanno votato», dicendosi pronto a mettersi da parte, per passare più tempo con la famiglia, in particolare con il nipote Marko. Non è un ritiro dalla scena politica. Solo una pausa. Milosevic annuncia anche che si dedicherà a ricostruire il suo partito, quello socialista e trasformarlo in una forza d' opposizione. Il dittatore muore e risorge nell' arco di una stessa giornata. Sembrava la fine ieri mattina per Slobodan Milosevic. Lo si dava in fuga, trincerato alla frontiera con la Romania, in cerca d' asilo in Bielorussa, a bordo di uno dei tre Antonov decollati in tutta fretta da Belgrado. E invece il presidente caduto se ne stava a casa sua. Igor Ivanov, il ministro degli Esteri russo, l' ha incontrato sotto le telecamere della televisione serba, nel salotto della sua residenza di Dedinje, il quartiere alla periferia della capitale jugoslava, dove vivono i suoi più fidati collaboratori. Milosevic ha accolto il ministro con l' usuale stretta di man o, possente e decisa. Solo i cerchi neri sotto gli occhi, tradivano la fatiche delle ultime ore dell' impero. Ivanov ha poi riferito che «Slobo» vuole «una soluzione pacifica alla crisi». E qualcosa di più: «Vuol proseguire il suo ruolo politico, vuo l restare a capo del suo partito». Gli Stati Uniti sono subito insorti: «Non intendiamo aiutare Milosevic a ricoprire alcun ruolo», ha detto il portavoce della Casa Bianca Jake Siewert. Ma la partita era già forse molto più avanti di quanto l' Occide nte non immaginasse. «Slobodan non ha nessun motivo di fuggire. E' tranquillo a casa sua», ha detto il fratello Borislav nel pomeriggio. Il leader che ha saputo infuocare gli animi dei nazionalisti serbi sulla Piana dei merli in Kosovo nel 1989, il « burattinaio» della mattanza balcanica, il dittatore rimasto 13 anni al potere, non stava pensando né a portare i carri armati in piazza, né a darsi alla fuga. Anzi. A ritagliarsi un momento di tardiva gloria. L' ha fatto in serata, quando ha salito l e scale del Palazzo federale per incontrare Kostunica. Si è congratulato con lui. Ha discusso per un' ora il trasferimento dei poteri. Come se lì fuori, per le strade, non fosse successo niente. Come un normale, democratico avvicendamento. Anche i co mandi dell' esercito si sono piegati al vincitore, riconoscendolo nuovo presidente. Poco prima era arrivato una sentenza della Corte costituzionale jugoslava che benediva la vittoria di Kostunica alle elezioni presidenziali del 24 settembre. Un ulter iore beffa: è la stessa Corte che mercoledì sera aveva annullato il processo elettorale scatenando la rivolta della piazza. Milosevic si aggrappa alla sua Belgrado. Ma fuori dai confini jugoslavi, c' è una taglia americana sulla sua testa, un coro di condanne, una lista d' accuse: «crimini di guerra» e «crimini contro l' umanità» in Kosovo. E prossimamente, stando alle dichiarazione del procuratore generale del Tribunale dell' Aja Carla Del Ponte, «genocidio» in Bosnia e in Croazia. Le pressioni affinché il leader serbo sia consegnato alla giustizia internazionale si intensificano. Il procuratore Del Ponte l' ha chiesto chiaramente a Kostunica. Ma il neo presidente non sembra voler indietreggiare: non lo consegnerà all' Aja. E' difficile ca pire chi sia rimasto davvero dalla parte di «Slobo». L' alleato storico, la Russia, gioca un ruolo ambiguo. Ivanov è arrivato a Belgrado ieri mattina per portare le congratulazioni del presidente Vladimir Putin a Kostunica. Ma a Mosca la Duma si è sc hierata dal lato opposto, respingendo la proposta di un telegramma di felicitazioni. Si è levata la voce del presidente della Camera bassa, il comunista Gennadi Selezniov che ha bollato l' insurrezione a Belgrado come un golpe: «Passerà questa eufori a riscaldata dall' alcol e dalla droga». E quella del nazionalista Gennadi Zyuganov che ha ribadito: «Questa non è democrazia, odora di marijuana, vodka, dollari». La Russia, incalzata dagli Stati Uniti, ha escluso di voler offrire un eventuale asilo a Milosevic. In giornata si è affacciata l' ipotesi che Mosca fosse disposta a mediare per trovargli un rifugio in una delle ex Repubbliche sovietiche, come la Bielorussia. E la Bielorussia l' ha accredita: «Se arriverà una richiesta - ha detto il p remier Vladimi Yermoshin - verrà valutata dalle istituzioni». L' offensiva internazionale continua. Bulgaria e Romania hanno raddoppiato i controlli sulla frontiera per bloccare a Milosevic ogni via di fuga, mentre un altro vecchio alleato, la Grecia , si è inalberato contro le voci che davano il monastero ortodosso di Hilandari, sul Monte Athos, come uno dei possibili asili del leader serbo. «Se Milosevic metterà piede da noi sarà arrestato e consegnato al tribunale dell' Aja», ha precisato il m inistero degli Esteri di Atene. Al re in disgrazia sono stati congelati i conti bancari depositati a Cipro. «Proteggeremo i fondi che appartengono al governo jugoslavo e alla gente», ha detto un portavoce della Banca centrale, dopo aver riconosciuto Kostunica come presidente legittimamente eletto. La Svizzera l' aveva fatto a giugno 1999: applicando le sanzioni europee, ha bloccato 100 milioni di franchi, oltre 194 miliardi di lire, depositati su conti che farebbero capo a una trentina di person aggi dell' entourage di Milosevic. La stessa preoccupazione è rimbalzata a Belgrado, dove l' opposizione presidia la Banca nazionale per impedire la fuga di lingotti d' oro e valuta estera e già ieri aveva preso il controllo delle dogane, Ma tutto qu esto, forse non serve più. Maria Grazia Cutuli
giovedi , 05 ottobre 2000
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Voto nullo, in Jugoslavia tutto da rifare
Il leader dell' opposizione Kostunica: «Non è un cedimento ma una trappola del regime». Ultimatum del fronte democratico: «Il dittatore si deve dimettere entro oggi». Dieci giorni di cortei, proclami e scioperi
La decisione della Corte costituzionale dopo le voci sulla possibilità che Milosevic lasci il potere in cambio dell' impunità Voto nullo, in Jugoslavia tutto da rifare Il leader dell' opposizione Kostunica: «Non è un cedimento ma una trappola del reg ime» Le elezioni sono da rifare. Con un colpo di scena la Corte costituzionale jugoslava ha annullato ieri sera i risultati delle presidenziali del 24 settembre. Le motivazioni e i dettagli della sentenza saranno comunicati solo oggi, quando si capir à se con questa decisione si cancella definitivamente l' intero processo elettorale, con il contenzioso tra regime e democratici, o solo il voto di alcune circoscrizioni. L' opposizione lancia già le prime accuse: sarebbe un estremo tentativo del pre sidente Slobodan Milosevic per prendere tempo. «Non è un cedimento, ma una trappola - ha detto il leader dell' opposizione Vojislav Kostunica, vincitore al primo turno -. Non c' è nessun elemento per gioire, anche se Milosevic è debole e diventa semp re più debole». A Belgrado regna l' incertezza totale. Proprio ieri Kostunica scriveva a Milosevic una lettera in cui gli diceva «dimettiti, per il bene della Serbia». I dimostranti erano stati meno cortesi: «Hai tempo fino a domani (oggi per chi leg ge, ndr), per riconoscere la tua sconfitta». E anche l' Occidente aveva intensificato l' assedio, stroncando ogni ipotesi d' impunità in cambio del potere. È il nodo centrale della crisi jugoslava, quell' atto d' accusa emesso a maggio 1999 dal Tribu nale internazionale dell' Aja che ritiene Milosevic responsabile di crimini di guerra e crimini contro l' umanità. Restare presidente per «Slobo» non è una questione di potere. È pura sopravvivenza. Il suo avversario, Vojislav Kostunica ha promesso s in dall' inizio che se diventerà presidente, non lo consegnerà alla giustizia internazionale. E a favore dell' impunità si era pronunciato ieri anche l' inviato speciale dell' Onu per i diritti umani nei Balcani, il ceco Jiri Dienstbier: «L' unico ac cordo possibile, la cosa più importante per Milosevic, è dargli la garanzia che non sarà processato e non passerà il resto dei suoi giorni in carcere», aveva detto. Un compromesso «a servizio della stabilità balcanica». Ma all' interno dell' Onu sono insorti. Prima l' Alto rappresentante in Bosnia, Wolfgang Petritsch, con la tesi opposta: l' impunità «destabilizzerebbe la regione». Subito dopo il segretario generale Kofi Annan, che si è detto «sorpreso» e si è dissociato. Gli Usa hanno inferto u n altro colpo: «Esiste un atto d' accusa che obbliga i Paesi a consegnare Milosevic all' Aja - ha dichiarato il dipartimento di Stato -. Questo vale anche per la Russia». Un messaggio pesante. Come può il presidente Putin, che si è offerto di mediare nella crisi jugoslava, invitare Milosevic a Mosca se è obbligato a mettergli le manette? «Slobo» non si fida. Ma a far naufragare la mediazione, ci ha pensato ieri anche Kostunica. Non ha nessuna intenzione di andare a Mosca: sarebbe «poco responsab ile» lasciare la Serbia «nella complessa situazione in cui si trova». Inutile adesso la risoluzione votata dalla Duma. La Camera bassa del parlamento russo riconosceva ieri che le elezioni jugoslave si erano svolto «nel pieno rispetto della legge». L a decisione della Corte costituzionale congela anche la solidarietà del vecchio alleato. Maria Grazia Cutuli Dieci giorni di cortei, proclami e scioperi NOTTE ELETTORALE Già durante la notte della domenica elettorale (24 settembre) l' opposizione fes teggia la vittoria di Vojislav Kostunica. Il regime parla invece di un vantaggio per Milosevic: 44% a 41% L' OCCIDENTE Lunedì 25 settembre l' opposizione sostiene che in base ai suoi dati Kostunica ha ottenuto la maggioranza assoluta, 53%, mentre Mil osevic si sarebbe fermato al 34%. Quasi tutti i governi occidentali confermano la vittoria di Kostunica RISULTATI UFFICIALI Il 26 settembre giungono i risultati ufficiali che richiedono il voto di ballottaggio dell' 8 ottobre: Kostunica 48%, Milosevi c 38%. L' opposizione fa ricorso accusando Milosevic di brogli. Di ieri l' accoglimento della contestazione e la cancellazione del ballottaggio LA PROTESTA Non passa giorno che le piazze serbe non si riempiano di cortei per chiedere a Milosevic di an darsene. Dal 29 settembre sono in sciopero i minatori del carbone. Dal 2 ottobre l' opposizione chiede lo sciopero generale di protesta
domenica , 27 agosto 2000
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La polizia neozelandese ha trovato ad Auckland i piani di un gruppo estremista. Ma le autorità australiane smentiscono Minaccia nucleare sulle Olimpiadi
Maria Grazia Cutuli
I servizi segreti americani l?avevano detto: attenzione ai giochi olimpici di Sydney. Potrebbero essere l?occasione per rilanciare la strategia del terrore dei gruppi legati al miliardario saudita Osama Ben Laden. Un palcoscenico internazionale per c elebrare l?ultima vendetta degli estremisti islamici, dopo un periodo di silenzio e apparente smobilitazione. La conferma alle preoccupazioni è arrivata ieri dal New Zealand Herald , un quotidiano di Auckland. Una cellula «afgana» con base in Nuova Z elanda, scrive il giornale, aveva già preparato il piano per colpire l?Occidente al centro della sua manifestazione più gioiosa, nel mezzo della sua kermesse globale che si svolgerà dal 15 settembre all?1 ottobre. Non un attentato «tradizionale». Str agi compiute con auto imbottite di tritolo come negli attentati che fecero centinaia di morti nel 1998 alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam. E nemmeno di atleti presi in ostaggio, come gli israeliani catturati nel tragico blitz dei fe ddayn palestinesi alle olimpiadi di Monaco nel 1972. La minaccia è atomica. Gli accoliti di Ben Laden avrebbero progettato di fare esplodere un reattore nucleare, di riversare nuvole di gas radioattive sui campioni, sul pubblico, su tutta Sydney, con i suoi 4 milioni e mezzo di abitanti più il milione di visitatori previsti per le gare. L?impianto preso di mira è quello costruito nel 1958 sulle Lucas Heights, a 25 chilometri dallo stadio olimpico, in un sobborgo di Sydney. I terroristi avevano studiato l?area, le strade circostanti, gli accessi all?impianto, le vie di fuga. Avevano trasformato una casa di Auckland in un centro di comando, completo di tavolo da conferenza, carte geografiche e mappe di Sydney. Il tracciato di morte è saltat o fuori a marzo, durante una serie di perquisizioni contro un traffico di immigrati clandestini dall?Asia, in particolare dall?Afghanistan, condotte nella capitale neozelandese. In casa di un afgano è stata trovata una mappa di Sydney con evidenziato l?impianto nucleare. Attorno, una cellula composta da una ventina di persone, con addestramento militare alle spalle, esperienze in Iran, Iraq, Bosnia, Cecenia, dovunque si combatte o si è combattuta la sacra guerra d?Allah. La polizia neozelandese non ha incriminato nessuno per terrorismo, ma solo per traffico di immigrati clandestini. Però ha alzato la guardia e intensificato i contatti con Sydney. Le autorità australiane hanno definito «privo di fondamento» l?allarme, minimizzando il risch io di un attentato contro il reattore nucleare. L?impianto fa parte di un progetto di ricerca gestito dall?Ansto, l?Organizzazione australiana per le scienze nucleare e le tecnologie. Non è usato per produrre energia elettrica. Secondo il ministro de lla Scienza Nick Minchin, non è necessario neanche disattivarlo durante i Giochi, come fu fatto con un reattore di Atlanta alle olimpiadi del 1996. Ma il tentativo di spegnere l?allerta non ha funzionato: gli abitanti sono scesi per strada a chiedere la chiusura immediata del reattore. Troppo vicino all?area abitata, ha ricordato la gente, con 14 scuole nel raggio di 5 chilometri. «Se il governo continuerà a tenerlo in funzione, metterà a rischio la vita degli australiani e degli atleti durante i giochi», ha protestato ieri Genevieve Rankin, consigliere della contea di Sutherland, sotto la cui autorità cadono le Lucas Heights. Ancora più indignato, il sindaco Ken McDonell: «Ci preoccupa sentir dire che il nostro governo era stato informato sul rischio di attentato e, nonostante questo, non ha preso nessuna misura per proteggere la comunità». In testa alla protesta, anche Greenpeace: «Indipendentemente che le notizie sul complotto siano vere o false, questa storia mostra quanto sia per icoloso tenere un reattore nucleare al centro di un?area abitata - ha dichiarato ieri Stephen Campbell, responsabile per l?Australia. - Bisogna chiuderlo. E farlo per sempre».
venerdi , 25 agosto 2000
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Il Cremlino respinge le accuse e il presidente Putin cerca di riconquistare la fiducia dei militari aumentando gli stipendi del 20 per cento
«Noi tentavamo di salvarli, Mosca no»
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - Nessuna trasparenza. Solo sospetti, reticenze e paure. La campagna di disinformazione che ha circondato la vicenda «Kursk», il sottomarino nucleare russo affondato il 12 agosto nel Mare di Barents, non si è fermata un minut o. Persino nei momenti più drammatici, quando i sommozzatori norvegesi e britannici si preparavano a immergersi per tentare l'ultimo tardivo soccorso ai 118 uomini dell'equipaggio, Mosca ha continuato a erigere le sue barriere. Gli uomini, spediti da Oslo e da Londra, sono rimasti i nemici di sempre. Agenti dell'Occidente, accettati per forza, ma senza fiducia. Occhi e orecchie della Nato da tenere il più possibile lontano dai segreti della flotta nucleare artica. LE ACCUSE DI OSLO - «Per noi o gni secondo era importante, ma i russi continuavano a tergiversare, a fornire dettagli falsi, a frapporre ostacoli che hanno messo in pericolo la vita del nostro team». L'ammiraglio norvegese Einar Skorgen, comandante della Flotta settentrionale, ha raccontato ieri la tensione in cui si sono svolte le ispezioni subacquee, cominciate domenica all'alba, poche ore dopo l'arrivo dei sommozzatori norvegesi e britannici nel Mare di Barents: «Per vincere le reticenze dei russi abbiamo dovuto minacciare di sospendere i soccorsi». Skorgen ha preso il telefono e ha chiamato il comandante russo Venceslav Popov, con il quale aveva già attivato lunedì 14 agosto una linea rossa. «Solo dopo le mie insistenze - continua l'ammiraglio - i sommozzatori sono s tati trasportati in elicottero su un altro sottomarino della stessa classe del "Kursk", per studiare boccaporti e sistemi di blocco». LA RABBIA DI LONDRA - Ancora più dure le accuse della Gran Bretagna, che aveva mandato nel Mare di Barents l'«LR5», un minisommergibile di soccorso. Mosca, dopo aver accettato l'aiuto, ha bloccato uomini ed equipaggiamenti in mezzo al mare. «Ogni nostra proposta veniva bocciata, ogni piano cambiato o revocato - ha detto ieri Paddy Heron, membro del team britannic o -. Avevamo con noi il mezzo più sofisticato che si può trovare in Europa, ideato proprio per soccorrere gli equipaggi dei sottomarini in avaria. Ma non ci hanno permesso di usarlo. Ci hanno lasciati seduti a far niente». Oltre la rabbia, il disgust o: «È stato rivoltante sentire dai russi che avevano fatto tutto quello che era in loro potere per salvare i 118 del "Kursk"». MOSCA SMENTISCE - I comandi russi si indignano: «Accuse infondate - ha replicato ieri il vicecapo di Stato Maggiore Valeri Manilov -. L'"LR5" non avrebbe potuto agganciare il portello di evacuazione». Dopo la perlustrazione fatta dai sommozzatori, che ha accertato l'inondazione completa del relitto e la morte dell'equipaggio, utilizzare il minisottomarino britannico, «s arebbe stato superfluo». Ma anche qui gioca la disinformazione. Il portello non era deformato, come i russi avevano fatto credere. L'ha visto con i suoi occhi uno dei sommozzatori: «Aprire il boccaporto è stato facile», ha detto mercoledì Jon Are Hva lbye, 40 anni, dalla camera iperbarica dove i sub stanno completando il periodo di decompressione. Ma chi o che cosa ha affondato il «Kursk»? L'attenzione dell'Fbs (l'ex Kgb) si concentra su due daghestani, un militare e un civile, che si trovavano a bordo. Anche un portavoce ceceno, Movladi Udugov, parlava nei giorni scorsi di un daghestano-kamikaze votato alla causa di Grozny, che avrebbe sabotato il sottomarino. I comandi della Flotta settentrionale negano: a bordo c'erano sì due daghestani impiegati di una compagnia petrolifera del Mar Caspio, ma fidati. CAPITANO DISPERATO - Il «Kursk» riapre la questione della glasnost in Russia e dei rapporti tra Est e Ovest. Ma il sottomarino affondato è anche lo specchio tragico di una nazione. Tra i tanti drammi privati, c'è una storia che li riassume tutti: quella del capitano Vladimir Geletin, padre di Boris, 25 anni, uno dei marinai morti dentro al relitto atomico. «Ho passato dieci giorni in mare, coordinando le missioni di soccorso, a lla ricerca di mio figlio - racconta l'ufficiale -. Avevamo bisogno di squadre d'emergenza, e non le avevamo». Poi non c'è stata che la speranza: «Arrivavano segnali dal " Kursk". Ma come distinguere se fossero rumori meccanici o suoni prodotti dall' equipaggio?». Ora il capitano si chiede: «Che senso ha essere una superpotenza militare con un budget da Terzo Mondo?». Il Cremlino assicura che la macchina militare russa tornerà quella di una volta e, intanto, aumenta lo stipendio a tutti i militar i: più venti per cento.
mercoledi, 23 agosto 2000
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I sommozzatori norvegesi e inglesi sono partiti. Oslo chiede più trasparenza alle autorità di Mosca
Il Kursk trattiene i suoi morti
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - Restano lì. Dilaniati dall'esplosione. Immersi nell'acqua che ha invaso gli scomparti del Kursk. Nascosti tra le lamiere. Abbandonati nel buio e nel gelo dei fondali nordici. I corpi dei 118 marinai del sottomarino russo, a ffondato il 12 agosto nel Mare di Barents, saranno gli ultimi fantasmi della «pattumiera atomica» dell'ex Unione Sovietica. Vittime della ragion di Stato, ma soprattutto simbolo della sconfitta di un impero. Impossibile ripescarli subito. La Norvegia se ne tira fuori: «Ci penseranno le società specializzate». Gli esperti obiettano: «Troppo rischioso». La Russia insiste e prega: «Aiutateci». Il recupero avverrà. Ma prenderà tempo. Settimane, almeno tre, prima che le famiglie possano avere indietr o quel che resta dei propri morti. LA SMOBILITAZIONE - I sommozzatori, intanto, se ne sono andati. I quattro norvegesi e gli otto britannici, ai quali era legata l'ultima speranza, hanno terminato la missione nel Mare di Barents e già ieri veleggi avano verso casa. Chiusi nelle camere iperbariche, hanno iniziato gli esercizi di decompressione: cinque giorni prima di tornare all'aria aperta. Sono partiti anche i militari inviati dalla Gran Bretagna, assieme all'LR5, il mini-sommergibile che avr ebbe dovuto tentare il recupero dei sopravvissuti. Nessun risentimento per essere stati messi da parte dalle autorità russe. «Siamo vicini al dolore delle famiglie», ha detto ieri il comandante David Russel. Nessun senso di colpa: «Non credo che sare mmo potuti intervenire prima. Proviamo solo una grande tristezza per non essere stati in grado di salvare nemmeno una vita». I RISCHI DEL RECUPERO - La Stolt Offshore, la società anglo-norvegese che ha messo a disposizione la nave «Seaway Eagle», il suo equipaggio e i 12 sommozzatori, continua a trattare con la Marina russa la possibilità di ripescare le salme. «Abbiamo bisogno di conoscere nei minimi dettagli la struttura del sottomarino affondato, lo stato della armi a bordo e dei due reatt ori nucleari - dice il portavoce Julian Thomson -. E verificare che non ci siano rischi radioattivi». La società trema a immaginare i suoi sommozzatori infilarsi dentro il portello d'evacuazione, ispezionare al buio gli angusti meandri del «Kursk», l ocalizzare i cadaveri. «Chi può essere sicuro che non si verifichi un'altra esplosione?». Un'idea su come intervenire Thomson ce l'ha: «Si potrebbero praticare una o più aperture nella corazza del Kursk». Per organizzare tutto serviranno due settiman e, un'altra per avviare la missione. LE SORTI DEL RELITTO - La presenza del relitto atomico sul fondo del mare continua a preoccupare gli ambientalisti. Un'altra società norvegese, la Global Tool, specializzata in piattaforme petrolifere, è dispos ta a recuperare i due reattori a bordo. «Siamo in grado di portarli in superficie, dove verrebbero sigillati in depositi di sicurezza - spiega Peter George Andersen, manager del gruppo -. Lasciarli lì significa perpetuare il rischio di contaminazione ». Greenpeace è d'accordo: «Portate a galla il Kursk», ha chiesto ieri invitando tutte le potenze nucleari a fermare i mezzi nautici. Gli esperti dell'Autorità norvegese per la protezione dalle radiazioni sostengono invece che recuperare il sottomari no comporta altrettanti pericoli che lasciarlo dov?è. «Ci sono i relitti di sette sottomarini nucleari affondati negli Oceani di tutto mondo, dal Mare di Barents alle Bermuda, dalle acque della Florida a quelle del Portogallo. In tutti questi casi si sono registrate perdite radioattive, ma a livelli molto bassi», dice il portavoce Per Strand. Anche lui chiede che, prima di qualsiasi intervento, «la Russia fornisca informazioni trasparenti». Una «glasnost» sul nucleare, come prezzo da pagare per il disastro del Kursk.
martedi , 22 agosto 2000
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MISSIONE COMPIUTA
E i sommozzatori norvegesi affondano lorgoglio russo
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - Adesso Mosca chiede aiuto. Dopo aver accertato, grazie all'intervento dei sommozzatori norvegesi e britannici, che nel ventre del «Kursk» sono tutti morti, la Russia si spoglia dell'orgoglio e riconosce la propria impotenza . Chiede alla Norvegia di recuperare i 118 corpi. Chiede al mondo intero di organizzare una équipe internazionale per tirare su il colosso allagato d'acqua, con due reattori nucleari a bordo. Il governo di Oslo prende tempo: «Daremo tutta l'assistenz a possibile - dice il portavoce del ministero degli Esteri, Klasten Klepsvick -. Ma dobbiamo ancora ultimare la fase di soccorso. Dopo decideremo come intervenire». La richiesta rimbalza ai sommozzatori, il team formato da 4 norvegesi e 8 britannici , che è stato capace in poche ore di immergersi a 108 metri, aprire il portello di salvataggio, accertare l'allagamento completo del Kursk e la morte dell'intero equipaggio. «Sono loro gli esperti e dobbiamo attenerci a quello che diranno», aggiunge Klepsvick. Ma la decisione non spetta neanche ai sommozzatori. I 12 uomini, reclutati dal ministero della Difesa norvegese per il soccorso nel Mar di Barents, lavorano alle dipendenze della Stolt Offshore, una multinazionale registrata in Lussemburgo , con quartier generale a Londra e base a Stavanger in Norvegia, che opera nelle piattaforme petrolifere. E i suoi portavoce non si sbilanciano: «Se c'è un modo sicuro per recuperare le salme lo faremo. Ma non metteremo a rischio la vita dei nostri - risponde il responsabile della comunicazione, Julian Thomson -. Il problema è che il portello del "Kursk" è molto stretto. Non sappiamo ancora che cosa c'è dentro al sottomarino e in quali trappole potrebbero cadere i sub». Una cosa è certa: oggi d ovrebbe concludersi l'ispezione subacquea e la Norvegia è pronta a richiamare uomini e navi. La «Seaway Egle», tanto per cominciare. La nave a bandiera liberiana, messa a disposizione dalla Stolt Offshore con 100 uomini d'equipaggio, non è attrezzata per recuperare le salme. C'è da aggiungere che costa 150 mila dollari al giorno, oltre 300 milioni di lire. Oslo assicura che non chiederà risarcimenti alla Russia, ma fa notare che da sola, senza l'aiuto di una società privata come la Stolt Offsho re, non è in grado di affrontare altre spese. «Si tratterà di lanciare una nuova missione, con nuove navi e un diverso equipaggio», aggiunge Klepsvick dal ministero degli Esteri. In tutta la storia è stata tagliata fuori la Gran Bretagna. Davanti a uno dei Paesi pilastro della Nato, l'orgoglio russo non ha ceduto. «LR5», il mini-sommergibile inviato dalla Marina per i soccorsi, è rimasto indisturbato a bordo della «Normand Pioneer», l'altra nave norvegese ancorata nel mar di Barents, con l'inte ro staff. Mosca l'ha bocciato due volte. All'inizio, quando ha mandato in avanscoperta i sommozzatori. E alla fine, quando ha decretato che era inutilizzabile, visto che gli scomparti del sottomarino sono tutti allagati. «La Russia non ha accettato il nostro contributo - dice Jim Jenkins, responsabile dell'ufficio stampa della Difesa a Londra -. A questo punto la missione è finita. Il nostro staff tornerà a casa immediatamente». Mentre si discute sulla sorte delle salme, c'è chi pensa alla «fa se tre»: il recupero del relitto. A proporsi è l'imprenditore svedese Per Lindstrand, 49 anni, titolare dell'omonima compagnia (la Lindstrand Ballons). Un piano spettacolare il suo. Aggancerebbe il sottomarino a dei palloni aerostatici che verrebber o riempiti d'aria e, a suo dire, tirerebbero su quel che resta del Kursk. Lindstrand non ha mai fatto niente di simile. Finora la sua impresa più ardita è un tentativo fallito di giro del mondo, 20 mila chilometri in aria con i suoi marchingegni. Ma assicura che ci si può provare. Ciascuno dei palloni, realizzati in Vectrom, una fibra speciale altamente tecnologica, è capace di sollevare mille tonnellate. «Ne useremo venti», ha detto ieri. Da Oswstry, in Inghilterra, l'imprenditore fa sapere di essere già stato contattato dalla Ruben di Murmansk, società russa per i recuperi, che gli ha chiesto un preventivo. Per fabbricare i palloni ci vuole un mese. Venti, però, potrebbero non bastare. «Ripescare il relitto non è impossibile - dice Joann a Kidd, responsabile dell'Istituto internazionale di studi strategici -. Ma è un'impresa titanica. Il "Kursk" con l'acqua imbarcata - dopo l'esplosione che ne ha distrutto la parte anteriore, ndr - pesa 25 mila tonnellate». L'operazione preoccupa an che gli ambientalisti. «Prima di tirare su il sottomarino, bisogna fare uno studio serio dei danni che ha subito. Finora non ci sono state perdite radioattive - dice Thomas Nilsen di Bellona, l'organizzazione che sorveglia la flotta nucleare russa -. Ma durante il recupero una fuoriuscita dai due reattori sarebbe quasi inevitabile». Nilsen propone altre soluzioni. «Riempire i reattori di poliestere allo stato liquido. I russi l'hanno fatto sei volte nel Mar di Kara e assicurano che la contaminaz ione è scongiurata per cinquecento anni». Per il momento meglio lasciare il relitto del «Kursk» nei fondali del mare di Barents. «E pensare a restituire alle famiglie quei poveri corpi». corriere.it/speciali/ sommergibile .shtml Sul Corriere on line, uno speciale con foto, documenti, animazioni
lunedi , 21 agosto 2000
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IL GRUPPO DI SUB Dalle piattaforme petrolifere al mare di Barents «Noi sommozzatori, specialisti dellestremo»
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - Sono capaci di vivere per settimane dentro camere iperbariche, senza contatti con l'esterno. Di scandagliare i fondali marini fino a 300 metri. Di immergersi in acque contaminate da radiazioni nucleari. Di resistere al fred do e alle correnti. I sommozzatori impegnati attorno al relitto del «Kursk», quattro norvegesi e otto britannici, fanno parte dei corpi d' élite della Stolt Offshore, una società con uffici a Londra, sede operativa a Stavanger in Norvegia, che opera nelle piattaforme petrolifere di mezzo mondo. Sono «forze speciali», addestrate, equipaggiate, pronte per ogni missione. Ma anche per loro il mare di Barents è l'ultima frontiera. «Non capita tutti i giorni di occuparsi di un sottomarino nucleare ru sso», ha commentato venerdì pomeriggio Johan Elias Bjorneset, uno dei quattro sub norvegesi, prima di lasciare il porto di Tromsø. Sfida, pazzia o semplice senso del dovere? Il portavoce della Stolt Offshore, Julien Thomson, sorride: «I nostri sommoz zatori sono abituati a installare condutture subacquee, a sorvegliare gasdotti e oleodotti. E' la prima volta che si trovano ad operare in una situazione come questa». Thomson, 51 anni, britannico, sa bene di che cosa parla. E' stato anche lui un sub della Royal Navy per più di un decennio. Ha curato l'addestramento di 2 mila sommozzatori in Scozia, per poi dedicarsi alla ricerca e infine alle pubbliche relazioni. In che condizioni lavorano i vostri sub? «Cominciamo dalle camere iperbariche. S ono dei locali creati a bordo della nave, in questo caso della "Seaway Eagle", lunghi 12 metri, larghi due metri e mezzo, dove viene mantenuta la stessa pressione del fondo marino. I sommozzatori vivono in quattro lì dentro fino a 30 giorni, respiran do ossigeno ed elio. Escono solo per immergersi. Lo fanno tre alla volta, per un turno di sei ore al giorno». Come operano sott'acqua? «Scendono all'interno di una campana collegata alla nave. Due escono, un terzo rimane dentro a controllare le ope razioni. Hanno un cavo per respirare, collegamenti radio e telecamere sulla testa. Li accompagna un robot che filma tutto quello che accade loro sul fondo marino». Come resistono alle basse temperature del mare di Barents? «Indossano mute speciali, formate da un materiale sottilissimo con una camera d'aria interna che viene riempita d'acqua a temperatura corporea. Anche questa arriva attraverso un tubo, collegato alla campana subacquea e quindi alla nave». Il «Kursk» è un sottomarino nucleare con due reattori a bordo. Non temete contaminazioni? «La nostra équipe ha degli strumenti proprio per misurare eventuali perdite. Saremo in grado di documentare se veramente esiste un rischio di radioattività dal "Kursk"». Che cosa succede quando risalgono? «Tornano nella camera pressurizzata, dove rimangono vari giorni, a seconda della profondità dell'immersione. Per 100 metri, come nel caso del mar di Barents, avranno bisogno di quattro giorni di decompressione». Che cosa si fa dentro la camera pressurizzata? «I sommozzatori dormono, leggono, guardano la tv. Ricevono i pasti attraverso uno sportelletto speciale che garantisce il mantenimento della pressurizzazione. Comunicano con i supervisori attraverso il telefono. L'unico inconve niente è la presenza dell'elio che deforma la voce, rendendola simile a quella di Paperino. La camera ha anche degli oblò che permettono di guardare fuori». Come reclutate i vostri sub? «Devono essere forti, fisicamente e psicologicamente. Molti so no ingegneri elettronici o meccanici. Guadagnano dalle 20 mila alle 50 mila sterline l'anno (dai 60 ai 150 milioni di lire, ndr ). Lavorano trenta giorni consecutivi, si riposano due o tre settimane. La loro carriera è abbastanza breve. Quando arriva no da noi hanno almeno dieci anni di esperienza. Smettono a 40 anni». Che cosa faranno i vostri quando finirà la missione del «Kursk»? «Torneranno dalle mogli e dai figli. Dopo tutto, è gente normale».
domenica , 20 agosto 2000
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I soccorritori inglesi pronti allintervento ma obbligati allattesa
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - La nave è arrivata, all'ora promessa. Ha vinto le nebbie che l'avevano colta l'altro ieri notte all'entrata del Mare di Barents, nelle acque territoriali russe, proprio alle porte del grande mistero. Alle nove di sera, le sette del pomeriggio in Italia, la «Normand Pioneer» si è fermata a 10 chilometri dal punto esatto dove sabato 12 agosto le onde nere e gelate dell'Artico si sono chiuse per sempre sulla corazza del «Kursk», il sottomarino nucleare russo, e sulle vit e dei 118 uomini dell'equipaggio. A qualche ora di distanza l'ha seguita la «Seaway Eagle», il secondo battello norvegese con una squadra di 12 sommozzatori a bordo. Nel freddo crepuscolo polare, la crociera della speranza, organizzata da Gran Breta gna e Norvegia per scoprire se nella carcassa fracassata del «Kursk» c'è ancora qualcuno vivo, si è subito impantanata in una palude di ostacoli e obiezioni mosse da Mosca. Gli alti comandi della Marina russa hanno preso gli elicotteri per incontrare di nuovo, dopo sei ore di discussioni mattutine, il capitano di vascello David Russel, capo della missione britannica, e il comandante Alan Hoskins, capo delle operazioni di salvataggio. Altre interminabili discussioni per discutere come, quando e s e l'LR5, il mini-sommergibile inglese trasportato dalla «Normand Pioneer» che dovrebbe tentare l'immersione, potrà operare. «Noi siamo pronti a intervenire - ha detto Hoskins -. Siamo qui per dare assistenza e aspettiamo solo che ci permettano di far lo». Ma a tarda sera, i russi non si erano ancora decisi. Eccesso di pignoleria? Nel Mare di Barents tornano a soffiare venti d'inimicizia. Si innalzano cortine di orgoglio nazionale. Barricate di diffidenza verso i portabandiera della Nato. Per tut ta la giornata di ieri, prima che le due navi norvegesi arrivassero al largo del porto di Murmansk, le autorità russe hanno continuato ad annunciare il peggio, come per preparare i visitatori al fallimento della loro missione. «La situazione è oltre il punto critico». «Siamo in una fase di non ritorno». «Le speranze che qualcuno sia vivo sono minime». Una dichiarazione via l'altra. Fino ad accusare Londra di essere responsabile del disastro: sarebbe stato un sottomarino britannico, impegnato in una missione di intelligence nel Mare di Barents, a entrare in collisione con il «Kursk». La Gran Bretagna ha smentito. Ma la sua crociera umanitaria è partita con pessimi auspici. Durante gli incontri a bordo della nave norvegese, i russi hanno doc umentato agli inglesi le condizioni in cui si trova il relitto del sottomarino. «Sono stati messi a punto dei nuovi piani di intervento proprio grazie ai dettagli acquisiti», dice Jim Jenkin, portavoce della Difesa britannica. Ma chiamarli dettagli è un eufemismo. E' stato un coro di cassandre. Una guerra psicologica. «I danni riportati al portello d'evacuazione del sottomarino potrebbero rappresentare un ostacolo insormontabile - ha detto il portavoce della Marina russa Igor Dygalo -. L'arrivo dei britannici non è una panacea, incontreranno le stesse difficoltà che abbiamo avuto noi». Parole di sfida: «Non è dipeso dalla nostra tecnologia se abbiamo fallito. I nostri mezzi sono più avanzati di quelli inglesi». Più morbidi i russi con la N orvegia, al punto da chiedere in serata che i primi a calarsi sott'acqua oggi siano i sommozzatori del Paese vicino. Si tratta di una squadra d'élite, messa a disposizione dalla Stolt Offshore, una compagnia d'assistenza alle piattaforme petrolifere del Nord. Dodici persone addestratissime, capaci di immergersi fino a 100 metri di profondità. «Hanno più chance loro - ha detto il vice-premier russo Ilya Klebonov - che i piloti del mini-sommergibile britannico». Il gioiello della Royal Navy, LR5, è praticamente bocciato dai russi. Nel Mare di Barents più che lasciare aperte speranze, si recitano i requiem. Si accenna ormai alla «fase 2» delle operazioni: il ripescaggio delle salme e, in un secondo momento, del sottomarino. Assieme al relitt o del «Kursk» sembra affondata anche la politica della «trasparenza» che una decina di anni fa, grazie a Gorbaciov, fece cadere la cortina di ferro. Il Mare di Barents resta il sudario dei segreti nucleari dell'Est.
sabato , 19 agosto 2000
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Soccorsi al «Kursk», provano gli inglesi Oggi lunità speciale tenta di raggiungere il sottomarino: «Se il portello è deformato, addio»
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - La velocità è aumentata. Qualche nodo in più per guadagnare miglia verso il mare di Barents. Motori a tutta forza per recuperare una manciata di ore sui troppi giorni perduti. La Normand Pioneer, il vascello delle illusioni , continua il suo viaggio sulla rotta del «Kursk». La nave norvegese porta a bordo l'LR5, l'«elicottero subacqueo» britannico che dovrebbe tentare un nuovo salvataggio, e una squadra di 27 uomini pronta all'azione. «Saremo nel mare di Barents tra mez zogiorno e l'ora del tè», ha annunciato da Londra un portavoce del ministero della Difesa. Ma c'è poco da scherzare. Mission impossible , dicono analisti ed esperti militari. Lì dentro, nel ventre gelido e buio del sottomarino, nessuno crede più che ci siano sopravvissuti. Missione improbabile. Chimera data in prestito da due Paesi della Nato, Gran Bretagna e Norvegia, al diffidente colosso dell'Est. La «Normand Pioneer» non può superare i 17 nodi orari. Se arriverà davvero entro oggi pomerigg io, sarà già un mezzo miracolo. Il comandante Alan Bruce Hoskins, una vita passata dentro ai sottomarini, è forse il primo a non illudersi troppo. Abbiamo appena superato il porto di Tromsø, sulla costa settentrionale della Norvegia - dice per telefo no al Corriere - ma stiamo procedendo bene». La sua voce arriva roca, coperta dai fruscii del satellitare. «Continuiamo a controllare che le attrezzature siano a posto, a discutere sulle possibilità operative e su eventuali inconvenienti». La serenit à non si addice a una missione come questa e il comandante non può nasconderlo: «Le difficoltà non mancano. A cominciare dalle condizioni atmosferiche. Negli ultimi tre giorni il tempo si è mantenuto buono, ma potrebbe cambiare da un momento all'altr o». L'LR5 è un mezzo facilmente manovrabile, capace di muoversi da solo senza aggancio alla nave-madre. «Ma è chiaro - aggiunge l'ufficiale - che ci sono dei limiti al nostro intervento. Non vogliamo mettere a rischio la vita di nessuno». Oltre al m altempo, le maggiori incognite sono legate all'inclinazione del «Kursk», stimata attorno ai 20 gradi, e al suo portello di evacuazione. Il sistema di aggancio dell'LR5, messo alla prova durante esercitazioni Nato con la flotta polacca, dovrebbe esser e compatibile con il sottomarino russo. Ma c'è un dubbio: «Se il portello dovesse essere seriamente danneggiato non saremmo più in grado di intervenire. Impossibile ripararlo sott'acqua. Ed è davvero lo scenario peggiore». L'«elicottero subacqueo» s i immergerà nel buio del mare di Barents, aiutato dai suoi due fari e da una videocamera. Può imbarcare 16 persone alla volta, più tre membri dell'equipaggio, e va a batterie. La sua autonomia non dura più di 10 ore. Serviranno due o tre ritorni a bo rdo della «Normand Pioneer» per ricaricare gli alimentatori. Tutto studiato, analizzato, previsto. Ma di fronte alla catastrofe umana che si annuncia, al rischio di trovare solo un groviglio di cadaveri, che cosa faranno gli Indiana Jones occidental i? Londra risponde sempre allo stesso modo: «Lo valuteremo sul momento». Forse non basta. I marinai russi potrebbero essere morti negli ultimi giorni per mancanza di ossigeno. Ma non si esclude che molti di loro siano stati dilaniati da una o più esp losioni a bordo. Dietro la missione umanitaria, lanciata da Gran Bretagna e Norvegia, c'è anche il giallo. E dietro al giallo torna il gelo della «guerra fredda». La teoria dell'esplosione è la più accreditata negli Stati Uniti. Ieri l'ha conferma ta anche Oslo. La «Marjata», nave dell' intelligence norvegese che pattuglia il mare di Barents a 20 chilometri dal luogo del disastro, sabato scorso ha registrato l'esplosione di un siluro e un secondo scoppio all'interno del «Kursk». Il Norsar, ist ituto norvegese per i sismi, ha monitorato una prima esplosione, seguita da una seconda più debole. La Russia insiste, invece, sulla collisione con un altro sottomarino, un mezzo americano che avrebbe chiesto, subito dopo lo scontro, di essere accolt o in un porto norvegese. Est e Ovest continuano insomma a guardarsi con sospetto. «La "guerra fredda" è finita in termini di incursioni aeree, di eserciti schierati alla frontiera - sostiene Paul Beaver, analista militare del settimanale della difes a Jane's - ma nell?Artico continua ancora». Lungo i 185 chilometri che dividono la Norvegia dalla Russia, l'allerta è storia di sempre. Da una parte c'è il Globus II, il sistema radar della Nato, che Mosca vede come uno dei maggiori pericoli per la s ua sicurezza. Dall'altra c'è la penisola di Kola, la più grande base di sommergibili nucleari dell'era sovietica. In mezzo, il relitto del «Kursk». E una nave occidentale che sta per valicare il confine proibito, carica di tristi illusioni.
venerdi , 18 agosto 2000
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Elicottero degli abissi, ultima speranza
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO OSLO - Lì sotto tutto tace. Ma non bisogna pensarci. L'ordine è andare avanti. Navigare oggi e ancora domani. Percorrere fino alla fine quei 1.300 chilometri di acque gelate che dividono il porto norvegese di Trondheim dal mar di Barents. Arrivare lì, dove il «Kursk» è affondato una settimana fa con 118 uomini a bordo. Ripescare quell'equipaggio fantasma. Liberarlo dalla sua bara d'acciaio. «Non possiamo ancora dire che sia troppo tardi», ripete il comandante britannico David Stanesby, «Non possiamo essere sicuri che la riserva d'ossigeno, lì sotto, sia davvero finita». Il portavoce della Royal Navy segue l'ultimo tentativo di soccorso al sottomarino russo, lanciato da Londra in collaborazione con la Norvegia, con un ott imismo che sembra quasi surreale. È una missione disperata. Probabilmente inutile. Ma il comandante non vuole sentire parlare di morti. «Se c'è una sola persona viva dentro il "Kursk" è certo che la salveremo». La Gran Bretagna ha offerto aiuto alla Russia, l'antica nemica. E Mosca, di fronte all'evidenza del proprio fallimento, alla fine è stata costretta ad accettare che un Paese della Nato sfondi le linee della sua cortina nucleare. Ma non senza riluttanza. Tutto ieri i russi hanno continuat o a discutere sulle modalità dell'intervento, preannunciandosi scettici sulla riuscita. Un gioco delle parti, nelle quali Londra è andata avanti senza tentennamenti. Mercoledì sera ha mandato in Norvegia uno dei suoi mezzi più sofisticati, l'LR5, un piccolo sottomarino civile, chiamato «l'elicottero subacqueo», che dovrà immergersi per recuperare l'equipaggio. Ha spedito a Trondheim, 450 chilometri da Oslo, un team di 27 specialisti, tre Hercules della Royal Air Force, carichi di attrezzature me diche e camere di decompressione. E la Norvegia, altro Paese Nato, ha fatto lo stesso, mettendo a disposizione due navi: la «Normand Pioneer» per il trasporto del batiscafo britannico, e la «Dsv Seaway Eagle», una imbarcazione utilizzata nelle piatta forme petrolifere, con una squadra di 12 sommozzatori a bordo. Il comandante Stanesby ha visto gli uomini faticare tutta la notte sulla banchina del porto di Trondheim. Ha elogiato i tecnici dello «ship service» - «In poche ore sono stati capaci di modificare la nave norvegese per caricare il sottomarino» - e ha salutato con un primo sospiro di sollievo, alle 9.45 del mattino, la partenza dei suoi sulla «Normand Pioneer». Per raggiungere il mar di Barents ci vorranno 50 ore. «Il sottomarino ar riverà sabato sera», dice l'ufficiale. I norvegesi la vedono peggio: le due navi non arriveranno prima di lunedì. È la «Seaway Egle», l'imbarcazione usata presso gli impianti petroliferi, ad avere problemi. Norme di sicurezza le impongono oggi una pa usa di almeno tre ore. Ritardi che si sommano ai ritardi. Se la Russia ha accettato l'intervento straniero fuori tempo limite, rimane oscura anche la scelta del porto di Trondheim, uno dei più distanti dal mar di Barents, per far partire i mezzi brit annici e norvegesi. Il portavoce britannico continua: «Arrivata a destinazione, la "Normand Pioneer" sgancerà il sottomarino che procederà da solo, immergendosi nell'acqua». Il minisommergibile non può trasportare più di 16 naufraghi alla volta, ol tre i tre membri dell'equipaggio. Ogni operazione prende dalle tre alle quattro ore. Se tutto dovesse andare bene, impiegherebbe 26 ore per portare a galla i marinai del «Kursk». L'«elicottero» degli abissi è lungo poco più di nove metri e largo tre . È stato costruito nel 1978 con una capienza di 9 persone. L'anno scorso la sua struttura è stata potenziata per accoglierne fino a 16. Il ministero della Difesa britannico lo ha sempre considerato un mezzo d'emergenza, ma è la prima volta che lo m ette in mare per una vera operazione di salvataggio. «Finora è stato sempre utilizzato all'interno delle esercitazioni della Nato - dice il comandante Stanesby -. Ma non c'è dubbio che si tratta di un mezzo ben diverso, più efficiente, da quelli già usati dai russi». LR5 può affrontare le onde e le correnti marine. È agile come un elicottero, appunto. E finora ha retto bene a ogni esperimento. Ma chi e che cosa tirerà fuori dalle acque del mare di Barents? Le madri dei marinai russi singhiozzano nella città di Murmansk. Mosca ha già parlato di catastrofe. Gli ecologisti pensano a come recuperare i due reattori nucleari dal sottomarino affondato. L'elicottero subacqueo servirà almeno a prelevare le salme? Il comandante Stanesby non risponde . «La mia responsabilità è limitata all'intervento di salvataggio. Il resto non rientra nei miei compiti». Ma è certo che tra Russia e Gran Bretagna si discute anche di questo. L'alleato norvegese lascia aperta una possibilità: «Siamo pronti a qualun que evenienza - dice il portavoce del ministero degli Esteri Karsten Klepsvik -. Faremo quello che chiede Mosca». È l'ultima sfida tra l'ex nemico sovietico e l'Occidente. Senza vincitori, ma con un pugno di vinti. Quei 118 marinai sepolti nelle acqu e dell'Artico.
lunedi , 14 agosto 2000
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RITORNO ALLA LIBERTÀ
Tra lacrime e mazzi di rose, il sollievo di Natascia: «Non è stato un dramma»
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA - È finita. Un abbraccio alla madre, qualche lacrima, un mazzo di rose dal fidanzato. Il suo labrador in festa sulla pista dell'aeroporto di Ginevra. E subito, un pullman a portarla via. Natascia Zullino, la delegata itali ana del Comitato internazionale della Croce Rossa sequestrata il 4 agosto scorso in Georgia, ai confini con la Cecenia, è di nuovo libera. I rapitori l'hanno rilasciata l'altro ieri notte. Con lei, la collega francese Sophie Prokofieff e un autista l ocale. Tre ostaggi che rischiavano di perdersi nelle retrovie turbolente della guerra cecena. Alle 13.30 le due donne erano su un aereo, un piccolo Astra noleggiato dalla Croce Rossa, atterrato in Svizzera poco dopo le cinque e mezzo del pomeriggio. Natascia, 36 anni, una camicetta bianca smanicata, gonna grigia al ginocchio, è scesa dalla scaletta seguita da Sophie, 38 anni, treccia bionda sulla schiena. «È andato tutto bene, è stato meno drammatico di come poteva sembrare da fuori». Un salut o veloce e la regola del segreto professionale a sottrarla a ogni curiosità. «Tra qualche giorno forse sarà in grado di dire tutto - si è scusato Angelo Gnaedinger, delegato generale dell'organizzazione ginevrina -. Ma dobbiamo darle il tempo di ripr endersi dallo choc». La procedura di «decompressione» prevede per stamattina una serie di incontri alla sede del Comitato internazionale della Croce Rossa, una sfilza di esami medici, e quello che in gergo si chiama emotional de-briefing , riunioni s u riunioni per ricostruire quanto accaduto, per spiegare, per capire. In altre parole, visto dal quartiere generale di Ginevra, un caso delicatissimo, risolto con l'intervento del governo georgiano, sul quale per il momento nessuno si vuole sbilanci are. Angelo Gnaedinger, capelli brizzolati incollati dal sudore, l'aria sfinita di chi ha saltato una notte di sonno e forse più, è l'unico testimone indiretto della liberazione. Si era messo in moto per Tbilisi in anticipo, sabato sera, anche se la notizia del rilascio è arrivata in Svizzera alle tre di notte, le cinque e mezzo in Georgia. «Il primo contatto telefonico è stato con Sophie, la delegata francese. Ma non riuscivo ancora a capire come lei e la collega italiana stessero realmente. Q ualche ora dopo ero sicuro almeno di un fatto: nessuno dei tre ostaggi era stato maltrattato». Lo ha detto Sophie, veterana della missione in Georgia. Lo ha garantito Natascia, al primo impiego presso la Croce Rossa. L'italiana - residenza nella Sviz zera tedesca e un master in economia che l'aveva portata per otto anni a lavorare presso le multinazionali nella stessa Svizzera, in Austria, e infine a Mosca - aveva una specializzazione in curriculum: parla russo. Avrebbe dovuto prendere il posto d i Sophie. «Trattare con le autorità locali, visitare i prigionieri, collaborare al ricongiungimento dei profughi con i loro familiari». I suoi compiti dovevano essere più o meno questi, se non fosse finita tanto presto. La prima mattinata di libertà è passata tra incontri ufficiali, quello con il ministro degli Interni georgiano, Kakha Targamdze, con gli ambasciatori italiano e francese, e con una litania di doverosi ringraziamenti. Primo tra tutti al presidente Eduard Shevardnadze, l'uomo che nel 1992 - liquidato dal Cremlino - si è messo a capo della nuova Repubblica di Georgia. «Ha fatto tutto lui - assicura il delegato -. Nessuno della Croce Rossa ha negoziato con i rapitori». Natascia, Sophie e l'autista hanno trascorso nove giorni i n mano alla banda che li aveva rapiti tra le gole della valle di Pankisi, la terra di nessuno dove vivono 150 mila rifugiati ceceni, alcuni ribelli e molti clan. Sono stati trascinati di nascondiglio in nascondiglio, senza mai allontanarsi dalla Geor gia. «Sono rimasti insieme, ma questo è tutto quello che sappiamo - dice Angelo Gnaedinger -. La verità forse nessuno ce la dirà mai». Come per il fotografo di Panoram a Mauro Galligani, 40 giorni di prigionia in Cecenia nel 1997, come per gli altri ostaggi occidentali caduti in mano agli indipendentisti in guerra con il governo di Mosca, anche questo sequestro si perde per il momento nel buco nero di un Caucaso bellicoso e in parte impenetrabile. È stato pagato un riscatto? «Il governo georgia no ci ha assicurato di no». C'entrano davvero i ribelli ceceni? Il delegato non risponde, ma anche su questo Shevardnadze e i suoi si sono premurati di attribuire il sequestro a bande criminali. Qualcuno è stato arrestato? «Sappiamo che i rapitori ha nno chiesto come contropartita che non si ricorresse all'uso della forza». Spiegazioni ambigue. Quel che è certo è che il Comitato internazionale della Croce Rossa, presente in Georgia con 35 dipendenti stranieri e 250 operatori locali, vuole riprend ere al più presto le attività nella Repubblica caucasica. Ma Natascia, l'economista prestata all'intervento umanitario, ci sarà ancora? «Ce lo auguriamo. Ma diamole tempo». Tutta la notte con i genitori e il fratello Daniele, per ripensare ai suoi n ove giorni di paura. Una vita, forse, per dimenticare.
lunedi , 07 agosto 2000
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LINTERVISTA / Lo storico tedesco Joachim Fest ridimensiona lallarme: giovani senza ideologia
«Cercano di far paura, ma sono solo degli emarginati»
Maria Grazia Cutuli
Qualche mese fa, quando la Cdu arrancava dietro allo scandalo dei fondi neri gestiti dall?ex cancelliere Helmut Kohl, lo storico berlinese Joachim Fest auspicava la nascita di una nuova destra in Germania. Uno schieramento che avrebbe potuto riempire il vuoto creato dalla crisi cristiano-democratica, su basi moderate e pragmatiche. Ma poi la Cdu si è salvata dal crollo. E ora l?attenzione del Paese si sposta sulla destra estremista, impregnata di umori nostalgici, neonazisti e antisemiti. Siamo davanti a una deriva pericolosa? Joachim Fest, 74 anni, oltre che storico e autore di una celebre biografia di Hitler, è anche giornalista. Condirettore del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung fino al ?93, ridimensiona l?allarme causato dagli u ltimi assalti dei naziskin: «Non vedo Hitler in giro per la Germania. E nemmeno campi di concentramento. Non c?è nessun legame con il passato. Non siamo davanti a un ricorso della storia, ma a un fenomeno marginale». Eppure questi gruppi si definisc ono neonazisti. «Tutto quello che hanno in dotazione sono simboli: le bandiere, le croci uncinate, gli slogan urlati per strada. E? un?iconografia che serve a spaventare la gente e scioccare i benpensanti. Dietro c?è il nulla». Nessuna base ideolog ica? «Nessuna conoscenza della storia, nessuna idea di che cosa fosse il nazismo, nessuna filosofia». Chi sono allora i neonazisti? «Sono solo piccoli criminali, outsider , scarti della società, una forma di Lumpen Proletariat che non conta e vive in modo marginale. Molti di loro non hanno lavoro, né collocazione sociale, né speranza per il futuro. Urlano la loro rabbia. L?essere contro tutto e tutti è l?unico modo per farsi notare». Eppure si parla di centinaia di gruppi con collegamenti in ternazionali. «La sola novità è Internet che permette loro di trovare affiliati e creare legami con gli attivisti che vivono negli Stati Uniti, in Danimarca, in Francia, in Italia. Ma non credo che la rete informatica basterà a dar loro forza o a re nderli realmente pericolosi. Rimarranno una minoranza». Il capo del consiglio ebraico, Paul Spiegel, ha dichiarato che qualora la situazione diventasse rischiosa, si potrebbe pensare a una migrazione di massa. Non crede che un ebreo in questo moment o in Germania corra più pericoli di un altro cittadino? «Ho degli ospiti ebrei a casa in questo momento. Non ho sentito loro dire una parola sugli assalti dei neonazisti. Mi sembra un tipico argomento vacanziero. Non ci sono notizie politiche in que sti giorni, i nostri leader sono al mare e questa gente ne approfitta per attirare l?attenzione». Qualcuno ha chiesto che si mettano al bando i partiti di estrema destra. Potrebbe servire a scoraggiare questi gruppi? «Partiti come l?Ndp (il partito nazionaldemocratico tedesco, ndr )? Non ne vedo la necessità. La situazione non è così pericolosa». Bisognerà pur prendere delle misure per fermare la violenza? «E? solo un problema di polizia. Non una questione politica». Ma capita in Germania. Non pensa che l?attività di questi gruppi possa resuscitare qualche fantasma? «In Italia fate ancora i conti con Mussolini? Non mi sembra». Le cellule neonaziste sono nate e si sono diffuse soprattutto nei Lä
giovedi , 03 agosto 2000
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NEL PORTO TURCO
«Vuoi andare in Italia? Paga in marchi, hai quattro possibilità»
Maria Grazia Cutuli
DAL NOSTRO INVIATO ISTANBUL - Clandestino, si fa per dire. A Istanbul tutto è possibile. La rete mafiosa che organizza viaggi senza visto, crociere senza passaporto, odissee fino alle coste italiane, ha agenti e mediatori dietro al porto di Karaköy, a due passi dell'Ufficio della dogana. Chi vuol partire illegalmente non fa fatica a contattarli. Un passaggio nei ristoranti con terrazze sul Bosforo, qualche dritta nei negozi di merce dozzinale, un giro per baretti malfamati frequentati dai marin ai, ed ecco che l'aggancio salta fuori. È il proprietario di una salumeria all'incrocio tra un vicolo e la via principale, la Serap Galataiskele, a indicarci la strada: «Vuoi andare in Italia? Fai un salto nell'ufficio qui sopra e ci penseranno loro» . L'interprete che ci accompagna è ormai nel ruolo. Clandestino per affari di cuore. «Sto con lei - dice, indicandomi -. Devo seguirla a Milano, ma ho qualche problema con i documenti». «Questi che ti dico io lavorano benissimo - insiste il salumier e -. Ha funzionato anche con mio fratello. Mille marchi e me l'hanno spedito in Germania. È gente in gamba. Vi porta il ragazzo». Il garzone ci scorta su per le scale, fino a un sgabuzzino dalle pareti gialle, con una scrivania, due ritratti di Atat urk al muro e tre uomini dentro. È l'ufficio di collegamento tra i clandestini e i traghettatori, i disperati dell'Est e le mafie turche. «Amici di Mohammed», annuncia. L'interprete lo liquida. «Mi chiamo Amed, voglio lasciare la Turchia. Mi hanno de tto che potete aiutarmi per il viaggio». L'uomo dietro la scrivania ha una faccia anonima da malavita di quartiere. Ci guarda con curiosità. Guarda l'interprete con diffidenza. Guarda gli altri con aria interrogativa. Il compare più anziano, con sag gezza da patriarca, accenna una smorfia sotto i baffi bianchi. Il terzo, giubbotto da fotografo, pantaloni con la piega, scarpe lustre, si limita a giocherellare con il cellulare. «Che tipo di viaggio?», chiede l'uomo alla scrivania, sgranando un ros ario islamico tra le dita. «Voglio uscire dalla Turchia - risponde il finto Amed - Devo seguire la mia fidanzata». Il mediatore chiede se ha il passaporto. «Ce l'avevo. Ma me l'hanno sequestrato. Problemi di tasse. Un po' di debiti. Devo partire da c landestino». L'uomo annuisce. «Ti mandiamo noi. Una possibilità è come marinaio». Tira fuori da un cassetto un mazzo di libretti di navigazione, con timbro e rilascio del Ministero dei Trasporti. «Ci vuole qualche certificato, residenza, carichi pena li, ma non c'è bisogno del passaporto». Al finto Amed toccherà però frequentare un corso, aspettare un mese e sganciare l'equivalente di un milione e 200 mila lire. Interviene il vecchio: «C'è il problema dei carichi penali. Tu ne hai qualcuno, mi s embra di capire. Ma posso aiutarti. Ho amici in tribunale». Il fuggiasco dice che no, tra un mese è troppo tardi, deve partire subito. L'uomo alla scrivania, pratico e manageriale, passa alla seconda opzione: «Possiamo mandarti con un Tir. Viaggi dal la Turchia alla Grecia, fino a Patrasso. Lì c'è qualcuno che ti porta a Brindisi». Amed protesta. Non vuole viaggiare chiuso dentro una bara di lamiera, nascosto tra stoffa e pellami, mobili o fagioli. Il «manager» fa un paio di chiamate con il cell ulare. E arriva alle navi: «Ce n'è una che parte in questi giorni dalla Siria, va in Russia attraverso il Bosforo e tra dieci giorni approda a Istanbul. Viaggerai per tre notti e quattro giorni con altri 200 o 300 clandestini, fino in Albania. Puoi s cendere lì. La nave continuerà verso la Tunisia». Il costo? Il mediatore fa un'altra telefonata. «Non posso dirtelo adesso. Ma è sui cinquemila mila marchi». Cinque milioni di lire. C'è un depliant sul tavolo, patinato e colorato con una cartina del la Turchia che indica spiagge, località turistiche, isole aperte sul Mediterraneo. Serve a indicare la rotta. Amed ha i suoi dubbi. E in Albania, che succede? Gli agenti di viaggio pensano anche a questo. «Puoi prendere il motoscafo. Oppure rivolgert i a un nostro amico. Gestisce autobus che arrivano fino a Trieste. Alle frontiere provvede lui». Un'altra possibilità, sono i battelli che da Kas e Marmaris, sulla costa turca, vanno fino all'arcipelago greco. Promesse o imbrogli? Nel mercato dei cl andestini, molti viaggi finiscono a metà. Gente scaricata in Grecia e in Albania. Collegamenti che si interrompono. Nuovi intermediari che intervengono a riscuotere altri oboli. Amed alza la voce. «E quando arrivo lì che faccio? Mi prendete per scemo ». Il manager replica qualcosa. Il patriarca scuote la testa. Il giovane tira fuori l'ultima offerta, extra-lusso: una nave ormeggiata a Güllük, vicino a Bodrum, sulla costa turca, a sud-ovest. «C'è una ditta che fornisce il catering a bordo poco pr ima della partenza. Passi tra quelli che scaricano patate e cipolle. Nessuno controlla». La fuga dalla Turchia è garantita. L'approdo, chissà. «In Italia ti chiederanno dove vuoi andare. E ti spediranno in un altro Paese d'Europa o in America - ride il vecchio -. Oppure in un centro d'accoglienza». Il potere dei tre compari finisce qui. Dopo, con la grazia d'Allah.
lunedi , 31 luglio 2000
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«Rispetteremo la sovranità dell' Albania»
Amato rassicura Meidani ma avverte: aiuti economici legati alla lotta contro gli scafisti Il presidente e il capo del governo: due alleati-rivali a Tirana
Galluzzo Marco, Cutuli Maria Grazia
«Rispetteremo la sovranità dell' Albania» Amato rassicura Meidani ma avverte: aiuti economici legati alla lotta contro gli scafisti ROMA - L' intesa con l' Albania non è in discussione e sarà messa nero su bianco. Giuliano Amato ne precisa i contorni , ribadisce che gli agenti italiani «vigileranno» direttamente sul sequestro e la confisca dei mezzi degli scafisti, conferma che elicotteri italiani, «pur nel rispetto della sovranità albanese», aiuteranno Tirana nell' applicazione delle norme contr o i traffici illegali. Precisazioni rilasciate in tono sereno, ma con un messaggio finale chiarissimo: «I nostri rapporti di collaborazione economica con l' Albania sono legati al progresso nell' efficacia delle misure di prevenzione e repressione de lla criminalità». Poco dopo il premier albanese Ilir Meta conferma la sintonia: «L' aiuto italiano per noi è strategico, ben vengano i vostri mezzi di polizia per azioni congiunte», è la sintesi di una nota dai toni molto concilianti. Le precisazioni dei due capi di governo avvengono in tarda mattinata, a distanza di appena mezz' ora una dall' altra. La sincronia appare quasi ricercata. Ma soprattutto spazza via, almeno parzialmente, i dubbi e gli interrogativi provocati la sera prima dal presid ente albanese Meidani. Il capo di Stato albanese aveva svalutato l' intesa sulla sicurezza fra Roma e Tirana («In Albania non basterebbero nemmeno 100 mila poliziotti»), invitato la stampa a «non giocare con la sovranità territoriale» albanese, condi zionato l' efficacia di ogni repressione alla collaborazione anche degli altri Stati dell' area balcanica («Ogni dieci clandestini uno solo è albanese»). Parole dure, che sembravano mettere in discussione l' accordo di collaborazione fra Amato e Meta . E che ieri hanno trovato una parziale conferma nello sbarco di centinaia di clandestini sulle coste della Calabria: partiti dalla Turchia, scalo in Grecia, organizzazione non certo albanese. E Amato ieri ha avuto parole anche di rassicurazione vers o Meidani: «E' giusta la sua preoccupazione di non mettere in discussione la sovranità albanese». Detto questo, rimane però l' urgenza di varare «con un accordo concreto, e il più rapidamente possibile» - ha confermato il premier albanese Meta - le m isure di collaborazione sulla sicurezza fra Roma e Tirana. Misure su cui Amato ha voluto soffermarsi ancora una volta: «Ovviamente la presenza delle nostre forze di polizia rispetterà la loro sovranità, sarà in termini condivisi e collaborativi. I no stri mezzi - elicotteri e mezzi di intervento veloci da far operare sulla costa e non sui mari, sia pure territoriali - potranno andare lì con equipaggio italiano o misto. Ci saranno azioni di monitoraggio e vigilanza comune sul territorio, per una c orretta applicazione delle norme che prevengono e reprimono l' uso degli scafi per il trasporto di clandestini, anche con il sequestro e la confisca del mezzo». Da Tirana il premier Meta ha confermato: «Accoglieremo bene azioni congiunte con le strut ture di polizia italiana. L' Italia è per noi un partner politico ed economico strategico. Tutte le istituzioni del nostro Stato sono convinte che solo con una lotta forte e senza compromesso, bilaterale e multilaterale, noi batteremo i traffici ille gali». Il Polo continua però a giudicare insufficienti, o velleitarie, le rassicurazioni congiunte da parte dei due governi. «Queste precisazioni ripetute - attacca il leader del Ccd Pier Ferdinando Casini - confermano che la lobby degli scafisti tie ne in pugno non pochi politici di Albania. Il governo italiano dovrebbe subordinare gli aiuti economici a contromisure serie per contrastare i traffici, e non ad accordi, orali o scritti, cui non corrisponde mai un risultato effettivo». Da Amato, rin cara Adolfo Urso, di An, arriva «un nuovo e inutile giro di valzer». Marco Galluzzo I PROTAGONISTI Il presidente e il capo del governo: due alleati-rivali a Tirana DAL NOSTRO INVIATO TIRANA - L' intellettuale e il lottatore. Il maturo signore che ha preso il timone dell' Albania dopo il crollo delle piramidi finanziarie del 1997, e il giovane delfino, pragmatico e ostinato, che mostra di voler camminare con le proprie gambe. Sono i due protagonisti della «guerra dei gommoni», gli interlocutori a cui l' Italia ha affidato il suo ultimatum contro gli scafisti: il presidente Rexhep Meidani, 56 anni, fisico nucleare, e il premier Ilir Meta, 31 anni, appassionato di lotta libera, con laurea in economia. Parla il primo, occhiali di metallo, capel li bianchi, e sembra sconfessare ogni accordo con Giuliano Amato: «Non basta schierare la polizia per fermare i traffici illegali, bisogna introdurre barriere negli altri Paesi dell' area». Replica il secondo, fisico tarchiato, viso largo dai tratti marcati, e recupera Roma: «L' Italia è un partner politico ed economico strategico per noi». Spaccatura ai vertici? O semplice gioco delle parti? A Tirana, considerano Meidani un patriarca e Meta un ragazzino. Ma il giovane premier è anche un ribelle . Arrivato al potere a ottobre scorso, ha lasciato credere di essere facilmente manovrabile per poi decidere i rimpasti di governo che negli ultimi mesi hanno spiazzato le vecchie leve con un' avanzata di nuovi ministri, tutti «tecnici» e tutti trent enni. Ma, assicurano a Tirana, su un argomento delicato come quello dei gommoni le parole di Meta non possono non aver passato il vaglio del presidente. La triade socialista che lo ha messo al governo, Rexhep Meidani assieme all' ex premier Fatos Nan o e al capo dei servizi segreti Fatos Klosi, ha ancora l' ultima parola su tutto. Meidani, spiegano, con le sue dichiarazioni voleva tener buona l' opposizione e una parte dell' opinione pubblica, Meta doveva rassicurare l' Italia. Per capire meglio chi sono i due signori, bisogna fare un passo indietro. Al 1997, l' anno in cui l' Albania sfiora la guerra civile. Le piramidi, organizzazioni finanziarie che promettevano tassi d' interesse dal 30 al 100%, invenzione di un capitalismo senza retrote rra, selvaggio e ingenuo, crollano polverizzando un miliardo e mezzo di dollari. Esplode la piazza. Salta in aria la presidenza di Sali Berisha e il governo del suo partito, quello democratico. Le elezioni anticipate di giugno vengono vinte dai socia listi e Rexhep Meidani diventa presidente. Il «professore» ha insegnato all' università di Tirana, in Europa, negli Stati Uniti e anche in Kosovo. Amico del Nobel Rubbia, è un personaggio meticoloso, pignolo, persino pedante. Non gli mancano i legami con i potentati albanesi: la moglie è cognata di Brenisk Kapo, eminenza grigia dell' ex presidente Ramiz Alia. Meidani mostra presto i muscoli: lo fa con il suo premier, il socialista Fatos Nano, bocciandogli varie leggi, e lo fa con l' Italia. Alla fine del 1997 accusa il governo di Roma di aver commesso errori sul decreto di rimpatrio per i profughi albanesi. Un anno dopo, un tentativo di golpe a Tirana costringe alle dimissione il premier Nano. Arriva Pandeli Majko, poi tocca a Ilir Meta. Na to a Skpar, 120 chilometri a sud di Tirana, vanta tre elezioni in Parlamento e una poltrona di vicepremier dello stesso Majko. Intelligente e ambizioso, si è fatto strada, in coppia con la moglie, militando nell' organizzazione della gioventù sociali sta. L' Albania che si trova a governare è un Paese accusato dalla Banca Mondiale di vivere di corruzione e connivenze: tra il 50% e l' 80% delle società sono costrette a pagare tangenti. E ci sono i clan di Valona: il sospetto di legami con i boss c ontinua a pesare su parecchi esponenti socialisti, provenienti da quella provincia. Ma c' è in ballo anche un progetto di privatizzazione della telefonia, delle miniere di cromo, del petrolio e del gas. E ci sono gli aiuti internazionali. Ilir Meta f a fuori il ministro dei Trasporti, della Difesa, e soprattutto dei Lavori pubblici, la signora Ingrid Shuli, ribattezzata ministro delle buche, sostituendoli con giovani rampanti cresciuti nelle università americane. Il premier chiede che si realizzi no opere e infrastrutture. Motivi elettorali? Chissà: tra un paio di mesi si andrà alle urne per le amministrative. Ed è certo che il fronte socialista sta cercando di ricompattarsi. L' ultimatum di Roma diventa una trappola? D' ora in poi il patriar ca Meidani e il giovane Meta dovranno muoversi entrambi con passi felpati. Maria Grazia Cutuli
domenica , 30 luglio 2000
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A DURAZZO
I finanzieri: sono più veloci e sparano senza scrupoli
Ma tra gli uomini c' è un cauto ottimismo: «Dal 1997 a oggi le imbarcazioni che incrociano nel canale di Otranto sono diminuite da 200 a 30»
Cutuli Maria Grazia
DAL NOSTRO INVIATO DURAZZO - La motovedetta prova il mare a metà pomeriggio. Un giro nella baia di Durazzo, quattro, cinque virate a velocità media, 30 nodi all' ora, con la barca inclinata su una fiancata, i sobbalzi delle onde sotto la chiglia. «Te nteremo di uscire anche stanotte - dice il colonnello - tempo permettendo». Le battute di caccia continuano. Quattro imbarcazioni della Guardia di Finanza italiana sono impegnate a pattugliare la costa albanese, anche se da qualche giorno, da quando è scoppiato il pandemonio per la morte dei due finanzieri italiani in Puglia, su questa sponda dell' Adriatico è difficile vedere gommoni o scafi. «Le minacce del governo sembrano aver congelato le partenze degli scafisti. Persino gli irriducibili se ne stanno buoni». Calma illusoria. Il colonnello Alessandro Falorni, 44 anni, occhialini di metallo, capelli chiari, occhi azzurri su una faccia da ragazzo, in sette mesi di missione in Albania ha imparato a prevedere tempeste dietro la bonaccia. Co me comandante del nucleo di frontiera marittima di Durazzo, ha intercettato imbarcazioni di ogni tipo, inseguito trafficanti di clandestini, sentito le raffiche dei kalashnikov. Ogni volta, un gioco d' azzardo. Le motovedette italiane, classe 5000, s ono elefanti in confronto ai gommoni. Sicure, solide, veloci, 50 nodi all' ora e più, oltre 100 chilometri orari, ma poco agili. «Ogni virata ci fa perdere velocità, mentre gli scafisti schizzano via. Spesso sotto cocaina o anfetamina e allora è vera mente rischioso. Se poi ci si avvicina alla costa, la cattura diventa impossibile. Fondali troppo bassi», dice il colonnello. Si è provato ad utilizzare i gommoni. «Ma tutte le volte che ci si avvicina alla spiaggia, gli scafisti sparano. Loro rischi ano tre anni di carcere per immigrazione clandestina. Noi la vita». Un italiano, il maresciallo Masiello, è stato ferito così a metà luglio. E' arrivato a terra e oltre ai fucili si è trovato davanti una folla di 70 persone. Poi, una sassaiola. E' fi nito in ospedale. Caccia impossibile o lavoro inutile? La Guardia di Finanza italiana fa parte della missione interforze di polizia, una struttura articolata spedita in Albania dopo le rivolte del 1997 con compiti di assistenza e addestramento allo s fasciato apparato locale. Sono 55 uomini. Alcuni vivono a Durazzo, letto e pasti all' hotel Pameba, sala operativa al porto. Altri sull' isola di Saseno, di fronte a Valona, dentro una base destinata a diventare tra le più strategiche dei nostri mari . Tocca a loro sorvegliare le acque. Una presenza che è anche una scommessa sul futuro. «Stiamo cercando di creare una flotta per la polizia albanese, riparando e mettendo a loro disposizione le imbarcazioni sequestrate agli scafisti», spiega il colo nnello. Venti gommoni e 6 motoscafi, resuscitati a nuova vita. «Ed è più di una semplice assistenza. Ci sostituiamo ad un corpo inesistente, teniamo sotto pressione gli agenti locali, li spingiamo ad operare». Il mandato italiano non permette interve nti diretti in un territorio sovrano come l' Albania. A bordo di ogni imbarcazione della Guardia di Finanza, c' è sempre un albanese, preferibilmente addestrato alla scuola nautica di Gaeta, autorizzato a intervenire. «Noi siamo armati per legittima difesa - dice il colonnello -. Loro, se vogliono, possono anche sparare, arrestare, procedere alla confisca degli scafi». Quando arrestano, devono vedersela però con la folla inferocita. Manifestazioni, tiri, proteste davanti al commissariato di Valo na. Tonnellate di spazzatura scaricate per bloccare le strade. Rapporti non sempre facili quelli tra la Guardia di Finanza e gli agenti albanesi. Un paio di mesi fa, è stato proprio il capo della polizia di Valona, Bresnil Bregu, a cercare di dissuad ere gli italiani. «Se fermate gli scafisti, ammazzate l' economia della città». Oggi dice il contrario. C' è stata anche una campagna di stampa. «Ci accusavano di affondamenti inesistenti, di aver causato non so quanti morti», dice il colonnello. Qua ndo va bene, gli italiani vengono contestati per i modi da gentiluomini. «Dovete mostrarvi forti, decisi, spietati, ci ripetono gli ufficiali albanesi». Gli italiani, malgrado tutto, sono ottimisti. Dal 1997 a oggi il numero delle imbarcazioni clande stine è sceso da 200 a 30 unità. Sono stati respinti 30 mila clandestini, arrestate 127 persone. Una ventina di famiglie continua a gestire il traffico, che sembra però essere scemato dalla zona di Durazzo per concentrarsi su una trentina di chilomet ri che vanno dal fiume Vojussa, dove sono nascosti scafi e gommoni, fino alla laguna di Valona, ad alcune banchine del porto e, ancora più a sud, a Orikum. Dall' isola di Saseno, dove opera all' interno anche la Marina, è stato installato un centro r adar, collegato con le coste italiane e con quelle albanesi. Foto aeree hanno permesso di scoprire imbarcazioni nascoste dappertutto. Gli scafisti si sono fatti furbi e oggi tengono i gommoni dentro fabbriche dismesse, darsene di vecchie ville, case private, garage. «Qui sono a casa loro e sono più aggressivi che in Puglia - borbotta il maresciallo Vincenzo Ventre -. Li abbiamo visti crescere, gli scafisti. Inesperti, impacciati all' inizio, poi sempre più agguerriti e spregiudicati». Avversari pericolosi. Spesso senza volto. «Le loro facce? Non le vediamo nemmeno». Portano passamontagna quando prendono il mare. «Quello che i nostri fari illuminano a bordo, sono al massimo gli occhi terrorizzati dei clandestini». Maria Grazia Cutuli
sabato , 29 luglio 2000
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LA TESTIMONIANZA
Un trafficante: se provano a fermarci siamo pronti a sparare
Cutuli Maria Grazia
LA TESTIMONIANZA Un trafficante: non ci fermeranno, pronti a usare i missili DAL NOSTRO INVIATO VALONA - I motoscafi sono scomparsi. Tenuti al largo, o protetti in casa, nei cortili, dentro ai garage, nascosti in mezzo all' edilizia di travi e cement o, di mura scrostate e mattoni a vista, che si affaccia scomposta sulla spiaggia di Valona. Sul molo, le sagome di un paio di mercantili. Sul lungomare, il passaggio chiassoso di Mercedes ridipinte, jeep di seconda mano, bagnanti pronti a scendere in acqua. Il porto dei pirati, crocevia dei traffici indomiti che attraversano l' Adriatico, trampolino di destini incerti per gli immigrati che arrivano dell' Est, si è fatto più discreto negli ultimi giorni. Un po' più clandestino. Gli ultimatum ital iani, i proclami del governo albanese, le pattuglie della polizia, che sfilano sulle auto blu regalate da Roma, tengono gli scafisti sottocoperta. «Paura?»: Luan Toto, una faccia lunga e rugosa, la pelle abbrustolita dal sole, scrolla le spalle. «No, non è paura. Noi continueremo a fare il nostro lavoro. Fin quando ci sono immigrati che chiedono di essere imbarcati, continueremo a partire. Diventerà solo più pericoloso. Ci saranno più morti di prima. Ma lo faremo stanotte. Domani. Dopodomani. E sempre». Le minacce di Roma non sfiorano i navigatori di lunga data come lui. «E' da otto anni che ci sparano addosso. Ci spareranno di più. Berlusconi, Fini, vogliono questo? Fascisti». Una smorfia e una sigaretta: «Spareranno loro e spareremo anche noi. Faremo tornare indietro la ruota della storia. Come negli anni Trenta. Butteremo gli italiani a mare. Abbiamo tante di quelle armi da poterlo fare». Lo dice senza enfasi, Luan Toto. Parole di routine, guardando il mare con indifferenza, dalla t errazza fiorita di un bar. «Il governo albanese ha approvato una nuova legge contro i gommoni? L' ha fatto perché l' ha chiesto l' Italia. Ma i controlli delle autorità sono come un elastico: oggi tiratissimo, domani lento». Valona la ribelle, roccaf orte della coalizione socialista di governo in carica dal ' 97, ha scoperto il traffico di uomini dopo il crollo del comunismo, nei primi anni Novanta. Quello di armi e droga c' era anche da prima. Luan Toto, 45 anni addobbati con ori al collo, ai po lsi e alle dita, e una maglietta Nike di due taglie più grandi, ha seguito la storia, come tanti. «Negli anni di Enver Hoxha, mio padre faceva l' autista. I soldi non mancavano e nemmeno il lavoro». Poi, il comunismo è caduto e anche lui ha cercato u na vita altrove. «Prima in Grecia, dopo in Italia. Quattro mesi a Milano senza trovare niente». Nel marzo del 1993 è tornato a Valona e da allora ha preso il mare. «Ormai sono uno dei pochi anziani rimasti. La maggior parte dei vecchi scafisti si tro va purtroppo nelle carceri pugliesi. Al loro posto, sapete chi è arrivato? Ragazzini di 16 o 17 anni, pivelli senza cervello». C' è finito anche lui nelle carceri pugliesi, per qualche mese. Poi è stato espulso ed è tornato agli scafi. «Sono solo la terza mano, come si dice da noi. Un autista e niente più. Guido gommoni di altri». Un sottoproletario che si porta a casa 5 milioni al mese - quel che basta a mantenere i genitori, una sorella, la moglie e due bambini -, che si è comprato da poco una Mercedes 250 Diesel, nuova, e che non vorrebbe mai veder suo figlio far lo stesso lavoro. «Troppo pericoloso. Noi scafisti partiamo in qualsiasi condizione e con qualunque mare». Non li spaventa nulla. «L' unico che è riuscito a fermarci è stato Sal i Berisha. Non si è mossa un barca quando era presidente lui. La rivolta di Valona nel 1997 è scoppiata per questo». Qualcosa però è cambiato anche negli ultimi mesi, da quando si sono intensificati i controlli. Non si parte più dalla spiaggia. Gli s cafi sono stati nascosti, o portati a largo. C' è una persona a bordo che li sorveglia, dotata di telefonino, e solo la notte si avvicina alla costa per imbarcare i clandestini. Una volta Luan Toto ha rischiato di non tornare. Era la notte tra il 30 e il 31 dicembre dell' anno scorso. «Siamo partiti con cinque scafi, il mare era a forza otto, il vento a 16 nodi. Le condizioni ideali. Quando il tempo è brutto le motovedette non escono. E invece ci hanno beccati. Uno scafo è calato a picco con 59 persone, altri tre sono stati catturati. Io solo sono rientrato a Valona». Dice di aver visto tanti cadaveri, da non impressionarsi per la morte delle due guardie di finanza italiane. «Si sono suicidati. Sono finiti contro uno scoglio. Gli scafisti n on c' entrano». Ordina un' altra birra Luan Toto. E stavolta si infiamma: «Questa storia dei rapporti con l' Italia è una tragedia. C' è solo un modo per farla finita: o si permette agli immigrati di entrare con un visto regolare o si prendono le arm i». Si alza in piedi adesso, e indica la sagoma sfocata di una collina attorno alla baia. «Lì abbiamo una base missilistica. Non ci vuole niente ad arrivarci. Basta premere un bottone e spedire un ordigno dritto in Puglia. Un giorno finirà così». Ogg i finisce al bar. Aspettando, malgrado i proclami albanesi e le minacce italiane, di riprendere il mare con il suo carico clandestino. E un vecchio motto tra le labbra. «Meglio morire dall' altra parte, che qui a Valona di fame e miseria». Maria Graz ia Cutuli
venerdi , 28 luglio 2000
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IL MINISTRO DEGLI ESTERI
«Ma alle frontiere dovrete aiutarci, avete più mezzi di noi»
Cutuli Maria Grazia
IL MINISTRO DEGLI ESTERI «Ma alle frontiere dovrete aiutarci, avete più mezzi di noi» DAL NOSTRO INVIATO TIRANA - La legge anti-gommoni è pronta. O meglio, quasi pronta. «Il governo albanese l' ha approvata ieri, restano solo alcuni dettagli tecnici da discutere». Il ministro degli Esteri Paskal Milo, 51 anni, professore di storia e filologia, ha qualcosa da offrire a Giuliano Amato, quando arriverà a Tirana oggi pomeriggio. Anche se non è proprio quello che il presidente del Consiglio italiano aveva chiesto. «Certo, resta l' esame in Parlamento. Se non chiudesse sabato per le vacanze estive ce l' avremmo fatta». L' Albania ha voluto in questo modo rispondere all' ultimatum italiano? «No, la legge era già in agenda. Avevamo deciso di vararl a nell' incontro tra il nostro ministro per l' Ordine pubblico ed Enzo Bianco tre settimane fa a Tirana: un provvedimento forte per combattere in modo efficace i traffici illegali e la criminalità organizzata. È un testo di 25 pagine, messe a punto con gli esperti dell' Unione Europea. Non avremmo potuto farla passare in due giorni come chiesto da Amato». Avevate già approvato una legge e non è servita a nulla. Che cosa c' è di nuovo in questo testo? «Possiamo finalmente intervenir e sul campo. Sequestrare e distruggere tutte le imbarcazioni che non sono regolarmente registrate nelle strutture portuali. E non colpiremo solo i gommoni, ma anche gli scafi più potenti, fino a 20 tonnellate». Avete intenzione di migliorare la sorve glianza alle frontiere? «Il problema delle frontiere sta danneggiando la nostra relazione con l' Italia e la nostra immagine. Ma non è solo un problema albanese. È regionale. Noi non abbiamo certo intenzione di supportare nessuno tipo di attività cri minale». L' opposizione vi accusa del contrario. L' ex presidente Sali Berisha ha fatto vari nomi nei giorni scorsi, da Sabit Brokaj, ex ministro della Difesa, attuale consigliere del presidente Rexhep Meidani, al ministro della Finanza Anastas Angel j. «Se è per questo hanno chiamato in ballo anche me, dicendo che sono personalmente coinvolto con gli scafisti: visto che sono originario di Valona, il collegamento con i clan di lì non può mancare. Tutte voci. Ma dove sono i fatti? E sapete perché se ne parla adesso? Perché a ottobre avremo le elezioni amministrative e Berisha, in combutta con i suoi amici kosovari, come Bukoshi (il cassiere dell' ex Uck, ndr) tenta di tornare alla ribalta coi soldi raccolti tra gli albanesi del Kosovo. Si sta accreditando come un angelo, addirittura». Le accuse di corruzione arrivano anche da altre parti. Natalina Cea, la funzionaria italiana che ha cercato di ripulire le dogane, si è trovata in difficoltà, o no? «Le dogane funzionano meglio ora, le entr ate sono cresciute enormemente». E le pressioni che lei avrebbe ricevuto? «Non posso mettere la mano sul fuoco per nessuno. Ma chi ha qualcosa da dire, lo faccia. Denunceremo i colpevoli. Anche se, purtroppo, il nostro sistema giudiziario non funzion a». Il procuratore Vigna ha proposto una collaborazione tra magistrati italiani e albanesi. Siete disposti ad accettarla? «Certamente. Appoggiamo anche l' ipotesi di un centro internazionale di controllo a Valona. È quello che chiederò ad Amato: di a iutarci a essere più efficienti con le strutture che abbiamo e di crearne nuove». Insomma chiedete altri aiuti all' Italia? «Abbiamo ricevuto parecchio, e non solo dall' Italia. Ma non siamo responsabili dei disastri creati dai precedenti leader. Sia mo al governo dalla fine di luglio ' 97 e in tre anni abbiamo ricostruito lo Stato, la polizia, l' esercito. Abbiamo fronteggiato la crisi del Kosovo». C' è chi vi accusa di averla provocata... «I problemi dell' Albania non nascono dal Kosovo, ma dai danni creati prima del 1997». In Italia aumenta però la pressione per sospendere gli aiuti. Non avete paura? «Non credo succederà. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ma non siamo stupidi. Siete anche voi in campagna elettorale e la vostra opposizi one sta facendo un gioco molto sporco sulla pelle degli albanesi». Vi si chiede di spezzare le connivenze politiche con la mafia. Lo farete? «Gli scafisti non lavorano da soli. C' è qualcuno che li aiuta in Italia e ormai hanno creato una rete intern azionale. Voi avete più mezzi di noi per combatterli». Sta dicendo che la responsabilità è italiana? «No, dico che dobbiamo lavorare assieme». Maria Grazia Cutuli
domenica , 16 luglio 2000
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IL COMANDANTE COPPOLA
Il monito dei carabinieri. «Stiamo consegnando la regione ai criminali»
«Non siamo più disposti a tollerare che gli albanesi si oppongano ai nostri arresti»
Cutuli Maria Grazia
IL COMANDANTE COPPOLA Il monito dei carabinieri «Stiamo consegnando la regione ai criminali» DAL NOSTRO INVIATO PRISTINA - Mano pesante con gli albanesi. Così la pensa il colonnello Vincenzo Coppola, comandante dei carabinieri italiani a Pristina. «N on siamo più disposti a tollerare le loro violenze. Tentano di opporsi ai nostri arresti. Bloccano le strade. Usano la gente come scudi umani. Dobbiamo decidere una volta per tutte quale strategia adottare». In Kosovo succede anche questo: gli albane si, liberati dalla Nato, si rivoltano contro le regole del «protettorato» internazionale. Ufficialmente gli ex guerriglieri dell' Uck, l' Esercito di Liberazione, hanno deposto le armi. Alcuni di loro hanno accettato di entrare in polizia. Altri, 5 m ila in tutto, sono stati reclutati nei Tmk, i Corpi di protezione del Kosovo, u n' organizzazione relegata a compiti mansueti, come il soccorso civile. Ma nessuno di loro ha rinunciato al progetto di creare un nuovo esercito. E solo pochi sono dispo sti a starsene calmi. Arsenali dappertutto. Omicidi all' ordine del giorno. Gli albanesi se la prendono con i serbi rimasti. Continuano a vendicarsi o scontrarsi, come è successo venerdì notte a Mitrovica, la città divisa dal fiume Ibar, la piccola B erlino della storia più recente. Nella zona Nord, quella serba, hanno lanciato granate, spinto gli altri a intervenire, con decine di feriti come finale. Ma sono in guerra anche tra loro, dietro i vetri fumé delle limousine che sfilano per Pristina, per il controllo del contrabbando, della prostituzione, dei taglieggiamenti alla popolazione. E con l' avvicinarsi delle elezioni amministrative, fissate per ottobre, della stessa leadership politica. Il colonnello Vincenzo Coppola, 46 anni, un milit are alto più di un metro e ottanta, cranio rasato, modi decisi, si è meritato gli elogi del Washington Post, quando ha cominciato a occuparsi delle bande dedite allo sfruttamento della popolazione. E anche oggi che sta per concludere il suo mandato - martedì lascerà il comando delle Unità speciali dei carabinieri al colonnello Leonardo Leso - non rinuncia a un ultimo avvertimento: «Da parte mia non c' è dubbio. Non permetto che nessuno si opponga ai miei uomini. Possono fermare una pattuglia, ma l' indomani mando sul posto cinquanta carabinieri a far piazza pulita». E' l' unico a pensarla così? «La comunità internazionale dovrebbe decidere una volta per tutte come comportarsi. Se vogliamo ricorrere alle maniere forti è meglio farlo assieme» . E' convinto che l' ex Uck abbia prodotto solo criminali? «Non voglio generalizzare, ma i criminali ci sono. E per motivi tecnici. Quando è cominciata la guerriglia, erano i soldati migliori, quelli disposti a tutto». Vale lo stesso per i Corpi di p rotezione? «Sono i primi a creare problemi. Posso fare l' esempio di Kosovo Polje. Qualche mese fa hanno occupato una struttura pubblica. Ho mandato i carabinieri ad arrestarli ed ecco la gente mettersi di mezzo per fermare i miei. Ma non c' era da a spettarsi niente di diverso. Questi dell' Uck durante la guerra si sono presentati come eroi. Non hanno fatto proprio un bel niente, ma la gente continua a considerarli tali. E invece la comunità internazionale li ha relegati nei Corpi di protezione, chiedendo loro di raccogliere la "monnezza". E' chiaro che non siano contenti». Gli albanesi si ribellano anche alle forze Nato? «Ce l' hanno con l' Onu, con la sua polizia e con la parte politica degli accordi. Della Nato non possono fare a meno, v isto che è l' unica difesa che possiedono. Vogliono che resti». Nell' ultima settimana si è sparato spesso: Ramusk Haradinaj, ex comandante dell' Uck, oggi capo dell' Alleanza per il futuro del Kosovo, è stato ferito da un rivale. Il suo braccio dest ro ucciso. Qualcuno ha sparato in segno di avvertimento contro la casa del leader moderato Ibrahim Rugova. L' avvicinarsi delle elezioni sta scatenando una faida politica? «Sì, c' è una faida. Ma anche molta confusione. La comunità internazionale si trova in difficoltà: aveva puntato su Haradinaj, per esempio, come nuovo leader e oggi è costretta a rivedere le proprie posizioni». E Hashim Thaci, l' ex capo dell' Uck, il mediatore di Rambouillet, è credibile come esponenente politico? «Sta perden do terreno e conta molto meno di quello che vuole far credere. Non ha carisma, né statura politica. L' errore della comunità internazionale è stata la fretta. Troppa premura ad accreditare alcuni personaggi. Il risultato è che questi adesso ci restan o sul groppone ed è difficile screditarli». Come sarà il futuro governo del Kosovo? «Non voglio dire che sarà formato solo da criminali. Ma i criminali ci saranno, eccome». Maria Grazia Cutuli
giovedi , 13 luglio 2000
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Il rapporto presentato ieri a Roma. Tra le malattie che uccidono anche morbillo, tetano e pertosse. Un miliardo vive senza acqua potabile
Muoiono più di 30 mila bambini al giorno
La denuncia Unicef. Lavoro nero, baby soldati e prostitute: 250 milioni di piccoli schiavi. L' Italia cancella il debito: fino a 12 mila miliardi in tre anni
Cutuli Maria Grazia, Caprara Maurizio
Testo non disponibile Il rapporto presentato ieri a Roma. Tra le malattie che uccidono anche morbillo, tetano e pertosse. Un miliardo vive senza acqua potabile Muoiono più di 30 mila bambini al giorno La denuncia Unicef. Lavoro nero, baby soldati e prostitute: 250 milioni di piccoli schiavi Sono come zombi. Perduti e dimenticati. Nascosti nei bassifondi del villaggio globale, sganciati da ogni rete sociale, ignorati persino dalle anagrafi: 30.500 bambini al mondo, una popolazione di una città come Aosta, comin ciano la loro giornata da vivi e la terminano da morti. Undici milioni di cadaveri in un anno, uccisi da malattie banali, facilmente curabili in altri Paesi, in posti diversi da quelli in cui sono nati. E' l' Unicef a individuare, nell' ultimo rappor to «Il progresso delle Nazioni 2000» presentato ieri a Roma, il cono d' ombra nel quale sprofondano, «perduti nel mondo dei vivi», milioni di bambini. E non è solo una questione di decessi, dice l' Unicef. L' «oscurità» data dalla miseria, questo par adosso di un millennio nato sotto il segno del Grande fratello, sommerge anche coloro che sopravvivono alle malattie. Sono i 250 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni costretti a lavorare nei Paesi in via di sviluppo, senza tutela, senza che il loro nome appaia da nessuna parte. Tra questi, 50/60 milioni «sfruttati in modo intollerabile». SOTTOPROLETARI - Le statistiche scandiscono un mutamento epocale: questa forza-lavoro va a formare un nuovo sottoproletariato, più numeroso degli abitanti del la Francia o del Regno Unito, abbrutito nello spirito e mutilato nel corpo. Figli, nipoti, pronipoti di poveri, 600 milioni di ragazzini, che vivono con meno di un dollaro (circa 2 mila lire) al giorno. Lavoro? E' un eufemismo. Vale per la prole cont adina, messa a lavorare nei campi, esposta ai pesticidi, tagliata fuori da ogni istruzione. Per gli scugnizzi impiegati nelle fabbriche dell' America Latina. Più indigesto come termine se si parla delle piccole nepalesi, dalle 5 mila alle 7 mila l' a nno, che vengono «esportate» nei bordelli dei Paesi vicini e agli altri 30 milioni di ragazzini dell' Asia e del Pacifico imbrigliati nei racket della prostituzione. Ancor peggio se il termine «lavoro» lo si applica ai 300 mila adolescenti reclutati da eserciti e guerriglie. L' Unicef cita il caso della Liberia: in sei anni di guerra, dal ' 90 al ' 96, 15 mila bambini utilizzati come soldati. Età buona per imbracciare il kalashnikov: 6 anni o giù di lì. A Monrovia, li inquadrano nelle «small boy units» e li chiamano «marines»: sono i più spietati. MORIRE D' ACQUA - Morbillo, tetano, pertosse: si muore anche di questo. Le campagne di vaccinazione, lanciate dall' Unicef, toccano 2 milioni e mezzo di bambini l' anno. Ma non riescono a raggiung ere altri 30 milioni sparsi nelle baraccopoli dell' Africa, nei ghetti dell' Asia, nei villaggi e nelle boscaglie. Pure l' acqua è peggio del veleno. Nonostante il miglioramento delle forniture idriche nell' ultimo decennio, un miliardo di persone co ntinua a vivere senza acqua potabile e 2 miliardi e mezzo, oltre un terzo della popolazione mondiale, dalla Cina, all' Etiopia, all' India, senza toilette. Basterebbero 60 miliardi di dollari l' anno (120 mila miliardi di lire) per estendere i serviz i di base. «Non si tratta di una cifra esorbitante - ricorda Carol Bellamy, direttore dell' Unicef - ma è una somma che i Paesi in via di sviluppo non sono in grado di stanziare». Se poi si parla d' aiuti, la prima a cadere è l' Italia, al penultimo posto nell' Ocse, l' Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in Europa. Versa solo 80 mila lire l' anno per abitante. E c' è dell' altro: oltre un bambino italiano su 5 è povero. Va peggio in Messico, e negli Usa. IL MORBO NASCOSTO - L' Unic ef insiste anche sull' Aids per ricordare che ogni minuto sei ragazzi sotto i 25 anni vengono infettati dall' Hiv e che per debellare la malattia occorrerebbero tra i 2 e i 3 miliardi di dollari l' anno, dai 4 mila ai 6 mila miliardi di lire. Sono ar rivati solo 302 milioni di dollari, oltre sei miliardi di lire. Troppo poco per cancellare il cono d' ombra. Quasi nulla di fronte all' umanità perduta nel mondo dei vivi. Maria Grazia Cutuli OGGI LA LEGGE L' Italia cancella il debito: fino a 12 mila miliardi in tre anni ROMA - L' Italia riuscirà a presentarsi al prossimo vertice tra i Paesi più industrializzati del mondo, il 21 luglio a Okinawa, con una legge che sancisce la sua rinuncia a una serie di crediti verso Paesi tormentati dalla fame. Ieri sera il disegno firmato da Giuliano Amato quando era ministro del Tesoro è arrivato sulla linea del traguardo al Senato. Nella versione con ampie modifiche che era stata approvata a fine giugno dalla Camera, oggi questo testo, che può fa r cancellare debiti fino a un massimo di dodicimila miliardi di lire in tre anni, verrà licenziato e spedito al Poligrafico dello Stato per essere stampato sulla Gazzetta Ufficiale. Soltanto la prudenza d' obbligo nei pronostici parlamentari consigli a di aggiungere: salvo imprevisti. Stando al clima della vigilia, la votazione finale dovrebbe essere contraddistinta da un consenso largo, se non quasi totale. Nel pomeriggio di ieri la commissione Esteri di Palazzo Madama ha promosso il provvedimen to con un' unanimità talmente piena che i suoi componenti lo hanno trasmesso all' assemblea senza neppure ricorrere a un' alzata di mani. Non significa che il percorso del disegno di legge sia stato scorrevole in ogni sua fase. In mattinata, la rispo sta del direttore Dino Boffo alla lettera di un lettore sull' Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale, è suonata come un garbato avvertimento all' opposizione di centrodestra. Una settimana fa, in commissione, Forza Italia aveva chiesto e ottenuto che l' esame retrocedesse dalla sede «deliberante», risolutiva e tale da permettere di saltare la tappa dell' aula, a quella «referente». Per rendere meno facile la vita al governo, accusato di cercare troppe scorciatoie normative, il Polo lo pretende regolarmente. «Le ferie dei senatori inizieranno il 29 luglio...», ha fatto notare però Boffo, suggerendo di tornare alla deliberante in modo da evitare rinvii a settembre. In un campo come quello del debito dei Paesi poveri - le cui estr emità sono da una parte la sofferenza di un miliardo e duecentomila persone intente a campare con meno di un dollaro al giorno e, dall' altra, le esigenze di immagine degli uomini politici dei Paesi creditori - era inutilmente rischioso trovarsi cont ro la Chiesa. Così l' accelerazione c' è stata lo stesso, nonostante sia rimasta la sede referente. Il Polo ha scelto di calcare l' accento su una tesi espressa in precedenza: una discussione in aula dà più valore alla decisione. Durante l' iter, per ridurre le occasioni di contrasto, il sottosegretario Umberto Ranieri aveva apprezzato un disegno di legge del centrodestra, presentato la settimana scorsa, che poteva entrare in concorrenza con il testo arrivato dalla Camera. E nella commiss ione presieduta dal ds Gian Giacomo Migone, ieri, il Polo non ha insistito sugli emendamenti. «La nostra richiesta non ha precluso l' esame nei tempi adeguati», sottolineava Enrico Pianetta, il senatore di Forza Italia che è stato relatore del disegn o accolto e che aveva voluto la rinuncia alla «deliberante». In giugno era stato Amato, da presidente del Consiglio, a sollecitare di approvare la legge prima del G8 in Giappone. Il segretario dei Ds Veltroni aveva aggiunto: altrimenti il governo var i un decreto. Ma il «sì» finale, salvo imprevisti, adesso è pronto. Maurizio Caprara Rachitici e sottopeso: sopravvivere nella miseria UN DOLLARO AL GIORNO Un miliardo e 200 milioni di persone al mondo vive in condizioni di estrema povertà. Seicento milioni sono bambini sotto i 5 anni che sopravvivono con poco più di duemila lire al giorno MALATTIE INFANTILI Oltre 200 milioni di bambini sono affetti da rachitismo, come conseguenza della malnutrizione, e quasi 170 milioni sono sottopeso GRAVIDANZ E LETALI Nei Paesi poveri 44 milioni di donne non ricevono assistenza durante la gravidanza e il parto. Questo rappresenta la principale causa di morte per 600 mila puerpere e 5 milioni di neonati in Bangladesh, Ciad, Mali, Nepal e Pakistan SERVIZI I GIENICI Ogni anno quasi 2 milioni di bambini muoiono per malattie diarroiche legate al consumo d' acqua. Un miliardo di persone al mondo non ha accesso all' acqua potabile
sabato , 08 luglio 2000
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I VERDI JUGOSLAVI «Slobo non resterà, è l' ultimo mohicano»
Cutuli Maria Grazia
I VERDI JUGOSLAVI «Slobo non resterà, è l' ultimo mohicano» «Milosevic e i suoi uomini sono gli ultimi mohicani. Vivono dentro una riserva comunista. Possono giocare con la forza delle armi, con i media, con la propaganda. Ma non resteranno in eterno ». Borisa Antonijevich, portavoce dei Verdi jugoslavi, ad Ancona per un seminario organizzato dai Verdi europei, ha perso tre lavori negli ultimi sette anni per le sue posizioni politiche. Ma non cede al catastrofismo: «Non credo che la riforma costi tuzionale basterà a tenere Milosevic al potere. Il senso della sua politica sfugge a molti, ma è nella lista del Tribunale dell' Aja, rappresenta un problema internazionale». L' alternativa a Milosevic è vaga. I progetti della dissidenza poco convinc enti. Ma i Verdi hanno deciso comunque di uscire dall' angolo. Costituendosi come partito, l' Unione verde di Serbia, e soprattutto passando all' opposizione. «Non è stata una decisione facile. L' opposizione serba sembra brava solo ad agire contro i propri interessi. Alcuni partiti sono stati creati dal regime per far confusione, altri sanno criticare ma senza nessun progetto. Ma vogliamo candidarci alle prossime elezioni e abbiamo scelto il male minore». La richiesta dei Verdi di aderire al fr onte dell' opposizione non è stata ancora accettata. Ma loro in qualche modo ne fanno già parte: «Nessuno in Serbia crede che il cambiamento sia possibile. Noi pensiamo invece che basterebbe poco a scuotere la gente». Una forza che scaturisca dal bas so, anche senza l' appoggio internazionale? «Le bombe Nato hanno solo peggiorato le nostre condizioni di vita. La comunità internazionale, con quello che ha speso in missili, avrebbe potuto comprare l' intera nomenklatura di Belgrado». M. G. C.
sabato , 08 luglio 2000
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Il Montenegro respinge il diktat serbo
Il governo Djukanovic adotta una risoluzione contro la nuova candidatura di Milosevic Il leader dissidente: «Dobbiamo proteggerci dalla violenza giuridico-legale di Belgrado»
Cutuli Maria Grazia
Il Montenegro respinge il diktat serbo Il governo Djukanovic adotta una risoluzione contro la nuova candidatura di Milosevic Una nuova frattura si profila nei Balcani. Il governo del Montenegro ha respinto ieri gli emendamenti alla Costituzione jugos lava approvati dal Parlamento federale, grazie ai quali il presidente Slobodan Milosevic si è assicurato una doppia rielezione allo scadere del mandato nel 2001. Con un documento intitolato «Proposta di risoluzione sulla protezione dei diritti e degl i interessi del Montenegro», i leader riformisti della piccola repubblica federata hanno lanciato un proclama di disobbedienza alle «decisioni illegittime e illegali» di Belgrado. Moderato nella forma, ma deciso nei contenuti: si chiede alla polizia di «preservare la pace» e all' esercito jugoslavo di non usare le unità di stanza nella regione «contro i cittadini». Si chiede alla Serbia e alla comunità internazionale di risolvere il problema in modo pacifico. Ma di fatto è scontro aperto. «Milos evic ha distrutto il sistema costituzionale federale - ha detto il presidente Milo Djukanovic -. Il Montenegro dovrà elaborare meccanismi per proteggersi da una simile violenza giuridico-legale». Slobodan Milosevic doveva immaginarlo che la riforma c ostituzionale non sarebbe stata indolore. L' elezione diretta del presidente, con il sistema «un uomo-un voto», mette chiaramente in minoranza il Montenegro con i suoi 600 mila abitanti rispetto alla Serbia che ne ha 7 milioni. E anche la decisione d i fare eleggere a suffragio universale i 40 membri della Camera alta, tradizionalmente designati dai parlamenti regionali di Serbia e Montenegro, con un rapporto di 20 a 20, mira a un drastico ridimensionamento dei montenegrini. Ma era questo probabi lmente lo scopo di Milosevic. Una sfida ai «dissidenti» di Podgorica, primo tra tutti Djukanovic, eletto nel 1997 a discapito del fedelissimo Momir Bulatovic, e mai riconosciuto. Un gioco d' azzardo? Dopo la guerra del Kosovo, le spinte secessioniste si sono accentuate anche nella piccola repubblica federata. Djukanovic, forte dell' appoggio occidentale, ha minacciato più volte di indire un referendum per sancire il distacco da Belgrado. Se non è andato avanti, è stato per il timore di un nuovo massacro e di una guerra civile: non c' è famiglia montenegrina che non sia divisa tra filo serbi e filo-indipendentisti e tutti hanno armi con sé. O probabilmente solo per una questione di tempo. La partita si accelera? Al momento sono le prime sche rmaglie. Maria Grazia Cutuli
giovedi , 01 giugno 2000
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Una donna su due picchiata in casa
Allarme dell' Unicef: la violenza in famiglia è una piaga mondiale A 5 anni dalla conferenza di Pechino, il bilancio è drammatico: botte e stupri sono in aumento
Cutuli maria Grazia, Monti Daniela
Rapporto choc alla vigilia della conferenza che si terrà a New York: le «scomparse» sono 60 milioni Una donna su due picchiata in casa Allarme dell' Unicef: la violenza in famiglia è una piaga mondiale MILANO - In molti Paesi del mondo una donna su d ue vive l' inferno tra le mura di casa. Può essere picchiata, violentata, privata di cibo. O, nelle forme più estreme, uccisa per aver violato l' onore, bruciata viva come prescrivono tradizioni ataviche, mutilata nel sesso per mantenersi pura, vendu ta per sollevare le finanze della famiglia, ceduta come schiava. Sessanta milioni di donne, previste dalle proiezioni demografiche, sarebbero addirittura scomparse. Morte o mai nate. Sterminate perché femmine con gli «a borti selettivi». Uccise da pi ccole per togliere un peso ai genitori. Decimate dalla mancanza di cure. La violenza domestica, denunciata in uno studio del Centro Innocenti dell' Unicef di Firenze presentato ieri a Ginevra, è oggi una «piaga mondiale». Ma anche una forma di prevar icazione particolare, silenziosa e sotterranea. Ferisce il corpo e distrugge l' anima, con conseguenze di ansia, depressione, suicidi, proprio perché scaturisce dai legami familiari, alligna nel sottosuolo degli affetti, manda in cancrena il rapporto di fiducia con padri, fratelli, zii, mariti. «E' una violenza che tocca tutte le culture, tutte le classi sociali, tutti i livelli d' istruzione, tutte le etnie e tutte le età», sottolinea il rapporto. Dilaga nei Paesi poveri, ma anche nel mondo ind ustrializzato: il 29% delle donne intervistate in Canada ha denunciato di essere stata aggredita fisicamente dal partner. Stesse lamentele sono arrivate dalla Svizzera (il 20%), dalla Gran Bretagna (25%), e dagli Stati Uniti, dove il 28% sostiene di aver essere stata vittima almeno una volta della brutalità familiare. LE CENERI DI PECHINO - Cinque anni dopo la Conferenza mondiale sulle donne di Pechino, dei principii ribaditi allora (tutela dei diritti femminili, messa al bando della violenza) r imane poco. Lo studio presentato ieri traccia un bilancio in vista della conferenza «Pechino+5» che si terrà a New York lunedì. I dettagli sono allarmanti quanto i dati generali. Lo stupro, per esempio: il 10-15% delle donne riferisce di avere rappor ti sessuali col partner contro la propria volontà. Nessuno lo considera un reato? Qualche Paese ha cominciato a legiferare: dall' Australia alla Namibia, dalle Filippine al Sudafrica, dalla Russia alla Spagna. In Sudafrica, il problema è talmente gra ve che dal 1998 la legge garantisce un «Ordine di protezione temporanea» alle vittime della violenza familiare, con cacciata di casa dell' aggressore. LE SPOSE CANCELLATE - L' uxoricidio spesso trova legittimazione nelle pratiche tradizionali. In Ind ia, nonostante la legge lo proibisca, più di 5 mila donne vengono uccise ogni anno dai mariti o dalle famiglie acquisite se la loro dote non soddisfa le richieste dei nuovi parenti. In Bangladesh, 200 sfregi l' anno: acido solforico per sfigurare col oro che respingono una richiesta di matrimonio. Tra Africa e Asia, 130 milioni di ragazze sottoposte a mutilazione genitale. Mentre il delitto d' onore per punire adulteri o relazioni prematrimoniali sopravvive in Paesi islamici come Egitto, Giordani a, Turchia. Ad aprile in Pakistan il generale golpista Pervez Musharraf ha annunciato che d' ora in poi sarà equiparato all' omicidio. Se la povertà «rafforza la vulnerabilità delle donne», per l' Unicef è vero pure il contrario: «La crescente import anza del ruolo economico femminile» può essere «percepita come una minaccia» e stimolare un incremento della violenza maschile. I costi, e non solo umani, sono alti: il Canada spende più di 1 miliardo di dollari l' anno per i servizi di assistenza. G li Usa tra i 5 e i 10 miliardi. Mentre le vittime, per le violenze subite, possono perdere fino a un sesto degli anni di salute della propria vita. Maria Grazia Cutuli Dal Canada all' Inghilterra La «mappa» della violenza UNA SU DUE A seconda dei Pae si, dal 20 al 50% delle donne sono state vittime della violenza domestica. Il Canada ha il primato fra i Paesi industrializzati: il 29% delle donne intervistate durante un' indagine ha dichiarato di essere stato aggredito dal partner. In Gran Bretagn a il 25% delle donne è stato preso a pugni o schiaffeggiato dal proprio compagno, mentre negli Usa il 28% dice di aver subito violenza domestica L' ECATOMBE Ci sono 60 milioni di donne in meno nel mondo rispetto a quelle previste dalle proiezioni dem ografiche: vittime di «aborti selettivi», infanticidi o mancanza di cibo, assistenza e medicine TRADIZIONE In Africa e in Asia, 130 milioni di donne hanno subito mutilazioni genitali per volere dei parenti che pretendono così di preservare la loro ve rginità. In India, 5 mila donne l' anno vengono uccise dal marito per questioni legate alla dote. In Bangladesh, 200 ragazze l' anno vengono sfigurate con l' acido solforico da pretendenti delusi. Anche il delitto d' onore continua a sopravvivere in Paesi come l' Egitto, la Turchia, il Pakistan LA STORIA «E' chirurgo: mi rompe le ossa, poi mi cura» «Mio marito, negli scatti d' ira, mi rompe le ossa. Poi me le aggiusta. Sono entrata e uscita dall' ospedale non so quante volte. Sa stare quieto per mesi: poi, all' improvviso, me lo ritrovo addosso. Cerca di uccidermi, poi fa di tutto per salvarmi». Anna si è presentata alla sede romana di Telefono Rosa nell' autunno di due anni fa. Per salire le rampe di scale che portano al bell' appartamento in viale Mazzini 73 (4 stanze più servizi) ha impiegato un' infinità: aveva una gamba ingessata. Due chiacchiere con la presidente Giuliana Dal Pozzo, tanto per rompere il ghiaccio. Poi la domanda: «Che lavoro fa suo marito, Anna?». «Il chirurgo». E istintivamente una mano è scesa fino a toccare il gesso che le imprigionava la gamba dalla caviglia alla coscia. Anna ha 35 anni, abita a Milano. Ha un diploma di studi superiori. La vita agiata non l' ha messa al riparo dalle botte in famiglia: le statistiche dicono che il 12% dei mariti violenti ha una laurea, il 13% sono liberi professionisti. «La carriera non conta, i soldi neppure: è l' educazione ricevuta da bambini che fa di un uomo il persecutore della moglie», dice Giuliana Dal Pozzo. «La mia vita ruota attorno a mio marito, che ho conosciuto quando studiava ancora - racconta Anna -. Adesso c' è gente che viene dall' estero per farsi operare da lui». Anna non sa dire perché il marito la picchia fino a farle perdere i sensi (le ult ime stime sui maltrattamenti in famiglia rivelano che il 18% delle donne non sa spiegare il motivo delle botte, il 52% si appiglia a un vago «è violento di carattere») e neppure sa spiegare perché, un attimo dopo, il marito si precipiti al telefono p er chiamare un' ambulanza e soccorrere quella «sbadata» di sua moglie «che è caduta dalla scala mentre lavava i vetri». E' lui a operarla per rimettere a posto le ossa che ha massacrato a calci. «I colleghi di mio marito mi prendono in giro - raccont a Anna -. Dicono che ho sempre la testa fra le nuvole, sempre a farmi male perché non guardo dove metto i piedi...». Alle volontarie di Telefono Rosa Anna ha chiesto un aiuto per ottenere la separazione. «Le abbiamo dato gli indirizzi delle strutture per donne maltrattate della sua città, Milano - racconta Giuliana Dal Pozzo -. Poi se n' è andata e non l' abbiamo più vista. Spero abbia divorziato, spero abbia smesso di entrare e uscire dall' ospedale». Una storia diversa e u guale a migliaia di altre. Così, la mattina dopo l' incontro con Anna, a salire le scale in viale Mazzini è stata Claudia, 38 anni, romana, un paio di occhiali scuri. «Mio marito mi picchia in testa perché dice che lì non si vede - racconta -. Sono diventata cieca da un occhio». A Telefono Rosa arrivano in media 35 richieste di aiuto al giorno. Marina, 40 anni, romana, si è presentata ingessata a un braccio. «Mi ha detto di non farcela più a sopportare la violenza psicologica del marito - racconta Dal Pozzo -. E il braccio chi te l' ha rotto?, le ho chiesto. A quello ci sono abituata, mi ha risposto, è agli insulti davanti ai figli che non ci si abitua mai». Daniela Monti Testo non disponibile
mercoledi, 31 maggio 2000
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Dalle crociate alle missioni umanitarie, la nuova frontiera dei Cavalieri di Malta
MILANO - La croce bianca a otto punte si staglia su un tendone rosso. L' antica bandiera dell' Ordine di Malta non ha confini territoriali da delimitare. Vessillo sovranazionale. Marchio d' origine per un consesso d' alto lignaggio formato da 11 mila cavalieri, ai quali si affiancano 80 mila volontari. Ma questa stessa bandiera, che sventolò per la prima volta 900 anni fa sulle mura di Gerusalemme ai tempi delle crociate, ha attualmente rappresentanti diplomatici in 85 Paesi, oltre che delegazio ni presso l' Onu e l' Unione Europea. Non è solo una potente lobby cattolica, l' Ordine di Malta, fatta di adepti dotati di prestigiosi alberi genealogici e titoli nobiliari, legata a doppio filo con il Vaticano. È anche un' istituzione umanitaria, c he opera nei 5 continenti, dall' Albania al Congo, dalla Russia al Nicaragua. I suoi ambasciatori, invitati ieri e oggi a Milano per un incontro a Palazzo Cicogna, rappresentano l' anello tra le due facce dell' Ordine: i quartier generali, dove si in dossano paramenti neri, galloni, decorazioni cerimoniali, e il «terreno» dove si interviene con i camion, le jeep, le mani nel fango. «Il loro ruolo è fondamentale proprio perché non è politico, ma tecnico. Ci permettono di monitorare le situazioni i nterne di certi Paesi, di prevenire le crisi, e di intervenire immediatamente con cibo, medicinali, aiuti lì dove ce n' è bisogno», spiega il conte Carlo Marullo di Condojanni, che è anche principe di Casalnuovo, ma soprattutto Gran Cancelliere del S ovrano militare Ordine di Malta, oltre che ex ambasciatore presso l' Onu. «Tuitio fidei, obsequium pauperum», recita il motto dell' Ordine. Difesa della fede e servizio dei poveri. Un tempo si parlava di carità, da esercitare anche attraverso le armi . L' Ordine nacque così, in piena crociata, con i figli cadetti delle famiglie più nobili e influenti di Europa mandati a combattere. Era l' anno del Signore 1099. Le armate di Goffredo di Buglione cingevano d' assedio Gerusalemme, quando alcuni croc iati decisero di fondare una comunità monastica che gestisse un ospedale per curare i pellegrini feriti in Terrasanta. Opere ospedaliere nacquero anche in Europa, lungo le rotte della devozione che portavano tra gli «infedeli». Nel XIV secolo, l' Ord ine dopo un passaggio a Cipro si trasferì a Rodi, ottenendo la sovranità sull' isola. Nel 1523 Rodi cadeva nelle mani di Solimano il Magnifico e i cavalieri trovarono uno Stato a Malta, su concessione di Carlo V. La loro storia militare si concluse c on l' invasione napoleonica: non potendo combattere contro altri cristiani, i cavalieri di Malta subirono l' assedio e da lì passarono a Roma. Le opere ospedaliere ci sono ancora. Proprio a Roma gestiscono l' ospedale San Giovanni Battista. Ma le mod erne necessità umanitarie hanno cambiato il volto della carità. «È proprio l' emergenza il momento in cui siamo più efficaci. Mentre la macchina internazionale si muove con lentezza, un mese almeno per lavorare a pieno ritmo, noi sappiamo come arriva re per primi», dice ancora il conte Marullo. Sono arrivati nei campi profughi del Congo, di recente in Albania, in Macedonia, in Montenegro. Ma hanno sfondato anche la cortina degli «ex nemici». Il Libano, per esempio. «L' Ordine gestisce lì una deci na tra ospedali e ambulatori. Durante la guerra, la nostra bandiera era l' unica che riusciva a portare aiuti da una e dall' altra parte della linea verde». Vale a dire dalle fazioni cristiane a quelle musulmane. Scherzo della storia: l' ex re del Ma rocco, Hassan II li ha chiamati a mediare con alcuni Paesi arabi su Gerusalemme. Non li ha fermati neanche il blocco Est-Ovest: «A Cuba stavamo ai tempi di Batista. E ci siamo rimasti anche con Castro. Dopo la visita del Papa del ' 98, abbiamo portat o aiuti per 8 milioni di dollari». Presso l' Onu, il conte Marullo ricorda le battaglie contro le mine e quella per la cancellazione del debito estero. Ancor oggi per ottenere l' investitura il titolo nobiliare non guasta. Ma non è essenziale (come d imostrano i molti cavalieri che provengono dal nuovo mondo, Stati Uniti in particolare) per appartenere a una delle tre classi dell' Ordine: cavalieri di giustizia, obbligati ai voti monastici; cavalieri e dame d' obbedienza; cavalieri e dame di graz ia magistrale. I nomi prestigiosi abbondano: in Italia, due ex presidenti della Repubblica, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro; all' estero il principe Ranieri e re Baldovino. L' Ordine possiede anche tribunali che all' occasione possono giudic are o radiare i membri. Per diventare volontari serve invece solo un tirocinio. E la croce come bandiera. Maria Grazia Cutuli NEL SEGNO DELLA CROCE LE ORIGINI L' ordine di Malta nacque nel 1099 durante l' assedio di Gerusalemme a opera dei crociati. Venne riconosciuto da Papa Pasquale II nel 1113. Gli adepti ricorrevano alle armi per difendere le attività di assistenza ai bisognosi I MEMBRI L' ordine gode di sovranità nazionale pur non avendo uno Stato. Il suo quartier generale è a Roma. Conta 1 1 mila cavalieri nel mondo, 80 mila volontari, ambasciatori in 85 Paesi
lunedi , 29 maggio 2000
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«Milosevic è alla disperazione Anche Mosca non l' ama più»
«Lo stesso sentimento di disfatta coinvolge l' opposizione Unica novità sono gli studenti»
L' analisi di Carl Bildt, inviato speciale dell' Onu nei Balcani «Milosevic è alla disperazione Anche Mosca non l' ama più» L' ultima volta che si sono incontrati lui e Slobodan Milosevic era il 1996. Carl Bildt, ex premier conservatore svedese, avev a l' incarico di Alto rappresentante per la Bosnia. Maneggiava affari delicati, come la pace di Dayton. Mentre il presidente della Federazione jugoslava, ancora considerato «utile» dalla comunità internazionale, continuava ad accreditarsi come il gar ante della stabilità balcanica. Quattro anni dopo sono entrambi sulla stessa scena. Ma del vecchio filo tra il negoziatore e «Slobo» non rimane più nulla. Solo il fossato dell' isolamento diplomatico, scavato attorno alla Serbia con la crisi del Koso vo, le accuse per crimini di guerra rivolte a Milosevic dal Tribunale dell' Onu, la piega sempre più repressiva presa dal governo di Belgrado. Carl Bildt, 51 anni, diventato inviato speciale dell' Onu per i Balcani, continua a osservare da lontano le mosse dell' ex interlocutore, come l' ultimo attacco alla stampa indipendente che ha portato alla chiusura dell' emittente Studio B e Radio B2-B92. «Credo di essere una delle persone che hanno passato più tempo con Milosevic - spiega Bildt. - L' uom o non è stupido. Possiede capacità notevoli ed è un opportunista di prim' ordine. Qualcuno mi dice che negli ultimi tempi è cambiato. Ma ho l' impressione che quando va a letto la sera non abbia la minima idea di cosa succederà l' indomani. Probabilm ente gli basta aver portato a termine la giornata». Anche la repressione contro la stampa sarebbe un espediente per tirare avanti? «Gli ultimi fatti dimostrano che il regime sta diventando sempre più nervoso. Se Milosevic fosse sicuro della situazion e non avrebbe bisogno di prendere certe misure. La campagna contro i media, le violenze della polizia, il tentativo di rimandare le elezioni amministrative previste entro quest' anno, tutto dimostra che il leader è disperato e ha paura». Eppure l' op posizione tradizionale, quella guidata da Vuk Draskovic e Zoran Djindjic è debole e divisa. «L' opposizione è in preda alla stessa disperazione del regime. Ha difficoltà a mobilitare le piazze. La gente è stata chiamata in strada tante volte, ma senz a aver mai visto risultati. Tutto il Paese sembra coinvolto nello stesso sentimento di disfatta». E la protesta degli studenti? «Questo è un altro fenomeno. L' organizzazione studentesca Otpor, "Resistenza", sta mettendo in ansia il regime. E' un' or ganizzazione che non obbedisce ai politici, che non ha paura della nomenclatura, che può minacciare il clan di Milosevic. E tutti coloro che la sostengono sono fuori dall' opposizione tradizionale». Che cosa pensa di fare la comunità internazionale? «Credo sia importante sviluppare i contatti con la società civile e isolare Milosevic. Facile da dire, lo so». Il presidente jugoslavo resta comunque al potere, come Saddam. «I due regimi sono diversi. A Bagdad è difficile scendere in piazza a protes tare. Lì c' è un regime severo, a Belgrado debole. Rimane al potere solamente perché l' opposizione è fragile». Continuate però a far riferimento a questa opposizione. Quale fiducia si può accordare a uno come Draskovic? «Io sono un politico. Il prob lema della qualità dell' opposizione esiste dovunque. Ma non dimentichiamoci che il regime serbo è sotto accusa del Tribunale internazionale: chiunque sarebbe meglio di Milosevic. Qualsiasi cambiamento sarà ben accetto». Milosevic potrà rimandare le elezioni a lungo? «No, credo che alla fine si faranno. E saranno molto importanti perché Milosevic è determinato a riprendersi l' amministrazione di Belgrado, ora in mano all' opposizione. Gli serviranno anche a regolare i rapporti con il Montenegro. E non si esclude che potrebbero scatenare una grave crisi con Podgorica». Di recente lei ha insistito sulla necessità di un' iniziativa che dia stabilità all' intera regione, Montenegro e Kosovo compresi. Come realizzarla con Milosevic al potere? «F orse bisognerà arrivare a una confederazione tra Serbia e Montenegro: è il solo modo per evitare una nuova guerra. E lo stesso per il Kosovo. Non si parla d' indipendenza, sia chiaro, ma di una soluzione intermedia. Milosevic dovrebbe però andarsene entro cinque giorni da adesso». La Russia lo permetterebbe? «I rapporti tra Mosca e la Serbia sono cambiati. La Russia è scettica sull' unilateralismo della Nato, e lo si può capire. Diffida di un Kosovo che vuole andarsene per i fatti suoi. Ma non è innamorata di Milosevic. Se il presidente Putin desse un segnale a Belgrado, l' impatto sarebbe forte». Resta il fatto che la «pax balcanica» regge grazie a decine di migliaia di soldati Nato. Che cosa succederebbe se si ritirassero domani? «Dopodom ani riscoppierebbe la guerra». Maria Grazia Cutuli
giovedi , 25 maggio 2000
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Studenti in piazza, scontri a Teheran
E torna l' antisemitismo fomentato dal processo alle «spie» di Israele Decine di arresti e un paio di feriti «Notte dei cristalli» contro negozi di proprietà della comunità ebraica
Alla vigilia dell' inaugurazione del nuovo Parlamento controllato dai riformatori, provocazioni dei radicali all' università Studenti in piazza, scontri a Teheran E torna l' antisemitismo fomentato dal processo alle «spie» di Israele Lo scontro tra r iformisti e conservatori, la lotta intricata e complessa tra le due anime del regime iraniano si è riaccesa ieri all' Università di Teheran. E' cominciata con una manifestazione studentesca, guidata da migliaia di giovani progressisti vicini al presi dente Mohammed Khatami. Si è conclusa con un assalto degli estremisti islamici, l' intervento delle truppe anti-sommossa, decine di arresti e un paio di feriti. La stessa guerra intestina si è riaperta, anche se in forma meno evidente, dietro il para vento di una delicata vicenda giudiziaria a Shiraz, nel Sud del Paese, dove il processo a 13 ebrei iraniani accusati di spionaggio, sta scatenando furori antisemiti, con assalti ai negozi, vetrine rotte, roghi nelle botteghe. Eventi diversi, un unico filo legato al requiem politico dei conservatori. Proprio ieri si celebrava l' ultima seduta del vecchio parlamento controllato dal clero. Atto finale di un potere bifronte: sabato, con l' insediamento dei nuovi deputati, per due terzi legati al pre sidente Khatami, anche l' assemblea passerà sotto dominio progressista. E' la prima volta dalla rivoluzione khomeinista del 1979. GLI SCONTRI - «I prigionieri politici dovranno essere liberati», gridavano ieri gli attivisti del Tazarbadi, uno dei gru ppi universitari più radicali. «L' Iran è la nuova Palestina». E ancora slogan, contro i falchi del regime. Contro i pragmatici ambigui e «corrotti», come l' ex presidente Hashemi Rafsanjani, che tentano di stare da una parte e dell' altra. «Hashemi, Hashemi vergognati di te stesso». Fuori dai cancelli dell' Università si radunavano intanto centinaia di avversari. Gli uni e gli altri separati solo dai cancelli e da una catena umana improvvisata dai poliziotti. C' è chi ha scalato le inferriate. C' è chi ha tirato sassi. L' ordine è ritornato a forza di manette, mentre gli studenti sono stati accusati di raduno illecito. ATTACCO AI MEDIA - Torna la violenza che accompagnò le manifestazioni studentesche del luglio 1999? Tornano gli «agit-prop » di regime contro i paladini delle riforme, gli infiltrati degli ayatollah contro gli aspiranti democratici? Quasi un anno è passato dalla grande rivolta che lacerò ulteriormente gli assetti del potere, offuscando con l' accusa di repressione persin o la buona fama del presidente Khatami. Ma lo scontento giovanile resta. L' Iran continua a fare un passo avanti e uno indietro. Da una parte l' insediamento del nuovo Parlamento, uscito dalle urne con 200 deputati progressisti su 290. Dall' altro, l ' ultimo attacco alla libertà di stampa, crocefissa ieri da una sentenza della magistratura (d' ispirazione clericale), che dopo aver chiuso 17 quotidiani riformisti, imprigionato e processato giornalisti, pretende di gestire il rilascio delle licenz e agli editori. Gli studenti hanno protestato anche per questo, oltre che per i compagni arrestati l' anno scorso e non ancora rilasciati. ANTI-SEMITISMO - Mentre il presidente Khatami invia gli auguri al collega libanese, Emil Lahud, per il ritiro i sraeliano dalla fascia di sicurezza («Il Libano è ora il simbolo della resistenza e della dignità araba), la comunità ebraica iraniana entra in una fase d' emarginazione e paura. A monte, c' è il processo contro 13 ebrei accusati di essere spie di Is raele. Otto di loro hanno confessato, nonostante le smentite di Israele, i dubbi delle potenze straniere e l' avvertimento del segretario di Stato americano Madeleine Albright: «Ci saranno ripercussioni internazionali». Dietro la vicenda, si sussurra , c' è una manovra dei falchi per mettere in difficoltà Khatami. Sarà. Ma i primi a risentirne sono i commercianti ebrei. «Questo processo ha creato problemi all' intera comunità - denunciava ieri Haorun Yashayaii, capo della Società iraniana ebraica - Possiedo documenti che mostrano i danni recati ai negozi degli ebrei, di cui uno interamente bruciato a Teheran. I nostri bambini vengono minacciati dai compagni di scuola. E anche gli adulti per la vergogna non vanno più a lavorare». La comunità, 80.000 membri prima del ' 79, oggi 25 mila, ha sempre goduto di una relativa libertà. Ad una condizione: né viaggi né contatti con la nemica Israele. Maria Grazia Cutuli
giovedi , 18 maggio 2000
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Milosevic spegne le tv libere
Migliaia in piazza a Belgrado contro l' ultimo assalto alla stampa
Blitz notturno nella sede di «Studio B». Il regime «rileva» anche radio «B2-92» Milosevic spegne le tv libere Migliaia in piazza a Belgrado contro l' ultimo assalto alla stampa Una carrellata di immagini sulle bandiere della Nato. Zoom su una fila di bottiglie rotte. «Questo è lo stato in cui si trovava l' emittente», dice la voce fuori campo. «Questo è il covo dei traditori». Benvenuti a Studio B, ex televisione critica della Belgrado d' opposizione, ultima rete indipendente jugoslava. Benvenut i nell' ex trincea della libera opinione, caduta assieme a Radio B2-92 nelle mani del regime. Lo show continua. Ma non è più lo stesso. Notiziario ingessato, brani musicali, voci dentro al coro. E' stato un semi-golpe quello che si è consumato l' alt ra notte nel centro di Belgrado. «L' inizio dello stato d' emergenza», ha accusato il direttore spodestato, Dragan Kojadinovic. O addirittura «il preambolo di una guerra civile». Tutto si è svolto a passo di blitz: l' ora scelta, le due di notte; i p oliziotti, seguiti da una cinquantina di uomini mascherati; l' occupazione delle emittenti. Al mattino, un laconico comunicato - «Il governo serbo ha deciso di rilevare l' intera struttura di Studio B» - ha annunciato la svolta. I giornalisti, il per sonale, gli addetti di Radio Index, altra stazione indirizzata agli studenti, tutti bloccati all' entrata. Le urla delle guardie di sicurezza, «Via da qui», l' incedere di tre blindati, i drappelli di agenti in assetto anti-sommossa, hanno tenuto a b ada la folla. L' opposizione ha subito chiamato la gente in piazza: sono arrivati a migliaia. Anche i tifosi della Stella Rossa, presi a randellate della polizia. Ma il piano del presidente Slobodan Milosevic è andato avanti: nel pomeriggio frequenze coperte anche per Radio Pancevo, popolare voce delle periferie. Non hanno mai avuto vita facile le emittenti di Belgrado. Legate al Movimento del rinnovamento serbo di Vuk Draskovic, uno dei principali oppositori, hanno subìto minacce, processi, mul te, come la maggior parte dei media indipendenti jugoslavi. La radio soprattutto, l' ex B-92. Cancellata dalle frequenze il 23 marzo dell' anno scorso, alla vigilia dei bombardamenti Nato sulla Federazione jugoslava, ha continuato a trasmettere via s atellite e via Internet. Quando è ritornata in Fm era già stata presa in consegna dai pretoriani di Milosevic. Ma i 300 dipendenti non si sono piegati alla nuova proprietà: grazie a un accordo con Studio B, hanno modificato il nome in Radio B2-92 e h anno ripreso a puntare il dito contro il «tiranno». Che ha aspettato solo il momento per fargliela pagare: le emittenti sono passate di mano per aver «invitato a rovesciare con la forza il governo eletto, incitando ad atti di terrorismo», è stata la motivazione ufficiale. Le ragioni reali sono più complesse. Strane cose sono accadute a Belgrado negli ultimi mesi. Omicidi eccellenti, cominciati a gennaio con una sventagliata di mitra contro Arkan, il capo dei paramilitari ricercato per crimini di guerra in Bosnia, fino all' assassinio sabato scorso di Bosko Perosevic, esponente del Partito socialista di Milosevic. Segnali pesanti. Proprio l' altro ieri, sono stati arrestati venti studenti dell' Otpor, un movimento anti-governativo all' inter no del quale si nasconderebbero, secondo il governo, gli autori dell' ultimo delitto. Poche ore dopo, è scattato il blitz. «Un' azione di inaccettabile brutalità che comporta il rischio di un' escalation sul piano interno», ha protestato il sottosegr etario italiano agli Esteri Umberto Ranieri. «Costernato e preoccupato» si è detto il ministro Dini, presidente di turno del Consiglio d' Europa. «Un disperato tentativo d' oppressione in stile bolscevico», ha commentato la Casa Bianca. Comunque sia, un avvertimento all' opposizione. Negli ultimi mesi, dopo lunghi litigi, i leader delle proteste del 1996, Vuk Draskovic e Zoran Djindjic (capo del Partito democratico) avevano riannodato la vecchia alleanza, riportando la gente in piazza. Milosevic ha voluto spaventarli? B2-92 risponde alla vecchia maniera: i giornalisti sono già pronti a trasmettere via satellite e su Internet. Maria Grazia Cutuli
venerdi , 28 aprile 2000
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Il Vaticano accusa Europa e Usa. «Avete tradito le promesse sulla riduzione del debito estero»
La campagna per alleviare la povertà nel Terzo mondo Il Vaticano accusa Europa e Usa «Avete tradito le promesse sulla riduzione del debito estero» Nessuno ieri ha cantato dal palco, nessuno ha tirato sassi o creato catene umane contro i burattinai de lla finanza globale. Ma il rimprovero, arrivato dalle alte gerarchie pontificie ai Paesi ricchi, conta più della rivolta di Seattle o delle manifestazioni di Washington. Il Vaticano ha attaccato Stati Uniti e Unione Europea, li ha accusati di essere venuti meno agli impegni presi per la riduzione del debito ai Paesi poveri, di aver fatto nemmeno la metà di quanto promesso per aiutare il Terzo mondo. E' stato monsignor Diarmuid Martin, irlandese, segretario del Pontificio consiglio giustizia e pa ce, a esprimere il malcontento della Chiesa contro i Paesi industrializzati: le iniziative decise procedono «con incredibile ritardo», impantanate in procedure complicate, pastoie burocratiche, veti incrociati. «I fondi stanziati dagli Stati Uniti so no bloccati dal Congresso - ha detto - mentre la Ue si rifiuta di erogare i suoi se gli americani non si assumono le proprie responsabilità». La Chiesa presenta dunque il conto, a due settimane dal vertice delle istituzioni finanziare di Washington, dove si è ripetuto un copione simile a quello dell' anno scorso a Seattle. Da una parte gli slogan di piazza contro i guru del capitalismo, dall' altra una sfilza di rabbonimenti sulla riduzione della povertà. Ma la realtà del Terzo mondo sfida ogni ottimismo: 1 miliardo e 200 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, 2 miliardi e 800 milioni con meno di due. La Banca mondiale isola inoltre un gruppo di 41 Paesi, i più poveri tra i poveri, dove il reddito pro capite si è abbass ato del 25% in un ventennio, passando da 400 a 300 dollari annui. Qui ridurre il debito del 90%, come era stato deciso al vertice di Colonia del giugno scorso, non basta. Bisogna annullarlo al 100%. Monsignor Martin non vede segni di buona volontà, n eanche quando si riferisce ai programmi del 1996, il progetto Hipc (Hight indebted poor country), in base al quale 24 Paesi avrebbero dovuto beneficiare della riduzione del debito: «Se arriveremo a 19 è già tanto», ha detto, ricordando che l' anno sc orso si era previsto di applicare la riduzione dagli 8 agli 11 Paesi e invece «ne sono stati beneficiati solo 5». Stessa solfa per gli accordi di Colonia: «Si era deciso di cancellare debiti per 100 miliardi di dollari. Ne sono stati condonati solo 1 1». Il totale del debito estero nel Terzo mondo nel frattempo ha raggiunto i 2.300 miliardi di dollari. Monsignor Martin è lo stesso prelato che nel ' 97 preparò la visita in Vaticano di Michael Camdessus, allora direttore del Fondo Monetario Interna zionale e di James Wolfensohn, presidente della Banca mondiale. Insomma, uno dei protagonisti del disgelo tra la Chiesa e le istituzioni di Bretton Woods. Ma ieri l' antico solco tra chi pratica il credo del profitto e chi predica quello del Vangelo ha rischiato di ricrearsi. Il Vaticano, che fa da sponda ai movimenti di protesta con una sua campagna contro il debito, Jubilee 2000, e con l' inusitata alleanza tra Giovanni Paolo II, rock star come Bono, cantanti rap come Jovanotti, esige che si p assi alla pratica. Perentorie le richieste: «Bisogna applicare gli accordi già fatti; garantire che i fondi siano a disposizione delle organizzazioni internazionali; giungere rapidamente alla cancellazione del 100% del debito a favore di quei Paesi c he introducano vere riforme». Unica risposta da Roma: «L' Italia - ha detto ieri Giuliano Amato - farà da Paese guida per la cancellazione del debito». Maria Grazia Cutuli LE INIZIATIVE GLI ACCORDI DEL G-7 Al vertice di Colonia del 1999, i Paesi più industrializzati si sono impegnati a cancellare debiti per 100 miliardi di dollari a vantaggio di 41 Paesi I FATTI Ad oggi sono stati cancellati debiti per 11 miliardi di dollari IL VATICANO La campagna Jubilee 2000, promossa dal Vaticano, vorrebbe c he la cancellazione toccasse 52 Paesi IL TOTALE L' indebitamento del Terzo mondo cominciò negli Anni Settanta, a tassi d' interesse molto bassi. Oggi il totale del debito ammonta a 2.300 miliardi di dollari
martedi , 04 aprile 2000
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Sgarbi e Grauso a Bagdad, violano l' embargo con un aereo a elica
L' europarlamentare e l' editore atterrano in Iraq: «Vogliamo sensibilizzare l' opinione pubblica sulla tragedia» Sgarbi e Grauso a Bagdad, violano l' embargo con un aereo a elica Da una parte c' è un Paese sotto embargo, isolato dal mondo e osteggia to dalla comunità internazionale: l' Iraq di Saddam Hussein. Dall' altra, un piccolo aereo a elica lanciato in una missione semi-clandestina. Un leggerissimo monomotore che viola le sanzioni, percorre 1000 chilometri, e a volo radente, 100 metri di q uota per non farsi intercettare dai radar, attraversa la «no fly zone», la zona di interdizione di volo, per atterrare a Bagdad. A bordo, quattro «Indiana Jones» in vesti umanitarie: Nicola Grauso, l' editore sardo votato alla new economy, Vittorio S garbi, nel ruolo di europarlamentare di Forza Italia, e Jean-Marie Benjamin, un sacerdote francese schierato a fianco del popolo iracheno. Ai comandi il pilota Claudio Castagna. Missione impossibile? L' aereo decollato da Amman, in Giordania, riesce ad atterrare ieri sera - l' ha riferito per prima la mamma di Sgarbi - depositando i quattro messaggeri di pace all' aeroporto di Bagdad, pronti per essere accolti dal primo ministro Tarek Aziz. E - sperano loro - anche dall' inavvicinabile Saddam Hu ssein. In persona. L' iniziativa ha un fine alto: «Sensibilizzare l' opinione pubblica sugli effetti delle bombe sganciate sull' Iraq durante la guerra del Golfo: 700 tonnellate di ordigni a base di uranio impoverito, ad altissimo tasso di radioattiv ità. Come quelle della Nato in Kosovo», spiega Mario Cardone, portavoce di Nicola Grauso. Il «team» aspira all' abolizione dell' embargo. Ma anche a rivedere il petrolio iracheno sul mercato, affinché si abbassi il prezzo della benzina. Per Grauso e Sgarbi, azioni così non sono neppure inedite. L' hanno già fatto con Gheddafi: il 24 aprile 1998, a bordo di due piccoli aerei atterrarono a Tripoli, violando anche lì le sanzioni Onu. Andavano in soccorso di un italiano, Marcello Sarritzu, trattenut o senza soldi e senza passaporto dalle autorità libiche, dopo il fallimento dell' azienda per la quale lavorava. Grauso non riuscì a riportarselo indietro, ma l' italiano venne poi rilasciato. L' anima della spedizione irachena è don Benjamin. Il sac erdote si trovava a Bagdad nel dicembre 1998, quando americani e inglesi hanno cominciato a bombardare l' Iraq. Era corso a filmare quella strage degli innocenti che nessuna tv ha mai trasmesso: bambini bruciati vivi nelle corsie del Saddam Center, o perazioni senza anestesia, morti e macerie. Ne aveva fatto un film: «Iraq, viaggio nel regno proibito». Un libro: «Iraq, l' apocalisse». Aveva bussato in Vaticano e, il 16 marzo scorso, inviato una lettera a Massimo D' Alema. Grauso e Sgarbi l' hanno incontrato 15 giorni fa, a cena in un albergo della capitale. E' bastato. L' imprenditore sardo non difende Saddam, ma ha creato un sito, www.iraqaid. net, che dà ragione della spedizione: dati, foto, filmati sugli «orrori di 10 anni di embargo». M. G.C.
domenica , 16 gennaio 2000
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Ucciso Arkan, il capo delle milizie serbe Commando irrompe in un hotel a Belgrado: crivellato il leader delle famigerate «Tigri»
Dio, donne e pistole : vita violenta del "patriota" Zeljiko. la sua squadra di calcio dedicata al conquistatore del Kosovo Obilic
Cutuli Maria Grazia, Cianfanelli Renzo
Ucciso Arkan, il capo delle milizie serbe Commando irrompe in un hotel a Belgrado: crivellato il leader delle famigerate «Tigri» Guerre, affari loschi, intrighi. La bandiera del nazionalismo e le tante divise dell' opportunismo. Una vita in corsa, fi nita ieri all' Hotel Intercontinental di Belgrado. Il «comandante» Arkan, l' estremista serbo accusato di essere stato il braccio armato del regime jugoslavo negli eccidi etnici in Bosnia e in Croazia, è morto ieri massacrato da un commando mascherat o. Era nella hall dell' albergo, lo stesso palazzone di vetro del quartiere residenziale di Neo Beograd dove passava spesso le serate in compagnia, la jeep Chevrolet parcheggiata fuori. Lo hanno trasportato all' ospedale: il paziente è «seriamente fe rito», un colpo all' occhio sinistro, hanno riferito i medici. Ma era già notizia vecchia: poco dopo la radio B-52 comunicava che «il signore della guerra serbo è deceduto alle 18.30». Arkan, 47 anni, non era solo. C' erano le guardie del corpo. Arma te. Ma i killer non hanno concesso tempo. Una mitragliata e sono fuggiti, lasciandosi alle spalle anche un altro cadavere: Moncilo Mandic, uno dei «gorilla». Una donna, secondo la stampa la cognata di Arkan, sarebbe rimasta gravemente ferita. Non si sa altro. Se non che l' omicidio arriva mentre la Belgrado «democratica» rialza la testa. Lunedì, con una riunione storica: i leader dell' opposizione, gli stessi che si erano divisi nell' autunno 1997, di nuovo assieme, a siglare un accordo «per un' azione in vista di elezioni anticipate». E l' altro ieri, 15 mila persone in piazza per il capodanno ortodosso a protestare contro il presidente Slobodan Milosevic. Clima ostile per uno come Arkan, che con Milosevic, più o meno ufficiosamente, ha se mpre avuto qualcosa da spartire. Lo stesso titolo di «comandante» Arkan, nome di battaglia di Zeljko Raznatovic, se l' era guadagnato sul campo: quando le sue «Tigri», paramilitari serbi dai bicipiti tatuati e i crani rasati, seminavano morte durante la guerra di Bosnia. Il Tribunale internazionale dell' Aja per la ex Jugoslavia, nel settembre 1997, aveva segretamente formulato un atto d' accusa contro di lui per crimini contro l' umanità. Il 31 marzo 1999 l' ha trasformato in mandato d' arresto . Arkan, ha precisato ieri il segretario della Nato George Robertson, nel 1991 avrebbe ucciso 250 pazienti all' ospedale di Vukovar, in Croazia. «Arkan ha vissuto da violento - ha detto il ministro degli Esteri britannico Robin Cook - e non è una sor presa che sia morto in modo violento». Londra ha un solo rimpianto: «La sua fine ci impedirà di rendere giustizia alle vittime delle sue atrocità». Uomo dalle mille vite, il «comandante», almeno fino a ieri: agente segreto con Tito, svaligiatore di b anche, ricercato in mezza Europa, signore delle mafie balcaniche. Molto apprezzato in patria: presidente dell' Obilic, deputato, miliardario. In quanto ai crimini, ha sempre negato. Soprattutto quello di aver spedito in Kosovo le sue «Tigri». Ma ieri gli albanesi di Pristina sono scesi in strada a festeggiare. Maria Grazia Cutuli IL RITRATTO Dio, donne e pistole: vita violenta del «patriota» Zeljko SOLO corsivoCCoraggioso e sprezzante, pallidissimo come una controfigura di Dracula, abile come po chi nel maneggiare le armi (ma si vantava di sapersi difendere in ogni situazione usando solo le mani), fanatico del culturismo e dello judo, astemio e dichiaratamente monogamo, ma ripetutamente sposato con donne vistose e di età sempre più giovane. Così si presentava, con ostentazione caricaturale, Zeljko Raznatovic detto Arkan. Invariabilmente vestito con eleganza balcanica, di solito con un maglione nero sull' abito nero e una grande croce ortodossa d' oro sul collo, sempre circondato da una nutrita guardia del corpo nella quale spiccavano, come nei film di James Bond, due ragazze di alta statura con i tacchi alti e la pistola cromata che spuntava dalla borsetta. Durante l' offensiva della Nato contro la Serbia e nel Kosovo, Ar- kan si f aceva vedere tutte le notti quando suonava l' allarme e cadevano le prime bombe nella hall dell' albergo Hyatt, esattamente di fronte a quello dove ha perduto la vita, ben sapendo che là avrebbe trovato i media internazionali al completo e le reti te levisive che gli servivano per consolidare il suo mito. «Che cosa posso dire di me?», ripeteva nelle interviste che dispensava con grande larghezza, dando la preferenza ai «nemici» americani con in testa la Cnn. «Che amo più di qualunque cosa la Serb ia. Che sono un patriota, che credo in Dio e nella famiglia. Che sarei fiero, se necessario, di dare la vita per la mia patria e che non ho mai fatto del male a nessuno. Come i miei patrioti, le "Tigri"». Incriminato come criminale di guerra dal Trib unale dell' Aja, accusato delle peggiori efferatezze di pulizia etnica, il misterioso «comandante Arkan» che parlava, oltre al serbocroato, l' inglese, il tedesco, l' italiano, il russo e il francese (forse un po' troppe lingue per il «padre di famig lia» normale che dichiarava di essere) rispondeva, abbassando il tono di voce, che di quell' accusa a lui non interessava. Perché di fronte a Dio e alla propria coscienza si sentiva tranquillo. E la stessa cosa diceva anche a chi gli chiedeva se eran o vere le voci che attribuivano le sue enormi disponibilità di denaro a operazioni di riciclaggio, a traffici di armi e di droga per finanziare Milosevic. Ripeteva di essere tranquillo anche a chi voleva sapere dei suoi strani legami con un italiano cresciuto in Inghilterra, ultimamente ospite a Roma del carcere di Regina Coeli, dopo l' emissione di un mandato di cattura della giustizia britannica, che dopo un soggiorno nelle carceri inglesi era trasmigrato fulmineamente a Los Angeles e poi a Be lgrado. Un italiano chiamato Giovanni Di Stefano, anche lui ricco. Ma no, replicava Arkan. Tutto era regolare. Il suo socio Di Stefano aveva lasciato la California per stabilirsi a Belgrado, con tanto di cittadinanza jugoslava concessa con decreto sp eciale dal presidente Milosevic, perché voleva traslocare in Serbia la casa cinematografica Mgm. E Arkan si era messo con lui in affari perché, come Di Stefano, era convinto che «in Serbia si possono fare affari inimmaginabili in qualsiasi altra part e del mondo». Questo era l' uomo, arricchito velocemente dopo un improbabile esordio in affari a Dedinje, nei quartieri alti della nomenklatura, dove aveva aperto una grande pasticceria, in un surreale edificio coperto di vetri a specchi, vicino alla quale ogni tanto si sentivano spari. Poi Arkan a Belgrado era diventato famoso come capo dei tifosi ultrà della squadra «Stella Rossa», e in seguito con un' altra squadra di calcio, l' Obilic, prima regalata alla moglie e poi passata in gestione all ' amico Di Stefano. Ma chi fosse esattamente Zeljko Raznatovic detto Arkan, fondatore e finanziatore con misteriosi proventi del famigeratissimo gruppo armato delle cosiddette «Tigri di Arkan», considerate responsabili in Croazia, in Bosnia e forse n el Kosovo delle più feroci operazioni di pulizia etnica, forse non si saprà mai. Renzo Cianfanelli La sua squadra di calcio dedicata al conquistatore del Kosovo Obilic F amigerato capo delle Tigri. Ma anche proprietario dell' unica squadra di calcio privata di Belgrado. Per qualche stagione, Arkan è stato anche questo. Alla società (casacca bianco-blu) aveva dato il nome di Obilic, il principe ortodosso che aveva ucciso il sultano nella battaglia del Kosovo. Aveva aperto anche una filiale in Ita lia. A luglio si era però dimesso da presidente: l' Obilic era stato escluso dalle gare internazionali Uefa dopo l' incriminazione di Arkan per crimini di guerra. «Mi faccio da parte per permettere alla squadra di entrare in Europa».
venerdi , 07 gennaio 2000
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Fausto Pocar, il docente milanese nominato da Kofi Annan, prende il posto di Antonio Cassese tra i giudici internazionali Dall' università ai diritti umani, un altro italiano al Tribunale dell' Aja
Fausto Pocar, il docente milanese nominato da Kofi Annan, prende il posto di Antonio Cassese tra i giudici internazionali Dall' università ai diritti umani, un altro italiano al Tribunale dell' Aja Il primo è tornato a Firenze per riprendere l' inseg namento universitario, dopo sette anni trascorsi sui dossier insanguinati della ex Jugoslavia. L' altro abbandona la Facoltà di giurisprudenza di Milano per raccogliere l' intricata matassa delle colpe balcaniche. Due italiani, Antonio Cassese e Faus to Pocar, si danno il cambio come giudici del Tribunale internazionale dell' Aja. Stesse filosofie. Compiti forse diversi. Ad Antonio Cassese, che fu anche il primo presidente della Corte dell' Onu dal ' 93 al ' 97, poi giudice presso una delle due C amere del Tribunale, toccò un ruolo certamente delicato: il rodaggio della nuova Norimberga. «Una missione esaltante», disse Cassese a quel tempo. Si rivelò spinosa: accuse al Tribunale di perdere tempo con i pesci piccoli, resistenza delle autorità locali, problemi con la ricerca e la consegna dei latitanti. Ma lui duro: «Niente amnistie - dichiarava -. Se vogliamo la pace dobbiamo condannare gli assassini». Strumenti giuridici, nessun compromesso politico. Anche questo non è stato semplice. L' odio balcanico nel frattempo si è complicato: il Kosovo, l' intervento dell' Occidente, l' incriminazione di Milosevic. A settembre Antonio Cassese ha presentato le dimissioni. L' italiano nominato ieri dal segretario dell' Onu Kofi Annan per sostit uirlo, il professor Fausto Pocar, 60 anni, è stato pro-rettore alla Statale di Milano, preside della Facoltà di scienze politiche, attualmente docente di Diritto internazionale. Alle spalle, anche 15 anni come membro del Comitato per i diritti dell' uomo delle Nazioni Unite. Nel 1995, una missione a Mosca e in Cecenia per verificare se era possibile mandare sul posto un gruppo di osservatori. «Mi fa ridere sentir dire che i russi stanno distruggendo Grozny. Che cosa c' è ancora da distruggere in quella città? Vidi, sì, molte cose... Preparai un rapporto, lo presentai all' Onu, ma rimase segreto. Spero che almeno adesso venga pubblicato». Fausto Pocar conosce anche la ex Jugoslavia. «Fui lì nel ' 92 con un comitato per i diritti umani». Info rmazioni utili per il nuovo incarico? Il neo-giudice preferisce parlare di priorità: «Credo che ora il compito del Tribunale sia quello di portare in giudizio i veri responsabili delle violazioni commesse». Come Ratko Mladic, come Radovan Karadzic? « Il Tribunale all' inizio ha avuto bisogno di dimostrare che esisteva. E lo ha fatto perseguendo personaggi minori. Ma l' arresto, poco meno di un mese fa, di un generale serbo bosniaco (Stanislav Galic, n.d.r.) dimostra che ci si sta avvicinando ai v ertici». Tutti? Al successore di Cassese potrebbe toccare in giudizio persino Milosevic: «Non escludo nessuna possibilità. Ma il lavoro del Tribunale dipenderà in prima misura dalla collaborazione dei governi e dagli accordi tra le grandi potenze, St ati Uniti e Russia in testa». Tra i «non collaboranti» c' è stata finora la Croazia di Franjo Tudjman, verso la quale l' Occidente si è sempre mostrato condiscendente. Cambierà qualcosa dopo la morte del presidente e la vittoria elettorale del fronte liberal-socialista? «E' possibile. Ma per quello che mi riguarda, posso dire che quando nel ' 92 mi recai nella ex Jugoslavia, i membri del mio Comitato trattarono le autorità croate al pari di quelle serbe, rivolgendo loro le stesse accuse». E la N ato? Proprio ieri sono venute fuori nuove responsabilità nelle stragi dei civili... «Non posso dire niente. Si parla di fatti sui quali un domani potrei trovarmi a giudicare». La filosofia del professore è chiara: «Le violazioni dei diritti umani van no giudicate tutte con lo stesso peso e la stessa misura». Le valigie sono quasi pronte. Il primo febbraio, il trasferimento all' Aja. Maria Grazia Cutuli
mercoledi, 29 dicembre 1999
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In India l' ascesa politica dei Un eunuco batte le rivali e diventa sindaco
Ogni anno mille bambini vengono castrati dai genitori. Molti di loro vengono avviati alla prostituzione
Cutuli Maria Grazia
In India l' ascesa politica dei «senza sesso» Un eunuco batte le rivali e diventa sindaco A Katni, cittadina dello Stato indiano del Madhya Pradesh, la poltrona di primo cittadino era riservata a una signora. Ma Kamala Jaan, maschio alla nascita, eun uco con gli anni, ha battuto le rivali con le loro stesse armi: un sari variopinto, trucco sul viso e l' ambigua natura di un sesso rinnegato. Approfittando della nuova disposizione dell' ufficio elettorale nazionale, che permette a quelli come lui d i presentarsi a piacere in qualità di uomini o di donne, Kamala Jaan ha scelto veli femminili. Come donna si è candidato e come donna ha vinto, regalando agli eunuchi la prima carica di sindaco della storia dell' India. La sua vittoria è un' ascesa s ociale. Il riscatto da una tradizione che aveva imbrigliato per secoli i «senza sesso» nei rigidi steccati dell' esclusione. Gli eunuchi, un milione sparsi per tutta l' India, 150 mila nella sola Delhi, continuano a pagare colpe antiche. Una leggenda vuole che mille anni fa alcuni indù, ribelli alle leggi della propria casta, fossero stati puniti con la peggiore delle sanzioni: la castrazione. Da allora mutilazione e dannazione sono andate di pari passo. Queste «creature dimezzate», condannate a vivere fuori dalle caste, ancora più in basso degli «intoccabili», sono rimaste relegate in una terra di nessuno, dove si incrociano miserie quotidiane, credenze arcane e i sacri timori dell' induismo. Fanno parte degli hijras, quasi una setta, che raccoglie anche travestiti e transessuali. Mille bambini - stando alle stime della All India Hijra Kalyan Society, un' organizzazione nata nel 1984 a loro difesa - vengono castrati ogni anno, per scelta o per forza, per mano di parenti o genitori. La percentuale di morte, secondo alcuni, sfiora il 75%, per via delle condizioni igieniche in cui viene eseguito l' intervento. Un unico taglio, nessun punto di sutura, solo un impacco di olio di sesamo. Il paziente è in stato di trance con gli occhi s ull' immagine di Bahuchara Mata, la divinità a cui gli hijras sono devoti. Ma le cicatrici che rimangono a chi sopravvive saranno un passaporto per la vita: gli eunuchi possono prostituirsi, chiedere l' elemosina, persino sposarsi. E soprattutto, pos sono essere reclutati come cantanti e ballerini durante le feste nuziali e le nuove nascite. I loro presunti rapporti con le forze del male autorizzano a credere che siano capaci di assorbire la sventura o future tendenze omosessuali dei neonati. L' anno del cambiamento è il 1984. Gli eunuchi hanno conquistato il diritto di votare e di essere eletti. Se la carica di sindaco rappresenta una novità, quella di deputato è già stata ricoperta da due di loro. La tradizione, non sempre maligna, viene i n soccorso: nel Ramayana, testo sacro dell' induismo, si accenna a un gruppo di eunuchi scelti dal dio Rama come propri consiglieri; mentre la storia di Paesi lontani racconta che castrati furono anche alcuni grandi ministri degli Achemenidi, i sovrani persiani del VI-IV secolo avanti Cristo, e che nella Cina del Seicento l' eunuco Wei Chung-hsien, favorito dell' imperatore Tien Chi, sedusse il proprio signore fino a fare erigere templi in suo onore. Nell' India di oggi un ex funzionario pubblico di Bombay, Govinder Ragho Khairnar, 54 anni, ha sfidato il puritanesimo del Pjp, il partito nazionalista al potere da febbraio dell' anno scorso, reclutando 400 eunuchi del quartiere a luci rosse per combattere corruzione e criminalità. L' a rmata dei senza sesso è riuscita a strappare centinaia di bambini alla prostituzione, a bruciare il terreno ai gangster locali e ripulire i bassifondi urbani. Niente fucili. Solo la minaccia di mostrare la loro mutilazione. Un' arma anche politica. N on a caso il neo-sindaco Kamala Jaan si è presentato da indipendente. Per se stesso. E per le sue «compagne», i senza sesso e senza casta dell' India. Maria Grazia Cutuli LA TRADIZIONE PERSIA Furono eunuchi alcuni ministri degli Achemenidi, i sovrani persiani che dominarono tra il VI e il IV secolo avanti Cristo BISANZIO Sia gli imperatori romani d' Occidente sia quelli bizantini ebbero eunuchi come fedeli servitori di corte CINA La tradizione, in auge nell' epoca imperiale, è sopravvissuta fino a ieri. L' ultimo eunuco, Sun Yaoling, è morto tre anni fa a 94 anni
giovedi , 09 dicembre 1999
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Oggi cominciano i 30 giorni sacri dell' Islam. Allarme attentati in Algeria
Luna nuova, via al Ramadan
Il mese del digiuno per oltre un miliardo di musulmani
Cutuli Maria Grazia
----------------------------------------------------------------- Oggi cominciano i 30 giorni sacri dell' Islam. Allarme attentati in Algeria Luna nuova, via al Ramadan Il mese del digiuno per oltre un miliardo di musulmani Le sacre regole sono state ricordate ieri. E in qualche caso rinfrescate. Negli Emirati Arabi si e' pronunciato il capo della polizia di Dubai: chiunque sara' sorpreso a mangiare, bere, fumare - in pubblico, ma anche in macchina - verra' arrestato. In Indonesia le autorita' d i Giakarta sono passate direttamente all' azione: postriboli chiusi nel quartiere a luci rosse e saracinesche abbassate per decine di bar, ristoranti, locali notturni. In Algeria e' l' esercito a essere in stato d' allerta. Misure di sicurezza intens ificate in tutto il Paese per scongiurare un rischio forse piu' grave della blasfemia: che il mese santo della religione musulmana non si trasformi, come e' successo negli ultimi tre anni, in un' orgia di sangue. Il Ramadan e' cominciato. Oggi per la maggior parte dei Paesi islamici, ieri per lo Yemen e la Libia. Per l' umma, la comunita' musulmana - un miliardo e 76 milioni di persone nel mondo - e' l' inizio di un digiuno rituale, l' astinenza dal cibo, dalle bevande, dal fumo, dai rapporti se ssuali, che proseguira' dall' alba al tramonto per 30 giorni. Corrisponde al decimo mese del calendario lunare islamico, piu' corto di 11 giorni rispetto a quello solare. E rappresenta uno dei pilastri della religione coranica. Non e' solo il segno d i un' identita' culturale il mese durante il quale Allah investi' Maometto della sua missione profetica. Il Ramadan e' un evento sociale, in qualche caso politico. + successo in Algeria, dove i Gruppi islamici armati, in guerra dal ' 92 con il regime dei generali, hanno simbolicamente intensificato gli attacchi. A gennaio dell' anno scorso in pieno Ramadan trucidarono oltre 400 civili in un giorno solo. La paura attraversa villaggi, campagne, periferie cittadine anche quest' anno, a dispetto del programma di "riconciliazione nazionale" lanciato dal nuovo presidente Abdelaziz Bouteflika. Gli estremisti si appellano al Profeta: il Ramadan e' il mese migliore per la Jihad, la guerra santa, proprio perche' fu prescelto da Maometto nel 624 per s ferrare una delle piu' violente offensive contro le tribu' pagane della Penisola arabica. Anche i bombardamenti anglo - americani su Bagdad del ' 98 rischiarono di cadere in pieno Ramadan. Ma gli ulema, i teologi dei maggiori Paesi musulmani, insorse ro. E il timore di scatenare il fronte anti - occidentale rese le due potenze caute. La fine di Desert Fox venne proclamata a mezzanotte del 19 dicembre: nei cieli di Bagdad si spensero le luci dei traccianti per far posto alla luna nuova che annunci ava il Ramadan. Quest' anno una piccola complicazione potrebbe venire dalla febbre cristiano - occidentale per il nuovo Millennio. Che cosa succedera' il 31 dicembre? La polizia di Dubai parla chiaro: controlli su alberghi e ristoranti affinche' non organizzino balli e cenoni. Ai non musulmani liberta' di scelta: "Potranno far festa in casa propria. La polizia di Dubai augura Buon Anno". Un colpo di cannone segna oggi l' inizio del digiuno. Un altro ne scandira' la fine. Ma e' il sorgere della l una nuova a dettare di anno in anno le scadenze del Ramadan. L' annuncio arriva per bocca delle massime autorita' religiose. A Riad e' stato ieri il Consiglio supremo giudiziario dell' Arabia Saudita. A Beirut si sono pronunciate le piu' alte istanze : Dar al - Fatwa, il Consiglio sunnita, e il Consiglio superiore sciita. Un annuncio anche a Roma. Il centro culturale islamico, con sede nella moschea della capitale, ha ricordato ai 430 mila musulmani in Italia gli orari della preghiera, segnalando quotidianamente a seconda delle posizioni astrali inizio e fine esatta del digiuno. La conclusione e' per le 18,27 del 7 gennaio 2000. Ramadan e Giubileo si incroceranno per qualche giorno. Le regole del sacro mese sono ferree solo in parte: l' asti nenza prescritta, alla quale si accompagnano altri piccoli divieti, come quello di non profumarsi o parlare troppo, cessa al tramonto. Dopo il calar del sole, si consuma il pasto serale, si torna al bar, al ristorante, si commenta la giornata. Viaggi atori, soldati in guerra, donne incinte, malati e anziani possono esserne dispensati. I calciatori, no. Il difensore del Bari, il marocchino Neqrouz, ha detto ieri che il Ramadan per lui non e' mai stato un problema. "Mi alleno due volte al giorno. I n questo periodo meglio: e' un mese che da' la carica". Maria Grazia Cutuli
sabato , 04 dicembre 1999
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L' ALTO COMMISSARIO OGATA
"Porteremo gli aiuti quando sara' garantita sicurezza ai nostri uomini"
Cutuli Maria Grazia
----------------------------------------------------------------- L' ALTO COMMISSARIO OGATA "Porteremo gli aiuti quando sara' garantita sicurezza ai nostri uomini" Quando Sadako Ogata e' arrivata ai vertici dell' Unhcr, l' Alto commissariato dell' On u per i rifugiati, era il dicembre del 1990. I teorici del nuovo ordine cominciavano a brindare sulle macerie dei muri promettendo garanzie di armonia e stabilita' . Ma il tempo dell' ottimismo per questa signora giapponese, destinata a guidare per u n decennio la piu' importante delle agenzie umanitarie, non sarebbe durato a lungo. Dalla Guerra del Golfo alla disintegrazione della Jugoslavia, gli esodi di massa scatenati dai nuovi conflitti hanno trascinato l' Unhcr in un' emergenza permanente. Oggi i profughi nel mondo sono quasi 22 milioni. E ancora di piu' saranno nel terzo millennio. "Il loro numero crescera' - dice Sadako Ogata - cosi' come cresceranno i conflitti locali". Non servira' nemmeno la fitta rete degli interessi globali a sp egnere i focolai di guerra. "La gente avra' sempre piu' paura di essere stritolata da meccanismi che non controlla. L' incertezza creera' piccoli gruppi pronti a combattersi". Sadako Ogata, 72 anni, due lauree ed un master in relazioni internazionali alla Georgetown University di Washington, lascera' l' Unhcr il 31 dicembre 2000. L' intervista concessa al Corriere in occasione di una conferenza tenuta all' Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano (Ispi), traccia un bilancio de lle nuove difficolta' a cui vanno incontro gli interventi umanitari. Gli interventi umanitari stanno diventando sempre di piu' operazioni "politiche". Perche' si e' insistito tanto a intervenire in Kosovo e molto meno per la Cecenia? "Le due situazio ni sono diversissime. In Cecenia esiste un terrorismo di lunga data, molto ben organizzato; in Kosovo non era la stessa cosa...". E i profughi? Non hanno bisogno di assistenza? "La Russia credeva di potercela fare da sola. Adesso il numero dei rifugi ati e' cresciuto ed e' per questo che la scorsa settimana sono stata in Inguscezia. + possibile che partano degli aiuti, ma dobbiamo essere certi che arrivino a chi ne ha bisogno. Per farlo dobbiamo esser li' : il nostro staff in questo momento non h a garanzie di sicurezza sufficienti". In base a cosa decide che la sicurezza dello staff e' piu' importante degli aiuti? "Un nostro funzionario e' stato preso in ostaggio in Cecenia ed e' rimasto prigioniero per 270 giorni. Dobbiamo essere sicuri che le autorita' ci proteggano. + mia precisa responsabilita". Una presenza militare come quella della Nato in Kosovo torna quindi utile ai vostri staff? "La Nato in Kosovo ha risolto un problema, quello della maggioranza albanese perseguitata, ma ne ha creato un altro: la vendetta contro la minoranza serba. Che senso ha usare la forza per salvare della gente, se poi si da' origine ad altre violazioni delle leggi umanitarie che mettono a repentaglio nuove vite?". La Nato ha di fatto militarizzato l ' intero intervento umanitario. A che cosa si riduce il vostro ruolo? "La Nato ha messo a disposizione delle agenzie umanitarie servizi, strutture logistiche, soldati capaci di costruire un campo velocemente. E questo va bene. I problemi cominciano q uando pretende di controllare i campi, occuparsi della sicurezza, dare ordine alle organizzazioni umanitarie. E quando si schiera a favore di una delle parti belligeranti". + a rischio la vostra neutralita' ? "Certamente. I militari ci hanno aiutato. In Albania non avremmo potuto farne a meno. Ma nello stesso tempo hanno complicato le cose". L' intervento in Kosovo ha sancito il diritto all' "ingerenza umanitaria". Nel ' 91 lo stesso principio era stato adottato nel Kurdistan iracheno, ma senza ricorrere alle armi. + la strada da riprendere? "Durante la crisi irachena, avevamo avuto una risoluzione dell' Onu che enfatizzava il diritto di intervenire per salvare vite umane. Era un' idea nuova, ma e' morta. + morta con l' operazione in Somali a". Perche' i meccanismi di risoluzione dei conflitti non funzionano? "Perche' non esistono. La Nato in Kosovo, la Russia in Cecenia hanno fatto la stessa cosa. Serve un livello intermedio, fatto di collaborazione tra governi, organizzazioni regional i e soprattutto missioni umanitarie. Stare accanto alla gente che soffre deve essere il principio di ogni intervento". + il suo ultimo anno all' Unhcr. Che cosa augura al suo successore? "Buona fortuna. E che cos' altro?" Maria Grazia Cutuli
domenica , 21 novembre 1999
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Il leader racconta a Time i 38 giorni di prigionia
Pakistan, l' ex premier Sharif processato dai militari golpisti "La democrazia e' in ostaggio"
"Non mi hanno torturato, ma mi hanno fatto di peggio, tenuto in totale isolamento"
Cutuli Maria Grazia
----------------------------------------------------------------- Il leader racconta a Time i 38 giorni di prigionia Pakistan, l' ex premier Sharif processato dai militari golpisti "La democrazia e' in ostaggio" "Non mi hanno torturato, ma mi hanno f atto di peggio, tenuto in totale isolamento" + riapparso dopo 38 giorni di buio e prigionia. Chiuso in un blindato dell' esercito, scortato dai paramilitari, l' ex premier pachistano Nawaz Sharif e' stato portato due volte, fra venerdi' pomeriggio e ieri mattina, davanti alla corte anti - terrorismo di Karachi. Depresso e smarrito, l' ex leader e' stato sul punto di piangere. "Dove posso sedermi?", ha chiesto guardandosi attorno disorientato. Gli hanno dato una poltrona. L' ultima, probabilmente . Vi si e' accasciato sopra. Come l' ombra di se stesso, fantasma di un potere che ha voluto osare troppo, sfidare i vertici militari, senza nemmeno avere tutte le carte in regola per contare sull' appoggio del suo popolo. Deposto con un golpe il 12 ottobre scorso, Nawaz Sharif, 54 anni, deve rispondere ad accuse che potrebbero costargli l' impiccagione: alto tradimento, pirateria aerea, concorso in tentato omicidio. Sarebbe successo lo stesso giorno in cui si e' consumato il colpo di Stato. Il premier, dopo aver deposto il capo delle Forze armate Pervez Musharraf, avrebbe tentato di impedire l' atterraggio dell' aereo sul quale questi viaggiava verso Karachi. L' intervento dell' esercito ha scritto l' epilogo: Sharif agli arresti domicilia ri, il suo governo liquidato, Musharraf a capo del Paese. "Ha subito torture durante la custodia?", ha chiesto venerdi' pomeriggio il giudice Rehman Husain Jafri all' ex premier. "Non mi hanno picchiato. Ma sono successe molte altre cose. Eccetto le torture, mi hanno fatto di tutto". Le accuse l' hanno sbalordito: " + la prima volta che le sento", ha detto Sharif proclamandosi innocente. Il resto lo ha raccontato al corrispondente di Time, Ghulam Hasnain, l' unico giornalista che sia riuscito ad avvicinarsi durante una pausa. Ha davvero ordinato il dirottamento? "Per sequestrare un aereo ci vuole un' arma - ha risposto Sharif -. Qui e' il governo che era stato eletto democraticamente ad essere sotto sequestro. + la democrazia, e' il Parlame nto, sono 140 milioni di persone". Che cosa e' successo il 12 ottobre? "Bisognerebbe scoprire se e' scattato prima il golpe o gli ordini all' aereo". Dov' e' stato dopo il golpe? "Mi hanno trascinato in vari posti. Stanze piccole. Stanze malandate. B isognerebbe esserci stati per crederci. Non avevo acqua potabile, dovevo chiedere ogni volta. Non mi hanno mai permesso di guardare la tv o di leggere un giornale. Ho potuto chiamare la mia famiglia solo due volte. Ma adesso non so piu' nulla dei mie i. Ho vissuto all' oscuro di tutto". Teme che i militari la possano impiccare come fecero con Ali Bhutto? "Mi rimetto nelle mani di Dio". Sharif non puo' sbilanciarsi. Ma l' ombra dell' ex premier Bhutto, deposto nel ' 77 e ucciso un anno dopo dalla giunta militare del generale Zia ul Haq, pesa sul Pakistan. Musharraf promette "vera democrazia", e anche Zia ul Haq l' aveva fatto. I difensori di Sharif parlano di complotto: il presunto dirottamento aereo sarebbe stato organizzato dai militari per giustificare il golpe. I testimoni convocati dai magistrati, i due piloti dell' aereo e un addetto radar dell' aeroporto, hanno confermato la versione del nuovo regime: l' atterraggio venne impedito, si rischio' di rimanere senza carburante, 7 minut i ancora e le 200 persone a bordo sarebbero state condannate a morte sicura. La matassa pachistana e' fatta di guerre di clan, scontri religiosi, conflitti etnici. Nawaz Sharif, esponente della ricca borghesia industriale, e' stato premier due volte, nel ' 91 e nel ' 97, quando venne eletto con i voti favorevoli di due terzi del Parlamento. Se il suo primo governo cadde per far posto a Benazir Bhutto, il secondo mandato gli ha procurato non meno guai: tensioni con gli estremisti islamici, accuse di dispotismo e cattiva gestione dell' economia del Paese. E uno scontro fatale con l' esercito, culminato con la guerra in Kashmir della scorsa estate: i generali, sostenitori del conflitto contro l' India, non avevano apprezzato il cessate il fuoc o firmato da Sharif su indicazione di Washington. La deposizione di Musharraf ha fatto il resto. I militari, che si sono aggrappati all' alto tasso di corruzione del governo per legittimare il golpe, continuano a promettere pulizia e moralita' . Prim e vittime della nuova campagna, 28 funzionari dello Stato, tra cui tre capi di gabinetto, arrestati nei giorni scorsi per non aver restituito dei prestiti. Propaganda di regime? Persino Benazir Bhutto, che con Sharif non ha mai avuto buoni rapporti, dal suo esilio londinese accusa Musharraf di volersi "sbarazzare della classe politica cancellandola" con la scusa della corruzione. L' impiccagione di Sharif completerebbe l' opera. Ieri, per evitare che il premier parlasse ancora, dopo l' intervist a a Time, i militari hanno impedito ai giornalisti persino di fermarsi in strada. Da qui alla prossima udienza, il 26 novembre, Nawaz Sharif e' destinato a scomparire nuovamente nel buio di segrete prigioni. Maria Grazia Cutuli
sabato , 13 novembre 1999
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L' EMERGENZA CONTINUA
Cibo e alloggi, le sfide dell' "esercito umanitario"
Cutuli Maria Grazia
----------------------------------------------------------------- L' EMERGENZA CONTINUA Cibo e alloggi, le sfide dell' "esercito umanitario" Gli spot in tv sono finiti. Spariti gli appelli al volontariato, le richieste di donazioni. Ma l' emergenza c he per quasi tre mesi, durante gli attacchi Nato nei Balcani, aveva coinvolto l' Italia e la comunita' internazionale in un' improvvisa gara di solidarieta' , non si e' chiusa. "Il Kosovo resta teatro di una delle piu' grandi operazioni umanitarie me sse in piedi negli ultimi anni", dice Laura Boldrini, portavoce italiana dell' Alto Commissariato per i rifugiati dell' Onu (Unhcr). Un' operazione che si e' spostata dalla periferia albanese al cuore della regione, continuando a coinvolgere centinai a di volontari di tutte le nazionalita' . Non piu' bombe. Non piu' esodi. Ma una "post" emergenza che avanza con i rigori dell' inverno, tra macerie di case, penuria di cibo, paura lasciata in eredita' dal conflitto. Il Programma alimentare mondiale e' una delle principali agenzie che operano in Kosovo. Assieme all' organizzazione americana Food for Peace da' da mangiare a 900 mila persone, quasi meta' degli abitanti della regione. Un ingranaggio fondamentale della mastodontica macchina umanitar ia dei Balcani. Il motore e' l' Unchr, l' agenzia che fa da coordinamento alle operazioni e provvede un po' a tutto. "Gli alloggi, tanto per cominciare - dice Laura Boldrini -. Oltre 700 mila persone sono al gelo: 330.000 non hanno casa, altri 350.00 0 vivono in edifici semidiroccati". L' agenzia Onu fornisce kit per le riparazioni, ma solo "temporanenee". "In questo modo riusciremo ad aiutare 400 mila persone. Altri alloggi vanno trovati dove capita: abbiamo rimesso in piedi 82 edifici pubblici e non escludiamo di dover fornire tende termiche". L' emergenza e' ben coperta: l' Unhcr ha chiesto 333 milioni di dollari (600 miliardi di lire) per il Kosovo fino a dicembre e ha gia' ricevuto l' 80 % dei fondi. Una risposta tanto sollecita da lasc iar solo briciole alle altre crisi internazionali. L' Italia ne e' una prova. Il ministero degli Esteri conta al momento una cinquantina di persone impegnate nelle organizzazioni non governative in Kosovo, piu' 70 funzionari della missione civile Onu e dell' Unione europea. La cooperazione e' impegnata nella riabilitazione dell' ospedale regionale di Pec. E se la -Protezione civile ha richiamato indietro i 6000 volontari spediti in Albania durante la guerra, la grande corsa al contributo lanciat a ad aprile con "Arcobaleno", continua a dare frutti. La missione, finita fra polemiche di sospetti sprechi, ha ancora a disposizione 130 miliardi da destinare al Kosovo. Maria Grazia Cutuli
venerdi , 05 novembre 1999
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Scontro all' Onu sulla pena di morte
L' Europa vuole la moratoria. L' offensiva di Egitto e Singapore rischia di indebolire il fronte Corsa al voto a colpi di emendamenti, defezioni e voltafaccia La comunita' di Sant' Egidio resta ottimista: raccolti quasi due milioni di firme per appoggiare la sospensione della condanna capitale
Cutuli Maria Grazia
----------------------------------------------------------------- Scontro all' Onu sulla pena di morte L' Europa vuole la moratoria. L' offensiva di Egitto e Singapore rischia di indebolire il fronte Corsa al voto a colpi di emendamenti, defezioni e voltafaccia La comunita' di Sant' Egidio resta ottimista: raccolti quasi due milioni di firme per appoggiare la sospensione della condanna capitale Non e' solo un caso di coscienza. + uno scontro politico che si annuncia durissimo. La proposta di mor atoria della pena di morte, in questi giorni all' esame dell' Onu a New York, sta spaccando grandi potenze e piccoli Stati lungo linee che vanno al di la' dei "blocchi" tradizionali. Da una parte c' e' il fronte che l' ha promossa: Unione Europea in testa, decisa a portarla avanti come battaglia fondamentale per i diritti umani. Dall' altra, c' e' lo schieramento del no, un raggruppamento di Paesi eterogenei - dagli Usa alla Cina, all' Iraq - che applicano la pena di morte e stanno edificando la propria muraglia. Con tutti i mezzi. Compreso quello di mandare allo scoperto Paesi minori con proclami politicamente assai poco corretti. "Il sangue scorrera' , se l' Unione Europea andra' avanti con la sua risoluzione", ha annunciato l' ambasciato re di Singapore, Kishore Mahbubani, all' Onu. "Una metafora", si e' poi giustificato. Ma senza indietreggiare: invitando l' Ue "a rimettere il coltello nel fodero", il rappresentante di Singapore ha accusato gli Stati promotori della moratoria di vol er violare il principio di "sovranita' nazionale". Si e' aggiunto l' ambasciatore del Ruanda: l' Europa si e' macchiata di "atteggiamenti criminali" per la "protezione" accordata, in occasione di alcune condanne a morte, ai responsabili del genocidio del ' 94. La discussione si e' aperta martedi' . Ma sara' nei prossimi giorni che il dibattito sulla moratoria andra' all' esame della Terza Commissione dell' Assemblea generale dell' Onu (quella delegata ai diritti umani). Se i si' vinceranno la mo ratoria passera' , ma senza valore vincolante. Rappresentera' pero' la prima condanna ufficiale espressa dalle Nazioni Unite nei confronti della pena di morte, l' anticamera della sua abolizione e la sua inclusione tra le "violazioni dei diritti uman i". La vittoria segnerebbe anche l' atto finale di un' iniziativa lanciata senza successo dall' Italia nel ' 94, ripresa dalla Commissione per i diritti umani di Ginevra e infine accolta dalla Ue. Il voto conclusivo e' previsto per la seconda settima na di dicembre, ma i gruppi di pressione sono gia' al lavoro. Lo scarto tra i due fronti potrebbe giocarsi sui voti di una trentina di Stati indecisi. Singapore ed Egitto hanno lanciato la loro offensiva: una serie di emendamenti che di fatto svuotan o la proposta. Primo tra tutti: "Nulla nella carta dell' Onu autorizza le Nazioni Unite a intervenire in materie che sonogiurisdizione degli Stati". Risultato: 74 consensi alla moratoria, 80 agli emendamenti contrari. E una catena di Paesi - Nuova Gu inea, Costa d' Avorio, Senegal, Giamaica - passati tra i sostenitori della pena di morte. Persino alcuni membri della Ue hanno cominciato ad avanzare l' ipotesi di rinunciare al voto. L' Italia e il Nord Europa si stanno impegnando per ricompattare l e fila. Ma le cifre rimangono mobili. "Gli "irriducibili" della pena di morte in realta' non sono piu' di 55. Tra di loro ci sono gia' state defezioni importanti: come quella di Cuba che ha deciso di astenersi", dice Mario Marazziti, della Comunita' di Sant' Egidio, l' organizzazione che ha raccolto quasi 2 milioni di firme a favore della moratoria. Passaggi di bandiera rilevanti: se Paesi come il Ruanda o il Burundi si battono per il diritto a chiudere i conti con il genocidio e le stragi etnic he, "altri come il Sudafrica, la Cambogia o il Mozambico sono i primi a chiedere la moratoria". Un segno del tempo, per Marazziti, e' anche la decisione del presidente russo Boris Eltsin di commutare le sentenze capitali in ergastoli. O ancora, un' a desione di cui Sant' Egidio va fiera: quella di Abdurrahman Wahid, il nuovo presidente dell' Indonesia, la piu' grande nazione musulmana del mondo. Ottimismo eccessivo? I Paesi contrari alla moratoria rappresentano i due terzi della popolazione mondi ale, e in piu' contano tra le proprie file le principali potenze musulmane (dall' Arabia Saudita all' Iran), asiatiche (dall' India alla Cina), moltissimi Paesi africani. E per finire gli Stati Uniti, allineati, come successe per il voto sul Tribunal e internazionale o sulla messa al bando delle mine, con i loro maggiori nemici. Ma Washington non ha dubbi. Difendere la pena di morte, sostengono i suoi rappresentanti all' Onu, e' una "questione di pluralismo e democrazia". Maria Grazia Cutuli
sabato , 16 ottobre 1999
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LA VOLONTARIA ITALIANA
"Dal Sudan a Timor i miei anni di rischio e passione"
"Spesso presi tra due fuochi. Si dorme vestiti e si vive solo con acqua e frutta secca"
Cutuli Maria Grazia
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LA VOLONTARIA ITALIANA "Dal Sudan a Timor i miei anni di rischio e passione" "Spesso presi tra due fuochi. Si dorme vestiti e si vive solo con acqua e frutta secca" Due anni in Burundi , in bilico su un conflitto etnico. Un altro in Sud Sudan, sotto i bombardamenti. E poi in Laos, dove le sembrava finalmente di respirare: sveglia mattutina con gli altoparlanti di regime, ma senza emergenza, senza sangue, senza guerra. Non le pareva vero. La missione successiva di Susanna Cristofani, 36 anni, volontaria italiana di Medici senza Frontiere, ha segnato il ritorno alla solita "roulette russa": Timor Est nei giorni che hanno seguito il referendum, l' assalto delle milizie, mezz' ora , o forse un' ora, stesa sul terreno, gli spari che non finivano mai. In un giorno di festa come quello di ieri torna in mente tutto. La passione, la paura. E la gioia di un premio, il Nobel per la pace a Medici senza Frontiere, vinto anche da lei. S usanna Cristofani e' ancora in servizio, tornata sulla stessa isola, Timor Est, dalla quale era stata evacuata a settembre. Il premio e' una conferma in piu' , e' la prova, dice, "di aver scelto bene, di aver seguito l' organizzazione giusta". La vol ontaria italiana ricorda gli inizi: i collettivi femministi a Pisa, la sua citta' , la scuola per infermiere e poi, seguendo un antico desiderio infantile, una specializzazione ad Anversa sulle malattie tropicali. "Volevo andare in Africa". Il Belgio le offre l' occasione. "Un corso di "prima partenza" con Medici senza Frontiere, una preselezione per imparare a orientarsi nelle emergenze. E subito la proposta del Burundi. Era il 1996". I primi sei mesi nell' entroterra, a far funzionare un' equi pe chirurgica. "Rimanevamo spesso isolati per via dei combattimenti tra hutu e tutsi". L' anno dopo, tra gli sfollati hutu della periferia della capitale, Bujumbura, Susanna vede l' esercito portarsi via i malati appena operati dalla sua equipe, il p ersonale locale ricercato e arrestato. "Ed era la cosa piu' frustrante, non poter garantire sicurezza alla gente". Il Sud Sudan e' stato anche peggio. "Non c' era nulla, solo qualche tukul dove dormire e assistere i malati. Ne' jeep, ne' mezzi per sp ostarsi. Solo gli aerei che facevano la spola con il Kenia. Ma l' esercito del Nord spesso bloccava anche quelli. Quando bombardavano, erano i Dinka, la tribu' del posto, a metterci in salvo nella boscaglia. "Evacuazioni sportive", le chiamiamo noi d i Msf. Si dorme vestiti e ci si porta dietro solo acqua e frutta secca". L' entusiasmo non le e' mai venuto meno. Neanche di fronte alla proposta di andare a Timor Est. " + stato molto piu' duro di quanto mi aspettassi. L' esercito indonesiano, che a ll' inizio ci boicottava, all' improvviso ci ha lasciato metter su un programma di assistenza chirurgica, segno che si aspettava il peggio. Non c' e' stato tempo per intervenire. Il giorno dopo il referendum, i bagagli in macchina pronti da quarantot to ore, abbiamo a malapena raggiunto la sede Onu. E subito l' attacco. Prima le raffiche, poi l' incursione dei paramilitari. Confesso, e' stata la prima volta nella mia vita che ho pensato di essere spacciata. Invece i miliziani assieme all' esercit o indonesiano ci hanno accompagnati all' aeroporto". A Natale Susanna Cristofani tornera' per un po' in Italia. "Rientrare serve a non perdere il contatto con la realta' . A Pisa ho la mia casa, i miei amici. Il mio compagno sta invece in missione co me me... Lo dico sempre ai colleghi: e' importante avere delle radici, per evitare che questo lavoro diventi una fuga infinita da se stessi". Maria Grazia Cutuli
mercoledi, 13 ottobre 1999
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Golpe in Pakistan, i militari al potere
Il comandante dell' esercito circonda la residenza del premier Sharif e destituisce il governo
Cutuli Maria Grazia
Golpe in Pakistan, i militari al potere Il comandante dell' esercito circonda la residenza del premier Sharif e destituisce il governo Si annunciava da mesi. Esattamente da luglio, da quando esercito e mujahiddin, di malavoglia, avevano dovuto deporre le armi in Kashmir contro l' antico nemico indiano. + arrivato ieri. Un golpe veloce, al momento incruento, contro il primo ministro pachistano Nawaz Sharif. Reazione immediata a una mossa "azzardata": il licenziamento del capo di Stato maggiore delle Forze armate, Pervez Musharraf. I militari non hanno perso tempo. Due ore dopo l' annuncio con il quale il premier comunicava la destituzione del generale, l' esercito e' scattato. Il primo assalto, alla sede della tv. Poi, e' stata circondata la residenza di Sharif e il premier preso in ostaggio. I soldati gli hanno ordinato di non uscire e di disarmare guardie e polizia. A Lahore e' stata assalita la residenza del governator e del Punjab, provincia di origine di Sharif. Nella notte, echi di spari dalla periferia di Islamabad. La tv di Stato ha ripreso a trasmettere per annunciare la destituzione del governo e il "messaggio alla nazione" del generale Pervez Musharraf, app ena rientrato dallo Sri Lanka. Il generale ha raccontato davanti alle telecamere di aver deciso il golpe "con il pieno supporto delle Forze armate, come ultima risorsa per impedire che il governo continuasse a distruggere sistematicamente le istituzi oni dello Stato e trascinare l' economia al tracollo". Nel frattempo sotto controllo dei militari era caduto l' aeroporto di Karachi ed era stata proclamata la legge marziale. Guerra di clan e di potentati? Nawaz Sharif aveva tentato di far fuori il generale, sostituendolo con Zia Uddin, capo dell' Isi, i servizi segreti pachistani. Ma Musharraf gode dell' appoggio dei comandanti dei 10 corpi d' armata di cui e' composto l' esercito. E il rivale si trova gia' agli arresti domiciliari. Nawaz Shar if, al contrario, negli ultimi mesi si e' fatto solo nemici. Salito al potere una prima volta nel ' 90, il premier che aveva promesso l' atomica al Pakistan, e di fatto gliel' ha data, e' stato rieletto nel ' 97. Esponente della nuova borghesia indus triale, forte di una maggioranza di due terzi del Parlamento, Sharif ha subito sferrato un attacco all' esercito, licenziando il predecessore di Musharraf. La Realpolitik lo ha poi spinto verso il "bilanciamento": utilizzare i militari come garanzia contro le turbolente masse pachistane, lacerate da conflitti tribali e religiosi, limitando il potere dei soldati nelle amministrazioni centrali e periferiche. La guerra in Kashmir ha smascherato il gioco. Il capo di Stato maggiore Musharraf la volev a. Mentre il premier, sotto le pressioni di Washington, ha optato per il cessate il fuoco. Frattura insanabile. E non solo con l' esercito. Sono insorte le opposizioni con una lista di accuse: corruzione, disastro economico, limitazioni alla liberta' di stampa. Si sono agitatati i fondamentalisti islamici del potente Jamiat el Islami, rabboniti in precedenza da Sharif con un rafforzamento della sharia, la legge coranica. E tutti reclamando la stessa cosa: le dimissioni del premier. Le disgrazie di Sharif non finiscono qui. Tanto la guerra in Kashmir, quanto l' appoggio ai Talebani afghani ha portato il Pakistan all' isolamento internazionale. C' e' chi accusa il Paese di troppi e persistenti legami con il terrorismo islamico. Golpe facile, dunque? Non e' detto. Nella partita pachistana, c' e' un protagonista esterno di gran peso: gli Stati Uniti. Washington, che rimane un grande alleato per Islamabad, ha gia' detto la sua: "Se c' e' stato un golpe - ha dichiarato il portavoce del dipar timento di Stato, James Rubin - chiediamo che venga ripristinata la democrazia, altrimenti i nostri rapporti ne subiranno le conseguenze. + imperativo che venga rispettata la Costituzione pachistana". E c' e' di piu' . Sia il fratello del premier, Sh abaz Sharif, sia il capo dell' Isi, il generale Uddin, sono stati di recente negli Usa a colloquio con funzionari del Pentagono e della Cia. Raccogliendo precise garanzie: niente colpi di Stato in Pakistan. L' allarme ha contagiato anche l' India, ch e ha proclamato ieri lo stato di massima allerta lungo la frontiera. L' altra potenza atomica del continente ha tutto da temere dall' ascesa al potere dei militari. Compreso un riaccendersi del conflitto in Kashmir. Maria Grazia
giovedi , 16 settembre 1999
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Il Consiglio di Sicurezza dell' Onu da' il via alla forza di pace nell' ex colonia portoghese. Tra i 5 e i 7 mila uomini sotto comando australiano
Folgore, scatta la missione Timor
Mobilitati 200 para' , la nave San Giusto e l' Aeronautica. In tutto 600 militari Capo dell' operazione un veterano del Vietnam. I soldati autorizzati a usare le armi contro le milizie
Cutuli Maria Grazia
Consiglio di Sicurezza dell' Onu da' il via alla forza di pace nell' ex colonia portoghese. Tra i 5 e i 7 mila uomini sotto comando australiano Folgore, scatta la missione Timor Mob ilitati 200 para' , la nave San Giusto e l' Aeronautica. In tutto 600 militari Capo dell' operazione un veterano del Vietnam. I soldati autorizzati a usare le armi contro le milizie La San Giusto, unita' anfibia della Marina militare, naviga alla vol ta di La Spezia, pronta a imbarcare mezzi e uomini destinati a Timor Est. Il Consiglio di Sicurezza dell' Onu ha dato il via al contingente multinazionale e anche l' Italia si prepara a mandare 600 militari nell' ex colonia portoghese. Al piu' tardi tra una settimana. "Non appena il comando della missione - ha detto il ministro della Difesa Carlo Scognamiglio - procedera' alla costituzione della forza". Il contingente multinazionale voluto dall' Onu sara' un corpo di pace "muscoloso", formato da i 5 mila ai 7 mila uomini. Un esercito con licenza di uccidere e il compito di "ristabilire la pace e la sicurezza" nella parte orientale dell' isola, dopo le stragi seguite al referendum con il quale la popolazione il 30 agosto ha votato si' all' in dipendenza dall' Indonesia. La missione parte sotto gli auspici della risoluzione 1264 e le regole dettate dal capitolo VII della Carta dell' Onu, che autorizza l' uso della forza per motivi umanitari. Non mancano i rischi. "La situazione sul terreno e' ancora esplosiva", ha avvertito l' ambasciatore americano Richard Holbrooke. E il premier australiano John Howard ha ricordato: "La missione sara' pericolosa. Bisogna essere pronti ad accettare l' eventualita' di perdite umane". LA FORZA DI PACE - I primi a sbarcare a Dili, forse gia' domani, saranno gli australiani. Hanno il comando e mettono a disposizione la maggior parte degli uomini, fino a 4.500. Il Portogallo, ex potenza coloniale, dispieghera' 1.000 soldati. Londra inviera' 250 Gurkh a nepalesi, l' Irlanda delle unita' d' elite. Parteciperanno Canada, Francia, Nuova Zelanda. Tra i Paesi asiatici Malesia, Filippine, Corea del Sud, Thailandia, Fiji e Singapore. A capo il generale australiano Peter Cosgrove, 52 anni, eroe del Vietna m, decorato con croce al valore per due assalti ai bunker dei vietcong nel ' 69, quando il suo Paese combatteva a fianco degli Stati Uniti. GLI ITALIANI - Roma invia sull' isola i paracadutisti della Brigata Folgore: 200 uomini del 187 reggimento di Livorno, reduci dalla Bosnia e dall' Albania, che rappresenteranno il nucleo della forza operativa. Trasportati a bordo di un 707 dell' Aeronautica militare e di C - 130, avranno mezzi cingolati protetti, materiale per bonificare ordigni esplosivi e l' armamento personale da combattimento. Il resto della forza sara' formato dagli equipaggi delle navi, degli aerei, e del personale logistico. Prima ancora di loro, ha detto ieri sera il ministro degli Esteri Lamberto Dini, partira' una missione uma nitaria per valutare possibili interventi a favore degli sfollati. "TETUN" SU CD - ROM - Dovranno imparare un po' di tetun, la lingua locale, gli italiani. Qualche parola d' indonesiano, e perche' no di portoghese. Chi non lo sapesse gia' , pure l' i nglese. E' stata la Scuola di lingue estere dell' Esercito di Perugia a preparare il materiale didattico che servira' ai soldati in missione. Niente scartoffie. Stavolta i corsi viaggiano su Cd - Rom, con minitest e videocassette. Il materiale servir a' anche ad ammazzare la noia a bordo, durante la lunga rotta verso gli antipodi. Maria Grazia Cutuli
venerdi , 10 settembre 1999
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PARLANO I SACERDOTI
Assassinato il capo della Caritas.
Maria Grazia Cutuli,
Quindici sacerdoti uccisi. Sei suore massacrate. Decine di operatori della Caritas scomparsi. Parrocchie assaltate a colpi di granate. A Timor Est la Chiesa è sotto attacco. Le milizie filo-indonesiane, che stanno tentando di cancellare con il sangue il sì all'indipendenza, continuano a saldare i loro conti: con i civili, con gli oppositori, e adesso anche con quell'anomalia religiosa che fa dell'isola un'enclave cattolica in un arcipelago a maggioranza musulmana. La prima vittima, registrata ieri, si chiamava Francisco Barreto. Era un prete e qualcosa di più. Era il direttore della Caritas, vale a dire il coordinatore di una delle strutture assistenziali più forti della Chiesa locale. Si occupava di dar aiuto ai 25 mila sfollati in fuga dagli assalti delle bande. Con lui sarebbero stati massacrati una quarantina di operatori dello stesso organismo che lavorano sull'isola. Gli altri cadaveri identificati sono quelli dell'abate Hilario Madeira, 45 anni, di padre Francisco Tavares dos Reis, 54 anni, e del gesuita Tarcisius Dewanto, 34 anni, originario di Java. I tre avevano tentato di salvare un centinaio di persone che avevano chiesto rifugio nella chiesa di Suai, 110 chilometri dalla capitale Dili. Le milizie filo-indonesiane li hanno dilaniati con le granate. Loro tre e i 100 sfollati. L'altroieri era stato ferito il vescovo di Baucau, monsignor Basilio do Nascimiento, mentre quello di Dili, il premio Nobel per la pace Carlos Belo, scappato dall'isola, è in viaggio verso i l Portogallo e probabilmente l'Italia, dove dovrebbe incontrare il Papa. «Un uomo spezzato», dicono i suoi confratelli di Darwin, in Australia. A Timor Est vivono 800 mila persone, l'85% cattolici. La Chiesa ha giocato un ruolo importante nel soste nere la lotta per l'indipendenza da Giakarta. Adesso teme il doppio genocidio, civile e religioso. La Caritas sta raddoppiando le pressioni su tutti gli Stati all'interno dei quali opera affinchè si arrivi all'intervento di una forza internazionale d i pace. «Perché siamo sotto tiro? - dice il direttore della sezione italiana, padre Elvio Damoli -. Per un motivo logico: la Caritas è arrivata nell'isola nel '76 all'indomani dell'invasione indonesiana, come risposta sociale all'emergenza. + diventa ta un baluardo umanitario per i civili, contro le violenze e le deportazioni dei paramilitari». Ma lo scontro si è ormai spinto troppo avanti. «Il silenzio che ha circondato Timor Est in questi anni ha favorito i disegni indonesiani di sottomissione dell'isola. + una vergogna che gli Stati Uniti continuino a rimanere legati a Giakarta e si rifiutino di intervenire. + una vergogna che l'Onu non si muova». La Caritas chiede soldati e chiede anche sanzioni economiche: «Dobbiamo fermare l'Indonesia, prima che completi il suo lavoro». Una guerra di religione? Il quotidiano Avvenire ha denunciato ieri un piano d'azione, concordato a novembre tra i gruppi fondamentalisti di Giakarta, per islamizzare totalmente l'arcipelago indonesiano. «Continui amo a credere - dice padre Damoli - che l'assalto a Timor Est abbia radici politiche più che religiose. Ma ci sono fatti che non escludono questa seconda possibilità: ci risulta che in passato molti orfani cattolici siano stati deportati a Timor Oves t per essere islamizzati». La svolta potrebbe essere recente, di pari passo con l'avanzata dei fondamentalisti in Indonesia. Padre Caesario Sisto Sanedrin, responsabile della Caritas internazionale per l'Asia e il Pacifico, non lo esclude: «Ci sono settori dell'esercito indonesiano che premono per l'islamizzazione. Non mi stupisce che nella loro agenda ci siano "missionari" da inviare anche a Timor Est». Le milizie hanno comunque ottenuto l'obiettivo politico: «La Caritas è a terra, la Chies a è a pezzi - dice padre Sanedrin -. Vorremmo aiutare gli sfollati. Ma sull'isola non possiamo intervenire. Abbiamo gli operatori a Giakarta e dobbiamo raddoppiare le cautele. Siamo il grande target di questa guerra».
mercoledi, 08 settembre 1999
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IL RAPPRESENTANTE ONU A ROMA
De Mistura: non potevamo intervenire prima con le truppe
Erano le condizioni, altrimenti sarebbe saltato il referendum
Maria Grazia Cutuli,
Un massacro previsto e annunciato. A Timor Est la furia dei paramilitari si temeva da tempo, molto prima del sì all'indipendenza, votato il 30 agosto. Perchè l'Onu non è intervenuta con un contingente militare, prima del voto, a proteggere il decoll o della promessa democrazia? Quanto tempo ci metterà - chiedono opinione pubblica e stampa internazionale - a intervenire adesso? La popolazione di Timor Est ha già vissuto una strage di massa per mano degli indonesiani: oltre 200 mila persone, su 80 0 mila abitanti, massacrate dal '75 al '79. La comunità internazionale ha intenzione di assistere inerte a un nuovo genocidio? Staffan De Mistura, rappresentante delle Nazioni Unite in Italia, fa una pausa prima di rispondere ai tanti dubbi che acc ompagnano la politica seguita dall'Onu nell'ex colonia portoghese. «Per 24 anni quello che avveniva a Timor Est ci ha suscitato orrore e terrore - dice -. All'improvviso, qualcosa è cambiato: l'Indonesia si è avviata verso una trasformazione politica . La comunità internazionale e, in particolare, l'Onu hanno subito individuato uno spazio di manovra per fermare quella che sembrava una guerra dimenticata e trascurata. L'opportunità non andava persa. Ma aveva delle condizioni, legate alla transizio ne indonesiana e ai giochi di potere tra militari conservatori e il nuovo presidente Habibie». Quali condizioni? «Una soprattutto: che la gestione della sicurezza venisse garantita dalle forze indonesiane, visto che formalmente il territorio di T imor Est era ancora sotto controllo di Giakarta». Prendere o lasciare? «Non c'era altra alternativa che prendere per buone le rassicurazioni dell'Indonesia, pur temendo che potessero valere niente. Altrimenti non restava che lasciare le cose come stavano e andare incontro ad altri anni di orrore e paura. Se avessimo insistito a inviare dei Caschi Blu prima del referendum non saremmo nemmeno entrati. Non è stata ingenuità o cecità da parte dell'Onu. Si è trattato di una scelta obbligata». P otevate usare altri strumenti di pressione, politici ed economici... «+ stato fatto. Se abbiamo ottenuto delle elezioni, con una presenza Onu sul posto, è stato grazie a pressioni e discussioni diplomatiche "molto articolate". Il vero risultato è c he le votazioni sono avvenute e che il 78,5% della popolazione ha scelto l'indipendenza». Visto come stanno andando le cose, crede che il risultato elettorale possa ancora dare garanzie per il futuro di Timor Est? «Ormai è storia e non si può più tornare indietro. Ma evidentemente nell'isola c'era un "piano B", messo in atto, non dal governo indonesiano, ma da alcune forze che hanno scatenato la violenza con tre obiettivi: far scappare la stampa e in parte ci sono riusciti; scacciare l'Onu; spingere gli indipendentisti a prendere le armi in modo da far precipitare il Paese in una guerra civile permanente. Sono arrivati troppo tardi. Ormai l'indipendenza è passata e il Consiglio di sicurezza dell'Onu sarà inflessibile». In che senso? R iuscirà finalmente a mandare un contingente militare? «Vorrei rispondere alla richiesta avanzata ieri da Antonio Tabucchi al segretario generale dell'Onu sul Corriere della Sera. Kofi Annan non si metterà in viaggio su un aereo, come suggerisce lo scrittore. Sarebbe una missione emblematica, ma inutile. Si sono invece già messi su un aereo cinque rappresentanti del Consiglio di Sicurezza per andare a Giakarta e poi a Dili. + un gesto poco mediatico, ma molto forte». E le altre potenze? Stati Uniti e Cina continuano a far resistenza all'intervento... «Il Consiglio di Sicurezza presenterà due opzioni: o l'Indonesia fermerà realmente le bande o, se riconosce di non poterlo fare, dovrà accettare delle forze militari sotto egida Onu». Non c'è il rischio che si ricominci con i tira e molla degli ultimatum come è successo in Kosovo? «Se tutto questo fosse avvenuto prima del Kosovo, prima delle elezioni, o prima dei massacri di ieri e di oggi, forse sì. Adesso il gioco delle posticipaz ioni non funziona più». Perchè l'Onu non ha istituito un Tribunale internazionale per i massacri già subiti dagli abitanti di Timor Est? «I massacri avvennero nel '75: eravamo alla preistoria del diritto internazionale. Il Tribunale è uno strumen to nuovo. Ma il mondo di oggi è pronto ad accettare l'estensione di un mandato ad hoc per i crimini attuali. Chi pensa alla scorciatoia della violenza se ne ricordi».
giovedi , 26 agosto 1999
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Manette a Vienna al generale serbo
Il suo nome su una lista segreta del Tribunale dell'Aja. Accusato
di aver organizzato l'espulsione in massa di croati e musulmani, e
l'ufficiale di piu alto grado in mano alla giustizia internazionale
Talic, capo di stato maggiore in Bosnia, arrestato per crimini di guerra durante un seminario
Maria Grazia Cutuli,
Il generale Momir Talic non sapeva di essere ricercato per crimini contro l'umanità. O quanto meno si sentiva sufficientemente garantito. Sicuro a casa sua, nella Republica Serba di Bosnia, quanto all'estero. Non era un latitante, scomparso nel nulla come Ratko Mladic. Nemmeno un falco, come Radovan Karadzic, barricato chissà dove per sfuggire alla giustizia internazionale. Il generale Momir Talic era fino a ieri il capo di stato maggiore dell'esercito serbo-bosniaco: un personaggio pubblico, un alto ufficiale abituato a interlocutori occidentali e incontri d'alto livello. Non hanno dovuto scovarlo tra le montagne della Bosnia. Quando l'hanno arrestato, ieri mattina, si trovava a Vienna, all'Accademia nazionale della Difesa, come ospite d i un seminario sponsorizzato dall'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Il Tribunale internazionale dell'Aja aveva lavorato in silenzio. Senza pubblici bandi, senza clamore, nascondendo il suo nome in una lista segret a. L'atto d'accusa era stato emesso il 12 marzo. Ma il procuratore generale Louise Arbour, adesso alla fine del suo incarico, aveva voluto aspettare il momento giusto. «Quando abbiamo saputo che sarebbe partito per l'Austria - ha raccontato ieri - ab biamo deciso di preparare un mandato che autorizzasse le autorità austriache ad arrestarlo». Gli ufficiali viennesi l'hanno fatto approfittando di una pausa del seminario. «Talic e io siamo stati chiamati nell'ufficio del comandante dell'Accademia - ha raccontato Manojlo Milovanovic, ministro della Difesa della Republika Srspka -. E subito gli è stato detto che c'era per lui un mandato d'arresto del giudice di Vienna». Il generale si è rivolto al comandante dell'Accademia. Ma quello ha scrollato le spalle: «Non c'entro niente con il Tribunale». La vera natura del mandato, internazionale e non austriaco, è stata chiarita subito dopo. «Talic si è consegnato, senza opporre resistenza». L'accusa è da ergastolo: Momir Talic, come ex comandante del Quinto corpo d'armata della Krajina, avrebbe «ordinato, attuato e sostenuto un piano che mirava all'espulsione di tutti i cittadini non serbi». Un programma realizzato assieme al vice primo ministro serbo-bosniaco dell'epoca, Radoslav Brdjanin, arrestato il 6 luglio scorso dalle forze di pace in Bosnia: 100 mila persone, croati e musulmani, costretti a fuggire dalle proprie case tra Prijedor e Sanski Most, nel Nord-ovest della regione. Centinaia massacrati. «Una delle più grandi campagne di pulizia etnica della Bosnia», sostiene Amor Masovic, capo della commissione musulmana per le persone scomparse. Fosse comuni dappertutto. «Più di 1500 corpi nell'area dove operava il generale». Momir Talic è il 34esimo presunto criminale di guerra arrestato dal Tribunale dell'Aja, su 66 accusati. Non è il primo a essere catturato all'estero: Dusko Tadic, il «boia» del campo di Omarska, condannato a 20 anni, venne preso in Germania. E così Nikola Jorgic, arrestato a Düsserdolf, processato però per la prima volta dal tribunale tedesco. Ma Talic è l'ufficiale di più alto grado in mano alla giustizia internazionale. La sua carriera era ancora in ascesa. Era stata la presidente dei serbo-bosniaci, Biljana Plavsic, amica degli americani, soste nitrice dell'apertura con l'Occidente, a nominarlo capo di stato maggiore a febbraio dell'anno scorso. Un incarico che gli aveva permesso di giocare un ruolo chiave nella lotta di potere tra l'ala pragmatica della Plavsic e i duri, fedeli all'ex lead er Radovan Karadzic. Il suo arresto ha scatenato proteste e minacce di rivolte tra la maggior parte delle forze politiche serbo bosniache. «Un'umiliazione per tutti noi», ha detto il vice-presidente della Republika Srpska, Mirko Sarovic. E «un abus o», averlo fatto a Vienna. «Le maschere sono definitivamente cadute - ha aggiunto Sarovic -. E non è difficile immaginare quello che succederà nei prossimi mesi, in quanto ad arresti». Probabilmente non si sbaglia. A quattro anni dalla fine della g uerra, in Bosnia i conti con gli eccidi sono ancora aperti. «In questo Paese ci sono vittime sepolte dappertutto», ha dichiarato un paio di mesi fa un funzionario del dipartimento internazionale per la ricerca dei corpi. «Ventimila persone mancano al l'appello». Si scava sempre. Si scava ancora, alla ricerca di prove e giustizia.
martedi , 24 agosto 1999
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Kosovo , Dini frena
A Pristina sono rimasti solo 500 serbi
sui 30 mila di prima della guerra
15 mila albanesi bloccano le truppe russe
Maria Grazia Cutuli,
La «cantonizzazione» del Kosovo lascia perplessa l'Italia. L'ipotesi di creare aree omogenee, che permetterebbero di separare la minoranza serba dalla maggioranza albanese, avanzata dai serbi kosovari, era stata rilanciata domenica dall'amministrator e civile dell'Onu nella regione, il francese Bernard Kouchner. Ma al ministro degli Esteri italiano Lamberto Dini non è parsa una buona idea: «Non è in linea con gli intendimenti della comunità internazionale», ha detto. E non è stata nemmeno «all'or dine del giorno» durante l'incontro con i ministri degli Esteri degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania. Lamberto Dini ne ha parlato a Rimini durante il «Meeting per l'amicizia tra i popoli». Non ha escluso che la soluzione dei cantoni «venga studiata». Ma nello stesso tempo ha detto: «Non mi pare che sia un passo avanti». Lo scopo dell'intervento contro la Serbia, secondo il ministro, era proprio l'opposto: «Garantire, in un Kosovo autonomo, un regime multietnico come è stato fat to in Bosnia-Erzegovina». La richiesta di creare cantoni «etnici», che sarà esaminata domani a Pristina dal Consiglio di transizione (l'organismo multi-etnico chiamato a collaborare con l'Onu) è stata presentata dal leader serbo-kosovaro Mamcilo Tr ajkovic come misura di protezione contro gli attacchi degli albanesi. Si tratterebbe di enclave rurali, nelle quali far tornare i serbi fuggiti dalla provincia: oltre 150 mila su 200 mila (secondo Belgrado). Città come Pristina, dove sarebbero rimast i solo 500 serbi su 30 mila, ridiventerebbero invece centri multietnici. Ma il timore tanto degli albanesi quanto della comunità internazionale è che i cantoni portino a una spartizione del Kosovo. E' quello che di fatto è successo in Bosnia. Con la differenza che a Sarajevo la presidenza tripartita, rappresentata da un croato, un musulmano e un serbo ha salvato formalmente la multi-etnicità prevista dagli accordi di Dayton. Sul futuro assetto dei Balcani i dubbi sono tanti. A cominciare dalla «pax americana», il nuovo ordine disegnato e sorvegliato da Washington. «L'espressione non mi piace - ha detto Giulio Andreotti a Rimini. - Potremmo piuttosto parlare di una "pax cum America"». E anche Dini è sembrato dello stesso parere: «Bisogna c ostruire una pace che non sia solo americana, anche se continuerà ad avere gli Stati Uniti come un potere indispensabile». Il ministro ha tuttavia riconosciuto che l'intervento statunitense nei Balcani ha «compensato le carenze politiche dell'Europa e la sua inesistenza in termini militari». Secondo il ministro è ora il momento di sviluppare una nuova politica estera e di sicurezza. E di allargare la Ue ai Paesi vicini. Balcani compresi. Altri dubbi sul futuro della regione, arrivano direttame nte dal Kosovo. Il contingente russo che avrebbe dovuto sostituire ieri olandesi e tedeschi a Orahovac è stato bloccato dagli albanesi. Una folla di 15 mila persone, sostenuta dall'Esercito di Liberazione (Uck), ha ammassato camion, trattori, macchin e lungo la strada, per far scudo ai primi 50 soldati di Mosca. Alla domanda del vice-comandante del contingente, il colonnello Andrey Serdukov - «Qual è il problema?» - gli albanesi hanno risposto senza mezze parole: «I russi sono il problema». Ancor a più espliciti i graffiti sui muri: «La Nato è benvenuta. La Russia no». Accusate di essere filo-serbe, sin dalla loro prima apparizione in Kosovo dopo gli accordi di pace, le truppe moscovite continuano a muoversi su un terreno incandescente. A Ora hovac, ex prima-linea tra serbi e albanesi, la popolazione li addita come mercenari, compagni di battaglia e di massacri delle truppe di Belgrado: il loro «ritorno» servirebbe a proteggere i 2000 serbi accampati nei dintorni della città, e soprattutt o ex poliziotti e paramilitari, dicono. «Non vogliamo soldati che vogliono ucciderci e violentare le nostre donne», ha protestato un altro dimostrante. Flemmatico il comandante in capo dei parà, Gheorghi Shpak: «Entreremo domani. Abbiamo una missione di pace da compiere e la condurremo in porto». Tensioni residue? Il generale Mike Jackson, comandante della forza di pace, ieri è sembrato più ottimista del solito: la smilitarizzazione dell'Uck, fonte di preoccupazione per la comunità internazion ale, procede in maniera soddisfacente. E il generale pensa già a integrare la guerriglia nelle nuove forze di polizia.
sabato , 14 agosto 1999
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A cinquanta anni dalla Convenzione di Ginevra nuove regole per le missioni di pace
Decalogo per i Caschi blu
L'Onu: i conflitti degli anni '90 segnati dalla barbarie
Maria Grazia Cutuli,
Fu una novità senza precedenti. Le quattro Convenzioni di Ginevra, firmate il 12 agosto 1949, segnavano non solo il successo di una lunga battaglia giuridica, giocata dalla Croce Rossa a cavallo di due guerre. Ma anche il nuovo strumento che avrebbe dovuto «umanizzare» i conflitti, proteggere le popolazioni civili, garantire i diritti dei feriti, dei malati, dei prigionieri, dopo gli orrori che avevano insaguinato i primi decenni del secolo. Sono passati 50 anni esatti. Più che una celebrazion e, l'anniversario delle Convenzioni si è trasformato in un atto d'accusa. Quanti governi, quante organizzazioni, quanti eserciti si preoccupano di rispettare quei testi? «La maggior parte delle guerre degli anni Novanta sono segnate dal caos e dalla barbarie», ha denunciato Cornelio Sommaruga, presidente della Croce Rossa internazionale. I Balcani insegnano: genocidi, stragi razziali, persecuzioni religiose. Tanto quanto i massacri del Ruanda, il calvario delle popolazioni civili in Somalia, o l 'agonia della gente in Afghanistan. «Bisogna trovare nuove strade - ha aggiunto Sommaruga -. Bisogna intensificare gli sforzi per fermare gli orrori della guerra e assicurare alle vittime dei conflitti la possibilità di mantenere la propria dignità». L'ammissione di un fallimento? Un appello è arrivato anche da Kofi Annan. Il segretario generale delle Nazioni Unite non si è limitato a richiamare all'ordine i governi. In occasione delle celebrazioni del cinquantenario che si sono tenute a Ginev ra, Annan ha voluto presentare ai Caschi blu dell'Onu un nuovo decalogo di comportamento da seguire nelle zone di conflitto: «Le operazioni militari - recita il testo - dovranno essere condotte solo contro chi combatte e contro obiettivi belli ci. Gli attacchi ai civili sono proibiti». Come l'uso di gas chimici o di armi biologiche. Come qualsiasi azione di guerra contro luoghi religiosi, centri storici o siti archeologici. Le truppe di pace dovranno occuparsi di proteggere donne e bambini da stupri, torture, prostituzione. Principi ispirati alle Convenzioni. E non a caso. Le guerre degli anni Novanta hanno visto il ricorso a nuove formule d'intervento, come il «peace-keeping». Operazioni condotte in una zona grigia del diritto inte rnazionale, dove si sono confusi sempre più spesso i limiti tra «ingerenza umanitaria» e operazioni militari. E anche gli eserciti di pace, impegnati a fermare le guerre, non si sono salvati dalla barbarie e dalla crudeltà. Se la Nato è stata accusat a di uso eccessivo della forza durante i bombardamenti sulla Jugoslavia, parecchi Caschi blu sono clamorosamente venuti meno al principio di neutralità. I dossier Onu sono zeppi di episodi di violenza commessi dai soldati di pace. Un caso tra tutti, la Somalia: soldati italiani accusati di stupro e tortura, militari belgi finiti sotto processo per aver costretto dei musulmani a mangiare carne di maiale e bere il proprio vomito, ufficiali canadesi licenziati per aver bastonato un ragazzino, colpe vole di furto, e aver sparato contro dei civili. Più che un fallimento delle Convenzioni, quello che manca è uno strumento che possa obbligare governi, eserciti e milizie a rispettare i principi del diritto umanitario. Oggi come allora. La Croce Ro ssa, durante la Prima guerra, aveva sperimentato la propria impotenza nel proteggere le popolazioni civili. La battaglia, sostenuta a partire dal 1921, aveva come scopo proprio quello di creare una giurisdizione che autorizzasse l'organizzazione gine vrina a portare aiuto nelle zone di guerra e che sancisse dei principi generali ai quali le parti in conflitto dovessero attenersi. Una prima bozza venne approvata nel 1934 a Tokio. L'avvento del nazismo bloccò ogni cosa. Ma quel testo servì t uttavia alla fine della Seconda guerra mondiale, a far da base alle quattro Convenzioni: protezione dei feriti e dei malati nelle zone di conflitto, assistenza ai prigionieri, garanzie alle popolazioni che vivono in territori occupati o nemici. Firma te da 188 Stati, le Convenzioni di Ginevra furono poi ampliate con dei protocolli l'8 giugno 1977, a loro volta ratificati da 155 Paesi, ad eccezione degli Usa, del Giappone e di alcuni Stati africani. Non riuscì però la Croce Rossa a sanare il vizio di fondo: il potere solo «persuasivo» delle Convenzioni del '49 e non coercitivo. La soluzione, tanto per la Croce Rossa quanto per l'Onu, potrebbe essere il Tribunale internazionale, una corte autorizzata a processare ed eventualmente condannare chiunque violi i principi del diritto umanitario. Il Tribunale esiste già. E' stato creato a Roma il 18 luglio dell'anno scorso. Ma le troppe astensioni e i voti contrari di Paesi come Stati Uniti, Cina e Israele, l'hanno reso monco sin dalla nascita . E, tra tempi burocratici e ratifiche, non partirà comunque prima dei prossimi cinque anni.
martedi , 10 agosto 1999
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Mosca condanna dello zar
Da Zyuganov a Lebed, coro di proteste. Ma per evitare il caos, la Duma disposta a votare il nuovo premier
I comunisti:
e l'agonia del
regime. I
moderati:
stanchi di un
leader malato
Maria Grazia Cutuli,
Non è stata una sorpresa, dicono unanimi. Solo l'ultimo «preannunciato segnale del declino» in cui è scivolata la Russia. La decisione di Boris Eltsin - licenziare in tronco Sergej Stepashin, il premier nominato meno di tre mesi fa - ha scatenato con danne corali e predizioni nefaste tra la maggioranza politica moscovita. A cominciare dai comunisti. «+ l'agonia del regime», ha commentato ieri il capo del Pc Gennadij Zyuganov. E ha puntato l'indice contro i destabilizzanti disegni del Cremlino. «I l presidente ha di nuovo trascinato il Paese in una crisi gravissima». Il licenziamento di Stepashin è solo l'ultimo di una lunga serie: 4 premier deposti in 18 mesi. «Al 100% un caso clinico - ha insistito Zyuganov -. Fin quando ci sarà quest'uomo, non sarà possibile una vita normale». Le critiche evocano antiche schizofrenie dello spirito russo. «Come spiegare la follia? - si chiede l'ex vice premier Boris Nemtsov, leader del Partito liberale, per un certo periodo visto come possibile succes sore dello stesso Eltsin. - La gente è stanca di un presidente malato che non è in grado di fare il suo lavoro». Ci vorrebbe un referendum, secondo Nemtsov, che una volta per tutte limiti i poteri del Capo dello Stato sull'esecutivo. Più radicale i l generale Aleksandr Lebed, l'«eroe» dell'Afghanistan oggi governatore di Krasnoyarsk in Siberia, nonché aspirante candidato alle elezioni presidenziali del giugno 2000: «Un presidente che in un anno e mezzo cambia quattro premier non può essere ben visto. Quando tutti i subordinati non vanno bene, chi non funziona è il capo». Lebed si è lanciato in un parallelo allarmante, rievocando gli anni tra l'82 e l'85 quando «vennero sepolti» i segretari generali del Partito comunista (Breznev, Andropov e Cernenko). Uno per anno. Se sono veri i corsi e ricorsi storici, quello fu il preludio alla dissoluzione dell'impero del '91: «+ lo stesso fenomeno e finiremo alla stessa maniera», crede Lebed. Più ottimista il protagonista del «crollo», l'ex presi dente Michail Gorbaciov: «Eltsin capisce che dovrà affidare i suoi poteri a un'altra persona. La migliore cosa che potrebbe fare è darglieli». In questo senso sono i comunisti, che rappresentano la maggioranza alla Duma, i primi a credere a un dise gno a lungo termine: è stata la «famiglia», l'entourage stretto del presidente (fra cui anche la figlia Tatiana) ad aver pilotato la mossa, cercando di proteggere i propri interessi per il futuro, quando Eltsin abbandonerà la poltrona. «Sin dal momen to in cui era stato nominato, era chiaro che Stepashin fosse una figura temporanea - ha detto il deputato Viktor Illyukhin -. E senza dubbio la "famiglia" non è soddisfatta del suo operato». La Russia ha paura. Del caos totale. La nuova guerra nell a regione caucasica del Daghestan, la semi-rottura con l'Occidente sulla questione balcanica, il disastro economico e sociale. Gli eventi delle ultime settimane certo non rassicurano gli animi. Gli stessi leader che danno del pazzo a Eltsin, sembrano pronti a confermare la nomina di Vladimir Putin al posto di Stepashin. «Il nuovo governo dovrà cominciare a lavorare al più presto possibile - ha detto Sergej Ivanienko, membro del partito d'opposizione Yabloko, d'ispirazione riformista -. Non vogli amo che si apra una lunga crisi politica». Dello stesso parere il presidente della Duma (che il 16 vota la fiducia al governo), il comunista Gennadij Selezniov: «Se dipendesse da me, confermerei Putin domani». Era successo a maggio, alla vigilia de lla nomina di Stepashin. E succederà forse anche adesso: meglio cedere a Eltsin che alimentare l'instabilità. Ma, dopo l'ennesimo colpo di mano, si chiede Zyuganov, chi crederà ancora a Mosca? Stepashin è stato negli Usa, ha condotto i negoziati di C olonia, ha preso parte al G-7, è andato nei Balcani a offrire garanzie e proprio ieri è tornato dal Daghestan dove sta per scoppiare una nuova guerra. Aveva conquistato la fiducia dell'Occidente. E ora? «Chi prenderà sul serio - insiste il leader com unista - il premier di uno Stato dove i ministri si cambiano come guanti?».
mercoledi, 08 settembre 1999
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IL RAPPRESENTANTE ONU A ROMA
De Mistura: non potevamo intervenire prima con le truppe
Erano le condizioni, altrimenti sarebbe saltato il referendum
Maria Grazia Cutuli,
Un massacro previsto e annunciato. A Timor Est la furia dei paramilitari si temeva da tempo, molto prima del sì all'indipendenza, votato il 30 agosto. Perchè l'Onu non è intervenuta con un contingente militare, prima del voto, a proteggere il decoll o della promessa democrazia? Quanto tempo ci metterà - chiedono opinione pubblica e stampa internazionale - a intervenire adesso? La popolazione di Timor Est ha già vissuto una strage di massa per mano degli indonesiani: oltre 200 mila persone, su 80 0 mila abitanti, massacrate dal '75 al '79. La comunità internazionale ha intenzione di assistere inerte a un nuovo genocidio? Staffan De Mistura, rappresentante delle Nazioni Unite in Italia, fa una pausa prima di rispondere ai tanti dubbi che acc ompagnano la politica seguita dall'Onu nell'ex colonia portoghese. «Per 24 anni quello che avveniva a Timor Est ci ha suscitato orrore e terrore - dice -. All'improvviso, qualcosa è cambiato: l'Indonesia si è avviata verso una trasformazione politica . La comunità internazionale e, in particolare, l'Onu hanno subito individuato uno spazio di manovra per fermare quella che sembrava una guerra dimenticata e trascurata. L'opportunità non andava persa. Ma aveva delle condizioni, legate alla transizio ne indonesiana e ai giochi di potere tra militari conservatori e il nuovo presidente Habibie». Quali condizioni? «Una soprattutto: che la gestione della sicurezza venisse garantita dalle forze indonesiane, visto che formalmente il territorio di T imor Est era ancora sotto controllo di Giakarta». Prendere o lasciare? «Non c'era altra alternativa che prendere per buone le rassicurazioni dell'Indonesia, pur temendo che potessero valere niente. Altrimenti non restava che lasciare le cose come stavano e andare incontro ad altri anni di orrore e paura. Se avessimo insistito a inviare dei Caschi Blu prima del referendum non saremmo nemmeno entrati. Non è stata ingenuità o cecità da parte dell'Onu. Si è trattato di una scelta obbligata». P otevate usare altri strumenti di pressione, politici ed economici... «+ stato fatto. Se abbiamo ottenuto delle elezioni, con una presenza Onu sul posto, è stato grazie a pressioni e discussioni diplomatiche "molto articolate". Il vero risultato è c he le votazioni sono avvenute e che il 78,5% della popolazione ha scelto l'indipendenza». Visto come stanno andando le cose, crede che il risultato elettorale possa ancora dare garanzie per il futuro di Timor Est? «Ormai è storia e non si può più tornare indietro. Ma evidentemente nell'isola c'era un "piano B", messo in atto, non dal governo indonesiano, ma da alcune forze che hanno scatenato la violenza con tre obiettivi: far scappare la stampa e in parte ci sono riusciti; scacciare l'Onu; spingere gli indipendentisti a prendere le armi in modo da far precipitare il Paese in una guerra civile permanente. Sono arrivati troppo tardi. Ormai l'indipendenza è passata e il Consiglio di sicurezza dell'Onu sarà inflessibile». In che senso? R iuscirà finalmente a mandare un contingente militare? «Vorrei rispondere alla richiesta avanzata ieri da Antonio Tabucchi al segretario generale dell'Onu sul Corriere della Sera. Kofi Annan non si metterà in viaggio su un aereo, come suggerisce lo scrittore. Sarebbe una missione emblematica, ma inutile. Si sono invece già messi su un aereo cinque rappresentanti del Consiglio di Sicurezza per andare a Giakarta e poi a Dili. + un gesto poco mediatico, ma molto forte». E le altre potenze? Stati Uniti e Cina continuano a far resistenza all'intervento... «Il Consiglio di Sicurezza presenterà due opzioni: o l'Indonesia fermerà realmente le bande o, se riconosce di non poterlo fare, dovrà accettare delle forze militari sotto egida Onu». Non c'è il rischio che si ricominci con i tira e molla degli ultimatum come è successo in Kosovo? «Se tutto questo fosse avvenuto prima del Kosovo, prima delle elezioni, o prima dei massacri di ieri e di oggi, forse sì. Adesso il gioco delle posticipaz ioni non funziona più». Perchè l'Onu non ha istituito un Tribunale internazionale per i massacri già subiti dagli abitanti di Timor Est? «I massacri avvennero nel '75: eravamo alla preistoria del diritto internazionale. Il Tribunale è uno strumen to nuovo. Ma il mondo di oggi è pronto ad accettare l'estensione di un mandato ad hoc per i crimini attuali. Chi pensa alla scorciatoia della violenza se ne ricordi».
martedi , 03 agosto 1999
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Kouchner: la pacificazione dei Balcani richiedera anni. Domani la nomina del britannico Robertson al vertice Nato
Kosovo, 11 mila nelle fosse comuni
In Bosnia preso ricercato serbo.
arrestati
dagli alleati
15 albanesi
per detenzione
di armi>
Maria Grazia Cutuli,
In Kosovo come in Bosnia, la terra torna a svelare i segreti della guerra. Le prove dei massacri. Il conto dei morti. Undicimila cadaveri sepolti nelle fosse comuni, dichiara Bernard Kouchner, massima autorità civile dell'Onu nella regione. Undicimil a corpi, registrati dal Tribunale internazionale che dovrà fare giustizia del sangue versato in 16 mesi di repressione e scontri tra l'esercito di Belgrado e i guerriglieri indipendentisti dell'Uck. Come in Bosnia. Mentre Kouchner dal Kosovo aggior nava le cifre della tragedia kosovara, nell'altra regione martire dei Balcani, il Tribunale dell'Onu annunciava ieri la cattura del 32esimo presunto criminale di guerra: Radomir Kovac, 38 anni, arrestato a Foca, nel sud-est della Bosnia, all'interno del settore controllato dalle truppe francesi. IL GENOCIDIO KOSOVARO - In Kosovo come in Bosnia, la pace ha tempi lenti. «Undicimila persone sono morte. Bisogna capire i sentimenti della gente, l'enormità della sofferenza», ha detto Kouchner. Invit ando a non avere fretta. «Ricordatevi del Libano, del Salvador, della stessa Francia nel '44. Il Kosovo non è peggio». Venticinque giorni di «protettorato» Onu e 36.500 militari della Kfor, ha aggiunto, non sono sufficienti a saldare i conti con il c onflitto e con i suoi strascichi di violenza. La regione, oltre a essere teatro di un'ondata di ritorsione contro i serbi, è in mano a nuovi clan che gestiscono il racket di macchine rubate e controllano la distribuzione di case e proprietà. Ogni g iorno - ha ammesso Kouchner - le truppe Nato arrestano una quindicina di albanesi per detenzione di armi. L'Uck espropria edifici e appartamenti e riscuote tasse. Ma il governatore Onu è ottimista: «Sono convinto che Hashim Thaci (il leader albanese ndr) creda nella democrazia e voglia collaborare con noi». Ieri a Pristina ha riaperto l'università. Primo segno di normalizzazione. Ma non per tutti. I serbi, terrorizzati dalle ritorsioni, continuano a scappare. Se ne sono già andati via 120 mila s u 150 mila. L'ARRESTO DI KOVAC - + stata la moglie a raccontare come Radomir Kovac sia finito in mano alla giustizia internazionale. «Alle tre del mattino qualcuno ha fatto saltare la porta di casa nostra. Erano soldati tedeschi. Ci hanno legati e bendati. Poi hanno fatto un'iniezione a Radomir per tenerlo calmo». Kovac era stato incriminato dal Tribunale internazionale dell'Aja nel '96 per crimini contro l'umanità. Riduzione in schiavitù e violenza carnale, dice l'atto d'accusa. Vice comandan te della polizia e capo dei paramilitari, Kovac faceva parte di una gang di otto persone che nel '92 gestiva a Foca un racket di giovani prigioniere. Ragazze e persino bambine, tenute in schiavitù per soddisfare i soldati. Ne aveva violentate due. E «prestava» le altre per 200-500 marchi. Foca - 20 mila abitanti prima della guerra, al 56% musulmani - si è trasformata negli ultimi anni in un covo di latitanti serbi. Se Kovac è il 32esimo criminale arrestato dal Tribunale altri 34 «boia» sono anco ra in libertà. IL NUOVO SEGRETARIO NATO - La scelta è ormai fatta: sarà George Robertson, 56 anni, attuale ministro della Difesa britannico, il nuovo segretario della Nato, al posto di Javier Solana. Ieri si sono pronunciati in suo favore gli ambas ciatori di 16 Paesi su 19. Ma la nomina, prevista per domani, sembra scontata. Robertson si è distinto per le posizioni durissime sia contro Saddam Hussein sia contro Milosevic.
lunedi , 02 agosto 1999
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Attentato alla cattedrale ortodossa a Pristina. La Nato in allarme per la spirale di violenze e ritorsioni nella regione
In Kosovo 30 morti alla settimana
E il generale Jackson accusa gli albanesi:
Maria Grazia Cutuli,
Un boato nella notte. Una nuova esplosione nel centro di Pristina ha riacceso ieri in Kosovo le tensioni e le paure che stanno rendendo sempre più insidioso il dopo-guerra balcanico. Non ci sono stati morti. Nemmeno feriti, nell'attacco alla cattedra le ortodossa di Sveti Spasa. Ma il significato simbolico dell'ennesimo attentato contro i luoghi di culto serbi preoccupa, e non poco, la comunità internazionale. L'accavallarsi di violenze e vendette nelle ultime settimane, dal massacro di 14 contad ini serbi a Gracko alla catena di ritorsioni pilotate dagli albanesi, rende la pace delicatissima e incerta. Tanto da far perdere la calma persino al generale Michael Jackson, comandante della Kfor, la forza multinazionale di pace. Il «duro» britan nico in un'intervista pubblicata ieri dal domenicale The Sunday Telegraph ha rotto le fila dichiarando: «Certi albanesi si stanno comportando peggio di quelli che si sono appena ritirati dal Kosovo». Vale a dire dei serbi. E quasi a confermare, è ria pparso sugli schermi della Bbc anche il portavoce della Nato Jamie Shea con un macabro bilancio: «Trenta persone almeno vengono uccise ogni settimana in Kosovo». ATTENTATO ALLA CATTEDRALE - Tony Blair aveva lasciato il capoluogo kosovaro da qualche ora, dopo aver esortato le due etnie alla pacificazione. A Pristina, gli albanesi, scesi in strada per applaudire il premier britannico, erano tornati a casa e tutto sembrava sotto controllo. All'una e venti, ora locale, un ordigno fa esplodere l'en trata principale della cattedrale ortodossa di Sveti Spasa. Il boato si propaga per tutta la città. Scattano gli allarmi delle auto. Fumo e polvere avvolgono le strade del centro. Gli elicotteri della Kfor si levano in volo. I reparti speciali circon dano la zona. Al mattino, un portavoce del contingente di pace rivela che l'eplosione è stata causata da una granata lanciata all'interno della cattedrale. La chiesa, iniziata tre anni fa, è ancora in costruzione. Gli albanesi di Pristina l'hanno s empre considerata un monumento di regime, voluto da Belgrado, tanto più che era stata creata nel centro del quartiere universitario e senza il loro consenso. «Un attentato simbolico», ha detto Bernard Kouchner, governatore del Kosovo per conto dell'O nu, ieri mattina davanti alle macerie. Nessuno forse aveva intenzione di ferire o di uccidere. «Ma questo tipo di vendette devono comunque finire». Altre chiese sono già state prese di mira. «+ una campagna organizzata dagli estremisti albanesi - ha aggiunto padre Sava, uno dei pope della cattedrale - per distruggere ogni traccia dell'esistenza dei serbi in Kosovo». Genocidio religioso, lo chiamano gli ortodossi contando le loro macerie: una trentina di chiese e monasteri danneggiati da quando l 'esercito serbo alla fine di giugno si è ritirato dalla regione. IL MONITO DI JACKSON - Il «principe delle tenebre», come l'hanno battezzato i suoi soldati, ha richiamato all'ordine gli albanesi: «Si sono comportati in modo molto simile a quelli ch e se ne sono appena andati». Parole pesanti quelle di Michael Jackson, rivolte, pur senza nominarlo, all'Esercito di liberazione del Kosovo. «Troppi albanesi - insiste il generale - non hanno ancora capito che noi qui stiamo tentando di fare qualcosa di nuovo». Gli accordi di pace parlano chiaro: consegna delle armi entro settembre e riconoscimento dell'Onu come organismo delegato all'amministrazione civile della regione. Ma l'Uck si sta muovendo in tutt'altra direzione: violenze, vendette, mi liziani armati dappertutto. E un governo «parallelo», nominato dal leader albanese Hashim Thaci che non sembra voler cedere il campo all'Onu. Colpa anche della Kfor, dice qualcuno. Il generale si è messo sulla difensiva: «Non serve puntare il dito co ntro di me. Le truppe fanno il possibile, ma non bastano a cambiare comportamenti e mentalità». TRENTA MORTI LA SETTIMANA - La Kfor ammette la sua impotenza. E anche Jamie Shea, il portavoce della Nato che dava il bollettino quotidiano durante la g uerra, è riapparso ieri per denunciare «il vuoto di legge e di ordine nella regione». Aggiungendo: «Abbiamo una media di 30 persone uccise alla settimana». Per quanto riguarda i serbi, i morti sono più di 100, tutti vittime di rappresaglie. Una pace colabrodo? Di certo, l'Onu aspetta ancora che arrivino i poliziotti previsti dagli accordi di pace e che si rimetta in funzione la giustizia civile. «Una situazione grave - riconosce Shea - ma non catastrofica. APACHE IN AZIONE Se il comportamento degli albanesi rappresenta un'incognita per la pace, qualche problema ieri è arrivato anche da parte serba. Gli elicotteri Apache sono intervenuti per smantellare un posto di blocco illegale a Zabejce. Ventuno serbi sono stati fatti prigionieri. Altr i sono stati invece costretti a fuggire: è succeso a Zitinje, una cittadina popolata da 450 serbi e 550 albanesi, dove venerdì sono stati ammazzati un uomo e una donna di etnia serba. Una carovana di camion e automobili si è allontanata dal paese, pe r sfuggire a vendette annunciate.
venerdi , 23 luglio 1999
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Un bambino su tre nasce in miseria
La denuncia
nel rapporto
annuale
Il debito estero
e il fattore
scatenante
della situazione
La Danimarca
il Paese
piu generoso
L'Aids ormai
uccide piu
della guerra
L'impegno
per la lotta
alla poliomielite
L'Unicef: 12 milioni di piccoli muoiono per malattie facilmente evitabili. Italia ultima negli aiuti
Maria Grazia Cutuli,
MILANO - Il record più basso è stato toccato quest'anno: non si è mai speso così poco per aiutare i Paesi in via di sviluppo. Ma se la Danimarca resta il Paese più generoso, con 211 dollari (meno di 400 mila lire) pro capite, l'Italia scivola in fon do alla classifica: 22 dollari (meno di 40 mila lire) è tutto quello doniamo a ogni abitante dei Paesi poveri. Eppure le cifre della miseria sono in crescita: un bambino su tre nel mondo nasce povero e 12 milioni di bambini l'anno muoiono a causa d i malattie facilmente affrontabili con la prevenzione. I dati contenuti nel rapporto annuale dell'Unicef, «Il progresso delle Nazioni», presentato ieri a Roma, sono solo alcuni dei segnali d'allarme lanciati dall'agenzia Onu per l'infanzia. Ma altr ettanto preoccupanti sono i numeri che riguardano il debito estero, il vero fattore scatenante delle miserie del pianeta: 1.000 miliardi di dollari, ripagati dai Paesi in via di sviluppo dall'83 al '90, sono stati sottratti alle spese sociali e sanit arie. Il risultato: mancanza di cibo e medicinali, e soprattutto il diffondersi di epidemie, come la poliomielite e l'Aids. Secondo l'Unicef, un bimbo su 5 nei Paesi poveri nasce con un peso inferiore ai 2 chili e mezzo; 130 milioni di bambini non va nno a scuola; 250 milioni sono costretti a lavorare. Vittime del debito. E anche della guerra: oltre 300 mila ragazzi sono coinvolti nei conflitti e in almeno 62 Paesi eserciti e ribelli arruolano giovani sotto i 18 anni. LE CAMPAGNE ANTI-POLIO. Centinaia di volontari. Megafoni gracchianti e tre milioni e mezzo di fialette. Così l'Unicef sta tentando di sconfiggere la poliomielite in Angola. La Giornata nazionale della vaccinazione, che si è tenuta sabato e domenica scorsi nella capitale Lua nda e in tutte le località dove la guerra non ha tagliato i collegamenti, aveva come obiettivo immunizzare dalla malattia l'80% dei bambini sotto i 5 anni. Ma per molti il vaccino è arrivato troppo tardi. A marzo la più grave epidemia di polio regist rata in Africa dal '95 ha lasciato handicappati oltre 1.000 bambini. Sim-ao Jo-ao è una delle vittime: 2 anni, le gambe rachitiche e inerti. La malattia l'ha colpito qualche mese fa, a Malange, una delle tante città assediate dai ribelli dell'Unita. Forse per aver bevuto acqua infetta. Forse per aver mangiato cibo contaminato. Sim-ao adesso vive con il padre in un campo di sfollati a 30 chilometri da Luanda, una distesa di pozzanghere e tende lacere. L'obiettivo dell'Unicef è quello di sconfig gere la polio entro il Duemila. Se in Angola sarà difficile farlo, a causa della guerra, nel resto del mondo vivono oggi 3 milioni di bambini salvati dalle paralisi proprio grazie alle vaccinazioni. La lotta alla polio costa 1,5 miliardi di dollari l 'anno. LA GUERRA ALL'AIDS. Un Paese di orfani. Una generazione di genitori devastata dall'Aids. Un altro dei casi limite denunciati dall'Unicef è lo Zambia. Il Paese, 8 milioni e mezzo di abitanti, registra un debito estero di oltre 7 miliardi di dollari. La miseria nella quale vive la popolazione, la diffusione della prostituzione e l'assenza di cure hanno potenziato la catena del contagio, seminando due, tre, quattro morti di Aids (o di malattie connesse come Tbc e meningite) in ogni famig lia. Più di un milione di bambini, molti sieropositivi, vivono con i nonni o abbandonati. Cifre destinate a crescere: entro il 2000 gli orfani di Aids nel mondo saranno 13 milioni. La malattia uccide più della guerra: su 14 milioni di vittime, 11 m ilioni sono africani e 3 milioni sono bambini. ALLEVIARE IL DEBITO. L'Unicef aggiunge un'altra proposta: rilanciare l'iniziativa 20/20. Costringere, cioè, i Paesi in via di sviluppo a stanziare per i servizi di base il 20% del loro bilancio e i d onatori il 20% degli aiuti allo sviluppo. Ospedali, reti idriche, scuole valgono milioni di vite.
venerdi , 25 giugno 1999
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In un libro le esperienze sui fronti dall'Afghanistan alla Jugoslavia dell'inviato speciale del Corriere
Ettore Mo racconta vent'anni di guerra
Maria Grazia Cutuli,
Racconta le «sporche guerre» che dall'Afghanistan al Libano, dalla Jugoslavia alla Cecenia hanno segnato l'ultimo quarto di secolo. Ma anche l'ansia del mestiere di reporter: mandare il «pezzo» a tutti i costi, in mezzo a una battaglia, sotto un bomb ardamento, da città divise tra milizie e check point. Ettore Mo, il grande inviato del Corriere della Sera, descrive anche questo: l'«impotenza» di quel settembre dell'82 a Beirut, dopo il massacro nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. Sette post i di blocco per arrivare all'albergo Commodore, l'unico luogo dal quale fosse possibile telefonare al giornale per far arrivare in tempo ai lettori la testimonianza della strage. Ettore Mo lo ricorda, a 67 anni, in un libro che si intitola «Sporche g uerre» (ed. Rizzoli, L. 29.000). Presentato ieri sera alla Casa della cultura di Milano, - dove l'autore era insieme a Gianni Riotta, condirettore della Stampa e a Teresa Sarti, presidente di Emergency - il volume raccoglie e rielabora vent'anni di cronache per il Corriere della Sera. «Difficile spiegare perché si sceglie il giornalismo di guerra - è tutto quello che Mo ha voluto dire di se stesso -. Ma è certo che imboccata quella strada, sarà difficile abbandonarla». Un mestiere diventato vo cazione. «Un giornalismo candido - l'ha definito Gianni Riotta. - Senza adesioni politiche o ideologiche. Praticato solo in nome di un'umanità che soffre». L'umanità frequentata da Mo, cresciuto alla scuola di Egisto Corradi (scarpinare, «consumare le suole delle scarpe»), è quella immolata agli odi etnici e religiosi, ai genocidi, alle guerre politiche. Sono le urla dei sepolti vivi nelle fosse comuni dell'Afghanistan filo-sovietico. O i corpi delle monache buddiste date in pasto ai cani, nel Tibet conquistato da Pechino. Ma anche l'inferno urbano delle fogne di Bucarest. Memorie che attraversano la Storia e la vita stessa dell'autore. Anche se Mo di se stesso preferisce raccontare (e forse lo svilupperà in un prossimo libro) quello che era prima di approdare al Corriere: sguattero a Parigi, barista nelle isole della Manica, infermiere a Londra, steward su una nave mercantile britannica. Cento Paesi, mille mestieri, prima di diventare giornalista a 30 anni. Noia e routine prima di a rrivare a essere inviato di guerra a 47. Una Lettera 22, la sua prima macchina da scrivere. Le parole di Robert Capa («Non ci sono foto belle o foto brutte. Solo foto prese da vicino e foto da lontano») la sua regola numero uno.
venerdi , 18 giugno 1999
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Emergenza Kosovo e tutte le crisi da non dimenticare
Maria Grazia Cutuli,
L'emergenza Kosovo ha concentrato l'attenzione della comunità internazionale sui Balcani, lasciando nell'ombra guerre, esodi e carestie che si moltiplicano nel resto del mondo. A fare i conti con depositi semivuoti, programmi senza fondi e missioni senza sostegno - in poche parole con la scarsa sensibilità dei Paesi donatori di fronte alle catastrofi esplose fuori Europa - è il World Food Programme, l'agenzia Onu che da Roma coordina la distribuzione degli aiuti umanitari. «I Balcani rappresent ano una grande sfida - dice Tun Myat, direttore della divisione risorse e relazioni esterne -. Ma non dimentichiamo che non è la sola e non è la più grave emergenza umanitaria nella quale dobbiamo intervenire». Bangladesh, Angola, Congo, sono i Paesi che compaiono in testa alla lista delle tragedie dimenticate, dove gli aiuti arrivano a fatica, se paragonati con quelli destinati al Kosovo. Tun Myat parte dalle cifre: «Nei Balcani, abbiamo chiesto 98 milioni di dollari per assistere 950 mila pers one, fino a giugno. I Paesi donatori hanno risposto ottimamente, coprendo il 77,33% delle nostre esigenze». E non è tutto. Il World Food Programme sta già preparando un nuovo appello che nei prossimi mesi dovrebbe permettere di portare aiuti a 2 mili oni e mezzo di civili in Kosovo, nel resto della Serbia, in Montenegro e Bosnia. «Al contrario - dice il dirigente - nessuna risposta o quasi per le altre emergenze. In Bangladesh, tanto per cominciare: nel Paese, devastato dalle alluvioni dell'inver no, ci sono 80 milioni di persone afflitte dalla carestia. Riusciamo ad assisterne solo 10 milioni». Dei 30 milioni di dollari richiesti, memmeno gli spiccioli. In Africa, anche peggio. Congo e Angola, entrambi in guerra con fronti ribelli, e per di più legati da un'alleanza militare, hanno creato una zona calda al centro del continente dove l'allarme umanitario si è moltiplicato in maniera esponenziale. In Angola il World Food Programme assiste un milione di sfollati: avrebbe bisogno dell'equiv alente di 200 miliardi di lire, ne ha ricevuti solo una settantina. Sempre dall'Angola schiere di profughi si sono spostati in Congo. E anche per loro ci sono poche risorse. «Abbiamo organizzato un piccolo intervento - dice Tun Myat -, ma è arrivato solo il 13% dei 6 milioni e 300 mila dollari richiesti». L'emergenza si allarga se si considera il Congo-Brazzaville, l'intera regione dei Grandi Laghi e il Sudan: «In queste aree, non riceviamo più del 40% del necessario». Tun Myat cita ancora il Ko sovo: «Una grande risposta umanitaria. Ma non possiamo fermarci».
mercoledi, 16 giugno 1999
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Cosi in dieci anni Slobo ha bruciato terre e ricchezza
Maria Grazia Cutuli,
E'bastato un decennio a Slobodan Milosevic per far a pezzi il sogno della Grande Serbia. Ancor meno per trasformare il risorto nazionalismo di un popolo in una pulsione autodistruttiva. L'uomo che nel 1989 pronunciava lo storico discorso di Kosovo P olje, riaggiornando i proclami patriottici degli ideologi dell'800, oggi non è altro che un sovrano traballante, signore di uno Stato sempre più piccolo, osteggiato dalla comunità internazionale ed economicamente disastrato. Bastano alcune cifre per disegnare la parabola. A cominciare dal 1989, in cui «Slobo» viene nominato presidente della Serbia. La sua Belgrado è capitale di una Federazione - la vecchia Jugoslavia di Tito - che misura 255 mila chilometri quadrati e conta 23 milioni di abitant i. Oggi, dopo otto anni di guerra combattuti in nome di tutti i nazionalismi balcanici, il territorio su cui sventola la bandiera di Belgrado si è ristretto a 102 mila chilometri quadrati, abitati da 10,2 milioni di abitanti. È rimasta solo una picco la Federazione (Serbia e Montenegro), prossima a subire un ulteriore snellimento, con il probabile distacco del suo contrastato baluardo: il Kosovo. Questo nazionalismo in chiave militare e suicida ha prodotto anche un collasso dei redditi. Oggi un a bitante di Belgrado riesce a tirar su non più di 1.000 dollari l'anno, contro 3.900 della Croazia e i 3.400 della Slovenia. Milosevic, nel frattempo diventato presidente della «mini» Federazione jugoslava, non poteva prestare un servizio peggiore a i serbi. Ogni azione del regime si trasforma in una sconfitta. L'accentramento fiscale diventa una delle cause che nel '91 spingono Slovenia e Croazia alla secessione. Se la Slovenia viene abbandonata al suo destino dopo 18 giorni di guerra, i rappor ti con la Croazia rimangono bellicosi, fino alla perdita della Krajina, dove le armate di Zagabria entrano nell'agosto del '95 costringendo all'esodo 200 mila serbi. Il fronte bosniaco è ancora più doloroso: la pace di Dayton nel '95 autorizza la spa rtizione etnica della regione e costringe i serbi di Bosnia a lasciare Sarajevo. Il «trasferimento di autorità», del 19 marzo '96, è solo un anticipo di quello che sta succedendo in Kosovo: i serbi in ritirata saccheggiano, distruggono le case, fanno terra bruciata. Ma Milosevic, il loro padre spirituale, li ha già abbandonati: preoccupato solo di salvare la carica di fronte al mondo. La Serbia rimane sola con il Montenegro. Ma anche lì, una mezza sconfitta: alle ultime presidenziali il «suo» ca ndidato Bulatovic viene sorpassato dal dissidente Djukanovic. E per finire la perdita di controllo del Kosovo, terra-madre della Grande Serbia. Il nazionalismo ha trasformato i sogni serbi in incubi di morte.
lunedi , 07 giugno 1999
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Allarme del Programma alimentare dell'Onu
Maria Grazia Cutuli
«Adesso siamo pronti. Siamo attrezzati. Abbiamo gente e mezzi sul posto per poter intervenire in fretta. Ma l'emergenza umanitaria non è finita. Se l'accordo funzionerà, entreremo in una nuova fase, forse ancora più delicata di quella attuale, in c ui ci aspetta l'incertezza più assoluta». La speranza di pace per i Balcani rimbalza a Roma al quartier generale del World Food Programme, il Programma alimentare dell'Onu, creando nuovi allarmi: «Il rimpatrio dei profughi, la distribuzione del cibo, la ricostruzione del Kosovo», elenca Paola Biocca, portavoce dell'organizzazione. In altre parole, l'emergenza del «dopo». «Come pensiamo d'affrontarla? Prima di tutto con una verifica. Finora abbiamo raccolto solo testimonianze: profughi arrivati dalle città del Kosovo che raccontavano di come il cibo scarsegiasse, come passasse per le mani dei militari e finisse alla popolazione serba, e molto raramente a quella albanese. O profughi di montagna che parlavano di raccolti abbandonati e della sopravvivenza quotidiana affidata al pollame. Se la pace arriva davvero, dovremo intanto controllare quali sono i bisogni reali della popolazione». Che cosa prevedete? «Innanzitutto un aumento delle bocche da sfamare. I nostri programmi, al momen to, sono calibrati su 950 mila persone, una cifra che comprende i rifugiati fuggiti dal Kosovo. A questi, dovremo aggiungere 500-600 mila persone rimaste, secondo le stime della Nato, dentro al Kosovo». E avrete cibo a sufficienza? «Non è questo che ci preoccupa. A settembre del '98 abbiamo lanciato un appello ai donatori, che dovrebbe coprire le necessità alimentari fino a giugno. Avevamo chiesto 97 milioni di dollari in aiuti. Ne abbiamo ottenuti quasi l'80% ed è già un risultato soddisfac ente. Nei porti principali della regione, come Bar in Montenegro, Durazzo in Albania, Salonicco o Ploce, abbiamo scorte per un mese. Probabilmente dovremo ampliare il programma di assistenza, stiamo preparando un appello proprio adesso. Ma i problemi , come dicevo, sono altri». Distribuire gli aiuti, per esempio? «Appunto. Dobbiamo intervenire in fretta, prima dell'inverno, e in teoria abbiamo i mezzi per farlo, personale nella regione, camion, magazzini. Ma chi ci garantisce la sicurezza? Bi sogna riaprire le strade e molte sono minate. E poi, non siamo in grado di dire se i profughi scappati dal Kosovo si fideranno a tornare, dove andranno a dormire, visto che la maggior parte delle case sono state distrutte, se accetteranno di conviver e con i serbi. E c'è da considerare anche che sono stati bruciati i loro documenti d'identità, gli uffici catastali. Servono garanzie anche sul futuro politico della regione». Vuol dire che rischiate di non riuscire a smantellare i campi dell'Alban ia e della Macedonia prima dell'inverno? «Anche questa è un'ipotesi da tenere in considerazione». Al contrario di quanto è successo all'inizio dei raid, adesso non dovreste essere colti di sorpresa... «No, l'area ormai è un vivaio umanitario. A nche in Kosovo, hanno cominciato a operare la Croce rossa e il Focus, una missione russa, greca e svizzera. Il World Food Programme vorrebbe riaprire l'ufficio di Pristina. Il lavoro sarà tanto: dovremo anche tener conto dei 200 mila profughi serbi, dei 25 mila musulmani che dal Sangiaccato si sono spostati a Sarajevo. Ci saranno probabilmente altre migrazioni di popolazioni. Saranno operazioni lente e difficili». In concreto, da dove comincerete? «Una volta aperte le vie di comunicazione, c ominceremo a distribuire razioni in Kosovo, cibi preconfezionati. Poi, rimessi in funzione le cucine e i forni, porteremo farina, cereali, legumi, carne in scatola. Quando arriveremo a sfornare pane caldo, allora sarà già una mezza normalità».
domenica , 30 maggio 1999
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New Delhi: ripuliremo il Kashmir dagli infiltrati islamici. Islamabad cerca la mediazione
India e Pakistan a un passo dalla guerra
Prime operazioni delle truppe di terra, mentre i Mig e gli elicotteri continuano a bombardare . Settecento chilometri contesi
Maria Grazia Cutuli,
L'India continua a bombardare e manda le truppe, coperte da Mig ed elicotteri, sulle montagne del Kashmir. Non respinge le prime avance diplomatiche del Pakistan, ma ricorda che la campagna militare «per ripulire la regione dalle incursioni dei guerr iglieri islamici» non si fermerà. La guerra tra i due Paesi è «vicina», dichiara un alto ufficiale dell'esercito indiano. La guerra, in pratica, c'è già. Di nuovo in Kashmir, regione di antiche discordie religiose e politiche. Di nuovo tra le due p otenze del subcontinente asiatico: India e Pakistan, diventate nel frattempo polveriere nucleari. Le schermaglie, cominciate con tiri d'artiglieria all'inizio di maggio, si è trasformata in conflitto aperto. È successo quattro giorni fa, quando New Delhi per la prima volta dopo vent'anni ha mandato i suoi caccia a bombardare lungo la «linea di controllo», 720 chilometri che dividono lo Jammu Kashmir, vale a dire il Kashmir indiano, da quello pachistano. Ieri, un'ulteriore avanzata: l'esercito indiano, che ha dislocato nell'area 17 mila uomini, ha aperto quattro fronti nella regione di Kargil, proprio a ridosso dalla «linea», a 100 chilometri dalla capitale Shrinagar. Dall'altra parte, centinaia di «infiltrati», guerriglieri musulmani, son o sconfinati in territorio indiano - secondo le accuse di New Delhi - con l'appoggio dell'esercito di Islamabad. L'intervento ha provocato stragi da entrambe le parti: tra i ribelli 300 morti e 700 feriti, tra i militari di New Delhi 30 vittime e 200 feriti. Più due Mig indiani abbattuti dai pachistani e un elicottero tirato giù, a quanto dichiarato, dai guerriglieri. Vicino alle postazioni militari più alte del mondo, tra i 5 e i 6 mila metri, migliaia di civili in fuga, scavi di trincee e alle rta delle truppe dall'una e dell'altra parte. Il Pakistan tenta la mediazione. Dopo una telefonata di venerdì con la quale il premier Nawaz Sharif aveva cercato di riesumare il dialogo con il primo ministro indiano Atal Behari Vajpayee, Islamabad h a proposto di mandare la prossima settimana il proprio ministro degli Esteri Sartaj Aziz a New Delhi. Vajpayee ha accettato l'incontro, ma ha detto comunque di non avere intenzione di sospendere la campagna militare. «Non può essere solo una parte a fermarsi - ha dichiarato - siete voi ad aver inviato nel nostro territorio infiltrati e militari». E il ministro della Difesa indiano, George Fernandez, ha rincarato la dose: «L'escalation del conflitto porterà alla guerra». Guerra vicina. O comunq ue annunciata. India e Pakistan si sono già combattuti due volte per il Kashmir, 12 milioni di abitanti a maggioranzza musulmana, con una forte presenza indù e anche buddhista: la prima nel '47, subito dopo l'indipendenza dalla Gran Bretagna, e poi n el '65. Ma la contesa, nonostante la divisione della regione, è rimasta. Né il contingente militare Onu, dislocato lungo la «linea di controllo» a controllare il cessate il fuoco, ha attutito la tensione. Con la fine degli anni Ottanta, la situazione si è complicata. Se prima erano India e Pakistan a voler mettere le mani sull'intera regione, sono apparsi anche nuovi gruppi islamici a battersi per l'indipendenza. Il 1990 è l'anno di una sanguinosa rivolta secessionista, appoggiata dal Pakistan e repressa dall'India. Ma è soprattutto l'infinita guerra afghana ad alimentare la guerriglia: mujaheddin reduci dalla «guerra santa» contro i russi, estremisti sauditi e sudanesi, e soprattutto Talebani, gli «studenti» ultra-integralisti che controll ano l'80% dell'Afghanistan. Finanziati da Islamabad e ampiamente incoraggiati dagli Stati Uniti, i Talebani avrebbero «prestato» uomini anche alla causa del Kashmir. Altre formazioni, originarie delle regione, si limitano a combattere per motivi patr iottici. Come l'Hizbul-Mujahiddin, il Jammu and Kashmir Liberation Front e Al Badar Mujahhidin, questi ultimi addestrati in Afghanistan. Le milizie possiedono tra l'altro lanciamissili americani Stinger, lo stesso tipo di arma fornita dagli Stati Uni ti agli afghani durante la guerra contro i sovietici. Ultimamente, secondo le accuse di New Delhi, starebbero preparando attacchi alla strada che da Shrinigar porta a Leh, in Ladak, per spostare in avanti la «linea di controllo». La jihad himalayan a di per sé potrebbe essere una delle tante guerre dimenticate. Quello che fa paura è il potenziale nucleare di India e Pakistan. Dopo la tensione per i test atomici del '98, a febraio di quest'anno Nawaz Sharif e Vajpayee avevano firmato a Lahore, i n Pakistan, uno storico accordo di pace. Ma oggi i governi dei due premier vacillano entrambi. Quello indiano, anzi, è in piena crisi, di fatto dimissionario. La guerra potrebbe essere il pretesto per distogliere l'attenzione sul piano interno? Quest e le accuse che si scambiano India e Pakistan. A monte, resta però lo scontro per il predominio sulle vie dei traffici, dei commerci e sulle risorse dell'Asia meridionale.
giovedi , 06 maggio 1999
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La lunga sfida del condottiero senza armi
Maria Grazia Cutuli
L'unica civetteria che Ibrahim Rugova si era concessa nel suo ufficio di Pristina era la foto che lo riprendeva con Giovanni Paolo II e il diploma di laurea honoris causa, ottenuto alla Sorbona nel '96. Erano i soli cimeli di un uomo che non ha mai smesso di presentarsi al mondo come il «Gandhi dei Balcani», intellettuale raffinato e patriota non violento, anche quando i giovani albanesi del Kosovo cominciavano a scendere in strada per impugnare i Kalashnikov. Un ruolo che Rugova, 55 anni, lead er moderato del Kosovo, ha mantenuto fino in fondo e che ancora oggi fa di lui l'unico interlocutore «presentabile» dei Balcani. Nel bene e nel male. Dal 24 marzo, giorno del primo attacco Nato, qualcosa è infatti cambiato. Rugova è scomparso, si era detto in un primo momento. Ferito. Forse ucciso. E, invece, lo si è visto resuscitare dall'altra parte della barricata, niente meno che a fianco di Slobodan Milosevic, mentre chiedeva alla Nato di fermare i bombardamenti. Ostaggio o burattino? Fino al 24 marzo, della sua buonafede è stato difficile dubitare. Nato a Trnec, nel Kosovo orientale, Ibrahim Rugova è cresciuto portandosi dietro il ricordo del padre e del nonno uccisi dai partigiani di Tito. Laureato in letteratura, nell'88 diventa lea der dell'Unione degli scrittori kosovari. Ma è l'anno dopo che Rugova si trasforma in un condottiero, quando finisce in carcere per aver promosso un manifesto firmato da 214 intellettuali contro la revoca dell'autonomia del Kosovo decisa da Milosevic . Il dramma è ormai all'orizzonte, ma il leader kosovaro preferisce promuovere la «resistenza passiva», creando istituzioni parallele - scuole, università, ospedali - da contrapporre a quelle serbe. Nel 1992, a capo della Ldk, la Lega democratica del Kosovo, viene proclamato dai suoi «presidente» della provincia. Lo riconfermano a marzo dell'anno scorso, con il 90% dei voti, in occasione delle elezioni che i kosovari, sfidando Belgrado, hanno indetto per conto proprio. Ma per la sua linea modera ta è troppo tardi: la provincia è ormai in mano ai guerriglieri dell'Uck. Gli americani lo spediscono da Milosevic. Il pallido leader kosovaro, con l'immancabile fazzoletto di seta attorno al collo, sembra intimorito. È il presidente jugoslavo a cond urre le danze con la proposta di un tavolo negoziale serbo-albanese che non decollerà mai. Da quel momento, il carisma di Rugova comincia a offuscarsi. Riprende le vesti del mediatore a febbraio per gli incontri di Rambouillet, e poi a Parigi. Ma Was hington l'ha già scaricato dando credito ai leader dell'Uck. È Milosevic a recuperarlo. Facendogli interpretare il ruolo di sempre: colomba tra i falchi della guerra. Un ruolo che oggi gioca in proprio.
domenica , 07 marzo 1999
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La decisione occidentale sulla divisione di Brcko mette a rischio gli equilibri di Dayton
Bosnia, si sgretola la pace
I serbi in rivolta:
Maria Grazia Cutuli,
Una nuova crisi tra serbi e occidentali rischia di far saltare la pace in Bosnia. E trascinare con sé lo «spirito di Dayton»: cioè quei delicati equilibri etnici fra serbi, croati e musulmani, creati dagli accordi del 1995. Lo scontro al momento è po litico. Ma, in una regione così vicina al conflitto del Kosovo, è una crisi che spezza un'illusione. Quella della stabilità. All'origine del conflitto ci sono le due decisioni prese venerdì dalla diplomazia occidentale: il «licenziamento» del presi dente serbo-bosniaco Nikola Poplasen, accusato di boicottare la pace; e il nuovo statuto «neutrale» di Brcko, la cittadina contesa fra serbi e musulmani, sulla quale gli accordi di Dayton nel '95 non si erano voluti pronunciare. Per i serbi è una dop pia sconfitta. Una sorta di «elettroshock», dicono gli osservatori. E la risposta non si è fatta aspettare. Tre attentati, tanto per cominciare, lanciati nella notte tra venerdì e sabato, contro le sedi della polizia dell'Onu e delle forze Nato a Gra disca e Prijedor, nel nord della Republika Srpska (l'entità serba della Bosnia Erzegovina). Non ci sono state vittime, solo un ragazzo di 15 anni ferito di striscio. E come unici danni quelli a due automobili parcheggiate. Poco prima, in serata, qu attro militari statunitensi della forza di pace della Nato erano stati aggrediti in un ristorante di Ugljevik da un gruppo di serbi. Hanno sparato e uno di questi, identificato poi come il vicepresidente della sezione locale del Partito radicale serb o, è rimasto ucciso. Ieri la protesta ha raggiunto le piazze, nelle maggiori città della Repubblica serba. Ma quel che più mette a rischio gli equilibri di Dayton, è la «barricata» politica eretta dai serbo-bosniaci, accompagnata dall'avvicinamento tra radicali e moderati e dall'entrata in campo della Serbia di Belgrado. La rimozione di Poplasen, ordinata dall'Alto commissario civile dell'Onu in Bosnia, lo spagnolo Carlos Westendorp, ha scatenato la rabbia del partito radicale (ultranazionalis ta), associato al governo a Belgrado. Il presidente Slobodan Milosevic, che si trova ai ferri corti con la Nato sul fronte del Kosovo, ha chiesto la sostituzione immediata di Westendorp per «aver abusato del suo mandato» e per essersi comportato come il «governatore di una colonia». Mentre il capo degli ultra-nazionalisti, Vojislav Seselj, ha invitato tutti i «patrioti serbi» al blocco delle istituzioni federali della Bosnia. Mosca, alleata dei serbi, è intervenuta come Paese membro del Gruppo d i contatto sulla ex Jugoslavia, chiedendo una riunione d'urgenza sulla validità del provvedimento adottato da Westendorp. Sul fronte interno, anche peggio: il vice di Poplasen, Mirko Sarovic, designato dall'Alto commmissario come nuovo presidente dei serbi bosniaci, ha detto chiaro e tondo di non aver nessuna intenzione di assumere i poteri. Fin qui la questione delle dimissioni. C'è poi il problema di Brcko. La cittadina si trova lungo il corridoio che unisce la parte orientale e quella occid entale della Republika Srpska ed è quindi di vitale importanza per i serbi di Bosnia. La comunità occidentale la affida, sulla carta, a un'amministrazione tripartita tra serbi, croati e musulmani, lasciandola di fatto sotto la supervisione internazio nale. La Repubblica serbo-bosniaca si trova così tagliata in due parti. Il primo a dare le dimissioni in segno di protesta è stato il premier serbo-bosniaco, il moderato Milorad Dodik, su cui puntavano degli occidentali. E così lo spagnolo Westendorp , che aveva licenziato Poplasen proprio per rafforzare il governo di Dodik, ha perso anche lui. Altrettanto grave la seconda defezione: Zivko Radisic, membro serbo della tripartita presidenza bosniaca, su posizioni moderate, si è autosospeso dall'i ncarico, in attesa delle decisioni che saranno prese domani in seno alla Repubblica serba. Con lui hanno minacciato di uscire dal Parlamento centrale della Bosnia Erzegovina anche 14 deputati. Gli equilibri politici prescritti da Dayton rimarrebber o così zoppi. Gli accordi del '95, pur avendo diviso la Bosnia in due entità - la Federazione croato-musulmana e la Republika Srpska - prescrivono infatti una presidenza collegiale per la regione, con rappresentanti per ogni etnia. Il ritiro dei serb i ridurrebbe Dayton a un castello di sabbia.
martedi , 02 marzo 1999
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Mine bandite in 134 Stati
Campane a festa per il via al trattato. Assenti Usa, Russia e Cina. Appello del Papa: Paesi che non hanno
aderito firmino ora>
Maria Grazia Cutuli,
Campane a festa nelle chiese di tutta Italia. In Gran Bretagna, Francia, Germania e nel resto d'Europa. Campane a festa in Canada e pure in Sudafrica. Fino in Colombia. Solo negli Stati Uniti le campane sono rimaste in silenzio. L'avvenimento celebra to ieri in gran parte del mondo, l'entrata in vigore del Trattato di Ottawa con la definitiva messa al bando delle mine antipersona, ha lasciato indifferente gli Usa. E per un motivo semplice: quando in Canada il 3 dicembre 1997, 134 Paesi firmavano la convenzione, che sarebbe poi stata ratificata da 65 Stati, Washington mancava all'appello. Come Russia, Cina, Israele, India, Egitto. Una defezione che lascia il senso di una vittoria parziale. E parecchi dubbi: è davvero quella di ieri una tapp a importante nella storia del secolo? O solo un data simbolica? Riuscirà, in altre parole, un documento come il trattato di Ottawa a mettere fuori scena le mine? Apparse durante la prima guerra mondiale, con il moltiplicarsi dei conflitti regionali le mine antipersona hanno lasciato un'eredità di sangue che va oltre la guerra: 9 mila 600 morti l'anno, 14 mila 500 mutilati. Trappole invisibili: ce ne sono a forma di lattina, di farfalla, di carota, di scatoletta. Di fabbricazione russa o jugosl ava, canadese o italiana, a seconda del tipo gli ordigni sono predisposti per scoppiare sotto la pressione del piede, rimbalzare all'altezza dello stomaco, o frammentarsi in migliaia di schegge metalliche. Economiche ed efficienti - una mina costa at torno ai 3 dollari, meno di 5 mila lire - colpiscono in 70 Paesi del mondo: tra le macerie di Kabul, e persino sui tetti delle case, nei giardinetti condominiali di Sarajevo, sulle montagne del Kurdistan o nelle giungle dell'Angola, nelle risaie camb ogiane o nelle boscaglie del Mozambico. Un tappeto di morte, che conta secondo l'Onu dai 70 ai 110 milioni di ordigni: 44 milioni in Africa, 32 milioni in Asia, 26 milioni in Medioriente, 10 milioni in Europa. Un lascito che rischia di trasformare i programmi di bonifica, lanciati dalle Nazione Unite, in un'impresa senza fine e senza fondo: 2 milioni e mezzo di dollari stanziati quest'anno per sminare la sola Bosnia. Cercare e disinnescare una mina costa decine di volte più che produrla. Gli s forzi della Campagna internazionale per il bando delle mine, un cartello di gruppi, premiato nel '97 con il Nobel per la Pace, sembrerebbero adesso finalmente premiati. Con il Trattato di Ottawa, gli Stati firmatari si impegnano d'ora in poi a non im piegare, produrre, immagazzinare, vendere, o comprare mine. E dovranno occuparsi nei prossimi quattro anni di distruggere i propri stock, per arrivare entro il 2009 alla definitiva sparizione degli ordigni. «Si tratta di una convenzione - ha detto ieri Papa Giovanni Paolo II - che rappresenta una vittoria per la cultura della vita contro la cultura della morte». Ma non basta: «Prego Dio - ha voluto aggiungere il Pontefice - di dare a chiunque il coraggio di promuovere la pace, affinché anche q uei Paesi che non hanno ancora firmato questo strumento fondamentale del diritto umanitario lo facciano senza ritardo». Un appello che suona come un rimprovero. Soprattutto verso gli Stati Uniti. Ma Washington, con i suoi 10 milioni di mine accatas tate nei magazzini del Pentagono, per il momento resta defilata. E agita lo spauracchio della sicurezza: chi proteggerebbe, per esempio, i soldati americani di stanza tra le due Coree se non ci fossero le mine lungo il confine? Anche Pol Pot, respons abile in Cambogia di uno dei peggiori genocidi del secolo, diceva qualcosa del genere: «Non c'è soldato migliore di una mina. Non protesta, non chiede rancio. E vigila giorno e notte».
mercoledi, 17 febbraio 1999
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La rabbia curda esplode in tutta Europa
Da Vienna a Mosca, da Londra e Erevan, assalto alle ambasciate, diplomatici in ostaggio, scontri con la polizia. Da Helsinki, il portavoce del Pkk avverte: . Dall'Austria, minacce di morte al
presidente greco Stephanopoulos
Maria Grazia Cutuli
La rivolta scoppia all'alba. È un tam tam che corre sulle linee telefoniche di tutta Europa, un passaparola rapido, sincronizzato, infallibile, che nel giro di poche ore si propaga di città in città, di Paese in Paese, tra le comunità curde dell'int ero continente. Vienna, Milano, Berlino, Bonn, L'Aja, Londra, Parigi, Stoccolma, Copenaghen. Fino a Mosca. Fino a Erevan. Assalto alle ambasciate, cattura di ostaggi, scontri con la polizia. Taniche di benzina, roghi e tentati suicidi sulle piazze d' Occidente. Ocalan, padre e simbolo della lotta curda, è in mano ai turchi. Il Popolo senza Stato e senza Amici avrà la conferma alle dieci del mattino, quando un comunicato del primo ministro turco in persona, Bulent Ecevit, annuncia l'arresto. Ma la notte, con il suo via vai di voci, indiscrezioni e sospetti sulle trame segrete che hanno portato «Apo», lo «zio» dei curdi, dalla Grecia al Kenia e da lì alla nemica Ankara, è sufficiente a far temere il peggio. E lunga abbastanza per preparare la rivolta. Contro la Grecia, Paese amico che forse ha tradito. Contro il Kenia che l'ha consegnato. Uomini, donne, bambini, martiri e combattenti di nuovo per strada. Come fecero a ottobre, quando marciarono su Roma in massa per chiedere l'asilo politi co a Ocalan. Ma stavolta quella dei curdi rischia di non essere una protesta pacifica. «Se Ocalan sarà condannato a morte - avverte Cemal Deniz, portavoce del movimento a Helsinki - sarà la fine del mondo». Austria. È Vienna la capitale simbolo del la rivolta. Alle 5 del mattino, 15 curdi occupano l'ambasciata greca. Prendono in ostaggio l'ambasciatore Ioannis Yennimatas, la moglie e tre collaboratori. Contemporaneamente, militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan occupano la sede della legazione keniota. In città si teme di peggio. È in visita il presidente greco Costis Stephanopoulos. L'uomo del «voltafaccia». Corre voce che comandi del Pkk abbiano minacciato di rapirlo e ucciderlo. Le misure di sicurezza vengono rafforzate, ma i l presidente decide comunque di tornare ad Atene. Dall'ambasciata greca, il Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan (l'Ernk, braccio politico del Pkk) detta le sue condizioni all'Europa. Chiede che la Turchia garantisca piena sicurezza a Ocalan , che un tribunale internazionale vegli sulle condizioni di detenzione del leader curdo, che si crei una delegazione di rappresentanti europei incaricata di dialogare con Ankara. «Se non avremo una risposta, resteremo tutta la notte e domani e domani ancora» dichiara un portavoce curdo. La polizia si limita a circondare l'edificio, ma l'ambasciatore dall'interno chiede che non si intervenga con la forza. «Temo - dice per telefono il diplomatico - che questa situazione possa andare avanti per gio rni». Germania. Tornano i roghi, come nel Vietnam degli anni Sessanta. I curdi come i monaci buddisti, a Berlino e a Hechingen, nel Baden-Württemberg. Nella prima città è una donna a cospargersi di benzina e darsi fuoco, sfigurandosi. Gli altri 150 dimostranti, che sono con lei davanti al consolato greco, minacciano di fare lo stesso. A Hechingen, si immola una ragazza di 17 anni. Con una boccetta di profumo e un fiammifero. La soccorrono i vicini di casa, trasportandola all'ospedale di Tubing a. La comunità curda tedesca, 400 mila immigrati, esplode in tutte le maggiori città. Assalto all'ambasciata greca di Bonn. Urla e pianti di donne che invocano il nome di «Apo». Cortei, macchine rovesciate, vetrine rotte ad Amburgo e Francoforte. A Dusseldorf, i dimostranti occupano il consolato e minacciano di scaraventare un impiegato dalla finestra. A Lipsia interviene la polizia per liberare tre ostaggi. A Colonia anche: 32 curdi vengono arrestati. Olanda. Ostaggi pure all'Aja. Nella cit tà, considerata la capitale della giustizia internazionale, decine di curdi invadono nella notte la residenza dell'ambasciatore greco sequestrando la moglie, il figlio del diplomatico e una domestica filippina. Bandiere e striscioni con la foto di «A po» vengono appesi alla balconata. Una cinquantina di altri manifestanti vengano arrestati. Gran Bretagna. A Londra si ripete il martirio. Una donna curda si dà fuoco nel pomeriggio davanti all'ambasciata greca, mentre altri manifestanti appiccano le fiamme al giardino. A frenare l'assalto, un contigente antisommossa. Tafferugli e minacce: «Siamo più di cento - gridano i rivoltosi dall'interno - abbiamo benzina e siamo pronti a darci fuoco». Un'altra torcia umana in Danimarca, a Copenaghen: è una donna, ricoverata con gravi ustioni. Svizzera. Attacco al cuore dell'Europa «umanitaria». I curdi presidiano il Palazzo dell'Onu di Ginevra: un gruppetto riesce a saltare su un camion ed entrare negli uffici. La polizia cantonale sarà costretta a bloccare l'accesso a funzionari e giornalisti. La rabbia del popolo di «Apo» esplode anche a Zurigo e Berna. Francia. A Parigi sei dipendenti dell'ambasciata keniota finiscono in ostaggio dei curdi. Anche qui il ministero dell'Interno dispiega c ontingenti antisommossa. A Marsiglia due curdi rimangono feriti negli scontri con gli agenti che tentano di impedire l'occupazione del consolato greco. Russia e Armenia. In Armenia 30 attivisti si cospargono di benzina nella sede dell'Onu. Due impi egati vengono presi in ostaggio. A Mosca decine di curdi occupano l'ambasciata greca. «Una reazione spontanea - dice un portavoce - non vogliamo mettere a repentaglio vite umane. Solo denunciare la persecuzione del nostro popolo». Parole rassicuranti . Peccato si rivolgano ad un ex Paese fratello. Il primo ad aver scaricato Ocalan.
domenica , 31 gennaio 1999
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GIULIETTA E ROMEO IN PAKISTAN /
La battaglia di Humaira e Mahmud, sposi per amore contro la tradizione
Arrestati all'aeroporto di Karachi. Gli attivisti dei diritti dell'uomo: temiamo per la loro vita
Maria Grazia Cutuli,
Un sorriso triste marca il viso di Humaira il giorno delle nozze. E anche le pesanti collane da cerimonia non bastano a dare alla ragazza, seduta accanto allo sposo, un'aria di festa. In quell'unica foto, scattata prima di scivolare in clandestinità. Era un anno fa. Humaira Khokak e Mahmud Butt stavano violando le sacre leggi della tradizione pakistana, sposandosi in segreto contro la volontà dei genitori di lei. Ieri Giulietta e Romeo sono stati arrestati all'aeroporto di Karachi mentre stavano per imbarcarsi sul volo che avrebbe dovuto portarli a Dubai, verso la libertà. Nessuno sa dove siano finiti. La polizia aeroportuale ha riferito di un ultimo disperato tentativo di fuga, spiegando che a bloccare la coppia erano stati uomini armati con le divise del Punjab. È lo Stato da cui proviene la donna. Ed è un dettaglio che fa pensare al peggio. Forse emissari dei parenti. Forse sicari. Le associazioni pakistane per la difesa dei diritti dell'uomo temono per la vita di lei. E minaccian o di aprire un caso politico: «Se qualcosa succede alla coppia, sarà una pessima prova per il governo del premier Nawaz Sharif», ha dichiarato Tahira Shahid Khan, responsabile del Centro per le risorse femminili «Shirkat Gah». Il Pakistan è un Paes e rigidamente islamico, sempre più condizionato dalla sharia. Una sorta di anticamera dell'Afghanistan dei Talebani, dove le donne - a dispetto di un esempio come quello dell'ex premier Benazir Bhutto - vivono preferibilmente velate e nascoste. Eppur e le ultime leggi non vietano il «matrimonio d'amore». Il salto c'è stato a marzo del '97, quando, davanti a un caso analogo - quello di Salima Wahid, che si era sposata contro il volere dei genitori -, la Corte suprema ha permesso alle donne di sott rarsi all'obbligo del matrimonio «forzato» o comunque combinato. Ma di fronte alle tradizioni patriarcali non vale neanche la parola dei giudici. Il padre di Humaira, un deputato dell'Assemblea provinciale per la Lega musulmana - lo stesso partito de l premier Nawaz Sharif - ha usato tutti i mezzi per bloccare le nozze. Botte contro la figlia e di peggio. L'ha accusata di adulterio. Una colpa che è una promessa di sangue: pena la lapidazione. E ha mandato un cugino a reclamare i suoi presunti dir itti di sposo e sporgere denuncia. Inutilmente la coppia ha cercato di spiegare che si trattava di un matrimonio promesso. Humaira e Mahmud sono scappati a Karachi. La ragazza si è nascosta in una casa d'assistenza per bambini handicappati. Ma il f ratello l'ha inseguita fin lì. «L'ha trascinata per le braccia - ha raccontato la direttrice del centro -. Lei invocava aiuto, perché quello minacciava di farla a pezzi». Fu salvata dagli attivisti dei diritti dell'uomo che spinsero la polizia a inte rvenire. Humaira finì in un ostello, sotto protezione del governo, sorvegliata giorno e notte da guardie armate. Nemmeno a Mahmud era permesso visitarla. Ma la paura non passava: «Tutti sanno che i parenti la uccideranno» continuava a ripetere il mar ito. Unica possibilità, scappare dal Paese. «La legge purtroppo continua a non favorire le donne», dice Uzma Noorani, del Woman's Action Forum. In Pakistan i casi come questo sono infatti migliaia. Tragedie nascoste nel cono d'ombra dell'Islam. E a nche più in là. Le organizzazioni a difesa delle donne l'anno scorso hanno denunciato a Londra 200 matrimoni forzati tra gli immigrati pakistani. Ma il Foreign Office non si è mosso. Mettere piede oltre i bastioni delle tradizioni coraniche è un azza rdo. Humaira e Mahmud ci hanno provato. E forse invano.
«Nuovi esodi. Altre migrazioni. Ancora gente che sarà costretta a fuggire dai propri villaggi. Questo è il nostro terrore. Un massacro come quello di ieri causerà altri profughi e altri sfollati, vanificando qualsiasi intervento internazionale, quals iasi speranza di ricostruzione». Laura Boldrini, portavoce a Roma dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, ha vissuto in prima persona la tragedia umanitaria che si nasconde nelle pieghe del conflitto kosovaro. Era in giro per il Paese fino a qualche settimana fa, nei giorni in cui montare le tende blu dell'Onu là dove un tempo sorgevano villaggi, adesso distrutti, e case date alle fiamme, sembrava soprattutto una corsa contro il gelo e i rigori dell'inverno. «Il conflitto - dice - ha c ostretto 340 mila persone alla fuga: 180 mila sono sfollate all'interno del Paese, il resto sono scappate in Albania, in Macedonia, in Montenegro o in Europa. In Kosovo abbiamo visto gente accamparsi a casa di amici e parenti, ma tanta altra costrett a a dividere la stalla con le proprie bestie pur di mettersi al riparo. Speravamo che la tregua firmata il 27 ottobre segnasse un passo avanti, invece un nuovo massacro». Crede che la tregua sia definitivamente saltata? «No, la tregua resta in vi gore. Non siamo allo scontro frontale. Le violenze degli ultimi giorni sembrano piuttosto delle vendette e delle rappresaglie. Ma la tensione è comunque altissima e non possiamo non preoccuparci per la popolazione civile. Il Kosovo è un Paese sotto c hoc, la gente è traumatizzata. Abbiamo visto bambini rimanere inchiodati davanti alle macerie delle proprie case, incapaci di pronunciare una parola, o scoppiare a piangere e urlare al minimo rumore. Abbiamo sentito raccontare dalle madri di come ave ssero assistito alle esecuzioni sommarie dei loro parenti...». Colpa dei serbi? «E' una questione di numeri: la popolazione kosovara è in prevalenza albanese. Su 340 mila persone in fuga, contiamo solo 22 mila civili serbi». Eppure stando a un' altra struttura Onu, l'Alto commissariato per i diritti dell'uomo, i ribelli albanesi avrebbero catturato l'anno scorso 282 persone e ne avrebbero fatte sparire 136. Che cosa ne pensa? «E' chiaro che ci sono abusi dei diritti umani da entrambe le p arti e che la responsabilità della situazione attuale va tanto ai serbi quanto agli albanesi. Ma sono i civili a farne le spese. E se continua così, tutti gli sforzi della comunità internazionale per creare fiducia non serviranno a niente».
giovedi , 07 gennaio 1999
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Dopo l'arresto di alcuni agenti dei servizi segreti, nuove denunce contro il clero radicale di Teheran
La morte degli scrittori in Iran: l'ex leader Bani Sadr accusa Khamenei. E' stato un annuncio senza precedenti. Il governo iraniano ha dichiarato martedi di aver arrestato alcuni membri del ministero dell'Informazione sospettati di essere i responsabili degli omicidi contro tre scrittori dissidenti e due membri dell'opposizione. Per molti e stata la vittoria della linea moderata del presidente Mohammed Khatami, che ieri ha elogiato la potente polizia segreta per la . Ma non e servito a placare le polemiche. La stampa vicina al presidente chiede che vengano smascherati i . E soprattutto che si riformino i servizi segreti, notoriamente feudo del rivale di Khatami: l'ayatollah Ali Khamenei, suprema autorita religiosa. La sensazione e che la parte piu radicale del regime sia stata messa con le spalle al muro e questo ha dato inizio a una guerra di potere tra presidenza, clero e Parlamento (dominato dai tradizi
Maria Grazia Cutuli,
Nei giorni scorsi aveva fatto un nome, puntando al cuore del potere teocratico: l'ayatollah Alì Khamenei, la guida religiosa suprema della Repubblica iraniana. Sarebbe lui, secondo l'ex presidente iraniano Abul-Hassan Bani Sadr, il vero mandante dei killer che negli ultimi mesi hanno assassinato tre scrittori di orientamento democratico e due oppositori. «Questo è un piano della destra per distruggere i tentativi di riforma del presidente Khatami», aveva detto subito Bani Sadr. E ora che il regi me di Teheran ha annunciato di aver arrestato come presunti colpevoli alcuni membri del ministero dell'Informazione, l'ex presidente rilancia le sue accuse. «Il governo iraniano ha finalmente confessato. Ha ammesso che i killer sono interni allo stes so regime: membri dei servizi segreti. Un fatto senza precedenti. La prima volta nella storia dell'Iran». L'inizio di una nuova era? La svolta che limiterà il potere dei mullah sciiti di Teheran? Abul Hassan Bani Sadr, 63 anni, conferma il cambiame nto: «L'opposizione democratica sta crescendo. Ed è merito suo se il regime è stato costretto a confessare». Ma con la cautela che tanti anni d'esilio gli hanno insegnato. L'ex delfino dell'ayatollah Khomeini, primo presidente iraniano eletto nel gen naio del 1980 subito dopo la Rivoluzione islamica, fu una delle prime vittime di quel potere che lui stesso aveva appoggiato. Accusato di scarsa ortodossia alla linea teocratica, venne deposto a giugno dello stesso anno. Fuggito a Parigi, dove vive a ncora, si salvò per miracolo dai sicari di Teheran. Nononostante gli arresti, continua a sostenere che Khamenei sia dietro gli omicidi degli scrittori? «Certamente. Secondo le nostre fonti, Khamenei è al vertice di un'organizzazione che ha orches trato questi assassinii e che comprende quattro gruppi. Uno di questi agisce proprio all'interno del ministero dell'Informazione. Fa capo all'ex ministro Fallahian che non ha mai smesso di controllare i servizi. Un altro gruppo è controllato dal gene rale Zo Ghadr, leader delle Guardie della rivoluzione». I nomi delle persone che lei accusa corrispondono a quelli degli arrestati? «Questo non lo so. Se il regime fosse costretto a fare un nome come quello del generale Zo Ghadr, salterebbe tutto . Ma so che Khamenei, pur avendo promosso l'inchiesta, stava preparando nomi di copertura: ex detenuti "pentiti" da presentare in tv come responsabili». Ma perché proprio gli scrittori? «Questo è quello che arriva in Occidente. In tutto l'Iran c' è gente che sparisce, torturata e uccisa. Il motivo di questa campagna del terrore? La nuova debolezza del clero. La crisi economica e gli studenti che scendono in piazza urlando "abbasso il regime" hanno gettato nel panico Khamenei». Tornando agli arresti, il governo ha parlato di «membri deviati» al soldo di potenze straniere. «All'inizio si è parlato di gruppi assoldati da Israele e Stati Uniti. Adesso più semplicemente di agenti che lavorerebbero per fare il gioco degli occidentali. Ma è solo una sfumatura. Tentativi di destabilizzare il Paese per colpire il presidente Khatami e le sue aperture moderate». Khatami, appunto. Gli arresti segnano davvero una sua vittoria? «Khatami è politicamente debolissimo. Ma le forze democratich e lo stanno aiutando a far retrocedere la destra. Sarebbe ora che prendesse in mano le redini del Paese».
domenica , 03 gennaio 1999
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Allarme Onu sulle risorse idriche
Le guerre del Duemila? Scoppieranno per poche gocce d'acqua
Maria Grazia Cutuli,
Non saranno oleodotti, arsenali nucleari o armi batteriologiche. E nemmeno le opposte ragioni di chiese e moschee, i conflitti di civiltà o di ideologie. L'ipoteca bellica che pesa sul futuro dell'umanità ha connotazioni arcaiche e richiami tribali. Sarà la guerra dell'acqua. «Oro blu» al posto di «oro nero». Battaglie per il possesso di laghi e di fiumi. Trincee per difendere dighe e condutture. Una guerra per la risorsa vitale «numero uno». L'allarme arriva dalla rivista Environmental Science and Technology, pubblicata dall'American Chemical Society che con i suoi 150 mila membri è considerata una delle più importanti società scientifiche del mondo. E per bocca di Klaus Topfer, capo del programma ambientale dell'Onu ed ex ministro tedesco : «La popolazione sta aumentando - dice Topfer in un'intervista - ma non aumenta di pari passo la quantità d'acqua potabile a disposizione del pianeta. Il risultato? Guerra». Al valico del nuovo millennio, le risorse idriche mondiali scarseggiano i n 31 Paesi, molti dei quali in Africa e Medio Oriente. Nei prossimi 25 anni mancheranno in 48 Stati. Questo significa che un miliardo e 400 milioni di persone, un quarto della popolazione mondiale, non ha accesso ad acqua pulita e sicura, mentre più di 2 miliardi di persone soffrono per carenze sanitarie connesse alla penuria idrica. Ogni ora, muoiono nel mondo 600 persone per via di riserve d'acqua contaminate, inadeguate o inesistenti. E altrettanto drammatico è il problema del rinnovo delle r iserve. Secondo il Water Resources Institute, 400 milioni di persone si trovano in uno stato di «stress idrico»: hanno sì scorte d'acqua, ma nessuna fonte per nuovi approvvigionamenti. Le cause? Come è stato detto alla Conferenza internazionale sul clima che si è tenuta a maggio a Buenos Aires, soprattutto di natura ecologica: l'effetto serra con il relativo aumento della temperatura terrestre farà aumentare la grande sete e ridurrà del 10% i raccolti di grano. Ma le conseguenze rischiano di e ssere soprattutto politiche. Se nel Mediterraneo, Paesi come Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco sono costretti a importare due terzi dei cereali destinati al consumo per garantirsi «sicurezza alimentare», in altre aree i conflitti sono già evid enti. In Israele si combatte per l'acqua sin dalla Guerra dei sei giorni del 1967. Sia lo scontro con la Siria per le alture del Golan, sia quello con Amman per il controllo della Cisgiordania, sono stati segnati da contese sulle acque del lago di Ti beriade, del Giordano e dei suoi affluenti. Tra Egitto, Sudan ed Etiopia è tensione perenne per le acque del Nilo. Tra Turchia, Siria e Iraq per quelle del Tigri e dell'Eufrate. E non è tutto. Secondo l'Onu, rischiano la grande sete anche Paesi come Cina e Pakistan. Soluzioni? «Monitoriamo le riserve d'acqua - dice Klaus Topfer -, e mettiamoci d'accordo per utilizzarle». Una diplomazia «idrica» per fermare la guerra?
venerdi , 18 dicembre 1998
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IRAQ: NEMICO PUBBLICO NUMERO UNO
Un regime da in un Paese alla fame
Nei palazzi di Saddam rubinetti d'oro
e alabastri
Maria Grazia Cutuli,
Affianca il suo nome a quello di Nabucodonosor. Costruisce i suoi palazzi sulle rovine dell'antica Babilonia. Commissiona alabastro, mentre la popolazione muore di fame. Ma la violenza che Saddam Hussein esercita su 22 milioni di iracheni, va oltre la faraonica scenografia di cui ama circondarsi senza rispetto per il calvario del Paese. Quello che gli avversari gli contestano, Stati Uniti in testa, è la spregiudicatezza con cui affama il suo popolo, reprime gli oppositori e strumentalizza l'emb argo. Il ritratto del regime, offerto da un dossier preparato dal governo americano, non risparmia nessun aspetto della gestione Saddam: dalle camere di tortura nascoste nelle sue prigioni all'uso distorto delle risorse petrolifere. È lui il responsa bile di tutto, secondo Washington: «Dal declino economico dell'Iraq alle sofferenze del popolo». Le spese del regime. A dispetto delle cifre denunciate dal governo - un milione e mezzo di bambini morti per le conseguenze dell'embargo - la nomenclat ura irachena vive tempi da mille e una notte: 48 palazzi, destinati agli alti gerarchi, costruiti dalla fine della Guerra del Golfo a oggi. Altri 8, destinati al Presidente, sono costati l'equivalente di 3 mila e 600 miliardi di lire. Circondati da l aghi artificiali e giardini esotici, nascondono dispositivi di sicurezza, impianti di filodiffusione, televisori giganti, rubinetti d'oro e mense sempre riccamente addobbate. Il contrabbando. Il bilancio dello Stato - con il Pil precipitato di due terzi durante i primi due anni di embargo - di per sé è poca cosa. Secondo gli Stati Uniti, il regime sta a galla grazie alle centinaia di migliaia di dollari ricavati dal contrabbando. I fedeli del raís hanno stipendi pari a quasi 3 milioni e 400 mi la lire al mese, contro le 7 mila lire dei dipendenti statali. Hanno accesso a negozi speciali, cure medice preferenziali e viaggiano in Mercedes. Repressione. Se la campagna irachena lanciata nell'88 contro i curdi costò la vita - secondo Human Ri ghts Watch - a 100 mila persone, non è indolore neppure la guerra segreta ai dissidenti. Il Comitato Usa per i profughi stima ci siano 900 mila persone deportate all'interno dell'Iraq, Paese che è inoltre al primo posto nel mondo in quanto a gente sp arita. I reati penali comuni vengono invece puniti con amputazioni e marchiature. Attacco alle paludi. Oltre alla catastrofe ecologica causata nel 1991 con l'incendio di 1164 pozzi di petrolio in Kuwait - fuliggine fino ai cieli del Giappone e piog ge oleose fino in Turchia - teatro di un altro disastro è il Sud del Paese. Per eliminare gli sciiti che abitano la regione, Saddam procede con il prosciugamendo delle paludi e gli incendi a tappeto. L'operazione ha fatto terra bruciata anche per iri s, aironi, trampolieri che popolavano la regione di Bassora. L'embargo. Con il programma Onu «Cibo in cambio di petrolio», Bagdad è autorizzata a esportare greggio fino a 5,2 miliardi di dollari a semestre e a destinare due terzi dei ricavati all'a cquisto di beni per la popolazione. Gli effetti dell'accordo, secondo l'Onu, sono già visibili. Ma l'Iraq in più occasioni avrebbe ritardato volutamente l'estrazione di petrolio per estorcere concessioni all'Onu. Il regime userebbe anche un'altra tat tica: annuncia tagli alle razioni per addossare la colpa ad Usa e Gran Bretagna. Persino il dato relativo alla morte di un milione e mezzo di bambini non ha riscontri: la Croce Rossa non è riuscita a trovare 80 mila bambini denutriti, da inserire in un suo programma nutrizionale. Il «pio» Saddam. La grande moschea «Saddam Hussein» che dovrebbe sorgere a Bagdad, prevede otto minareti alti quanto la Torre Eiffel. Il costo? Seimilaquattrocento miliardi di lire. La stessa cifra del ricavato dell'e xport di greggio nel '97, la cifra che dovrebbe servire a comprare cibo e medicine.
lunedi , 14 dicembre 1998
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Una serie di omicidi scuote Teheran: ieri trovato il corpo di un saggista d'arte strangolato
Iran, tre delitti contro gli scrittori
Terrore tra gli intellettuali progressisti. Vero bersaglio le riforme di Khatami
Maria Grazia Cutuli,
Una telefonata notturna alla famiglia. Il macabro copione del riconoscimento che si ripete a Teheran per la terza volta in una settimana. E anche stavolta il corpo senza vita di un intellettuale iraniano, ritrovato a una trentina di chilometri dalla capitale, sotto un ponte ferroviario. Un esponente laico e progressista: Mohammad Jafar Pouyandeh, 45 anni, critico d'arte e traduttore, visto vivo per l'ultima volta mercoledì mentre usciva dal suo ufficio. Strangolato - riferiscono i parenti - e pr obabilmente gettato giù dal ponte. «I suoi documenti sono spariti - ha detto la figlia Nazanin - ma aveva ancora l'anello e l'orologio». Pouyandeh aveva firmato proprio nei giorni scorsi con una cinquantina di intellettuali iraniani una lettera al pr esidente Mohammad Khatami, in cui si diceva: «La cieca violenza è in azione per sradicare la libertà, togliere sicurezza e creare tensione nella società civile». Parole di sdegno. Ma anche di paura. Altri due cadaveri hanno preceduto infatti quello di Pouyandeh: mercoledì scorso è stato ammazzato alla periferia di Teheran il poeta dissidente Mohammad Mokhtari, impegnato negli ultimi tempi a far rinascere un'associazione di scrittori messi al bando dall'imam Khomeini; e la settimana scorsa è mo rto in circostanze misteriose, ufficialmente per «arresto cardiaco», un altro dissidente, Majid Sharif. Un quarto intellettuale, Pirouz Davani, è scomparso. Il numero delle vittime sale a cinque se si aggiungono il leader dell'opposizione Dariush For uhar e sua moglie Parvaneh, trovati morti nel loro appartamento di Teheran. Di Pouyandeh e di Mokhtari si sa anche che erano stati interrogati, assieme ad altri quattro intellettuali, a ottobre dal Tribunale rivoluzionario islamico sulle loro attivit à. Delitti in serie, anche se nessuno finora è stato incriminato. L'unica mossa ufficiale è quella del vice ministro dell'interno Mostafa Tajzadeh, che ha annunciato ieri l'istituzione di un'apposita commissione e assicurato che «ci sono degli indi zi e numerose persone sono state arrestate». Per lui la catena di omicidi «mira a colpire il governo del presidente Khatami e a lungo termine tutto il regime». Si sa anche che il Consiglio di sicurezza si è riunito in sessione straordinaria e che lo stesso presidente Khatami - pressato dall'appello firmato da 140 membri del Parlamento iraniano (su 270) - ha ordinato indagini a tappeto. «Queste sporche uccisioni rivelano un complotto contro la Repubblica islamica - hanno dichiarato ieri i 140 dep utati con una presa di posizione senza precedenti trasmessa alla radio -. I nemici vogliono dimostrare che l'insicurezza si espande nel Paese». E anche un'organizzazione internazionale come Human Rights Watch, chiedendo indagini serie, ha denunciato «il sinistro aumento di violenze e persecuzioni contro la parte critica del governo». Chi siano i «nemici» dello Stato è difficile dirlo. Servizi segreti stranieri che avrebbero interesse a destabilizzare l'Iran? I Mujaheddin del popolo, un movimen to con base in Iraq, come ipotizzano i 140 deputati? Più facile definire chi sono i nemici del presidente Khatami, che potrebbero essere interessati a uccidere laici e intellettuali per colpire il capo dello Stato e il suo riformismo. La perestrojka di Khatami, salito al potere a maggio 1997, con le sue aperture alla critica politica, alla giustizia sociale e per la prima volta dalla rivoluzione khomeinista del '79 al rispetto dei diritti umani, è da mesi nel mirino dell'estrema destra e del par tito dei mullah. E in particolare del supremo leader religioso, l'ayatollah Ali Khamenei, depositario della tradizione teocratica di Khomeini. L'ex presidente iraniano Abolhassan Banisadr non ha dubbi: «Gli omicidi sono da attribuire ai sostenitori d i Khamenei - ha dichiarato dall'esilio di Parigi alla France Presse -. Secondo i nostri informatori esiste una lista di 60 o 70 persone sotto tiro, fuori o dentro il Paese». Una guerra senza esclusione di colpi? I conservatori che stanno dietro Khame nei sono riusciti a conquistare a ottobre la maggior parte dei seggi dell'Assemblea degli esperti, massima istituzione religiosa della Repubblica islamica. Hanno manipolato la campagna per corruzione contro Karbashi, sindaco di Teheran, legatissimo a l presidente Khatami. E non vedono certo di buon occhio i segnali di distensione lanciati dal presidente verso il «Grande Satana» statunitense. Ma, attorno a loro, opera nell'ombra anche una miriade di gruppi terroristici. Come i Feddayin Islam (i Vo lontari per il martirio dell'Islam), un'organizzazione attiva già prima del '79, che ha rivendicato il mese scorso l'attacco a un pullman sul quale viaggiavano 13 turisti americani. Come gli attivisti di 15-Khordad, l'organizzazione che pose una tagl ia di due milioni e mezzo di dollari sulla testa di Salman Rushdie, aumentandola di 300 mila dollari un paio di mesi fa: non appena il governo di Khatami annunciò che la condanna a morte pronunciata da Khomeini nel 1989 contro lo scrittore anglo-indi ano, autore dei «Versi satanici», non aveva più valore. Una nebulosa di forze ostili alle riforme. Compresa la libertà di parola e di pensiero. Unico visibile significato di quest'ultima saga del terrore.
mercoledi, 09 dicembre 1998
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IL FOTOGRAFO MAURO GALLIGANI
Maria Grazia Cutuli,
«I miei rapitori? Vorrei vederli fucilati». Prima la rabbia. Poi è come se tornasse la paura. Sono passati quasi due anni dal suo sequestro in Cecenia - era il 23 febbraio 1997 - ma per Mauro Galligani, 57 anni, uno dei fotoreporter più famosi di Ita lia, la partita non è ancora chiusa. Né con i ricordi. Né con i suoi ex aguzzini. «La Cecenia è sempre una trappola - dice il fotografo - O qualcuno paga per te o t'ammazzano. Sarà andata così anche ai quattro tecnici uccisi. Ma perché hanno mozzato le teste?». Di «perché» è piena anche la storia di Mauro Galligani, reporter dei fronti caldi, partito per conto di Panorama. Con le cautele del caso: autorità informate e contatti ceceni a Mosca che avrebbero dovuto garantire protezione a Grozny. Sono stati loro a venderlo ai rapitori? «Un sequestro non si improvvisa», ammette Galligani. E i ricordi si fanno immagini: il commando che blocca la sua jeep in piena città, due colpi con il calcio di una pistola, un berretto sugli occhi e la corsa in macchina. «Cinquanta giorni - ricorda - chiuso dentro un condominio di periferia. A volte mi puntavano una pistola alla tempia sparando a salve...». L'occhio del fotografo coglie le foglie di un albero contro la finestra. Oltre i vetri, uno strado ne grigio. Le movenze militaresche dei rapitori. «Sarei in grado anche adesso di riconoscere la mia prigione. Peccato che nessuno dopo la liberazione si sia preoccupato di interrogarmi». Fuori, intanto le trattative per il rilascio seguono vari canal i. Adriano Sofri mette a disposizione una sua conoscenza cecena che ha già fatto da mediatore nel precedente sequestro dei tre italiani dell'organizzazione Intersos. C'è un'impiegata d'Intersos e c'è il giornalista Fausto Biloslavo spedito a Grozny d a Panorama. E' lui a ottenere il rilascio in una notte di aprile. Il seguito è giallo. Si parla di un riscatto di 500 mila dollari, di cui un terzo è finito ai rapitori. E il resto? Galligani è cauto: «Impossibile dirlo: ci sono stati troppi mediator i, ancora oggi sono aperte due inchieste. Io so solo che se sono vivo è grazie alla Mondadori». Dalle inchieste di Mosca a Grozny trapela che la banda è stata identificata. E uno dei sequestratori fucilato.
domenica , 15 novembre 1998
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Le misure imposte nel '90 si sono allentate negli ultimi due anni con l'accordo . Resta il dramma della popolazione alla fame
La sospensione dell'embargo, ultimo muro di Bagdad
Maria Grazia Cutuli,
Otto anni di sanzioni economiche all'Iraq. Otto anni scanditi dalla miseria e dal deterioramento delle infrastrutture. L'embargo al regime di Bagdad, scattato nell'agosto del '90 dopo l'invasione irachena del Kuwait, da una parte blocca l'export del petrolio, dall'altra limita le importazioni. Almeno fino a quando il regime non avrà garantito lo smantellamento degli arsenali nucleari, chimici e batteriologici. In questi anni un milione di persone sono morte, secondo stime Onu. E poi, mercati se nza carne, scuole senza libri, ospedali senza apparecchiature, manodopera senza salario. Parallelamente si è sviluppato il mercato nero, soprattutto la vendita clandestina di petrolio. Un flusso di denaro che è servito unicamente alla nomenklatura di Saddam. La comunità internazionale non ha sinora messo in discussione il mantenimento delle sanzioni. Anche se l'accordo «oil for food» («petrolio in cambio di cibo») approvato nel '96, e ampliato in febbraio dopo la missione di pace a Bagdad del segretario generale Onu Kofi Annan, ha ammorbidito l'isolamento iracheno. Il Paese ha ottenuto di poter esportare oro nero fino a 5,2 miliardi di dollari. Ma a una condizione: che i proventi vengano utilizzati in parte per acquistare all'estero cibo, medicinali e apparecchiature per aiutare la popolazione, in parte per ripagare sia i danni di guerra sia i costi della missione Onu incaricata di vigilare sul disarmo. Se i beni di prima necessità sono arrivati, ha funzionato meno la vendita del pet rolio. Bagdad a stento riesce a estrarre greggio per 4 miliardi di dollari, a causa dello stato in cui si trovano gli impianti. Alla discussione sulle sanzioni guardano con preoccupazione i Paesi del Golfo che, già in crisi per il crollo del prezzo d el petrolio, temono con la fine dell'embargo un'invasione di greggio iracheno.
giovedi , 03 settembre 1998
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Rapporto sulla popolazione mondiale: anziani attivissimi, un miliardo di giovani in cerca di lavoro
1998, l'impero dei teen-ager
Donne longeve, ma piu fragili. Un incubo: 8 milioni di orfani dell'Aids
Maria Grazia Cutuli,
Il mondo invecchia. Più di mezzo miliardo di ultrasessantenni popola i cinque continenti. Non c'è bisogno di nessun patto faustiano con il diavolo perché un uomo arrivi a vivere in discreta salute fino a 82 anni e una donna fino a 86. Almeno in Norda merica, Europa e Oceania. Eppure non ci sono mai stati tanti giovani nella storia quanto negli ultimi anni di questo millennio. Un miliardo e 50 milioni di ragazzi e ragazze, tra i 15 e i 25 anni. Sempre meno «sposati». E un po' più «illibati» rispet to ai decenni precedenti. Un sesto di una popolazione globale che di per sé si prepara a toccare quota 6 miliardi, vale a dire il doppio di quello che era nel 1960. E' solo un primo dato, tra i tanti raccolti nel rapporto annuale del Fondo delle Na zioni Unite per la popolazione (Unfpa) che si intitola appunto «Lo stato della popolazione nel mondo, 1998». Ma basta ad annunciare un futuro sovraffollato che vedrà entro il 2010 un esercito, o meglio un «contingente extra», di almeno 700 milioni di persone pronte a conquistare il mercato del lavoro. Con effetti contrastanti. Nel rapporto, presentato ieri a Roma dall'Associazione italiana donne per lo sviluppo (Aidos) e in contemporanea a Londra, si cita l'esempio del Bangladesh. Qui, l'industr ia dell'abbigliamento destinata all'export nei Paesi più ricchi ha creato 1 milione e 200 mila posti di lavoro. Ma a essere impegnate sono al 90% giovani donne, spesso sotto i 14 anni, provenienti dalle campagne. I loro salari servono soprattutto a m antenere le famiglie. In qualche caso riescono a garantire loro anche una piccola autonomia, che - tanto per cominciare - sposta in avanti l'età delle nozze. Non più spose bambine, ma ragazze che superano nubili i 19 anni. Una prova di come - nonosta nte il matrimonio «precoce» rimanga la norma in molte zone del mondo - la famiglia tradizionale cominci a sfaldarsi un po' dovunque. In America Latina molte donne vivono fuori da unioni formali, così pure in alcuni Paesi dell'Africa meridionale, dove l'emigrazione maschile ha sconquassato le relazioni familiari. A far ressa sul mercato del lavoro non saranno solo i giovani. L'invecchiamento della popolazione nei Paesi industrializzati, ha creato una «terza età» molto più attiva di quella tradi zionale, formata da anziani che vogliono restare il più a lungo possibile sulla ribalta sociale ed economica. C'è però una discriminante tra uomini e donne. Le donne vivono sì più dei maschi, ma in vecchiaia rischiano di essere più esposte alle malat tie, almeno nelle comunità povere, dove lavorano molto e mangiano poco. La salute sarà una delle scommesse del Terzo millennio. Tra i dati più preoccupanti: gli orfani dell'Aids. Secondo il rapporto, il numero di bambini sotto i 15 anni che avranno p erso almeno un genitore a causa dell'infenzione da Hiv si quintuplicherà entro il 2010, fino a toccare gli 8 milioni. E tra i mali destinati a non regredire, ci saranno il cancro e le malattie circolatorie. Il rapporto calcola inoltre che le forme di assistenza agli anziani o ai disabili messe in piedi in 155 Paesi riescono a coprire solo il 30% della popolazione sopra i 60 anni. Il mondo industrializzato investe sempre meno in aiuti allo sviluppo. Secondo Daniela Colombo, presidente dell'Aido s, serviranno «17 miliardi di dollari (circa 33 mila miliardi di lire) nel 2000 e oltre 21 miliardi di dollari nel 2015» per aiutare i Paesi più poveri. Un ultimo dato: tra vita che si allunga e nascite che diminuiscono, quale sarà il bilancio finale ? Diciotto miliardi e 300 milioni di persone nell'anno 2150, ma solo se si resta a 2,2 figli a coppia. Se si scenderà a 1,8, ce la caveremo con 6 miliardi e 400 milioni.
mercoledi, 19 agosto 1998
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LE SCRITTRICI ITALIANE
Maria Grazia Cutuli
«Hillary for president». Ha un bel dire Bob Woodward, sacerdote del giornalismo americano, secondo cui Hillary Clinton da grande burattinaia si sarebbe ritrovata ieri nei panni della «moglie tradita e beffata», probabilmente ignara di alcune nefandez ze del marito, ricoperta di ridicolo dall'uomo che ha sempre appoggiato e difeso. Questa Hillary, in presunto stato di shock davanti alle confessioni di Clinton, nell'immaginario femminile sembra in realtà risorgere dallo scandalo più forte che mai. «Dovrebbe essere lei a fare il presidente, a incarnare lo spirito vero, moderno e democratico degli Stati Uniti». Tre donne concordano. Tre scrittrici italiane si rifiutano di interpretare il ruolo di Hillary come quello della vittima. Anche se per opposte ragioni. «Hillary si è sempre comportata con molta dignità - dice la scrittrice Dacia Maraini, 61 anni - e, ancora una volta, sta dimostrando il suo attaccamento alla famiglia. Probabilmente, ha sempre saputo di avere accanto un dongiovanni, ma non è questo a farla crollare». Il teorema dell'umiliazione per Dacia Maraini, non regge, anche perché lo stesso Sexgate nasce da un paradosso: «La mitizzazzione della fedeltà coniugale. E perché mai proprio il presidente degli Stati Uniti deve f arsi carico di incarnare questo falso mito? Perché non può essere libero di essere infedele come qualsiasi marito o qualsiasi moglie? + ovvio che Clinton abbia mentito. Se in privato l'abbia fatto anche con Hillary questi sono fatti loro». Ritorna l'ipotesi del patto mefistofelico che in tutti questi anni avrebbe unito indissolubilmente Bill e Hillary nella loro corsa al potere? «Il patto di sangue è un'idea da telenovela - aggiunge Dacia Maraini -. Se Hillary avesse voluto il potere, avrebbe potuto ottenerlo da sola, proprio staccandosi dal marito. Invece, ha preferito gli affetti familiari. E ha capito perfettamente che l'America la relegava in un altro ruolo, sin da quando aveva tentato di lanciare la riforma sulla sanità e tutti le si erano scagliate addosso, dicendole in pratica "stai al tuo posto". Che è quello di moglie». Anche l'idea di un arrivismo mascherato disgusta la scrittrice: «Hillary una donna in carriera? Queste sono definizioni maschiliste. + una donna che ama la s ua professione. E non ci sarebbe niente di male se avesse ambizioni politiche». E le ambizioni, dietro le lacrime presunte o reali versate in privato, probabilmente restano. Carmen Covito, 50 anni, ne è convinta. «+ chiaro che tra Bill e Hillary c' è stato un patto, sarebbe ipocrita meravigliarsene. + la stessa politica americana a richiederlo». Se in privato Hillary soffra o no rimane una questione di secondo piano: «Fa parte del gioco. Ma sono più portata a pensare che fa anche parte del gioc o mostrare alla nazione un'immagine di Hillary beffata, tradita, umiliata. Quindi più umana». Una cosa è certa per Carmen Covito: «Se alla presidenza ci fosse stata lei, il Sexgate non sarebbe scoppiato. Le donne al potere sono furbe, non bietolone c ome gli uomini. Posso immaginare che Hillary abbia fatto scenate in privato. Ma non per il tradimento, quanto per la stupidità di tutta la faccenda». «Hillary for president», dunque? Anche Fernanda Pivano, 81 anni, esperta di letteratura americana, è d'accordo: «Intanto, si è dimostrata il più grande avvocato d'America. E il suo accordo con il marito scavalca definitivamente i termini vittoriani di fedeltà e adulterio. La Lewinsky, la signorina "smutandata", come la chiamo io, non l'ha certo i mpressionata. Hillary è una grande figura storica e politica». La salvezza di Bill, secondo la Pivano, rimane ancora una volta nelle mani della first lady: «Per esempio, è lei che ha ribaltato l'accusa di spergiuro rivolta al marito, puntando il dito contro il procuratore Starr, che ha sua volta mentito negnando la fuga di notizie sull'inchiesta. Ma quello che conta è il lavoro che entrambi hanno fatto per l'America. Clinton ha portato la disoccupazione al 4%, ha creato un fondo per i diseredati togliendoli dalle strade, ha sanato l'economia. I repubblicani vogliono farlo fuori, questo è chiaro. Hillary lo sa ed è rimasta accanto a lui». Musa, vestale o grande burattinaia, che importa? «Non sono 5 minuti di fellatio con la Lewinsky che la m etteranno in crisi».
venerdi , 07 agosto 1998
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VISTA DALLE ALTRE
La stroncatura delle donne europee:
La scrittrice Dacia Maraini
esce dal coro:
di conoscere i fatti prima di emettere condanne>
Maria Grazia Cutuli,
«Non è neppure carina. Guardate che orribile acconciatura, che corpo sformato e quel brutto basco... Guardate i suoi denti, si vede che mastica troppa chewing-gum». Dalle colonne del Guardian, una donna, Emma Forrest, giornalista-opinionista, parla di Monica immaginandosi i discorsi delle altre, con lo sguardo impietoso che l'universo femminile della Gran Bretagna, e dell'Europa tutta, lancia all'ex stagista della Casa Bianca. «Un modello deteriore e un carisma negativo», dice la Forrest, riper correndo i commenti sulla signorina Lewinsky, che ora con diabolica premeditazione mette a rischio di impeachment il presidente degli Stati Uniti. «Un democratico», ricorda la giornalista che da sinistra spera nella sopravvivenza politica di Bill Cli nton. Monica non piace alle donne europee. «Una ragazza che usa la sessualità per far carriera - dice la Forrest - e ci riporta indietro, all'epoca in cui alle donne era proibito il piacere, tanto da sottomettersi alla più umiliante delle pratiche: il sesso orale». Una ragazza che a 25 anni come ricordo d'amore non conserva lettere o gioielli, ma un vestito imbrattato di liquido seminale. L'opinionista del Guardian a sorpresa finisce però per assolvere la «stupida, grassa» Monica. Se non altro per la sua determinazione: «Monica tu non mi piaci. Ma mi piace quello che hai fatto: hai avuto il presidente». Il presidente, o forse la sua testa. Le donne europee non perdonano alla Lewinsky di aver messo in crisi il sogno «democratico» america no. E la politica c'entra poco. E' un'antipatia istintiva, quasi Monica offendesse l'estetica e il bon ton. La comprensione, nell'era del post-femminismo, va al macho-Clinton, che perde le caratteristiche di «nemico» predatore come sarebbe stato giud icato qualche decennio fa e diventa il portabandiera di un diritto universale: quello alla privacy. Persino l'algida attrice Catherine Deneuve, 54 anni, si scaglia contro l'ipocrisia americana: «È incredibile che non si possa avere una specie di dopp ia vita senza far scandalo». Vista da una Francia laica e politically correct - dove Mazarine, figlia illegittima dell'ex presidente Fran´ois Mitterrand si è potuta permettere di assistere al funerale del padre accanto alla propria madre e a Danielle , la moglie ufficiale - l'America sembra uno «strano» Paese. «La maggior parte dei film pornografici sono prodotti negli Stati Uniti - aggiunge Catherine Deneuve -. Eppure si mette sotto accusa il presidente perché ha una relazione». Nessuna pietà per Monica, la ragazza usa-e-getta. Neanche dalle donne italiane. «Non val la pena sprecare parole su di lei - dice Giovanna Melandri, 36 anni, deputato dei Democratici di sinistra -. L'unica riflessione è che una crisi istituzionale negli Stati Unit i rischia di avere riflessi sulla politica di tutto il mondo. Non si può pensare all'impeachment per una storia come questa». Clinton fa addirittura pena all'antropologa Ida Maglie, 73 anni: «Colpa della cretineria d'Oltreoceano e del femminismo amer icano che ha legittimato i comportamenti alla Lewinsky: libertà vuol dire anche non aver più timore a rendere pubbliche certe cose». Il «vade retro Monica» arriva anche da destra: «E come potrebbe mai suscitare simpatie una così? Con la faccetta ch e si ritrova...», commenta Alessandra Mussolini, 35 anni, deputato di Alleanza nazionale, «Monica è tutto quello contro cui noi donne combattiamo: una che vuole incastrare l'uomo con i vecchi metodi del sesso e non con l'intelligenza». La sentenza è già stata pronunciata? A staccarsi dal coro, due voci. Ancora dall'Italia, la scrittrice Dacia Maraini, 52 anni: «Aspettiamo di conoscere i fatti, prima di emettere condanne». E dalla Germania, Patricia Riekel, direttrice di Bunte, settimanale popola re tedesco, che commenta. «Monica non è una vittima. È una donna di successo. Le interessava il potere e l'ha ottenuto: oggi dipende da lei il destino dell'uomo più potente del mondo. Come cortigiana merita rispetto. Come amante disprezzo».
martedi , 30 dicembre 1997
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Il quotidiano ha pubblicato l'immagine di un'attrice durante una protesta in nome degli aiuti al Terzo Mondo
Nuda in prima pagina. Madrid si divide
Proteste per la foto sull'autorevole . Il Garante del lettore: dovere di cronaca
Maria Grazia Cutuli,
Che appaiano per vendere pneumatici, rossetti, passate di pomodoro e qualsiasi altra cosa serva al mercato, è ormai un fatto accettato. Ma che le immagini di una donna nuda, fisico statuario, lunghi ricci neri sparsi sulle spalle, appaia in prima pag ina su un quotidiano di massimo prestigio, collegata a una campagna per gli aiuti al Terzo mondo, è più difficile da digerire. In Spagna almeno, dove la polemica è esplosa, in un mix di pruderie perbeniste, rivendicazioni femministe e istanze destror se, contro il quotidiano El Pais, reo di aver pubblicato il 22 dicembre - per la verità assieme al concorrente El Mundo - un'epigona della Maja desnuda. «Dovere di cronaca», hanno risposto quelli del quotidiano: la ragazza senza alcun velo, accovac ciata davanti a un gruppo di giovani, è un'attrice del gruppo teatrale La Casona che il giorno prima aveva recitato a Barcellona, in piazza Sant Jaume, per promuovere la «Piattaforma dello 0,7 per cento». Un affare più che serio: una proposta di un g ruppo di organizzazioni non governative, che da più di tre anni chiede al governo di destinare questa percentuale del prodotto interno lordo spagnolo agli aiuti umanitari. Impegno politico e sociale, insomma, come si usava fare nel teatro alternativo degli anni Settanta. Ma i lettori sembrano aver recepito ben altri messaggi. Che lo spettro del machismo abbia fatto breccia persino in un giornale di sinistra come El País? O che forse l'effetto tabloid, dove i nudi abbondano, abbia contagiato an che il serio ed onorato quotidiano? La questione è finita su Tele 5, dove la signora Celia Villalobos, deputata del conservatore Partito Popolare (lo stesso del premier Aznar) e sindaco di Malaga, assieme ad altre due parlamentari, si è appunto doman data: «El País avrebbe ugualmente pubblicato la foto se al posto di una donna ci fosse stato un uomo nudo?» «Certamente», ha risposto ieri il Garante del lettore, Francisco Gor, con un editoriale sul quotidiano. E ha aggiunto la dichiarazione del con direttore Lluís Bassets, responsabile in prima persona della scelta di quell'immagine: «La pubblicazione di una foto che mostri il corpo umano nudo non pone nessun problema a un giornale come il nostro se si obbedisce al principio informativo. E non c'entra niente il ritratto di un'attrice nuda con i tabloid britannici che se ne servono solo per attrarre i lettori». Il fatto che si tratti di un'attrice, impegnata in una battaglia umanitaria, dovrebbe allontanare i sospetti: «È il nucleo della notizia. La rappresentazione mette in scena i diversi drammi - la sete, la fame, il freddo, la disperazione - che affligono i Paesi del Terzo Mondo». E per rispondere alla domanda iniziale, il condirettore aggiunge: «Non penso che ci sarebbero stat i problemi a pubblicare un nudo maschile frontale se fosse servito a dare un'informazione o se avessimo ricevuto delle foto di buona qualità». Esiste un precedente, ricorda il Garante, tagliando corto sui «pregiudizi dei moralisti» come sui «sospetti delle femministe»: una foto, apparsa il 15 giugno sull'edizione sportiva della Catalogna, di un «nudista» allo stadio di Camp Nou. Ma il dibattito - che ha interessato solo El País e non un giornale più conservatore come El Mundo - resta aperto: s otto l'articolo scritto dal Garante, il quotidiano pubblica numero telefonico e indirizzo di posta elettronica per chiunque abbia qualcosa da dire sull'argomento. Solo un particolare sembra trascurato: gli aiuti al Terzo Mondo. Che ne sarà dello «0,7 per cento» nella promessa riforma della cooperazione? L'attrice de La Casona si era spogliata per questo. O no?
lunedi , 22 dicembre 1997
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Bangkok, alla fiera degli ex ricchi
Dopo il grande crac, oggetti-culto in bancarella: svendono aerei, Rolex, gioielli
Maria Grazia Cutuli,
Una nuova classe è nata in Thailandia: gli «ex ricchi». Ex acquirenti di macchine di lusso, di gioielli, aerei privati, residenze prestigiose. Ex borghesia grassa che viveva sulla falsa solidità del baht, la moneta nazionale, sullo sviluppo gonfiato delle Tigri asiatiche, sulle speculazioni del «miracolo» d'Estremo Oriente. Il disastro cominciato in luglio, con il crollo della moneta e il tornado della crisi finanziaria che dalla Thailandia ha travolto l'intero Sud-Est asiatico, ha portato una « carestia» inevitabile per tutti. Ma, se i ceti meno abbienti si sono limitati a usare i vecchi sistemi della protesta di piazza, gli «ex ricchi» hanno trovato un altro modo per affrontare l'era delle vacche magre: svendere tutto. Abiti, gioielli, aut o, barche, aeroplani, orologi: status symbol usati, ormai pezzi d'«antiquariato». È successo a Bangkok. Una vera e propria fiera di finale d'epoca, un mercatino per lussi di seconda mano, si è aperta con un piccolo significativo torneo: palle in fa ccia alle sagome dei leader politici, ritenuti responsabili del disastro economico. L'obiettivo del gioco: vedere quale sagoma sarebbe caduta per prima. Il posto scelto come arena è stato, non a caso, una concessionaria di Mercedez Benz, dove centina ia di «ex ricchi», che avevano portato con sé tutto ciò che restava del florido passato - macchine, gioielli, abiti firmati - hanno fatto ressa attorno al primo giocatore: Wasun Panon, proprietario della concessionaria e ispiratore di tutta la baracc a. I tiri di Wasun sono subito andati a segno: in faccia all'ex primo ministro Chavalit Yongchaiyudh. Applausi e ancora applausi. Chavalit, considerato non solo responsabile della crisi, ma anche del fallimento di ogni successiva misura per il riso llevamento economico, pressato da tutte le parti, dalla popolazione, dall'esercito, dagli stessi membri del suo partito, il mese scorso è stato costretto a dare le dimissioni. E ieri è «caduto» per la seconda volta, al modico prezzo di 10 baht, meno di un quarto di dollaro: tanto costava il «tris» di palle a disposizione di ogni giocatore. Come premio, al vincitore che ha abbattuto più rapidamente lo «sciagurato» premier è andato uno dei fazzoletti con cui gli «ex ricchi» si sono asciugati le la crime piante pensando alle proprie sciagure. Dopo il torneo, Wasun ha inaugurato il suo mercatino di sogni di seconda mano. I venditori, tutti con una maglietta addosso con la scritta «ex ricco», hanno cercato di smerciare cellulari, Rolex, abiti f irmati, ori, diamanti, fuoristrada giapponesi. La proprietaria di una gioielleria, che si è qualificata solo come «Madame K», ha confessato di essere già stata costretta a vendere oggetti personali per pagare gli interessi sui prestiti bancari, dopo che il crollo delle Borse asiatiche si è trascinato dietro i profitti della sua attività economica. «Qui a Bangkok gli affari non vanno più - ha raccontato - e secondo le previsioni l'anno prossimo sarà ancora peggio. Così vendo tutto ciò che posso». Il mercatino degli «ex ricchi», dalla concessionaria Mercedes si è snodato lungo tutta Thonglor Road, in uno dei quartieri residenziali più esclusivi di Bangkok. Wasun ha raccontato di aver voluto lanciare quest'iniziativa tra la borghesia-bene de lla capitale, per aiutare l'economia: «Normalmente la gente accumula, accumula e non vende mai niente. Io dico il contrario: vendete e smettete di comprare roba». Non è un vero e proprio invito alla «beneficenza», ma Wasun ha voluto circondare l'ev ento anche di una certa sacralità. Per creare l'atmosfera giusta, tra un piccolo yatch e un aeroplano in vendita, ieri è apparsa anche una banda di musicisti vestiti di bianco a intonare inni di Natale.
giovedi , 30 ottobre 1997
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FEDE E CORAGGIO/ Voleva dare la terra ai piu poveri
India, sequestrato e decapitato
gesuita amico degli intoccabili
Maria Grazia Cutuli
Stava dalla parte dei paria, la casta degli intoccabili. Aveva difeso il loro diritto alla terra contro lo strapotere feudale delle caste più alte. Aveva lottato fino a spedire in prigione un gruppo di signorotti locali. Ma due anni dopo, secondo i t empi lenti del codice di sangue tribale, è arrivata la vendetta. Il corpo di padre Thomas Anchanikal, 46 anni, missionario gesuita di origini indiane, è stato trovato lunedì, massacrato e decapitato, nelle acque di un fiume, uno dei tanti affluenti d el Gange, che si perdono nella foresta. L'hanno trovato tre giorni dopo che era stato rapito, nella regione nordorientale del Bihar, uno degli Stati più popolosi dell'Unione indiana. Padre Thomas era appena tornato da Manila, dove aveva passato un anno e mezzo a preparare una tesi in sociologia. Era tornato per riprendere il suo lavoro di sempre. Ma nel Bihar, terra di fertilissime pianure irrorate dal Gange, di miniere, di rame, ferro, di carbone, di industrie, terra ricca anche di barriere s ociali e lotte tra caste, quel suo lavoro a favore dei «Harijans», gli intoccabili, era una colpa e una vergogna. Nella zona di Sirka, padre Thomas Anchanikal aveva avuto il merito di far costruire 15 scuole e alcuni ambulatori per i reietti dell'Ind ia. Ma poi aveva strafatto. La sua battaglia per la terra l'aveva spinto fino all'impensabile: portare in Tribunale e riuscire a far condannare un gruppo di una casta superiore che si era impossessato dei poderi della sua gente. Era successo due anni fa. Ma «quelli» hanno saputo aspettare. L'hanno rapito venerdì scorso. «Si sa per certo che era andato a fare un giro nel villaggio di Sirka», dicono al centro stampa dei gesuiti a Roma. E si sa ancora che a Sirka c'erano uomini vestiti da poliziott i che malmenavano della gente. «Uno di questi ha riconosciuto padre Thomas, l'uomo che l'aveva mandato in prigione». Il prete è stato accerchiato e trascinato via. Tre giorni di silenzio, l'attesa di una richiesta di riscatto (quei «poliziotti» - dic ono i gesuiti - gestirebbero un racket delle estorsioni), e poi invece, lunedì, il cadavere gonfio di acqua e di botte che galleggiava sulle acque del fiume. La testa sparita. Secondo un rituale di sangue che nel Bihar, 87 milioni di abitanti, non ra ppresenta affatto una novità. Tutti i proprietari terrieri hanno squadre armate delegate a risolvere i «conflitti». I morti sono frequenti tra la popolazione. E anche per i mille gesuiti che lavorano nella regione, su un totale di 3 mila e 700 impegn ati in India, non è la prima volta. Poco più di un anno fa era toccato a un altro sacerdote e un fratello laico, entrambi ritrovati con il cranio sfondato. «Per i religiosi è una delle regioni più problematiche - dice padre Federico Di Selva, gesuita di origini indiane, segretario regionale per l'Asia meridionale presso la Curia di Roma -. Uno Stato dove i missionari devono vedersela con la povertà, la mancanza di ordine sociale, il governo debole e corrotto, il fondamentalismo indù. E soprattut to con una casta di ricchi che non permettono nessuna emancipazione dei più poveri. I paria, condannati a lavorare la terra degli altri, sopravvivono rassegnati con un salario di 600 rupie al mese, meno di trentamila lire. La colpa di Padre Thomas è stata quella di aver cercato di scuotere gli intoccabili dalla loro sottomissione». La presenza politica del partito comunista, nata dai gruppi degli ex «naxaliti» d'ispirazione maoista, non rappresenta una garanzia. Né tantomeno aiutano i comunisti rimasti legati al terrorismo, i gruppi armati marxisti, «che hanno sì sposato la causa dei diseredati - dice padre Di Silva - ma non a nostro favore. Loro professano e praticano la violenza, e sono i primi a non amare interventi come quelli di padre Thomas». In un'India dove le missioni sono tollerate solo come centri di «attività sociali» ma non di evangelizzazione, dove molto difficilmente si concedono visti ai sacerdoti stranieri, anche la legge non serve a granché: «Non serve quella che dovr ebbe garantire libertà di culto. E non servono le leggi agricole per la difesa di chi lavora la terra. L'unica regola è la sopraffazione e la paura». La paura, appunto. Ci sono altri mille gesuiti che operano nel Bihar. «Altri mille che resteranno lì , esattamente come prima. Anche se lo sappiamo già: la morte di padre Thomas potrebbe essere solo l'inizio».
mercoledi, 13 agosto 1997
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IL GENERALE GIGLIO REPLICA ALLE ACCUSE SUL PRESUNTO TRAFFICO DI DONNE
Veleni sulla missione Alba. Il comandante:
trovate al porto
dalla polizia
locale non
erano prostitute
Accompagnavano
un'amica ferita>
Maria Grazia Cutuli,
Adesso è l'Albania. Dopo le polemiche sulla Somalia, un nuovo attacco ai militari italiani. Sono passati appena due giorni dal ritiro del contingente, ed ecco la Gazeta Shqiptare, quotidiano di Tirana, venir fuori con la pubblicazione di un verbale, redatto da un gruppo di poliziotti albanesi in servizio a Valona. I soldati di «Alba», secondo il documento, avrebbero «offeso» gli agenti e commesso «irregolarità». Avrebbero permesso di guidare mezzi militari ad alcuni bambini. E quel che è più gr ave, il 6 luglio avrebbero fatto entrare al porto di Valona due ragazzine albanesi, accompagnandole al molo numero uno. Prostituzione? Il verbale non lo dice, ma la Gazeta Shqiptare sì, traendo conclusioni che sanno di veleno a buon mercato. «Conclus ioni che gettano fango su una buona azione. Volete sapere come sono andati i fatti?». Il generale Girolamo Giglio, comandante della Forza multinazionale di protezione a Valona, controbatte: «Una ragazzina, con una ferita al piede, che era già stata i n cura da noi, è tornata per farsi visitare dal medico di bordo, assieme a due amiche. Lei è salita sulla nave, le amiche sono rimaste sul molo. I poliziotti albanesi hanno cominciato a insultarle. I nostri del San Marco sono arrivati a difenderle. S ono spuntati i genitori. Alla fine la polizia ha redatto il verbale». Niente a che vedere con gli abusi commessi in Somalia? «Quello che è successo in Somalia ha sconcertato tutti. Ma l'Albania è stata un'altra storia: quattro mesi segregati, bar ricati, senza libere uscite. E bisogna dire che cosa è il porto di Valona...». Il porto, appunto. Com'erano i rapporti con i poliziotti? «Il porto è l'unica risorsa della città. Quando siamo arrivati non c'era più niente dentro, né dogana, né pol izia, solo macerie. L'abbiamo rimesso in funzione. Abbiamo riassorbito il personale che potevamo. Ma dovevamo anche controllare gli accessi. Ci sono stati degli screzi sia con i poliziotti sia con i doganieri e con la loro "allegra" gestione». Scre zi o «offese»? «Non credo che i soldati abbiano offeso qualcuno. Abbiamo buttato fuori della gente...». E i bambini come mai erano alla guida dagli automezzi? «Il porto qualche volta è stato anche un rifugio per i civili. Il caso di Lorenzo, il bambino che doveva essere operato al cuore e invece è morto, chi non se lo ricorda? Era diventato la nostra mascotte. Come lui c'erano altri ragazzini che riuscivano a intrufolarsi dai reticolati e facevano amicizia con i soldati. Li si portava in g iro sui mezzi. Ma non certo al volante». I poliziotti, insomma, ce l'avevano con voi? «Qualche giorno prima della storia delle ragazze avevamo scacciato alcune "professioniste" in visita da loro. Forse è stato per questo. Ma credo che dietro le a ccuse ci sia qualcun altro: Stavri Marko, l'autore dell'articolo sulla Gazeta. Un giorno è venuto a chiederci protezione. Diceva di essere stato minacciato. Gli abbiamo risposto che non potevamo far nulla. Se n'è andato via gridandoci dietro "Vi denuncio alla comunità europea". Ecco fatto».
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]