DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
>PICTURE GALLERY
>AUDIO CLIP her last report from Peshawar [ Corriere.it ]
>VIDEO recovering the journalists' bodies [New York Times - Associated Press]
How colleagues journalist and friends >REMEMBER her
Pages from italian and international >PRESS
>REPORTS about the ambush
>STORIES we published >TOGETHER (her writings, my pictures)
>ALL THE STORIES
I'm trying to make available ALL THE STORIES written by Maria Grazia Cutuli.
Big kudos to publishers Corriere della Sera-RCS and Arnoldo Mondadori Editore,
for allowing me to post here all the stories they hold copyrights for.
ITALY 1992-1993, EPOCA

Testata
Epoca

Data pubbl.
14/12/93

Numero
2253

Pagina
40

Titolo
IL SESSANTOTTO E' MORTO? VIVA IL '68

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA M G C

Sezione
STORIE

Occhiello
NOI, RAGAZZI TERRIBILI DEL '93 ROMA

Sommario
Il primo identikit degli studenti che da un mese occupano le scuole italiane Che lavoro vogliono fare da grandi Che libri e che giornali leggono Come passano la domenica pomeriggio A che età hanno fatto l' amore la prima volta Cosa pensano del matrimonio Quale è il loro primo desiderio Come e quanto credono in Dio Perché ce l' hanno tanto con la Jervolino Che rapporto hanno con i loro genitori Cosa appendono ai muri delle loro camere

Didascalia
La figlia del sessantotto
Fiammetta Jahier, 18 anni a gennaio, studentessa del liceo classico
Mamiani di Roma. E' figlia di genitori "sessantottini", vuole fare
la restauratrice, adora gli scrittori sudamericani e se avesse avuto
l' età avrebbe votato Rutelli. Non ha mai fatto l' amore.
HASTA SIEMPRE COMANDANTE Flavio ("i cognomi non servono"), 16 anni,
del collettivo politico del liceo classico Mamiani di Roma. "In
camera mia ho appeso il ritratto del Che Guevara. I riferimenti al
passato recente ci sono, è chiaro. Ma noi non siamo certo dei
neo-sessantottini".

Testo
"A Flavio, te sei sciorto li capelli?". "Me li so' lavati. Ce voleva...". Sparsa sulla kefia, la chioma liscia e lunga ricorda quelle degli hippies di Woodstock. Non manca l' orecchino: un brillantino quasi invisibile. Flavio, leader ufficioso del "collettivo politico" del liceo classico Mamiani di Roma, una tra le Jurassic School (è il marchio di fabbrica del movimento) anti-Jervolino, ha solo 16 anni. Non fa mistero delle sue simpatie per Rifondazione Comunista ("Il mio candidato ideale a sindaco di Roma era Nicolini"), della sua passione per i poeti della beat generation ("L' ultimo libro che ho letto: I vagabondi del Dharma di Kerouac"), di un discreto culto per i vecchi simboli, come il Che Guevara. "Il riferimento al passato ci sta, ma il movimento è nuovo", dice Flavio. "Non siamo neo-sessantottini".
Eppure il Sessantotto rimanda, come in un gioco di specchi, su Flavio e su tanti altri suoi compagni, "metodi di lotta", slogan, miti e tic antichi di cui gli studenti di questa scuola, da loro definita "giurassica", sembrano non poter fare a meno. Con chi ce l' hanno? Con la Jervolino che per Flavio "ha il vizio tipico dei politici: amministrare senza tener conto dei bisogni degli interessati".
Ma dov' è il "nuovo"? Forse nei rapporti familiari: "I miei sono comprensivi, capiscono le mie necessità. Loro che difficilmente mi lasciano dormir fuori la sera, adesso che c' era di mezzo l' occupazione non hanno fiatato". Il padre di Flavio, bancario, discute i metodi, non crede nella lotta ad oltranza, ma lascia fare.
La madre, architetto, a suo tempo impegnata in una storica occupazione di facoltà, sembra invece entusiasta dell' adesione del figlio al movimento.
Così se non altro la vita del ribelle, in un famiglia agiata e "democratica", è più facile che in passato. A 16 anni Flavio non può ancora accendersi una sigaretta davanti al papà, ma non ha per esempio paura a parlare di sesso o di altri tabù come le generazioni che l' hanno preceduto: "Il mio primo rapporto sessuale l' ho avuto l' anno scorso. Adesso però sto con un' altra ragazza: una storia "forte"". Matrimonio? "No, grazie. Non c' è bisogno di regolare l' amore con dei documenti".
E la religione? Nel caso di Flavio è una questione un po' complessa: "Sono ebreo. Anche se non vado in sinagoga o non rispetto le feste comandate, ci tengo a conservare la mia tradizione familiare, forse più di quanto ci tengano i miei genitori. Penso però che il rapporto con Dio sia una questione strettamente personale". Al punto da poter coniugare ebraismo e buddismo: "Sì, spesso faccio meditazione e rispetto una dieta vegetariana".
Infatuazione per l' Oriente? Di nuovo il Sessantotto? Con una differenza storica: oggi si pensa al futuro. "Mi piacerebbe fare il musicista jazz, ma conosco benissimo i problemi, anche economici, ai quali rischio di andare incontro. Non vorrei certo finire sotto un ponte". Non è una questione di soldi, spiega Flavio, ma di soddisfazioni personali: "La musica può dartene tantissime, così come sommergerti di frustrazioni". E Jurassic School? "Dobbiamo lottare per noi, ma anche per tutelare i più deboli, con corsi di recupero durante l' estate, con un appoggio da parte dei professori.
Non dico che a scuola tutti debbano andare avanti, ma non so...
bisognerebbe mediare tra la rigidità e il lassismo". Più che un programma di lotta, sembra un vagito. Ma è il primo risveglio dopo il mutismo studentesco dal crollo dei muri. Morte le ideologie? Già resuscitate: "Ecco i nostri volantini per Rutelli. Io avrei voluto Nicolini. Ma meglio Rutelli che i fascisti".

BOX
E IL COLLETTIVO DECRETO': ZITTO, FASCISTA Il movimento è unitario. Destra e sinistra sono d' accordo sugli stessi obiettivi", spiega una ragazza all' entrata del liceo Lucrezio Caro di Roma.
Ma poi quando Epoca tenta di ascoltare anche le opinioni degli studenti di destra, gli altri si scatenano: "Non ci interessa che si facciano interviste di questo tipo qui dentro. Dovete andarvene", è il verdetto del "collettivo politico".
Detto e fatto. I giornalisti sono costretti ad uscire, e i ragazzi di destra scoraggiati a rilasciare dichiarazioni o a farsi fotografare persino fuori dal liceo. Succede anche questo nella Jurassic scuola di oggi.




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/12/93

Numero
2253

Pagina
41

Titolo
AGNOSTICA? ATEA? NON SAPREI

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA E B

Sezione
STORIE

Occhiello
NOI, RAGAZZI TERRIBILI DEL '93 MILANO

Didascalia
Parla a nome di tutti Marzia Siviero, 18 anni, leader dell' Istituto
professionale Marcello Dudovich di Milano. "Sono solo la portavoce
dei miei compagni".

Testo
Altro che "angeli del ciclostile": nel movimento Jurassic School le ragazze sono protagoniste a tutti gli effetti. E non è tutto: molte di loro stanno addirittura diventando leader. Come Marzia Siviero, 18 anni, studentessa all' istituto professionale Marcello Dudovich, la scuola per grafici e figurinisti di Quarto Oggiaro da cui è partita la scintilla, il corteo del 26 novembre, che ha innescato la rivolta a Milano.
Del Dudovich Marzia è la "capa" indiscussa. E' stata lei a guidare le proteste contro le precarie condizioni della scuola (travi che cedono, muffa sui pavimenti, lezioni tenute negli sgabuzzini). E' stata lei a tessere i contatti con le altre scuole. E' stata lei ad andare in televisione come rappresentante dell' istituto. Il ministro degli Esteri del Dudovich, insomma. Lei si schermisce: "No.
Sono solo il portavoce". Eppure tutti le tributano il rispetto dovuto a un capo. Perfino il vice-preside, che corre a rapporto quando Marzia gli dice: "Avrei bisogno di lei un momento".
Occhialini tondi, lunghi capelli neri, Marzia indossa un maglione irlandese oversize comprato dalla mamma e calza pesanti anfibi. Una tenuta da occupazione addolcita da un rossetto bordeaux. "Rosso Lancôme", precisa. Marzia abita a Paderno Dugnano, hinterland milanese, ma è di origine veneta. Suo padre fa il rappresentante di filati, ma nel Sessantotto lavorava in fabbrica. E l' ha occupata.
Ora la figlia ripercorre le sue orme. Anche se di quelle orme sa ben poco. Certo, appeso in camera sua c' è un manifesto di Che Guevara: "Uno dei personaggi più importanti della storia". Ma lo slogan "l' immaginazione al potere", per esempio, non le dice niente. Il padre si limita a raccomandarle di stare attenta: non parla mai delle sue lotte. E non perché tra loro non ci sia dialogo. Solo tocca altri argomenti. Con i suoi genitori, dice Marzia, parla di tutto. Di tutto tutto? "Sì", risponde senza esitazioni. Anche di sesso? "Anche di sesso".
Dal Sessatotto al Novantatré: perché Marzia ce l' ha con il ministro della Pubblica istruzione Rosa Russo Jervolino? Riposta vaga: "Sta facendo passare una riforma ingiusta, che oltre a fare le privatizzazioni dà scarso spazio agli studenti".
Poco chiare le idee anche in materia di religione. "Mi ritengo abbastanza atea", dice. Cosa significa "abbastanza" atea? "C' è stato un periodo in cui mi interessavo alle religioni, a quelle di tutto il mondo. Poi ho deciso di vivere nella realtà, di non pensare che ci sia qualcuno al di sopra di me che mi dà una seconda vita".
Questo non significa essere "completamente" atea? "Non mi è ancora del tutto chiaro". Un compagno suggerisce: "Agnostica". E lei: "Definiamoci agnostica".
In mezzo a tanti dubbi, un punto fermo: Marzia è di sinistra. Anche se è indecisa se votare Rifondazione comunista o Pds: "Il mio partito ideale sarebbe un mix dei due". Il vecchio Pci? Marzia legge Il manifesto e Cuore, guarda il Tg3 e da grande vorrebbe aprire un' azienda di agriturismo in Umbria per scappare dal caos cittadino.
Molto meno attaccata ai modelli sessantottini è la sua compagna Dalul Tekelmariam. Sedici anni, iscritta al corso per figurinisti, Dalul è nata in Italia da genitori eritrei. Vive a Milano con la madre che fa la cameriera. "Io occupo la scuola", spiega Dalul, "perché, così com' è attrezzata, mi fornisce una preparazione insufficiente. E siccome io nella vita aspiro al successo, voglio essere messa sin d' ora nelle condizioni ottimali per ottenerlo". Se Dalul fosse maggiorenne, per chi voterebbe? "Per nessuno. Io voglio fatti, non parole. E qui sento solo parole. Per giunta vecchie".




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/12/93

Numero
2253

Pagina
42

Titolo
CANTO IL JAZZ E VOGLIO ESSERE INDIPENDENTE

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA ha collaborato Stefano Tallia

Sezione
STORIE

Occhiello
NOI, RAGAZZI TERRIBILI DEL '93 TORINO

Didascalia
Una scuola all' inglese Silvia Bonatto, 18 anni, dell' Istituto
tecnico commerciale Rosa Luxemburg di Torino. "La scuola che vorrei?
Come in Inghilterra: lì offre a tutti le stesse condizioni".

Testo
Diciott' anni compiuti da poco più di un mese, capelli neri a caschetto, Silvia Bonatto frequenta la quinta all' Istituto tecnico commerciale Rosa Luxemburg di Torino. Non ha mai fatto politica ("non capisco i partiti, anche se voterei a sinistra"), ma da qualche giorno i suoi compagni l' hanno eletta nel consiglio d' istituto e lei si è battuta perché nei tre giorni di autogestione si discutesse a fondo della proposta di riforma avanzata dalla Jervolino: "Perché la nostra più che una protesta è un tentativo di capire". E cosa hai capito? "Che l' unica cosa su cui sono d' accordo è l' innalzamento dell' obbligo scolastico ai 16 anni".
Che scuola vorresti? "Apprezzo il sistema scolastico inglese: mette tutti gli studenti nelle stesse condizioni". Il padre di Silvia è direttore marketing e vendite di una grossa azienda. E lei vorrebbe seguirne le orme nel campo del marketing. Anche se ha un sogno nel cassetto: fare la giornalista. Forse per questo legge molti giornali: La Stampa, Repubblica, tutti i periodici. E guarda molto la tivù (RaiTre e le commerciali: "La prima per trasmissioni come Cielito lindo, le seconde perché fanno telegiornali più comprensibili"). Apprezza la "pulizia" che sta facendo Antonio Di Pietro e l' ultimo libro che ha letto è molto in sintonia con l' attualità di Tangentopoli: Le mie prigioni di Silvio Pellico. "E' molto realista". Silvia non crede in Dio. Ma nella musica sì: "Canto e suono in Pharestia, un gruppo jazz". Ha fatto l' amore per la prima volta a 16 anni e non ha nulla contro l' istituto del matrimonio. Anzi pensa proprio che prima o poi si sposerà. Anche con un extracomunitario? "Perché no". Ma la cosa che più desidera è essere indipendente. Problemi con i genitori? Tutt' altro: "Con loro ha un ottimo rapporto, anche se papà è spesso lontano da casa. Ma è proprio grazie a loro che sono riuscita a sviluppare un forte senso di indipendenza". La sua camera è il suo regno: "Alla parete ho appeso un grande poster di Albert Einstein. Mi piace perché è bello e perché ho sempre trovato affascinante la sua situazione di genio incompreso".




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/12/93

Numero
2253

Pagina
42

Titolo
SE FOSSI DIO SAREI VENDICATIVA

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA ha collaborato Fabio Pozzo

Sezione
STORIE

Occhiello
NOI, RAGAZZI TERRIBILI DEL '93 GENOVA

Didascalia
Amo il rock duro Samantha Merlo, 16 anni, dello scientifico Manzoni
di Genova. Ascolta i Guns ' n' Roses.

Testo
Ha un brillantino che le buca la narice sinistra. E' minuta, occhi verdi, capelli rossi corti. Indossa una camicia da uomo di flanella a scacchi e calza scarponcini Kickers che però definisce "molto borghesi". Samantha Merlo, 16 anni, frequenta la terza al Manzoni di Genova, indirizzo liceo scientifico: è rappresentante di istituto e partecipa al coordinamento delle scuole occupate. E' una delle "pasionarie" del movimento studentesco. Samantha dice di amare le materie scientifiche, tanto che le piacerebbe fare il veterinario ("Anche se sono brava in italiano e non mi dispiacerebbe fare la giornalista"). L' ultimo libro aperto è stato Dal Big-bang ai buchi neri. "Di quello scienziato di cui non ricordo il nome. Ma era un libro troppo difficile. Non l' ho finito e sono passata all' Anello di re Salomone di Konrad Lorenz". L' informazione è importante per lei: legge i quotidiani cittadini (il Secolo XIX, il Lavoro), la Repubblica, Epoca ("Lo compra mio padre"), guarda il Tg3 e il Tg2.
Samantha sta bene in famiglia: "Siamo amici anche se ogni tanto "rompono" come tutti i genitori". La sua è una famiglia operaia e lei, se ne avesse l' età, voterebbe per Rifondazione comunista. In sintonia con il suo più grande desiderio: che i fascisti non governino mai in Italia. E in sintonia con il poster che ha appeso in camera sua: quello di Che Guevara. Samantha crede in Dio: "Io credo in un Dio che è una forza, non una persona. Spero proprio che ci sia. Deve esserci un premio per chi si è comportato bene e una punizione per chi è stato malvagio. Io sarei molto vendicativa". In Chiesa ci vai? "Mai. Ha regole false. Come si fa a essere contrari all' aborto e fare nascere per esempio un bambino da una violenza carnale?". Lei non ha ancora fatto l' amore e pensa che potrebbe sposarsi: "Non sono contraria. Se viene, ben venga". Samantha la domenica pomeriggio esce con gli amici. Va in discoteca: "Anche se non mi piace la musica che mettono. Io preferisco il rock duro.
Quello dei Guns ' n' Roses. Ma anche i Queen e i Pink Floyd. E la musica di Bob Marley e di Bob Dylan".




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/12/93

Numero
2253

Pagina
43

Titolo
VOGLIO UNA VITA NORMALE

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA ha collaborato Roberto Conigliaro

Sezione
STORIE

Occhiello
NOI, RAGAZZI TERRIBILI DEL '93 PALERMO

Didascalia
Voterei per i cattolici Francesco Calabrese, 17 anni, del liceo
scientifico Einstein di Palermo: "Sono credente".

Testo
Due grandi occhi scuri sotto un cespuglio di capelli arruffati. Una faccia sveglia da "bravo ragazzo". Niente orecchino, niente stravagnaze, niente kefia, la sciarpa palestinese tanto in voga tra gli studenti in rivolta del 1993. Francesco Calabrese, 17 anni, studente del liceo scientifico Einstein di Palermo è un ragazzo come tanti altri a quell' età: giubbotto e motorino. Eppure è uno dei più attivi militanti del nuovo movimento studentesco. E ama la scuola.
Tanto da passare le domeniche pomeriggio studiando. Tanto che gli piacerebbe diventare insegnante di matematica. Come il padre. Ma la sua critica alla Jervolino è senza appelli: "Non mi piace perché non si è voluta rivolgere a noi alunni che siamo i veri destinatari di tutti i provvedimenti che riguardano la scuola". E ha le idee chiare anche su come deve funzionare l' istruzione: "Chi non lo merita non deve essere promosso". Francesco non ama leggere i giornali e preferisce comunque le testate locali come il Giornale di Sicilia, e il tigì regionale Rai. L' ultimo libro? Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse. La sua attenzione politica va al mondo cattolico progressista: "Se potessi votare sceglierei la lista di Città per l' uomo (un raggruppamento cattolico che alle ultime amministrative ha appoggiato Leoluca Orlando, ndr)". Francesco crede in Dio ("Quanto basta per essere un buon cristiano"), frequenta la parrocchia, si sposerà. E si trova bene in famiglia. I suoi genitori sono soprattutto degli amici per lui. Oltre che degli esempi.
Infatti il suo più grande desiderio è proprio quello di ripercorrere la strada del padre: "Non voglio avere problemi a scuola, vorrei andare molto bene all' università e poi trovare un lavoro. E fare quello che mi piace: insegnare". In parrocchia Francesco ha molti amici. Ma ci tiene a sottolineare che si trova bene anche con alcuni ragazzi extracomunitari più grandi di lui che incontra lì. I suoi miti? Certo non si è fatto impressionare dal giudice Di Pietro come molti suoi coetanei: "Non è un eroe. E' un bravo magistrato che fa nient' altro che il suo dovere". Chi ha appeso allora alle pareti della sua camera? "La mia è una stanza molto piccola. Oltre al letto e alla scrivania trovano posto, ma solo sul muro, Albert Einstein, i Pink Floyd e le scarpe Nike".




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/12/93

Numero
2253

Pagina
43

Titolo
LA JERVOLINO? NE APPREZZO LA TESTA DURA

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA ha collaborato Stella Cervasio

Sezione
STORIE

Occhiello
NOI, RAGAZZI TERRIBILI DEL '93 NAPOLI

Didascalia
Che non sia solo la vampata di un cerino Francesco Borrelli, 20
anni, iscritto al secondo anno a Lettere di Napoli. E' uno degli
animatori dell' associazione studentesca Alta tensione.

Testo
Francesco Borrelli ha vent' anni, è iscritto al secondo anno di Lettere a Napoli. Ma soprattutto è uno degli animatori di Alta tensione, un' associazione studentesca che "vive" nel movimento. La sua attenzione politica è tutta rivolta verso il "nuovo": "Guardo ai Verdi, alla Rete, ad Alleanza Democratica... ma mi sento più rappresentato da un movimento che da una formazione politica". Legge moltissimo: Repubblica, Mattino, Panorama Epoca, Frigidaire. E guarda Tg3 e Tg5. Quanto ai libri, ecco gli ultimi: American Psycho di Ellis e Finzioni di Borges. Ce l' ha a morte con la Jervolino: "L' unica cosa che apprezzo in lei è la sua testa dura". E coltiva un desiderio che è strettamente collegato al suo impegno nel movimento studentesco: "Spero che questa forma di rivolta porti a qualcosa di concreto, che non cada nel dimenticatoio, che non sia soltanto la vampata di un fiammifero". Francesco non si è mai posto il problema del matrimonio, ma sposerebbe di corsa una extracomunitaria: "Ce ne sono di bellissime. Ho conosciuto alcune africane che mi hanno fatto pensare alla superiorità fisica della gente di colore". Ma non vuole parlare della sua sfera personale: "La prima volta che ho fatto l' amore? E' una cosa troppo privata per metterla in pubblico". Da piccolo frequentava la parrocchia ma ora non crede più in Dio: "Ho perso la fede dopo il periodo del catechismo. Ma rispetto moltissimo i cattolici. Anche se sono critico verso di loro: alcune affermazioni del Papa mi sembrano folli". Anche il padre di Francesco è ateo: "Direi anticlericale acceso. Mia madre invece è un po' bigotta. Sono un bel cocktail: mio padre sempre un po' assente dalla famiglia, mia madre invece è eccezionale, si è dedicata a noi completamente". Il rapporto con loro è ottimo, tanto che la sua stanza Francesco l' ha ideata con il padre: "Una grossa vetrata che si affaccia su piazza Plebiscito e sul letto un pannello di fotografie".
le foto del servizio sono dell' agenzia Contrasto



Testata
Epoca

Data pubbl.
07/12/93

Numero
2252

Pagina
80

Titolo
VITA (MAI RACCONTATA) DI GIOVANNINO LE DONNE, LO SPORT E LA FIAT

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E MARCO FINI

Sezione
STORIE

Occhiello
SECONDA PUNTATA

Sommario
Frequenta modelle e contesse, ma il suo vero amore è una ragazza "qualsiasi". Segue la Juventus ogni domenica, ma il suo vero debole è il gioco del golf. Gira in Vespa, ma preferisce di gran lunga la Ferrari. Vizi, vezzi e virtù nascoste dell' erede appena designato da Casa Agnelli.

Didascalia
SUCCESSORE Giovanni Alberto Agnelli III, 29 anni, presidente della
Piaggio Veicoli Europei e, dal 15 novembre scorso, consigliere di
amministrazione della Fiat al posto del padre Umberto.
GOLFISTA...
Giovannino Agnelli durante una partita di golf. Di solito gioca sul
campo della residenza I Roveri, 20 chilometri da Torino.
...E CALCIATORE
In tenuta juventina. Da piccolo si allenava a Villar Perosa
con la squadra. A fianco: allo stadio con lo zio Gianni.
PONTEDERA
La villa di Varromista a Pontedera, in provincia di Pisa.
E' la casa della nonna di Giovannino Agnelli, Paola Piaggio. Qui ha
scelto di vivere l' erede della fortuna Fiat. E' un edificio del
Quattrocento, al centro di un parco estesissimo. Giovannino è molto
legato alla nonna. Proprio lei lo ha voluto alla presidenza della
Piaggio.

Testo
Da quindici giorni al tavolo del consiglio d' amministrazione della Fiat siede lui, Giovanni Alberto Agnelli, 29 anni, nipote dell' Avvocato. Siede al posto del padre Umberto, l' eterno secondo, passato all' Ifi e all' Ifil, le finanziarie di famiglia.
Comincia adesso la vera gavetta per Giovanni III. In gioco, l' impero degli Agnelli: quasi 300 mila dipendenti per un fatturato di 58 mila miliardi. Per Giovannino, come lo chiamano in casa, sarà una gavetta dura. Il gruppo, al sesto posto sul mercato europeo dell' auto, ha chiuso il primo semestre 1993 con una perdita di 966 miliardi che l' ha costretto ad allargare i confini di famiglia accettando la partecipazione di quattro soci, la Deutsche Bank, Mediobanca, Alcatel e Generali, tanto possenti sul piano internazionale quanto (potenzialmente) ingombranti nella gestione interna.
Ma De Benedetti no. Con quali credenziali Giovanni junior si presenta al consiglio d' amministrazione? A neanche 30 anni non si può essere manager fatti. Certo, il nipote dell' Avvocato ha in curriculum una carica di tutto prestigio, quella di presidente della Piaggio Veicoli Europei, ma non dimentichiamo che sua madre di cognome fa proprio Piaggio.
Resta il fatto che nei suoi primi trent' anni Giovannino, Delfino dell' anno 2000, ha lavorato sodo. E' il padre Umberto a orientare il suo apprendistato. Vorrebbe portare il figlio fuori dalla stretta marcatura familiare. L' episodio, diventato ormai leggendario, vede Umberto al telefono con Carlo De Benedetti, mentre chiede di far fare esperienza al ragazzo in Olivetti. Quale migliore tirocinio di una missione sul terreno dell' avversario? Ma Gianni non apprezza il colpo di teatro e Giovannino viene più banalmente spedito a fare il contabile nella Teksid, azienda siderurgica del gruppo Fiat. Non si opporrà invece, il grande Zio, all' ingresso del nipote alla Piaggio, per il 50 per cento proprietà di Antonella, madre di Giovannino, e della nonna Paola e per un 10 per cento in mano a Umberto.
Entrato come assistente del presidente Giovanni Denegri, Giovannino all' inizio fa il ragazzo di bottega. Nel 1989 diventa vicepresidente della Piaggio Veicoli Europei e nel 1991 amministratore delegato della Motovespa, filiale spagnola del gruppo. L' azienda è piccola, 600 dipendenti, più snella della casa madre di Pontedera. Giovannino, che sa e dichiara apertamente di avere ancora molto da imparare, non disdegna le visite agli stabilimenti, i contatti con gli operai, addirittura i loro consigli per modificare il ciclo produttivo.
Al suo ritorno in patria, a Pontedera, la consacrazione definitiva: il 24 febbraio di quest' anno viene nominato presidente della Piaggio Veicoli Europei. Il momento è cruciale. La Piaggio di Pontedera ("core business" di un gruppo che l' anno scorso ha fatturato 1.450 miliardi), 5 mila dipendenti contro i 12 mila di dieci anni fa, è un' azienda con molti problemi. Primo tra tutti: lo scontro violentissimo che si è acceso tra il paese, 28 mila abitanti legati alla fabbrica in maniera simbiotica, e il management dell' impresa, quando questo nel 1991, approfittando degli investimenti concessi dalla legge 64 per il Mezzogiorno, ha minacciato il trasferimento a Nusco di parte degli impianti.
Nella tana del sindaco rosso. L' opzione per il feudo natale di Ciriaco De Mita, dopo l' insurrezione collettiva di operai, politici, commercianti e persino preti, si è allontanata. I dirigenti Piaggio hanno promesso a Pontedera 300 miliardi di lire d' investimenti per il triennio 1993-95 e hanno nominato presidente Giovannino Agnelli. "E' il segnale che la proprietà", dice Luciano Bernardeschi, segretario della Fim-Cisl, "intende tornare a impegnarsi sul nostro territorio".
Sarebbe stata la nonna Paola Piaggio, da sempre first lady di Pontedera, a dare le redini al nipote per restaurare la dinastia indebolita dagli assalti dei "tecnici" portati dal genero Umberto Agnelli. Primo tra tutti, il presidente Giovanni Denegri. In questa complicata trama di rapporti familiari e societari, Giovanni junior debutta a Pontedera con una mossa a sorpresa. Scavalcando ogni protocollo va in Comune, roccaforte del nemico. Destinazione: la stanza del giovane sindaco, il pidiessino Enrico Rossi: "Ha salito da solo le scale del "Municipio rosso". Ha chiesto di me ed è entrato in ufficio".
Abito di grisaglia blu, Giovanni Alberto Agnelli davanti a una tazzina di caffè parla al sindaco di "responsabilità etica dell' imprenditoria" e di "bisogno di cose eccellenti", come il Museo delle due ruote da fondare insieme al Comune a Pontedera.
Rifiuta invece l' invito agli spettacoli del laboratorio di teatro sperimentale, vanto degli intellettuali del luogo: "No, grazie. Un po' noioso".
Giovannino ormai è diventato un manager, un manager all' americana: Herald Tribune ed Economist sulla scrivania. E poi niente autista, nessun filtro per i collaboratori, porte sempre aperte per i suoi uomini. Non è un ciclone. Si muove con cautela, anche se di fatto mira a rinnovare la vecchia squadra dirigente.
Rifugio toscano. Ora che è entrato nel consiglio di amministrazione della Fiat non abbandonerà certo Pontedera, angolo di Toscana in bilico fra passato e futuro, con tante fabbrichette e la campagna costellata di tenute medicee. E' proprio in una di queste, la Varromista, residenza della nonna Paola, un enorme parco con villa affrescata del Quattrocento, che Giovanni ha infatti scelto di vivere. E' la casa della sua infanzia, il legame con le radici.
Al contrario del cugino Edoardo, "ripudiato" figlio dell' Avvocato, tormentato esteta alla continua ricerca di sé, Giovannino non è tipo da crisi d' identità. Lui sa bene chi è, da dove viene e dove va.
Giovanni Alberto Agnelli si alza alle sei di mattina, si corica alle nove e mezzo di sera, non rinuncia mai alla ginnastica quotidiana, mangia sano, è molto legato alla famiglia, frequenta mondanità quanto basta (tra i suoi amici: Serge di Iugoslavia e Hubertus von Hohenlohe, figlio di Ira Fürstenberg). E soprattutto lavora: 10 ore al giorno. Sabato compreso. La domenica va allo stadio. "E' sempre impeccabile", dice Umberto Ivaldi, responsabile della tribuna d' onore dello stadio delle Alpi di Torino. "Non si scalda mai. Se la partita va bene si limita a sorridere. Certo che ama il calcio! Ogni Agnelli ama la Juventus".
"E' più facile essere figli di Umberto che di Gianni", dice Vittorio Sermonti, critico letterario e apprezzato dantista, ex marito di Samaritana Rattazzi, nipote dell' Avvocato. Umberto è un Agnelli atipico, con la sua buona grammatica e i suoi vestiti sobri. Ma soprattutto è un padre presente: appena può, torna a casa alle 19.30 per mangiare coi figli".
Zio-padrone. Meno idillici i rapporti con l' Avvocato, che certo lo ama molto e stima più degli altri nipoti, ma che non rinuncia a esercitare la sua corrosiva potestà. Suggerendo, indirizzando, se il caso ordinando... Sono rapporti di lavoro quelli che legano zio e nipote: finito il lavoro, finiti i contatti. Alla tribuna d' onore dello stadio, per esempio, non arrivano mai insieme. Si salutano, si sorridono, ma ognuno al suo posto.
Del resto sono caratteri ben diversi. Se la cifra caratterizzante dello zio è il gusto del rischio, quella di Giovanni Alberto è la posatezza. Un' affidabilità tipicamente piemontese, una relativa morigeratezza che mostra persino negli affari di cuore (vedi riquadro a pagina 84).
Attaccamento alla famiglia, senso del dovere, culto della tradizione, un pizzico (solo un pizzico) di spregiudicatezza con le donne... Il Delfino di Villar Perosa ha le carte giuste per diventare l' Agnelli del Duemila. A condizione che nel Duemila ci sia un Agnelli a capo dell' impero. Perché gli analisti concordano: nel capitalismo avanzato la famiglia "padrona" rischia di sparire.
Sarà così bravo Giovannino da rovesciare la legge che ha già decapitato dinastie come i Ford e tenere "tutto in famiglia"?



Testata
Epoca

Data pubbl.
30/11/93

Numero
2251

Pagina
34

Titolo
VITA (MAI RACCONTATA) DI GIOVANNINO L' AGNELLI DEL DUEMILA

Autore
DI ELISABETTA BURBA, MARIA GRAZIA CUTULI E MARCO FINI

Sezione
STORIE

Occhiello
PRIMA PUNTATA

Sommario
Suo zio Gianni gli ha dato l' investitura. Suo padre Umberto gli ha lasciato il posto. Suo cugino Edoardo ha accantonato ogni speranza di contendergli il comando. Così, a soli 29 anni, Giovanni Agnelli III è diventato all' improvviso il principe ereditario del più grande impero privato italiano. Ma chi è davvero questo ragazzo? Come ha vissuto? E sarà capace di guidare il colosso di Torino? Dalle pagelle scolastiche alle incomprensioni in famiglia, dalle feste con le top model ai travestimenti da operaio e alle prove da manager, "Epoca" ha ricostruito puntigliosamente la storia finora sconosciuta del delfino Fiat.

Didascalia
EREDITA' Sopra: Giovannino Agnelli con Cesare Romiti,
amministratore delegato della Fiat. A fianco: il manifesto dei
Carabinieri in cui compare Giovanni Agnelli. Il giovane ha svolto il
servizio militare nell' Arma come paracadutista nel battaglione
Tuscania. Non ha potuto fare l' ufficiale perché il suo titolo di
studio americano non è riconosciuto in Italia.
SUA MADRE DICEVA: "NON VOGLIO CHE SIA UN PRIVILEGIATO"
SCOLARO PRECOCE Giovannino Agnelli (nel cerchietto) a cinque anni
in prima elementare al Collegio San Giuseppe di Torino. E' il 1969.
Era molto affezionato alla maestra, Giuseppina Riva Ghigo.
COME GLI ALTRI Giovannino a nove anni, in quinta elementare. Sua
madre Antonella Piaggio ripeteva ai maestri: "Voglio che mio figlio
si senta un bambino come tutti gli altri. E non un Agnelli".
ANGIOLETTO Giovannino il 9 maggio del 1971, giorno della sua Prima
Comunione, nella cappella del Collegio San Giuseppe. Racconta un suo
insegnante di Italiano nell' istituto: "Era un bambino pieno di
riccioli e molto affettuoso. Mi colpiva sempre lo slancio con cui
salutava chi veniva a prenderlo. Una volta l' ho visto buttare le
braccia al collo della tata".
DIFFICOLTA' IN FAMIGLIA Giovannino Agnelli in seconda media. I suoi
genitori stanno per separarsi e lui ne soffre molto. Gli ci vorranno
dieci anni per recuperare completamente il rapporto col padre.
UNA VITA IN TRE IMMAGINI
GRUPPI DI FAMIGLIE Sopra: Giovannino a due anni e mezzo a Forte dei
Marmi tra il padre Umberto e la madre Antonella Piaggio. A fianco: a
undici anni con il papà. Sotto: oggi, con il padre e la seconda
moglie di lui, Allegra Caracciolo. Giovannino ha due fratellastri da
parte di padre, Andrea e Anna, e una sorellastra da parte di madre,
Chiara, che adesso ha 16 anni. Mentre con Chiara ha sempre avuto
rapporti strettissimi, con gli altri due fratelli ha rinsaldato i
legami al suo ritorno dall' America.
Giovannino Agnelli con il cugino Edoardo a una partita della
Juventus.

Testo
"Mio fratello Umberto aveva piacere e interesse di occuparsi di Ifi e Ifil e ciò lo assorbirà completamente. Per questo è uscito dal consiglio. Per non dare la sensazione che tutto ciò venisse fatto in alcun modo in dissenso con la Fiat, ha voluto darci la facoltà di disporre di suo figlio Giovanni Alberto nel consiglio di amministrazione. E suo figlio non è entrato in consiglio soltanto perché, avendo tolto i limiti d' età, volevamo con la sua presenza abbassare la media, ma perché contiamo sui suoi consigli".
Giovanni Agnelli senior, 15 novembre 1993 Giovanni Alberto Agnelli III entra nella stanza dei bottoni Fiat a un' età - la soglia dei trent' anni - in cui gli aspiranti eredi fanno di solito ancora gavetta. Viene da una carriera rapida nella Piaggio, un' azienda, leader europea nella produzione di motoscooter, controllata da papà, mamma e nonna materna. Ma se le credenziali manageriali non sono forse sufficienti, le doti di riservatezza e la solidità del carattere appaiono come le armi risolutive per il suo successo finale. La successione dell' Avvocato (che ha ancora una volta sfidato gli dèi, spostando la data del suo ritiro per almeno altri tre anni) è una questione che ha scosso alle basi gli equilibri del potere all' interno della famiglia mettendo definitivamente fuori campo l' eterno cadetto Umberto. Non è una sconfitta irrimediabile, se il figlio Giovanni III entra in consiglio di amministrazione al suo posto e se dimostrerà di avere il nerbo per reggere la coabitazione col grande Zio e col suo braccio secolare Cesare Romiti. Poi, una volta presidente, se la vedrà con i nuovi ingombranti soci, Cuccia e Deutsche Bank in testa.
"Giovannino" non è provvisto del fascino grifagno dell' Avvocato. La sua sana aria di giovanotto non viziato da troppe letture ha subito fatto da contrappeso all' immagine lunare del rosso Edoardo, il primogenito dell' Avvocato, un quarantenne irrimediabilmente segnato dal "privilegio" di essere un Agnelli. Dopo innumerevoli gaffe e molte parole fuori dai denti, egli aveva abdicato al ruolo di erede legittimo a favore del più terragno cugino; ma prima di lui lo avevano diseredato il padre e il consiglio di famiglia.
Ritratto di un Delfino. In tempi di stretta economica, di accresciuta competizione mondiale a confini cancellati, si era pensato a una gestione di emergenza affidata a tecnici manager, ma alla fine provvidenzialmente è emerso lui, Giovanni III, faccia pulita e taglia rassicurante, a ribadire che ancora per questa generazione valgono le antiche leggi Fiat: la gestione ha da essere un affare di famiglia, lo scettro del potere passa non da padre a figlio ma da zio a nipote. Un metro e 85 di altezza, pettorali sviluppati, viso aperto al sorriso: Giovanni Alberto Agnelli sembra il prototipo del giovane manager americano (anche se non si può proprio dire che sia un "self-made-man"): pragmatico, affidabile e di ottime maniere, è la versione anni Novanta del gentiluomo piemontese: attaccamento alla famiglia, passione per l' aria aperta, stile Piemonte reale, Pinerolo cavalleria... Sola nota fuori registro: i polsini della camicia sempre slacciati. Per il resto, tutto nella media. Eppure...
Dimentica di essere un Agnelli. Giovannino nasce il 19 aprile 1964 a Milano da Umberto Agnelli e Antonella Bechi Piaggio. Entra a scuola a 5 anni. Come tradizione comanda, al collegio San Giuseppe di Torino, dove hanno studiato tre generazioni d' Agnelli, a cominciare dal leggendario bisnonno Giovanni, fondatore dell' impero Fiat. Non è una scuola snob il San Giuseppe (niente a che vedere con i collegi svizzeri), e neanche cara: 4 milioni di retta all' anno.
E' una vecchia istituzione, sorretta da solide colonne di marmo, ma con soffitti ingrigiti e tappeti lisi. Un posto dove la promozione bisogna sudarla.
Il viso del giovane Agnelli, nelle foto di classe, si confonde tra quelli dei compagni. Né la sua storia scolastica si distingue particolarmente. Unica onorificenza: la medaglia dello scultore fiorentino Giovanni Chissotti, ricevuta per il centenario del collegio, come premio di fedeltà alle quattro generazioni di Agnelli che l' hanno frequentato.
Ma Giovannino rimane pur sempre un Agnelli, con l' autista che lo attende impalato all' uscita di scuola. Ed essere un Agnelli a Torino è come essere un Windsor a Londra. "La madre lo sapeva bene e la cosa la preoccupava", racconta fratel Giovannino, memoria storica del collegio. "All' inaugurazione dell' anno scolastico 1977-78, quello della terza media, abbiamo parlato a lungo. "Vorrei far studiare Giovannino in America", m' ha detto, "non voglio cresca da privilegiato"".
Parole ben diverse da quelle che lo zio Gianni, l' Avvocato, si è sentito ripetere per tutta l' infanzia da Miss Parker, la governante inglese: "Don' t forget you are an Agnelli". Non dimenticare che sei un Agnelli.
L' America come palestra di vita, dunque. Ma la scelta è dettata anche da complicazioni familiari. Antonella sta per separarsi dal marito Umberto e vuole portare il figlio con sé negli Stati Uniti.
Si trasferisce ad Atlanta, in Georgia, dove possiede un allevamento di cani e dove vive tuttora. Di gusti elevatissimi, ma di buon senso borghese, la madre spedisce Giovannino all' Accademia militare McCallie di Chattanooga, dove gli allievi diventano qualcosa di simile ai marines.
Piccola peste. Intanto i genitori si riaccasano. Umberto con la principessa Allegra Caracciolo, cugina di Marella, la moglie di Gianni Agnelli senior. Antonella con il duca Uberto Visconti di Modrone. In questo vorticare di stemmi nobiliari, Giovannino fa l' americano: studia quanto basta e fa tanto sport. Le trasgressioni? Si spendono tutte in Italia, d' estate. Nel casale di Umberto a Cetona, nella villa Piaggio all' Argentario, dagli amici sparsi fra Toscana, Engadina, Costa Azzurra.
Quando è a Torino, Giovanni sta dal padre, nella residenza I Roveri, all' interno del parco La Mandria. I primi tempi, la convivenza con la nuova moglie di Umberto, Allegra, e i fratellastri più piccoli, Andrea e Anna, è un po' difficile (con Chiara, l' altra sorellastra, figlia di Antonella Piaggio, va invece molto d' accordo). Giovanni fa l' enfant terrible: una volta, guidando una macchina senza avere la patente, finisce in un fosso. Un' altra volta viene espulso da un torneo di golf per una partita poco ortodossa.
Ma il tempo delle marachelle finisce presto. A poco a poco i rapporti familiari migliorano e l' enfant terrible diventa "la luce degli occhi" di papà Umberto: serio, impegnato, coscienzioso. Quasi noioso. Si iscrive alla Brown University di Providence nel Rhode Island. Una buona università, fa parte dell' "Ivy League", ristretta cerchia di prestigiosi atenei privati americani, ma niente di esclusivo. Corso di laurea in relazioni internazionali con "paper" finale sul Medio Oriente.
Il suo curriculum sembra studiato a tavolino da un consulente di immagine. Filosofia di base: tutto "comme il faut". Nessuna azione gratuita, nessuna alzata di capo, nessun passo fuori dal seminato.
Se negli anni Cinquanta, tempi di ascesa per la Fiat, suo zio l' Avvocato scorrazza sulla Corniche a Montecarlo, agli inizi degli Ottanta i lussi ostentati non sembrano più opportuni.
L' azienda di famiglia è appena venuta fuori da un momento difficile: tentativi falliti di alleanze internazionali, problemi finanziari, scioperi e persino violenze negli stabilimenti.
Giovannino si adegua. Così, se lo zio a trent' anni suonati le officine le aveva viste solo perché ve lo aveva trascinato il presidente Vittorio Valletta, il nipote in fabbrica entra a 18 anni.
E come operaio.
Operaio in incognito. Sono le vacanze 1982. Il rampollo di casa Agnelli torna dagli Stati Uniti e si fa assumere in Fiat. Un lavoro estivo all' americana? O piuttosto l' inizio della scalata? Resta il fatto che, sotto il falso nome di Giovannino Rossi, indossa la tuta blu, sale sul motorino e si presenta ai cancelli della Comau di Grugliasco, lo stabilimento che fabbrica robot per il montaggio delle auto Fiat. Una destinazione non casuale. La Comau è tranquilla: Giovannino non corre il rischio di incontrare militanti dell' autonomia o, Dio non voglia, simpatizzanti delle Br. E neanche il vero sottoproletariato urbano.
Alla Comau lavora l' "aristocrazia" della classe operaia: tutti operai specializzati, meccanici montatori, per la precisione. Lo ricordano così: "Quand' è arrivato", racconta Luigi Berton, delegato Cgil, "abbiamo capito che era uno importante. I responsabili lo riempivano di attenzioni... All' ora di pranzo non mangiava con noi in mensa, lo veniva sempre a prendere un dirigente. Però lavorava".
Arie? "Macché. Era un ragazzo allegro, parlava di calcio...".
Motorino con la scorta. A scoprire la sua vera identità sono stati i compagni di reparto, quando si sono accorti che, all' uscita, dietro il motorino c' era sempre una macchina di scorta. I rapporti a quel punto sono cambiati. "Per scelta nostra: non potevamo certo più considerarlo come uno di noi. Da quel momento, solo discorsi seri".
Il figlio del padrone è rimasto impresso anche a Franco Natalicchio, funzionario sindacale della Fiom: "Era gentile, alla mano, simpatico. Tutti dicevano che non sembrava il figlio di Agnelli". Insomma, un angelo. Neanche un difetto? "Noi l' abbiamo conosciuto così", risponde Berton.
L' apprendistato da "uomo qualunque" non è ancora finito. Dopo l' università, s' ha da fare il militare. Giovannino sceglie i carabinieri, e per di più paracadutisti. Il 21 aprile 1986 fa il suo ingresso al battaglione Tuscania della Folgore, di stanza a Livorno. Verdetto d' ammissione: "Fisicamente idoneo". Non è Schwarzenegger ma è solido e forte quanto basta ad affrontare la scuola di addestramento di Pisa. Entra e rimane come soldato semplice: non potrà fare il corso per ufficiale di complemento perché lo Stato italiano non gli riconosce i titoli di studio Usa.
Tra lavaggi di gabinetti, piantonamenti e corvée, non si può certo dire che al Tuscania sia trattato da privilegiato. Né lui lo chiede.
Unica nota distintiva: i superiori per "ragioni di sicurezza", gli appioppano una scorta. Due commilitoni che lo accompagnano durante le libere uscite. C' è un ufficiale al Tuscania che di lui ricorda ancora la "missione Pantelleria". I carabinieri erano lì in funzione anti-Gheddafi, dopo il missile sparato su Lampedusa. Tra una guardia e l' altra Giovannino, che sull' isola possiede una villa, pensò bene di dare un party. "Che femmine, ragazzi", fantasticano ancora oggi i partecipanti: arrivarono top model da tutto il mondo.
Ricordo imperituro, come quello di Giovannino che, a conclusione del corso, compare su una foto di gruppo, ricci neri, sorriso smagliante e divisa da parà. Si tratta di una campagna pubblicitaria per rilanciare il Tuscania e alzare il target degli arruolamenti.
Sul poster non c' è didascalia, ma l' Italia farà presto a scoprire che il "carabiniere Giovanni" è lui, il nipote dell' Avvocato, Delfino dell' anno 2000.




Testata
Epoca

Data pubbl.
16/11/93

Numero
2249

Pagina
30

Titolo
L' INCUBO DEL SANGUE INFETTO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
DOPO LE DENUNCE DELL' ASSOCIAZIONE DEI POLITRASFUSI, COSA PUO' FARE IL CITTADINO PER DIFENDERE LA SUA SALUTE

Sommario
Signor Ministro, ma davvero non c' è pericolo? Quindicimila ammalati di epatite. Tremila contagiati dall' Aids. E, soprattutto, milioni di italiani a repentaglio. Lo scandalo degli emoderivati ormai spaventa chiunque ha subito negli ultimi anni una trasfusione. Mentre il governo minimizza e, dal carcere, l' ex superdirigente Duilio Poggiolini tenta di giustificarsi, "Epoca" vi racconta chi ha rubato, chi davvero è in pericolo e cosa si può fare per essere più tranquilli.

Didascalia
POCA CHIAREZZA Maria Pia Garavaglia, ministro della Sanità.
All' inizio ha minimizzato lo scandalo.
L' ACCUSATO Duilio Poggiolini, romano, 64 anni, direttore generale
del servizio farmaceutico dal 1973, al momento dell' arresto, il 20
settembre scorso a Domodossola. Poggiolini era membro della
Commissione unica sul farmaco e del Comitato interministeriale
prezzi. E' accusato di aver firmato due circolari che ammettono la
vendita di emoderivati non controllati per l' Aids e l' epatite C.

Testo
Milioni di italiani in pericolo grave? In teoria sì. Infatti chiunque negli ultimi anni abbia fatto ricorso a trasfusioni di sangue e abbia assunto farmaci emoderivati è a rischio di Aids e di epatite virale (tipo C). In particolare, ci sono alcuni cittadini più in pericolo di altri: quelli che hanno subito trasfusioni o trattamenti con emoderivati tra il 1985 e il 1987. L' allarme lo lancia l' immunologo Ferdinando Aiuti, presidente dell' associazione nazionale per la lotta all' Aids: "E' consigliabile che tutte queste persone si sottpongano al test: il rischio di contagio è minimo, ma è una soluzione che permette di togliere ogni dubbio e sentirsi più tranquilli". In effetti, la sindrome del contagio sta dilagando in tutto il Paese, man mano che le notizie si accavallano alle notizie e nessuno riesce a mettere ordine nella confusione che regna in tutto il settore sanitario. Il ministero della Sanità è accusato di aver tenuto in commercio emoderivati prodotti con sangue non controllato e che, quindi, potrebbero essere veicolo di contagio del virus dell' Aids o dell' epatite C. E a questo si aggiunge un altro drammatico sospetto: quello che, fin dal 1983, siano sui banconi delle farmacie medicinali con effetti cancerogeni (vedi riquadro a pagina 37).
Accuse giustificate? Il ministero risponde con rassicurazioni ufficiali: "Non esiste in Italia, dal 1986 a oggi, rischio di contagio maggiore che negli altri Paesi europei". Eppure l' Associazione dei politrasfusi italiani non ha dubbi: i morti di Aids per colpa del sangue infetto sono 508 e i trasfusi che hanno chiesto l' indennità perché contagiati dal virus sono 3.220. E 15 mila sono i cittadini che hanno contratto, nello stesso modo, l' epatite C. Il ministro della Sanità, Maria Pia Garavaglia, prima nega tutto poi cerca di minimizzare "balbettando" altri dati: dal 1984 al 30 settembre scorso ci sono stati 243 contagiati dal virus dell' Aids tra i trasfusi e 206 tra i coagulopatici ( malati che hanno assunto emoderivati, Ndr). E i morti sono "solo" 37. Chi ha ragione? Chiunque l' abbia, ci sono degli italiani che hanno già pagato a caro prezzo. Ed è poco consolatorio sapere che lo stesso dramma riguarda anche altri Paesi europei.
Come la Francia. Dove lo scandalo del sangue infetto è scoppiato nel 1989. Vennero accertati oltre 1.200 contagi di Aids (trecento sono già morti) tra gli emofiliaci che avevano usato emoderivati infetti dal 1985 al 1987. Lo scandalo decapitò l' apparato sanitario nazionale, e vennero coinvolti anche due ministri di allora e il capo del governo, il socialista Fabius. O come in Germania dove proprio in queste settimane è esploso lo scandalo dell' azienda farmaceutica Ub-plasma di Coblenza, che avrebbe venduto plasma contaminato alle maggiori ditte europee. Tra queste due aziende italiane: la Biotest e la Immuno (che hanno però già precisato di avere acquistato plasma dalla ditta incriminata nel 1991, mentre il prodotto "infetto" è quello datato 1993).
Ma davvero nessuna delle aziende farmaceutiche italiane ha importato, dalla Germania o da altri Paesi, plasma a rischio? Ma allora i 37 morti e i 449 contagiati di cui parla il ministro, a chi debbono il virus dell' Aids? E quelli che hanno preso l' epatite C? Siamo poi davvero sicuri che sui numeri non abbia ragione l' Associazione dei politrasfusi? I dubbi che tormentano i sonni degli italiani che hanno subito trasfusioni o hanno utilizzato emoderivati non vengono fugati da nessuno. Perché? E soprattutto quando si saprà, nel caos di voci e polemiche di questi giorni, se ci si potrà ancora fidare delle autorizzazioni del nostro ministero della Sanità? Visto che nessuno è in grado di tranquillizzare gli italiani, vediamo almeno di capire esattamente cosa è successo.
Facciamo allora un passo indietro. Al 29 ottobre scorso.
Il dossier Cgil. Mentre la procura di Napoli indaga su Duilio Poggiolini, ex direttore generale del ministero della Sanità accusato di aver preso mazzette miliardarie, la Cgil presenta alla magistratura partenopea un dossier che ha come protagonista proprio Poggiolini. Con due capi d' accusa. Il primo: l' ex direttore della Sanità nel 1991 ha firmato un documento in cui esonerava i centri politrasfusionali dal condurre esami anti-epatite C, e poi il 9 dicembre 1986 una circolare, mostrata anche da Gianfranco Funari durante il suo Funari News, in cui invitava a tenere in commercio almeno fino al 30 giugno 1987 le immunogloboluline intramuscolari risultate positive al test anti Aids. La seconda accusa: Poggiolini per favorire alcune case farmaceutiche avrebbe autorizzato, dal 1973 al 1985, la vendita di farmaci a largo consumo giudicati cancerogeni da una perizia dell' Istituto superiore della sanità. Notizie bomba.
Che fanno scendere in campo contro il ministero della Sanità avversari agguerriti.
Il balletto delle cifre. Il primo è Angelo Magrini, presidente dell' Associazione politrasfusi italiani, che può finalmente tirar fuori cifre alle quali per anni nessuno aveva voluto dar credito: secondo una stima del 1991, 3.220 persone avrebbero contratto l' Aids in seguito all' uso di emoderivati tra il 1985 e il 1987, e altri 15 mila italiani risulterebbero contagiati dall' epatite C.
Rincara la dose la Lila, la Lega italiana per la lotta all' Aids, secondo la quale, tra il 1985 e il 1988, almeno 500 donazioni di sangue positive al test anti-Hiv (il virus dell' Aids, Ndr) sono state immesse sul mercato. E nel solo mese di ottobre Aiuti ha trovato il virus dell' epatite C in tre emoderivati (scoperta subito contestata dall' Istituto superiore di Sanità che ha effettuato i test sugli stessi lotti giudicandoli negativi...) Al ministero, Maria Pia Garavaglia, prima smentisce seccamente qualunque pericolo passato e presente, poi ammette qualcosa tentando di minimizzare i danni. E parla di 37 morti e 449 contagiati.
Il balletto delle date. Il nodo dello scandalo sta tutto qui: legato alle date che segnano il momento in cui viene introdotto il test obbligatorio per l' Aids e quello per l' epatite C. Si comincia nel 1986: "Di Aids si parlava già da tre anni, ma solo ad aprile 1986", spiega Dina De Stefano, dirigente della direzione generale del servizio farmaceutico del ministero della Sanità, "arrivano le prime attrezzature professionali per i controlli anti-Hiv. Il ministero emette una circolare in cui chiede alle ditte di eseguire il test sul plasma usato per la produzione di emoderivati". Eppure otto mesi dopo, il 9 dicembre, a dispetto di questa decisione, la circolare Poggiolini autorizza a lasciare in commercio le immunoglobuline non testate. Perché? La dottoressa De Stefano dà una spiegazione tecnica: "Lo stesso Consiglio superiore della sanità, nei mesi che corrono tra le due disposizioni, aveva accertato che le immunoglobuline intramuscolari, per il modo in cui vengono prodotte, anche se non sono ricavate da plasma testato, possono considerarsi sterili e quindi sicure". Non altrettanto sicuri i fattori di coagulazione VIII e IX, usati per la cura dell' emofilia. Questi rimangono in commercio fino al 1987. "Ma", assicura la Di Stefano, "quando abbiamo controllato il loro grado di sterilità abbiamo comunque scoperto che erano già stati termotrattati e quindi a loro volta sicuri". Spiegazioni articolate. Ma l' Associazione dei politrasfusi ribatte: "Le autorità sono intervenute volutamente in ritardo per permettere lo smaltimento delle scorte delle case farmaceutiche". Nel 1988, anche se in ritardo sugli altri Paesi europei, finalmente un decreto ministeriale impone i test obbligatori su tutto il plasma.
Le banche Usa a rischio. Rimane però aperta la questione dell' epatite C, malattia non trascurabile visto che nel 50 per cento dei casi porta alla cronicizzazione e a lungo andare al cancro al fegato. Il test arriva solo nel 1990. La Cee lo rende obbligatorio a partire dal gennaio 1993. Cosa fa il ministero? Dando prova di buona volontà impone alle ditte di importare solo plasma testato a partire dal 1992, con un anno d' anticipo per adeguarsi in tempo alle normative della Comunità europea. Ma c' é un problema.
L' 85 per cento del plasma usato in Italia per la produzione di emoderivati, arriva dalle banche del sangue americane. E lì, negli Stati Uniti, non si eseguono controlli anti epatite C perché non li si considerano affidabili. Cosicché all' Italia non rimane scelta: o si usa plasma americano non testato, dicono al ministero, o si rimane senza scorte. Poggiolini, su parere dell' Istituto superiore di sanità, firma una nuova circolare che autorizza a lasciare sul mercato per tutto il 1993 alcune immunoglobuline intramuscolari, le albumine e le antitetaniche endovenose. Sarebbe queste ultime quelle a rischio di Epatite C. Ma davvero l' unico criterio usato da Poggiolini è stato quello di evitare di rimanere senza emoderivati? E perché non si possono cambiare fornitori se quelli americani non testano il plasma? Quali interessi economici sono stati salvaguardati sulla pelle degli italiani? Arrivano i Nas. Venerdì scorso il ministro Garavaglia ha deciso di revocare la circolare Poggiolini. Anche se non ha certo brillato per tempestività. Dopo la denuncia della Cgil, l' unico provvedimento preso, oltre ad allacciare una linea telefonica per rassicurare chi si sente a rischio, è stato infati quello di allertare i Nas, i Nuclei antisofisticazioni dei carabinieri, che sono partiti con i controlli tre giorni dopo, l' 1 novembre. Quattrocento uomini sguinzagliati per tutta Italia per passare a setaccio centri politrasfusionali, strutture Usl e sopratutto ditte importatrici di plasma o produttrici di emoderivati. Ma i loro sono solo controlli amministrativi sulle certificazioni presentate da chi produce plasma. Anche se hanno portato al sequestro di flaconi di emoderivati non controllati per l' epatite C all' ospedale Molinette di Torino. Ma come si difendono i principali imputati, le aziende produttrici di emoderivati? La reazione delle aziende. Enzo Bucci, responsabile del gruppo Marcucci, che raggruppa le quattro maggiori aziende che lavorano il plasma in Italia, compresa la Sclavo (produttrice degli emoderivati con il virus dell' epatite C individuati nel laboratorio di Ferdinando Aiuti), riferisce soddisfatto sulla visita dei Nas: "Venerdì sono stati nei nostri stabilimenti: hanno trovato tutto in regola".
I ritardi del piano sangue. Tutto in regola? Chi lo può dire? I controlli continuano. E l' mergenza non sembra certo finita.
L' unica cosa sulla quale al ministero sono disposti a giurare è il sangue usato nelle trasfusioni: "Quello è certamente sicuro, perché non viene importato dall' estero ma prelevato interamente in Italia dove i controlli sono ormai obbligatori: quello contro l' Aids dal 1985 e quello contro l' epatite C dal 1990", dice Caterina Gualano, segretaria della Commissione nazionale per il servizio trasfusionale del ministero. Anche se poi ammette: "Si stimano 2 mila infettati dal 1983 a oggi". E allora? Che succederà da oggi in poi? "Da qui a tre anni", continua Gualano, "l' Italia potrà diventare autosufficente per la produzione di plasma ed emoderivati". Lo prescrive il Piano-sangue, approvato il mese scorso dal Consiglio dei ministri per il triennio 1994-96, dopo anni di discussioni.
Perché non è partito prima? Risponde Antonio Guidi, responsabile dell' osservatorio dei diritti della Cgil: "C' erano in ballo gli interessi delle multinazionali che vendono nel nostro Paese. Hanno fatto di tutto per ostacolarlo".

BOX
ATTENTI: ECCO COSA RISCHIATE TRASFUSIONI Quelle compiute in occasione di incidenti stradali o interventi chirurgici hanno una percentuale di rischio molto bassa: globuli rossi, piastrine e plasma vengono dai donatori volontari italiani, che sono sottoposti ai test sia per l' Aids sia per le epatiti virali. Il rischio viene dal "periodo finestra": un lasso di tempo all' inizio della malattia (Aids) in cui il virus sfugge agli accertamenti. Ma oggi esiste un test che ha risolto il problema: il Pcr. Purtroppo non è molto applicato.
PLASMA ED EMODERIVATI Il plasma con il quale si fabbricano gli emoderivati (immonuglobine, antitetaniche endovenose e molti altri farmaci) viene comperato all' estero. Proviene quasi tutto dal Terzo Mondo, dove nessuno si cura di verificare se il donatore ha un virus.
Prima di utilizzarlo, le case produttrici per legge sono obbligate a controllare il plasma. Ma i politrasfusi denunciano: "Questi controlli non sono stati fatti".
IL DOSSIER-DENUCIA DELLA CGIL E INTANTO E' PANICO SULLE MEDICINE - KILLER Finalmente la Commissione unica del farmaco ha sciolto le riserve.
Ma c' è da fidarsi?.
Per una settimana, attorno al dossier sui farmaci-killer, consegnato dalla Cgil al giudice Domenico Zeuli della Procura di Napoli, c' é stato solo un groviglio di misteri. Il nome degli stessi farmaci, dei 16 principi attivi sospetti di avere effetti cancerogeni, dei periti che avrebbero eseguito gli accertamenti e persino la provenienza delle informazioni: tutto top secret. Venerdì scorso, finalmente, la lista delle medicine incriminate é stata consegnata dalla Cgil al ministro Garavaglia che lunedì l' ha presentata all' esame della Commissione unica del farmaco. Il primo verdetto é stato rassicurante: "L' allarmismo creato nella popolazione é assolutamente ingiustificato", ha riferito il ministro.
Eppur quel dossier ha una storia tutt' altro che rassicurante.
Consegnato da un funzionario dell' Istituto superiore della Sanità a Ivan Cavicchi e Walter Cerfeda, responsabile sanità della Cgil il primo, segretario confederale l' altro, contiene uno studio del 1982: "Un po' datato", dice Cerfeda, "ma utile a capire quali fossero i meccanismi della Direzione unica del farmaco". In altre parole: "Il sistema usato da Poggiolini per riscuotere tangenti dalle case farmaceutiche".
A qualcuno era venuto il sospetto che non tutto fosse così limpido.
Il pretore torinese Raffaele Guarinello, che lavorava dal 1974 su una serie di sostanze a rischio, nel 1981 ebbe tra le mani uno studio dell' Agenzia nazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) di Lione. La lista di principi attivi nocivi contenuti nel documento venne passata al vaglio di tre esperti: l' oncologo Benedetto Terracini, docente di epidemiologia all' università di Torino; Amicalcare Carpi de Resmini, farmacologo oggi in pensione dell' Istituto superiore di sanità,e Giorgio Bignami, anche lui farmacologo. I tre rilevarono che 16 principi attivi con effetti cancerogeni erano presenti nei medicinali in vendita sul mercato italiano. Ma senza che i foglietti illustrativi, che dipendono dalla Commissione unica del farmaco, ne dessero notizia in maniera chiara e attendibile.
Scoppiò uno scandalo: nella lista c' erano analgesici come il Saridon, antinfluenzali come il Coricidin, antibiotici come il Rifadin, antibatterici come il Bactrim, tutti farmaci a larghissimo uso. Il caso più scandaloso? "Quello di un medicinale", dice Cerfeda, "usato per la cura della nefrite, ritirato in tutta Europa dal 1961 é rimasto in Italia fino al 1982". Seconde le stime dei periti c' é la possibilità che abbia causato la morte di 5 mila persone l' anno.
Analoga la storia del Dependox, farmaco antinausea per donne in gravidanza: "Si era scoperto che provocava malformazione nei nascituri. La stessa casa produttrice aveva provveduto a ritirarlo, mentre Poggiolini ha deciso di lasciarlo in commercio fino ad esaurimento delle scorte".
A dispetto del clamore che l' inchiesta di Torino aveva suscitato, all' improvviso di tutta la vicenda "farmaci a rischio" non se ne seppe più nulla. Guarinello l' aveva passata alla Procura di Roma.
Dice oggi Cerfeda: "Lo studio che abbiamo reso pubblico risale a dieci anni fa. Ci sembra lecito però sospettare che da allora lo stile Poggiolini non sia cambiato. Chi ci assicura che negli ultimi anni le cose non siano andate nella stessa maniera?" C' é un solo modo per saperlo, per scoprire cioé se ci si può fidare di quello che si compra oggi in farmacia: "Aprire gli archivi di Poggiolini.
Andare ad indagare tra le sue carte più recenti".




Testata
Epoca

Data pubbl.
28/09/93

Numero
2242

Pagina
73

Titolo
LA MAPPA DEL MALIGNO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI STEFANO TORRIONE

Sezione
INSERTO

Occhiello
IL DIAVOLO E' FRA NOI SATANA IN ITALIA

Sommario
5 mila affiliati. 300 sette. Un fenomeno che preoccupa il Vaticano e persino i nostri servizi segreti. Città per città, ecco perché. Messe nere, orge, persino il sospetto di sacrifici umani. Intorno ai tanti seguaci italiani di Satana si respira ancora oggi aria di mistero. "Epoca" ha provato a vederci più chiaro. Ecco che cosa è riuscita a scoprire. Una donna vergine è "l' altare" per le messe nere Tutto ciò che serve per i riti si vende in negozi specializzati Torino con le due "chiese" è la vera capitale di Satana

Didascalia
L' avviso dei Padri Dehoniani che propaganda la video cassetta
sull' esorcismo.
Lorenzo Alessandri, 66 anni, con alcuni dei suoi dipinti satanici.

Testo
Il Medioevo è ancora tra noi. Sopravvive in tutta Italia tra coloro che si professano adoratori di Satana, appassionati dell' occulto, iniziati ai misteri degli inferi. Centinaia, forse migliaia, dappertutto. Nella nera e magica Torino così come nella cattolica e pontificia Roma, a Bologna come a Milano o Pescara, miriadi di sette lasciano indizi, seminano tracce della loro presenza, disegnano orme di paura e di morte: cimiteri profanati, cadaveri violati, furti di ostie...
In agosto è successo a Milano: due metronotte hanno sorpreso nel cimitero di Greco il mago Athos Ubaldi, sedicente "sciamano" lombardo, con una ragazza e una bambina, mentre si preparava a un rito nero. Il mese prima era toccato ad Arezzo, dove una ragazza ha denunciato di essere stata presa a frustate durante il rito d' iniziazione di una setta satanica.
Due episodi finiti nelle pagine di cronaca. Ma la realtà deve essere più fosca se anche la Chiesa cattolica, generalmente cauta quando si parla del demonio, sta lanciando ripetuti allarmi. I primi a farlo sono stati i Padri dehoniani di Bologna, che hanno di recente ospitato nella loro rivista Settimana una serie di articoli dedicati al culto di Satana e proprio in questi giorni stanno addirittura propagandando su Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, la videocassetta firmata da uno dei più qualificati esorcisti, Gabriel Amorth, significativamente intitolata La lotta contro il maligno. Prezzo 29 mila lire. E un' avvertenza: si consiglia la visione a persone adulte, a gruppi preparati o per scopi pastorali.
Subito dopo è sceso in campo il settimanale Famiglia cristiana: l' editoriale del teologo Vincenzo Bo, sul numero del 15 settembre, ammonisce i lettori su quanto siano pericolosi (e diffusi) i patti con il diavolo.
Esagerazioni? Padre Pellegrino Ernetti, esorcista al convento benedettino dell' isola veneziana di San Giorgio, parla di quasi mille sette in Italia: 600 sarebbero vere Chiese alternative, un centinaio deriverebbero da nuclei che praticano magia nera, le altre sarebbero gruppi dediti alle messe sataniche.
Più basse le cifre fornite da parte laica. Uno dei massimi studiosi di religioni alternative, Massimo Introvigne, 38 anni, autore di alcuni libri tra cui Il cappello del mago (ed. Sugarco, 1991), stima i seguaci di Satana attorno a "cinquemila o seimila".
Introvigne disegna una mappa che comprende tre categorie: un paio di Chiese "ufficiali", con capi conosciuti, indirizzi, bollettini, ma poche centinaia di adepti, come quella dei Bambini di Satana di Bologna, o la Confraternita di Efrem del Gatto a Roma (vedi alle pagine 76 e 80); un esercito di "parasatanisti", maghi, stregoni e occultisti (alcuni specializzati in riti sudamericani, quali il voodoo, la makumba, il candomblé, altri, come Athos Ubaldi, dediti a riti neri a pagamento); e infine una costellazione incontrollata di satanisti "selvaggi" che praticano il culto in segreto, in maniera più o meno casereccia. Tutta gente per cui l' adorazione del diavolo, atto supremo di trasgressione contro la morale cattolica, è mezzo per acquistare potenza, distruggere i nemici, conquistare l' immortalità.
Come? Con riti e cerimonie degni della più fantasiosa letteratura gotica, pratiche perverse che fanno invidia ai porno fumetti. A cominciare dalla messa nera che si conclude il più delle volte in un' orgia collettiva. Il rito classico, in latino secondo il testo di Joris Karl Huismans, scrittore francese dell' Ottocento, prevede tonache, cappucci, spade, pugnali, candele, talismani, ma soprattutto una donna nuda e distesa: "l' altare". Uno dei primi atti del sacerdote è quello di sconsacrare l' ostia immergendola nella vagina della passionaria, e subito dopo di accoppiarsi con la donna. Segue la degustazione dell' "elisir", sperma e secrezioni femminili mischiati in un calice, che può esser preparato prima, o sul posto. In questo secondo caso i partecipanti hanno con sé un cucchiaio per raccogliere il seme.
Nei riti satanici tutto è lecito: sadomasochismo, iniziazioni con il sangue, uccisione di animali, violenze sessuali sui bambini, fino al sacrificio umano.
Leggende? Massimo Introvigne non ha una risposta certa: "Negli Stati Uniti l' Fbi riesce ad attribuire ai satanisti non più di 15 omicidi all' anno. In Italia si trovano al massimo tombe violate, cimiteri profanati, si registra qualche furto di ostia. Ma morti, che io sappia, nessuno".
La Chiesa cattolica non sottovaluta questi ed altri pericoli. La documentazione su ogni episodio sospetto viene raccolta dai Gris, gruppi di informazioni e ricerche sulle sette (vedi a pagina 83): "Ci risulta, per esempio, che durante i rituali alcune donne vengano messe volontariamente incinte", racconta Giuseppe Ferrari, il segretario nazionale, "e che per abortire vadano all' estero. Che ci sia un traffico di feti?". Può darsi. Ma è solo un sospetto.
A dare una mano ai satanisti, per i loro riti, sarebbero a volte anche sacerdoti cattolici, disposti a fornire le ostie per le messe nere. Come succederebbe a Roma, per il gruppo di luciferiani della Confraternita di Efrem del Gatto, al quale le ostie sarebbero procurate da un parroco di campagna di un paesino delle Marche.
Il reclutamento degli adepti può avvenire per circoli ristretti, ma più spesso tra chi si é già occupato di occultismo. Le librerie esoteriche, soprattutto. Disseminate nelle maggiori città, favoriscono incontri, contatti, scambi tra chi si interessa al paranormale. Aziende specializzate in articoli magici, spesso collegate alle stesse librerie, forniscono strumenti e paramenti. A Torino, per esempio, Claudio Marchiaro vende per corrispondenza tutto il "nécessaire" dell' occulto, che comprende persino grasso di neonato di fabbricazione cinese. Mentre Aldo Castelli, uno dei maggiori rivenditori con azienda e libreria a Milano, il Magic Shop, oltre a esporre kit per riti di ogni tipo, possiede persino un tempio per la "consacrazione" degli oggetti.
Chi sono i seguaci del Demonio? Oltre i Bambini di Satana Luciferiani, fondati a Bologna da un' ex guardia giurata, Marco Dimitri, e la Confraternita di Efrem del Gatto, ci sono le tanto celebri quanto misteriose Chiese di Satana di Torino. Nate sul modello delle omonime chiese americane, raccoglierebbero 300, 400 adepti, e non 40 mila come, con timore, si sottolineava un tempo.
La geografia del Male non esclude Milano. Secondo Giuseppe Ferrari, il capoluogo lombardo sarebbe un calderone occultista dove confluiscono i gruppi più disparati: alcuni con contatti internazionali, altri legati a chiese che allignano in varie regioni di Italia. Un' organizzazione segretissima collegherebbe la capitale lombarda alla Liguria e al Piemonte. Tracce di altre sette, Ferrari le ha raccolte anche a Rimini: il Gran Sacerdote? Un parrucchiere.
Il Tempio? Il suo retrobottega.
Arezzo luciferina é venuta allo scoperto grazie a una ragazza. Qui il sommo sacerdote, Agostino Chiasserine, in arte Mago Aretinus, ha fondato il Tempio del Sole d' oro. Dodici adepti in tutto, ma molta fantasia: a casa sua la Digos ha trovato corna di montone, pergamene sigillate con sangue e capelli umani, candele a forma di fallo, ossa di animali. Aretinus si é difeso, definendosi cultore di riti neopagani. I falli di cera servirebbero a "invocare la fertilità", mentre i fedeli si limiterebbero a mangiar frutta, cantare inni, bruciare mirra e incenso.
Sarà, ma la gente di Arezzo dopo questa storia fa un gran parlare di templi e messe nere che si svolgerebbero sotto la luna sulla collina di San Cornelio, in vista della città. E, poi, dietro il mago Aretinus compare Jeronimus, sacerdote della Casa madre di Roma, alla quale in un primo momento aveva aderito il Tempio di Arezzo.
Esperto di riti luciferiani, Jeronimus é uno di quelli che nell' ambiente contano, con quartier generale dalle parti di Cinecittà. Segreto e inavvicinabile.
Ma resta Torino, la "cattedrale" del mistero. E non potrebbe essere altrimenti. L' ex capitale sabauda, vertice di un triangolo nero che la collega a Lione e Londra, con i suoi santuari esoterici, come il monte Musiné, porta dell' inferno, la stessa chiesa della Gran Madre, il mausoleo della Bella Rosina, tiene ancora fede alla sua fama di città magica conquistata nel 1800, quando era rifugio di eretici e miscredenti di ogni razza (questioni politiche: la dinastia sabauda contro Roma cattolica). Le due Chiese sataniche ufficiali, nate negli anni Settanta sotto un' unica bandiera, hanno avuto contatti niente meno che con La Vey, Gran Sacerdote demoniaco di San Francisco, e con Claude Seignolle, uno scrittore parigino di sulfurea fama. Sono congreghe chiusissime, divise adesso in due gruppi: uno interessato agli aspetti teologici del satanismo (niente sesso durante i rituali), l' altro a quelli occultisti.
"Avvicinarli? E' impossibile", dice Introvigne, che ha contatti riservati con alcuni fedeli. "Sono strutture elitarie, dove si entra per cooptazione, in un ristrettissimo giro di amicizie. Dove capi e seguaci non amano essere citati o apparire sui giornali".
E il misterioso Lorenzo Alessandri, pittore di diavoli e orripilanti creature degli inferi? Sarebbe lui l' eminenza nascosta dei satanisti, candidato addirittura al seggio di papa nero, vacante da 30 anni, in lizza con un "sacerdote" di San Francisco. Ma sembra una favola, scritta addosso al personaggio. Barbetta bianca, sguardo pungente, amuleti magici attorno al collo, Alessandri, 66 anni, vive tra le nebbie della campagna di Gioveno, a una ventina di chilometri da Torino, in una strana casa disegnata da lui stesso. Colleziona feticci di tutte le specie, candelabri, calici, statuette tibetane, strumenti di magia nera, raccolti direttamente da una delle più antiche cappelle sataniche di Torino, nel quartiere residenziale della Crocetta (poi smobilitata).
"Il demonio... Ma siete matti?", Alessandri se la ride. "Per i torinesi è solo una scusa per fare sesso". Sostiene che si tratta di una "bufala", come quella del Monte Musiné dove qualcuno vede anche i dischi volanti. E gli oggetti di culto? Gli sarebbero stati regalati dal sagrestano della cappella della Crocetta, incontrato per caso anni fa in un' osteria.
Ambigua Torino, capitale di maghi, stregoni, satanisti. Ci hanno provato i carabinieri a capirci qualcosa. A maggio, dopo che in città aveva trionfato Magica, fiera di oggetti esoterici, è stato un maresciallo a mettersi sulle tracce di Satana. Le sue scoperte? Una vecchia nobiltà che tramanderebbe di padre in figlio rituali demoniaci nel chiuso delle proprie ville; una borghesia agiata, che prega il diavolo indifferentemente al chiuso o all' aperto, viaggia in Bmw e Mercedes e si diletta in orge; e infine un gran numero di maghi che, fiutando affari d' oro, si improvvisano sacerdoti del demonio a suon di bigliettoni. Ogni messa nera costerebbe infatti ai partecipanti da uno a due milioni a testa.
Di violazioni al codice penale, però, nemmeno l' ombra: "Adorare Satana per la legge italiana non è reato. Praticare il sesso neppure", si rassegnano i carabinieri. Così: "Se non si trovano cimiteri violati, cadaveri sconsacrati, se non ci scappa il morto", come è successo nel 1988, con Fosca Setteducati, massacrata durante un rituale satanico a tre, "non é affare che ci riguarda". Vero fino ad un certo punto. I carabinieri non lo dicono, ma oltre al maresciallo, a Torino c' é un uomo dei servizi segreti che qualcosa in più sui seguaci del demonio forse sa. Difficile però trovarlo in caserma. Gli occhi aperti, lui, deve tenerli su tutta Italia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
28/09/93

Numero
2242

Pagina
82

Titolo
IO, DIAVOLO PENTITO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
INSERTO

Occhiello
IL DIAVOLO E' FRA NOI SATANA IN ITALIA PARLA L' EX FAUST DI PESCARA

Sommario
"Ma da 4 anni ormai vivo nella paura".

Testo
"Non fatemi fare nomi. Non posso. Sono pochi a sapere certe cose. Io sono tra quelli e potrei essere identificato". S.R. abita a Pescara, ha 24 anni, un passato tra gli occultisti: giri pericolosi dai quali si è tirato fuori grazie all' aiuto di un sacerdote. Ne è uscito 4 anni fa, ma continua ad aver ancora paura di ritorsioni. Epoca raccoglie con cautela la sua testimonianza, utile a capire i meccanismi che esistono all' interno di alcune sette.
"Ho iniziato per gioco, perché ero convinto che mediante la magia avrei potuto aiutare gli altri. Ho visto e sentito in questi anni cose terribili. Ci sono due sette in Italia, una vicino a Roma, l' altra nei pressi di Bologna, 150 persone in tutto, che si dichiarano seguaci di Satana, e sono pericolosissime. Praticano sacrifici umani. Casi straordinari. Di solito si limitano a far cerimonie di tipo ritualistico e sessuale.
"Le loro vittime hanno sempre un ruolo simbolico. Odiano la Chiesa cattolica, perciò cercano persone in qualche modo vicine a quella fede. So di uno in particolare. Non posso dire se un uomo o una donna. Una persona che è stata sequestrata per alcuni giorni. Poi drogata e portata a una cerimonia. L' hanno ammazzata a pugnalate e bruciata. Le sue ceneri sono state utilizzate per rituali satanici.
"Chi c' é a capo? Maghi neri, dediti al satanismo. Ciascuna delle due sette segue regole proprie. Quella vicino a Roma, per esempio, pretende dai propri adepti che nutrano odio viscerale per chiunque, a cominciare dai propri familiari. Che non siano mai entrati in una chiesa. Che siano disposti ad aver rapporti sessuali con tutti, gente del proprio sesso, adulti e bambini. E infine, che obbediscano agli ordini del Gran Sacerdote. I matrimoni in generale sono scoraggiati, perché la setta non ammette rapporti privilegiati a due, ma solo rapporti collettivi tra gli adepti. Quando vengono autorizzati, devono essere celebrati dal sacerdote in un tempio satanico. Non si può lasciare il gruppo per nessun motivo, pena il rischio di essere ammazzati.
"La setta bolognese impone che l' iniziato subisca un rapporto contro natura, che venga sodomizzato dal sacerdote. Durante le messe nere, dopo l' invocazione a Lucifero, gli adepti devono baciare il pene al celebrante. Si sgozzano animali, capre o galli, per colpire eventuali nemici. Il sangue serve per la comunione finale, per ottenere energia pura.
"Il calice viene riempito anche di escrementi e la messa finisce in un' orgia generale. Se viene fatto come semplice rito di sconsacrazione, si usano ostie consacrate da un prete cattolico. Se è invece a scopo offensivo, contro qualcuno, l' ostia è nera e triangolare.
"Il patto con il demonio si fa con il proprio sangue, ma non è concesso a tutti. E' l' ultimo gradino per diventare sacerdote. Dura 20 anni e garantisce la realizzazione di ogni desiderio.
"Anche a Pescara ci sono satanisti. Il fenomeno è esploso dopo il 1988, quando si diceva che a Montesilvano una veggente fosse in contatto con la Madonna. Da allora un paio di maghi occultisti hanno cominciato a reclutare adepti in tutta Italia, sfruttando la sacralità del posto. Il gruppo pratica aborti e usa i feti per le cerimonie rituali".




Testata
Epoca

Data pubbl.
31/08/93

Numero
2238

Pagina
28

Titolo
8 DELITTI, NEANCHE UNA PISTOLA

Autore
DI MARCO CORRIAS schede a cura di Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
Incubo dell' estate: l' incredibile catena di ragazze uccise. E un filo rosso lega tutti i delitti: non è stato sparato nemmeno un colpo.

Sommario
Strangolate, soffocate con la sabbia, pugnalate, bruciate. Un crescendo di orrore culminato con la scoperta che uno degli assassini era la madre della vittima. Come si può spiegare una mattanza come quella che ha sconvolto l' estate degli italiani? "Epoca" l' ha chiesto a un detective fuori dagli schemi: Corrado Augias. "Se c' è una cosa che balza agli occhi è che in tutti i delitti domina l' improvvisazione. Come se gli autori fossero stati colti da un impeto irrefrenabile, uccidendo in fretta e lasciandosi dietro tracce e indizi confusi, spesso contraddittori" "La libertà sessuale è comune a tutti i delitti. In un caso, quello di Clusone, fornisce persino l' alibi al sospettato"

Didascalia
L' auto bruciata con i cadaveri di Milva Malatesta e del
figlio Mirko, tre anni.

Testo
Corrado Augias, 58 anni, uno dei massimi esperti italiani di thriller. Romano, col-laboratore di punta del quotidiano la Repubblica, ha esordito in tivù nel 1987 con Telefono giallo su RaiTre. Nella passata stagione ha condotto, sempre su RaiTre, la trasmissione di informazione culturale Babele. Ha scritto due libri gialli: Tre colonne in cronaca e Guerra di spie.
Rosa Quartararo, palermitana di 40 anni, piccolina, immigrata nel lodigiano, alla fine ha confessato: "Maria Concetta l' ho uccisa io.
Si era innamorata di Rosario Loria, lo stesso uomo che piaceva a me.
Abbiamo avuto una discussione qui a casa, e quando mi ha ripetuto di avere una storia d' amore con lui non ci ho visto più: l' ho colpita una, due, otto volte con un manico di scopa. Poi, quando era a terra le ho stretto una corda al collo, l' ho strozzata".
Maria Concetta, 19 anni, un metro e cinquanta d' altezza su un viso dolce e un corpo ben fatto, era la figlia di Rosa. Dopo morta è stata gettata da sua madre, aiutata dal convivente Giuseppe Redaelli, in un canale nelle campagne di Pozzuolo Martesana (vicino a Lodi). E lì, povero fagotto avvolto in due sacchi dell' immondizia, era stato trovato da un pescatore dilettante, venerdì 20 agosto.
Era l' ennesimo delitto di quest' estate pervasa di follia omicida.
Undici vittime, tutte donne. Uccise nei modi più diversi, negli ambienti più disparati e geograficamente più lontani: Lodi, Roma, Colle Val d' Elsa, Todi, Clusone, Torre del Lago, Ivrea, Bologna, Forlì, Torino, Napoli.Tra loro anche due casi "anomali". Uno, quello della dottoressa di Forlì, Franca Lipparini, uccisa con due coltellate alla schiena nella sua casa di Forlì il 2 agosto (l' età della vittima, 59 anni, esce dalla fascia anagrafica comune alle altre uccise, tutte molto più giovani).
L' altro quello di Deborah Pellecchia, 22 anni, trovata morta nell' androne del suo palazzo a Napoli la vigilia di Ferragosto (qui ci sono addirittura dubbi che possa trattarsi di un omicidio).
Un' agghiacciante catena di sangue, comunque. I cui anelli, secondo psicologi ed esperti vari, sembrano forgiati con un elemento comune: l' estate. "Stagione in cui", dicono gli psicologi, "accanto al caldo che sblocca i freni inibitori, tutti si sentono un po' più liberi. E in cui le fantasie, a partire da quelle sessuali, galoppano sfrenate".
La macabra sequenza ha attirato l' attenzione anche di Corrado Augias, giornalista e scrittore di thriller, conduttore della trasmissione Telefono giallo: "Se c' è una cosa che balza agli occhi in questa serie di delitti è che nemmeno uno di loro ha l' aria di essere stato preparato, studiato nei dettagli e realizzato con precisione scientifica. Al contrario: domina l' improvvisazione, come se gli autori siano stati colti da un impeto irrefrenabile, uccidendo in fretta e lasciandosi dietro tracce e indizi confusi, spesso contraddittori". Augias trascorre le vacanze a Cortina attaccato al telefono. Questi omicidi l' hanno richiamato in servizio: "Sì, sarà un compito arduo per i detective trovare gli assassini", dice Augias. "E non basteranno i pur chiari, ma occasionali, elementi in comune a orientare le indagini".
Già, i punti in comune. Ma quali sono? Proviamo ad analizzarli proprio con l' aiuto di Augias.
IL SESSO "Il primo, evidente, è che quasi tutte le donne assassinate sono giovani, disinibite, sessualmente libere, specchio di un' Italia i cui usi sessuali sono cambiati radicalmente negli ultimi vent' anni. Ma è altrettanto evidente che a questa libertà non è corrisposto un avanzamento generale della nostra cultura".
In effetti, nella maggior parte di questi delitti la presenza di un elemento passionale, e quindi di una figura maschile, è lampante.
E' evidente nel caso di Maria Concetta, uccisa dalla mamma-rivale inserita in un triangolo amoroso al cui vertice c' era un uomo di cinquant' anni.
Lo stesso triangolo che è, probabilmente, all' origine della morte di Laura Bigoni, 23 anni, milanese, uccisa a coltellate il primo di agosto, in casa di uno zio a Clusone (Bergamo), dove trascorreva le vacanze da sola. Sono le tre di notte, Laura è appena rientrata dalla discoteca La Collina verde. Lì ha conosciuto un ragazzo di 23 anni, Marco Conti. Qualche lemonsoda, due chiacchiere ai bordi della piscina, forse un flirt nato e consumato in fretta sulla strada del ritorno a casa. Marco accompagna Laura al cancello di casa e se ne va. E' l' ultima persona che la vede viva. Cinque ore dopo, due zii trovano Laura riversa sul letto matrimoniale della sua casa. E' vestita solo di una maglietta, composta nella morte, ferita con un coltello alla gola, al cuore e al pube. Nelle indagini entra subito un altro uomo: Gian Maria Bevilacqua, Jimmy per gli amici, 25 anni, milanese. Un amore segreto che Laura doveva dividere con un' altra donna, Vanna. Jimmy è stato visto nel pomeriggio a Clusone, ha incontrato Laura. Ma poi, si difende, "Sono tornato a Milano, dove ho passato la notte con Vanna". E sarà proprio quest' ultima a confermare l' alibi: "Ha dormito da me". I giudici però non le credono. Ora Jimmy è in carcere, accusato formalmente di omicidio.
"Sequenze perfette per un film dell' orrore, quelle del delitto di Clusone", commenta Corrado Augias. "C' è la ragazza giovane e carina che vive sola, c' è il luogo di villeggiatura, la discoteca, la notte, la pineta dove fermarsi a far l' amore con uno sconosciuto appena incontrato, il fidanzato sospettato di aver fatto un viaggio nella notte da Milano, di averla sorpresa con l' altro e quindi uccisa. Anche in questo caso grande libertà sessuale. Usata a discolpa persino dal presunto assassino, con quell' alibi che lascia spazio a dubbi...".
Dubbi che non sembrano esserci nella morte di Barbara Silvagni, 18 anni, che domenica 18 luglio è stata uccisa con un fucile da pesca subacquea vicino alla sua casa, nella campagna bolognese. Barbara ha deciso di interrompere la storia d' amore con Michele De Caro, 28 anni, siciliano, il quale si convince che la decisione della ragazza dipenda dal fatto che lui è un meridionale. E così le chiede un incontro chiarificatore. La convince a fare una passeggiata e quando capisce di non avere più speranza la uccide. Subito dopo si va a costituire e confessa.
Chi invece nega, contro l' evidenza di fortissimi indizi, sono i presunti assassini di Cinzia Bruno, 30 anni, romana, trovata morta il 7 agosto sulle rive del Tevere, a pochi chilometri da Mentana, sulla Salaria. Anche in questo caso è un triangolo amoroso a far da sfondo all' omicidio. Un triangolo nato nelle stanze del ministero dell' Interno, da cui sia la vittima che i presunti assassini dipendevano. Cinzia sospetta che suo marito, Massimo Pisano, 33 anni (da cui ha avuto una bambina 20 mesi prima), abbia una relazione con una collega di lavoro, Silvana Agresta. Ne è tanto sicura che la mattina del 4 agosto lo segue e lo sorprende in casa dell' Agresta, a Mentana. La reazione dei due amanti è feroce: Cinzia viene prima pestata poi finita con una ventina di coltellate, quindi trasportata dentro due sacchi di juta sul greto del Tevere. Lo stesso sistema usato dalla madre di Maria Concetta Romano per liberarsi del cadavere.
MAI UNA PISTOLA "Nella maggior parte dei casi l' improvvisazione è evidente", dice Corrado Augias. E la riprova di quel che dice è nell' assenza, in ciascuno dei delitti di quest' estate di un' arma da fuoco. L' uso di una pistola o di un fucile presuppone o l' intervento di un killer professionista, o comunque un' accuratezza nella preparazione del delitto che in questi casi sembra mancare. Quasi sempre a infliggere i colpi mortali è un coltello o un altro colpo contundente.
E' stata per esempio una sola coltellata al cuore a uccidere, nella notte tra il 14 e il 15 luglio Mara Calisti, 36 anni, segretaria in uno studio legale, nella sua casa di Todi. Erano le tre di notte, quando suo padre, Mario Calisti è stato svegliato da Mara che parlava a fatica reggendosi il petto con una mano già imbrattata di sangue: "Papà, guarda cosa mi hanno fatto", è riuscita a mormorare, poi è morta. Mara probabilmente aveva aperto la porta a un uomo con cui aveva una segreta storia d' amore.
Quando non è il coltello a entrare in azione, sono lacci che soffocano il collo delle vittime.
Come è accaduto nell' omicidio di Daniela Pelissero, 23 anni, tossicodipendente e prostituta, scomparsa dai marciapiedi intorno alla stazione di Porta Nuova a Torino e ritrovata il 2 agosto in un fossato vicino a Piossasco (Torino) con un collant nero stretto intorno al collo. Daniela, dicono i medici legali, è stata prima violentata e poi strangolata.
La stessa fine che ha fatto Manuela Petilli, 15 anni, di Strambino (Ivrea), che al termine di 18 giorni di ricerche è stata ritrovata morta al primo piano di un casolare abbandonato di Cerone, alla periferia di Strambino. Manuela era scomparsa nel primo pomeriggio del 2 agosto, dopo aver mancato un appuntamento col suo ragazzo, Paolo Lombardi, di due anni più grande di lei. Paolo l' aveva attesa inutilmente. Lei doveva prendere un treno da Ivrea, invece, l' hanno ritrovata devastata dalle fiamme, avvolta in un materasso, probabilmente strangolata con la sua stessa cintura ritrovato nella stanza, tra rifiuti di ogni genere.
IL FUOCO L' assassino della giovane Petilli (per identificarlo la polizia ha attivato anche il numero telefonico 0125-424003, denominato "Linea per Manuela") ha tentato di renderne irriconoscibile il corpo dando fuoco al materasso. Un espediente sbrigativo, e maldestro, già utilizzato dall' assassino di Laura Bigoni (ritrovata nella sua casa di Clusone con i capelli bruciati dalle fiamme inutilmente appiccate al materasso), e applicato anche dagli ignoti assassini di Milva Malatesta, 31 anni, e del suo bambino, Mirko, di appena tre anni. Madre e figlio sono stati ritrovati, semicarbonizzati, all' interno dell' auto della donna, una Panda, fatta precipitare dall' omicida in una scarpata vicino a Barberino Val D' Elsa (Firenze). Accanto all' auto una tanica di benzina macchiata di sangue. Segno evidente, dicono gli investigatori, che l' assassino ha prima colpito la donna, quindi ha incendiato l' auto spingendola nel burrone per simulare un incidente. Anche in questo caso la donna, sposata e separata da Francesco Rubbino, 26 anni, aveva un appuntamento con un altro uomo: il restauratore di mobili Nicola Fanetti. Ma a quell' appuntamento Fanetti è giunto in ritardo per un incidente stradale. Cosa è accaduto nel frattempo? Un' ipotesi spunta agghiacciante: il delitto potrebbe essere legato al mostro di Firenze. Il padre di Milva, Renato, accusato di essere l' omicida delle coppiette, nel 1981 si è impiccato non reggendo all' onta del sospetto. Ma c' è di più: la madre di Milva, Antonia Sperduto è stata l' amante di Piero Pacciani, l' agricoltore in carcere con l' accusa di essere il "mostro".
LA VACANZA "I luoghi di villeggiatura sono da sempre ambientazioni ideali per un giallo", dice Augias. "Le vacanze sono una conquista di massa negli ultimi 15 anni. Fanno parte di quel cambiamento di costume che presuppone anche una maggiore libertà sessuale delle donne. E in vacanza, si sa, si fanno nuovi incontri, come nel caso della ragazza di Clusone".
O come nel caso della sconosciuta ritrovata nuda e morta sulla spiaggia di Torre del Lago, in Versilia, la mattina del 19 agosto.
Una ragazza dai lineamenti fini, bionda, probabilmente straniera.
Nessuno ancora è riuscito a identificarla. Qualcuno ha pensato di riconoscere in lei una donna polacca, Mariola Orlikowska, una delle tante ragazze che d' estate si prostituiscono su quella riviera.
Altre segnalazioni finora si sono rivelate sbagliate. Ma allora, chi è la bella ragazza bionda? Perché nessuno la riconosce? Per ora gli investigatori hanno due certezze: "E' stata soffocata con il viso premuto sulla sabbia. E' rimasta in acqua meno di quattro ore". Un delitto compiuto all' alba. In riva al mare. Nella più classica tradizione di un "giallo" estivo.
CASO RISOLTO MARIA ROMANO Età 19 anni Città Lodi Professione Cameriera Segni particolari Rapporti turbolenti con la madre Stato civile Una relazione con una guardia giurata di 50 anni Luogo del delitto Il casolare di Pozzuolo Martesana dove la vittima viveva con la madre e il patrigno.
Giorno e ora 20 agosto, mezzogiorno.
Dinamica del delitto La ragazza è assalita con uno spazzolone dalla madre, Rosalia Quartararo, che poi la strangola con una corda. La testa del cadavere è avvolta con il nastro adesivo: la salma viene gettata in un canale dal patrigno Giuseppe Redaelli.
Arma usata Uno spazzolone e una corda.
Sospettati La madre, 39 anni, ha confessato. Il convivente è stato incriminato per favoreggiamento e occultamento di cadavere.
Movente La gelosia. La madre della ragazza si era invaghita di Rosario Loria, il fidanzato della figlia, illudendosi di essere ricambiata.
NON RISOLTO MILVA MALATESTA Età 31 anni Città Barberino Val d' Elsa (Fi) Professione Disoccupata Segni particolari Familiari implicati con il mostro di Firenze Stato civile Separata da Francesco Rubbino, 26 anni, muratore Luogo del delitto Poneta, campagne del Chianti.
Giorno e ora 20 agosto, prima delle 4 del mattino.
Dinamica del delitto La donna è stata ritrovata, con il figlio Mirko di tre anni, in una Panda bruciata in una scarpata. Lei potrebbe essere stata uccisa prima dell' incendio, mentre nei polmoni del piccolo sono state trovate tracce di fuliggine.
Arma usata Sconosciuta Sospettati Nicola Fanetti, 31 anni, amante della donna: aveva un appuntamento con la vittima la notte del delitto. L' ex marito si è presentato ai carabinieri di sua spontanea volontà Ma i dubbi rimangono.
Possibile movente Nessuna ipotesi. Resta il collegamento con la vicenda del mostro di Firenze.
NON RISOLTO MANUELA PETILLI Età 15 anni Città Ivrea Professione Studentessa Segni particolari Amicizie sospette, era già scappata di casa Stato civile Fidanzata con Paolo Lombardi, 17 anni Luogo del delitto Un cascinale di Cerone a pochi chilometri da Ivrea. Conosciuta come "la casa del mostro" era la vecchia sede del guardiano della diga. Da tempo diroccata, era rifugio di balordi.
Giorno e ora Il 2 agosto.
Dinamica del delitto E' stata vista entrare in compagnia di qualcuno nel casolare. Il cadavere, avvolto in un materasso, seminudo, è stato bruciato.
Arma usata Probabilmente la sua stessa cintura, ritrovata poco distante dal corpo.
Sospettati Interrogato per 24 ore un uomo sui 30 anni: deve restare a disposizione degli inquirenti.
Possibile movente Sconosciuto. Per riuscire a raccogliere nuovi elementi la polizia ha attivato una "linea per Manuela": 0125-424003.
NON RISOLTO NON ANCORA IDENTIFICATA Età Sconosciuta Città Torre del Lago (Lu) Professione Sconosciuta Segni particolari Mento sfuggente, bionda, occhi chiari.
Stato civile Sconosciuto. Non è neppure certo che sia italiana.
Luogo del delitto Il litorale versiliano che va da Torre del Lago a Migliarino.
Giorno e ora 19 agosto, le tre di notte circa.
Dinamica del delitto La morte sarebbe avvenuta sulla spiaggia. Il suo aggressore l' ha uccisa soffocandola con il viso premuto sull' arenile. Tracce di sabbia sono state rinvenute nei polmoni e nelle parti intime. Il cadavere, nudo, è stato privato di qualsiasi elemento di riconoscimento.
Arma usata Nessuna: è stata soffocata.
Sospettati Nessuno.
Possibile movente Sconosciuto. Potrebbe essere stato un delitto a sfondo sessuale, anche se la ragazza non è stata violentata dal suo aggressore. Una lite, forse, in seguito a un rifiuto.
CASO RISOLTO BARBARA SILVAGNI Età 18 anni Città Bologna Professione Barista Segni particolari Quattro biglietti accanto al cadavere Stato civile Fidanzata con Michele De Caro, 29 anni, operaio.
Luogo del delitto Villa Fontana, borgata alle porte di Bologna.
L' omicido avviene a bordo di una Golf.
Giorno e ora 18 luglio, una e trenta di notte.
Dinamica del delitto La ragazza sale in macchina col fidanzato.
Litigano. Lui imbraccia un fucile da sub, già carico. La colpisce dietro l' orecchio sinistro. Per essere sicuro della morte, le stringe attorno al collo la sagola dell' arpione e poi una calza di nylon.
Arma usata Un fucile da sub, acquistato il giorno stesso a Medicina, un paese vicino Bologna Colpevole Il fidanzato. Dopo aver guidato tutta la notte si costituisce la mattina successiva ai carabinieri del suo paese d' origine, Torre Annunziata (Na).
Movente Delusione d' amore. Barbara lo aveva lasciato e lui non se ne dava pace.
CASO RISOLTO CINZIA BRUNO Età 30 anni Città Roma Professione Impiegata Segni particolari Una fede al dito con scritto Massimo luglio 88 Stato civile Sposata da 5 anni mamma di una bimba di 2 anni Luogo del delitto Riano, 30 km da Roma. E' stata uccisa nell' appartamento in cui il marito si incontrava con l' amante.
Giorno e ora 7 agosto, tarda mattinata.
Dinamica del delitto Narcotizzata, picchiata e finita con una coltellata alla giugulare. Il cadavere, chiuso in un sacco postale, è stato scaricato nel Tevere.
Arma usata Coltello.
Sospettati Non hanno confessato, ma gli inquirenti sono convinti che gli assassini siano il marito, Massimo Pisano, e l' amante di lui, Silvana Agresta. Una terza persona, Sabatino Gigante, li avrebbe aiutati a trasportare il cadavere per denaro.
Possibile movente La donna aveva scoperto la relazione del marito che si è voluto liberare di lei.
NON RISOLTO LAURA BIGONI BIGONI Età 23 anni Città Clusone Professione Inserviente Segni particolari Una giovane come tante. Amava le discoteche.
Stato civile Da due anni frequentava un ragazzo già impegnato.
Luogo del delitto La casa dello zio, a Clusone,dove era ospite per le vacanze.
Giorno e ora La notte del 31 luglio, tra le 3 e le 8.
Dinamica del delitto La ragazza è stata trovata a letto, seminuda, colpita ripetutamente e soffocata. L' assassino, per tentare di cancellare le tracce, ha dato fuoco al materasso. Senza risultati.
Arma usata Un coltello da cucina e un punteruolo.
Sospettati E' in carcere Gianmario Bevilacqua, detto Jimmy, il ragazzo con il quale Laura aveva una relazione. La fidanzata "ufficiale", Vanna Scaricabarozzi, afferma che Jimmy ha trascorso con lei la notte del delitto. Ma è stata accusata di favoreggiamento.
Possibile movente La gelosia: quella notte Laura aveva flirtato con un ragazzo incontrato in discoteca.
NON RISOLTO MARA CALISTI Età 36 anni Città Todi Professione Segretaria Segni particolari Viveva con l' anziano padre Stato civile Nubile. Aveva una relazione con un uomo sposato.
Luogo del delitto Il suo appartamento di Todi.
Giorno e ora La notte del 14 luglio tra le 2 e le 4.
Dinamica del delitto Mara Calisti, presumibilmente, apre la porta di casa nel cuore della notte al suo aggressore. L' anziano genitore si è già ritirato in camera e non sente nulla. Poco dopo, Mara entra sanguinante dal padre. Dice: "Guarda cosa mi hanno fatto" e si accascia morta.
Arma usata Un coltello. Ha colpito una sola volta, sotto il seno destro.
Sospettati A questo punto, nessuno. L' uomo con cui aveva la relazione ha fornito un alibi.
Possibile movente Esclusa ogni questione di interesse. A meno che la vittima non abbia sorpreso un ladro. Ipotesi più accreditata: delitto passionale.




Testata
Epoca

Data pubbl.
31/08/93

Numero
2238

Pagina
36

Titolo
SCUOLA STA ARRIVANDO LA BUFERA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
PERCHE' I NOSTRI FIGLI RISCHIANO IL BLOCCO TOTALE DELL' ANNO SCOLASTICO

Sommario
Il governo vuole eliminare 56 mila classi e 70 mila insegnanti. Risultato? Professori inferociti, sindacati in guerra, genitori in ansia. A 15 giorni dall' inizio delle lezioni, nelle aule si prepara il caos. Da Como a Palermo, ecco quello che succederà al suono della campanella. Negli ultimi due anni, nella sola provincia di Milano sono state abolite 800 classi scolastiche

Didascalia
TAGLI DRASTICI
Il ministro della Pubblica Istruzione Rosa Russo
Jervolino, 57 anni: deve far risparmiare allo Stato 3.500 miliardi.
Nella foto piccola: manifestazione di bambini e insegnanti.

Testo
Presidi che si lamentano perché non riescono a far quadrare i numeri. Altri a caccia di espedienti per aggirare i tagli voluti dal ministero. Provveditori che invece gettano acqua sul fuoco e proclamano fieri: "Il decreto Jervolino? Niente di così drammatico.
Noi la rideterminazione del rapporto classi-alunni l' abbiamo avviata da tempo". Attorno all' ultima decisione del ministero della Pubblica Istruzione, il decreto legge 288 del 9 agosto 1993 che prevede in tre anni la riduzione di 56.034 classi e 69.824 posti in organico nella scuola italiana, è già bagarre. Disastri annunciati per gli studenti, panico tra gli insegnanti, mentre lo Snals annuncia un' ondata di scioperi che potrebbero mettere a repentaglio l' inizio dell' anno scolastico. Rischio reale? "Epoca" ha fatto un viaggio tra provveditori e presidi d' Italia per capire come ci si prepara, all' indomani del diktat ministeriale e a poco meno di un mese dall' inizio delle lezioni, per affrontare questo drastico ridimensionamento di classi e posti di lavoro.
Primo scenario: Milano. Nel palazzone di via Ripamonti che ospita gli uffici del provveditorato più grande d' Italia si lavora a ritmo dimezzato dalle ferie. Lo stesso provveditore, Enzo Martinelli, è ancora in vacanza a Siena, sua città natale. C' è però l' ufficio stampa, Emanuela Massaro: "Da noi nessun problema. La maggior parte dei tagli programmati dal ministero li abbiamo già fatti negli anni scorsi". Un esempio: dall' anno scolastico 1991-92 al 1992-93 sono state soppresse a Milano e provincia circa 800 classi. Effetto del calo demografico: il numero degli iscritti in questi due anni è infatti sceso del 15,8 per cento. E i professori che fine faranno? Milano ne ha in soprannumero oltre 1.300: insegnanti di materie tecniche nelle superiori; educazione tecnica, artistica e fisica nelle medie. "Finirà il carosello dei precari e dei supplenti", continua la signora Massaro: "In compenso si garantirà maggiore continuità all' insegnamento".
Tutto a posto, dunque? A sentire chi lavora dentro le scuole, niente affatto. Giovanni Pacchiano, preside a Milano dell' istituto magistrale Agnesi, particolarmente attento ai problemi scolastici (ha appena pubblicato un pamphlet, "Di scuola si muore", edito da Anabasi, dove racconta tra il serio e l' ironico, i mali di un' istituzione anacronistica), si pone un quesito aritmetico.
"Secondo le nuove disposizioni, negli istituti superiori le classi dovrebbero essere formate da un minimo di 25 alunni a un massimo di 30. Se io ho 70 alunni cosa faccio? Due classi da trenta, d' accordo, o anche da 25. Mi rimane comunque fuori un gruppo di studenti, troppo esiguo per dar vita a una terza classe". La soluzione? "Secondo il ministero li devo trasferire in un altro istituto".
Ma a monte c' è la questione degli organici. Quelli delle elementari e delle medie, fissati a luglio secondo le vecchie disposizioni, dovrebbero essere rivisti adesso alla luce delle nuove, uno per uno e in poco meno di un mese. Per gli istituti superiori, il lavoro è ancora più accelerato. "Ricordiamoci", dice Pacchiano, "che ci sono di mezzo gli esami di riparazione". Vale a dire, impossibile fornire cifre certe sugli iscritti fino al 9 settembre. "La scuola comincia il 15 in Lombardia. Come minimo dovremmo avere a disposizione segreterie informatizzate con operatori capaci di far miracoli al computer".
A parte le ferie (la maggior parte di presidi e provveditori non hanno ancora ripreso servizio), c' è da aggiungere che fino alla scorsa settimana non era nemmeno arrivata la circolare applicativa del decreto. Girava è vero, sin da gennaio, un piano di "rideterminazione del rapporto alunni-classe" pubblicato dal Ministero, ma nessuno sapeva ancora su quali classi e in che misura occorreva praticare i tagli. La circolare lo specifica adesso: solo sulle prime classi. Tagli più leggeri di quelli che si temevano: si evita così, almeno per quest' anno, di spostare gli alunni di livello intemedio da una classe all' altra, di far cambiare loro libri di testo, insegnanti, compagni, metodi di studio.
Altra tappa: Como. Il provveditore Lucio Pisani (presidente dell' Associazione nazionale dei provveditori) ostenta ottimismo ed efficienza. "I tagli da noi saranno minimi. Siamo già vicini al rapporto medio di alunni per classe che il ministero ha stabilito per la nostra provincia". La media nazionale, 20 alunni per classe (a fronte dei 19,1 alunni che c' erano in passato), varia in realtà da provincia a provincia, da comune a comune e, volendo, anche da scuola a scuola. E' il provveditore infatti a decidere a sua discrezione il rapporto classi alunni. "L' importante è far quadrare i conti nell' ambito della provincia. Si possono formare classi con 15 alunni, per esempio, in un comune montano, e altre da 30 in città". Pisani sembra però più propenso ai grandi numeri che non ai piccoli: "Che continuino a funzionare classi con sei o sette alunni, come succedeva nel 1987, quando sono arrivato a Como, mi sembra uno scandalo. La continuità didattica non è una buona scusa per giustificare uno spreco così". Non tutti però sono d' accordo. A Castelnuovo Bozzente, sulla strada per Varese, per esempio, quando il provveditore ha tentato di sopprimere la scuola elementare con 23 alunni, accorpandola con quella di Beregazzo Figliaro, c' è stata una rivolta popolare. Le famiglie hanno fatto ricorso al Tar. Hanno perso, ma si sono comunque rifiutate di mandare i figli fuori porta.
Risultato? "Scuola paterna", dice Pisani. "Cioè, preparazione privata".
Altri effetti del decreto Jervolino sulle famiglie e gli studenti? A Roma si preannunciano ritardi clamorosi sull' avvio regolare delle lezioni. Il provveditorato, che da solo copre quasi il 10 per cento dell' intera popolazione scolastica nazionale, con un bilancio di 4 mila e 500 miliardi, è infatti alle prese con cambi di sezione, accorpamenti, spostamenti di insegnanti (mille e 600 in esubero nelle medie, 400 nelle superiori), che rischiano di creare un pandemonio: "Abitualmente le scuole romane", dicono in via Pianciani, sede degli uffici del provveditorato, "entravano a regime nella seconda metà di ottobre. Quest' anno la confusione durerà più a lungo". In compenso ci sono scuole del centro, come il liceo classico Volta, tra i più ambiti, che hanno tante richieste di iscrizioni da essere costrette quest' anno a rifiutare 150 alunni.
A Bari il provveditore Giuseppe Brienza, deve fare i conti con tagli come tutti (7 classi in meno alle elementari, 67 nelle medie, 78 alle superiori), ma anche con la crisi dell' edilizia scolastica.
"Il dramma non è il decreto, sono migliaia di alunni rimasti senza aule. Licei come il Socrate, da quest' anno inagibile".
A Palermo, il provveditore Mario Barreca, nella stessa situazione, dice: "Accorpare classi? Il ministero continua a presentare percentuali assolute che non corrispondono affatto con quelle reali.
Noi non abbiamo bisogno di tagliare, semmai di aumentare". A Palermo, infatti, il numero degli iscritti alle superiori è cresciuto. "Significa che la scuola recupera quella parte della popolazione giovanile che un tempo lasciava gli studi per dedicarsi ai lavori più umili".
A Catania, i presidi dei quartieri a rischio mettono le mani avanti.
"Non ci si può chiedere di formare classi così numerose", dice Zina Bianca, preside della scuola media Manzoni di Via Plebiscito, uno dei quartieri più degradati del centro storico. "Qui si lavora sugli handicappati, sui minori devianti. Sulla sperimentazione".
Alla scuola Manzoni, riconosciuta dal ministero come "laboratorio pedagogico", si insegna, oltre alle materie tradizionali, danza, poesia, informatica con uno staff di docenti specializzati. Questi, il decreto 288 non dovrebbe toccarli. Ma per quanto ancora?
BOX
COSA VUOLE IL GOVERNO Il decreto della discordia anticipa l' attuazione di una circolare ministeriale dello scorso gennaio, nella quale già si disegnava il futuro della scuola italiana dei prossimi anni partendo dal vertiginoso calo delle nascite degli ultimi anni. Inoltre, la circolare innalza il rapporto complessivo alunni-classi: sarà una crescita apparentemente minima (da 19,1 allievi per classe a 20), ma che implica una revisione della struttura di ciascun istituto. La parola d' ordine è "razionalizzare": e cioè usare meglio gli insegnanti in esubero senza ricorrere a un esercito di supplenti. Il risultato è un risparmio netto per il bilancio del ministero della Pubblica Istruzione, che ogni anno spende per i soli supplenti 3.500 miliardi. La Jervolino conta di dimezzare questa spesa per andare incontro agli obiettivi fissati nella legge finanziaria 1994. E se si vuole risparmiare l' anno prossimo, sottolineano al dicastero di Viale Trastevere, era inevitabile anticipare a quest' anno scolastico i tagli alle classi. Tagliare altrove? Impossibile: dei 45.160 miliardi assegnati per quest' anno alla Pubblica Istruzione, il 98 per cento se ne va in stipendi.
COSA VOGLIONO I SINDACATI Sul decreto di agosto, il giudizio dei sindacati della scuola, autonomi o confederali non fa differenza: è un caos. Sotto accusa, le ripercussioni della manovra taglia-classi sull' occupazione giovanile. Mentre gli insegnanti già di ruolo in soprannumero non rischiano nulla (solo di essere sottoutilizzati), precari e supplenti troveranno dal prossimo anno scolastico porte chiuse. Le cifre parlano chiaro: il taglio di 56 mila classi farà sparire 70 mila posti. Ne saranno colpiti i docenti - che scenderanno di 30 mila unità, compresi 23 mila prepensionati, rispetto alle attuali 785 mila - ma soprattutto i supplenti, che si ritroveranno con 50 mila posti in meno, un terzo abbondante dei 144 mila registrati nel 1990. Inoltre, la riduzione del numero di classi inciderà anche sul personale non docente, dai bidelli agli impiegati, con la perdita di altre migliaia di posti di lavoro. Per i sindacati ce n' è abbastanza per scendere sul sentiero di guerra. La minaccia dello Snals, il più grande sindacato della scuola, è quella di promuovere un grande sciopero a settembre per fare rientrare la manovra, già complicata di suo. Aggiungendo, così, caos al caos.
LE CLASSI PIU' FORTUNATE...
Pochi disagi per gli alunni delle elementari. Certo, il giudizio sulla riforma, varata nel 1990, non è unanime. L' idea di partenza è innovativa: tre insegnanti al posto della maestra, lo studio di una lingua straniera, crescita dell' attività didattica a 30 ore settimanali, mobilità dei docenti. Per la Confindustria, è solo un espediente per non licenziare decine di migliaia di maestre, per la Corte dei conti un campionario di sprechi e di ritardi. Ancora una volta sotto accusa sono le supplenze - costate allo Stato 469 miliardi nell' anno 1991-92 - e le assunzioni, 19 mila nell' ultimo biennio (lo stesso numero di posti che oggi il decreto legge vorrebbe tagliare). Eppure nelle elementari c' è ancora posto per i giovani: mancano infatti proprio gli insegnanti di lingua straniera, e il relativo concorso sarà bandito nel 1994. Il ministero replica alle accuse giocando la carta delle pubbliche relazioni: nelle scuole sarà infatti distribuito un opuscolo per illustrare ai genitori il senso della riforma delle elementari. Trentadue pagine di confronti fra il vecchio e il nuovo, ma anche di vignette in cui viene fatta anche della salutare ironia. Questa è forse la più grossa rivoluzione.
...E QUELLE A RISCHIO DI CAOS Brutte notizie per le superiori. Scioperi a parte, l' inizio del prossimo anno scolastico rischia di trasformarsi in un incubo per studenti ed insegnanti del liceo. Infatti, se alle elementari e alle medie inferiori le materie sono quasi identiche in tutti gli istituti, alle superiori lo scenario si complica. In un grande Provveditorato agli studi, il numero medio di insegnamenti da gestire è considerevole, oltre duecento (c' è di tutto, da Arte della ceramica a Economia delle comunità). Fra professori in esubero e classi da eliminare, l' applicazione del decreto ministeriale somiglierà a un puzzle con migliaia di tessere. Per le superiori, questa mappa - detta degli "organici di diritto" - era stata disegnata già prima che finisse lo scorso anno scolastico: oggi è solo da buttare e quella nuova non sarà pronta se non dopo l' inizio delle lezioni. A complicare il tutto, c' è la garanzia - contenuta nel decreto-legge - di rispettare i trasferimenti ed i passaggi di ruolo e di cattedra già previsti: i docenti trasferiti che si ritroveranno senza cattedra presenteranno probabilmente ricorso per non finire a fare supplenze. Nel frattempo, i ragazzi dovranno abituarsi a studiare alla giornata.




Testata
Epoca

Data pubbl.
20/07/93

Numero
2232

Pagina
118

Titolo
ORO NERO ADESSO L' ABBIAMO ANCHE NOI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI GIORGIO LOTTI

Sezione
STORIE

Occhiello
Nel Canale di Otranto l' Agip ha trovato un Kuwait. "Epoca", in esclusiva, è andata a visitarlo.

Sommario
Una piattaforma grande come un campo di calcio. Un anno di perforazioni. E finalmente la scoperta: sotto, molto sotto il fondo del Mare Adriatico c' è un tesoro in petrolio che potrebbe un po' cambiare la vita degli italiani. Ecco come stanno tirandolo fuori.

Didascalia
DIECIMILA BARILI Uno scarico di gas in fiamme dalla piattaforma
"Jacques Bates" (foto in alto), a 45 chilometri dalle coste
pugliesi. Il gia cimento marino, il più profondo del mondo, potrà
coprire l' 1,5 per cento del fabbisogno nazionale. Già ora produce
10 mila barili al giorno.
SICUREZZA Un tecnico dell' Agip mostra come funzionano i getti
antincendio. Ma sulla piattaforma non ci sono mai stati incidenti.
IL COMANDANTE Sopra: l' ingegner Franco Picciani, 36 anni,
responsabile delle perforazioni. A destra: la torre
di trivellazione.
I "FORZATI" DEL PETROLIO Il pannello di controllo della "Jacques
Bates". La sorveglianza qui è continua: la sala comandi è collegata,
24 ore su 24, a sensori disposti nei punti critici della struttura.
La piattaforma galleggia ancorata ai fondali da otto cavi, lunghi in
tutto 24 chilometri. Vi lavorano e vivono novanta persone; gli
italiani sono una ventina.
IL ROBOT-SUB
Sopra: il pannello che controlla il robot-sottomarino (a destra) con
cui dalla piattaforma si ispeziona la testa del pozzo, a 850 metri
sotto il livello del mare. "Spesso ci sono così tanti pesci da
impedirci addirittura di vedere le attrezzature".
CACCIA AL TESORO Un tecnico tiene in mano i campioni prelevati dalle
stratificazioni dei fondali. Sono questi i reperti che hanno guidato
l' Agip nella caccia al giacimento sottostante. La trivella ha
perforato la roccia per 3.500 metri prima di trovarlo.

Testo
E' grande quanto un campo di calcio. Ma, a starci sopra, la "Jacques Bates", piattaforma petrolifera sul Canale di Otranto, potrebbe essere benissimo una nave. L' odore del petrolio si sente appena, quando il vento marino soffia più forte. Anche se, sotto il livello dell' acqua, 850 metri di profondità, la trivella funziona ininterrottamente, portando in superficie 10 mila barili di greggio al giorno. Il petrolio vien su lungo la torre che si innalza al centro della piattaforma, ricade in tubature e condotte, fino ad essere raccolto nei serbatoi di una petroliera ancorata vicino.
E' l' ultimo "tesoro" scoperto dall' Agip, al largo delle coste pugliesi: il giacimento "Aquila", il più ricco d' Italia e uno dei maggiori del mondo per portata giornaliera. Tre pozzi, di cui adesso uno solo in funzione, dovrebbero fornire all' anno 500 mila tonnellate di greggio pregiato, paragonabile al miglior petrolio del Golfo, l' Arabian Light. Non basterà a soddisfare il fabbisogno nazionale. Anzi coprirà appena l' 1,5 per cento dei nostri consumi energetici, ma per l' Agip il giacimento "Aquila" rappresenta un primato assoluto. Nessun' altra compagnia al mondo è riuscita a estrarre petrolio a tale profondità sotto il livello del mare, 850 metri, scavando nella roccia sottostante per altri 3 mila e 500 metri. Nemmeno la Shell, ferma a 500 metri, la Exxon e la Conoco, rimaste ancora più in superficie.
Babele sull' acqua. Sulla Jacques Bates vivono giorno e notte 90 persone: una ventina di italiani, poi americani, canadesi, inglesi, serbi, croati e persino cileni. Solo uomini, nessuna donna, obbligati a turni che prevedono per gli stranieri un mese sulla piattaforma e un mese di riposo a terra, per gli italiani due settimane a bordo, due a casa. Una piccola babele dove l' unità di squadra è garantita da un' unica lingua, l' inglese.
"Are you ready?", "Sei pronto?", dice la scritta in una delle cabine, ricordando di indossare prima di uscire allo scoperto scarponi dalla punta ferrata, occhiali protettivi e il caschetto giallo dell' Agip. Spiega l' ingegner Franco Picciani, responsabile della perforazione a bordo: "Il segreto per mettersi al riparo da ogni inconveniente, incidenti con le attrezzature o scottature, è coprirsi il più possibile prima di uscire all' aria aperta". Come su una nave, la vita a bordo si svolge infatti a due livelli. Sopra, una pista d' atterraggio per gli elicotteri, macchinari, tubature, strutture di lamiera. Sotto, cabine, uffici, corridoi illuminati al neon, sala mensa, sala tivù, palestra e uffici. "Siamo in fase sperimentale", aggiunge l' ingegnere. "Produciamo di continuo, ma con portate diverse, da 6 mila a 10 mila barili al giorno".
Ventiquattro chilometri di cavi. Ma cosa c' è davvero sotto l' Adriatico? Se le stime di Guglielmo Moscato, presidente dell' Agip sono esatte, e se non servono solo a enfatizzare la scoperta per valorizzare la società del gruppo Eni prima di una futura quotazione in Borsa, nei prossimi anni nell' area adriatica si potrebbero estrarre complessivamente 120 milioni di tonnellate di combustibile tra petrolio e gas naturale, l' equivalente del fabbisogno nazionale annuo. Non solo. L' Agip ha già in mano le concessioni per lo sfruttamento petrolifero di altre due aree, "Adriatiku 2 e 4" nelle acque territoriali albanesi, che permetterebbero alla società , in joint-venture con l' Albania, di allargare ancora la produzione. Ma sono, appunto, solo previsioni.
"Per ora resta il fatto", dice l' ingegner Picciani, "che abbiamo messo in funzione un impianto assolutamente innovativo".
La piattaforma, costruita nel 1986 da una società americana, la Reading Bates, galleggia ancorata ai fondali con otto cavi (lunghi in tutto 24 chilometri) a 45 chilometri dalla costa pugliese e a 90 da quella albanese. E' praticamente immobile. Quando le onde sono a forza otto, oscilla appena: una vibrazione leggera che al massimo fa tintinnare i bicchieri in sala mensa.
Fino all' anno scorso la gestivano gli americani, che l' affittavano alle compagnie petrolifere per esplorare i fondali. Un anno fa è partito il progetto di estrazione dell' Agip, e la Jacques Bates si è trasformata nel quartier generale del team italiano. Franco Picciani, 36 anni, baffoni spioventi e occhi chiari, reduce dallo Scarabeo 5, piattaforma della Saipem nel Mare del Nord, è arrivato a febbraio, mese in cui è cominciato lo scavo sottomarino. "In questo momento siamo in piena produzione", annuncia, indicando al centro della piattaforma le tubature che svettano agganciate alla torre di ferro. Si arrampica lungo una scala che sbuca all' interno della "zona pericolo". Una cabina lunga e stretta, dove un tecnico del Mississippi controlla al video la "testa" del pozzo, il punto in cui l' impianto, in un groviglio di tubi, sprofonda nel sottosuolo. "E' il video, tramite un robot-sottomarino, che ci permette di controllare ciò che succede laggiù", spiega ancora Picciani.
"Nessuno di noi è mai sceso sott' acqua".
I pesci nel pozzo. Le immagini opache dei fondali, registrate da questa specie di navetta armata di braccia metalliche che è il "robottino", riproducono una miriade di pesci, calamitati dalla "testa" del pozzo. "Spesso i pesci sono tanti che ci impediscono perfino di vedere le attrezzature. Ma ne andiamo fieri. Sono la garanzia che il nostro è un impianto perfettamente pulito".
Picciani usa il termine inglese, "dry", asciutto, per indicare che non ci sono perdite di sostanze inquinanti, che l' Adriatico, prodigo di petrolio, rimane comunque in ottima salute. Reflui, fanghi, residui tossici finiscono infatti in contenitori, scaricati sulle navi appoggio placidamente ormeggiate a poche centinaia di metri dalla piattaforma.
Un' altra cabina ospita la "sala controllo", tappezzata di pannelli che ogni attimo registrano tutto quello che succede a bordo e sott' acqua. "Qui la sorveglianza è continua", dice ancora l' ingegnere. "Chi è ai comandi per nessuna ragione può lasciare quest' ufficio". La "sala controllo" è il cuore della piattaforma: un complicato sistema di spie segnala ogni minimo pericolo: una fuga di gas, un incendio, un qualsiasi incidente. Norme di sicurezza? Il "product manager", Lorenzo Pretto, 38 anni, le conosce bene: "Quelle marittime, volute dalle capitanerie di porto", dice, "e quelle speciali per gli impianti petroliferi dell' Agip". In altre parole: barriere sottomarine per arrestare la fuoriuscita di petrolio; maschere antigas per l' equipaggio, tubi per distribuire l' aria sulla piattaforma; scialuppe per evacuarla.
Ma questo non è un argomento gradito ai 90 uomini di bordo. Bill Evans, il supervisor americano, annuncia fiero: "Quattro anni senza incidenti: novecentomila ore di lavoro. Il nostro obiettivo? Un milione di ore". Sorride Antonio Militi, sardo, 30 anni, geologo: "La vita qui è così... Sempre al lavoro, 18 ore consecutive. Molto meglio questo però che fare il vigile urbano al mio paese".
Si porta in tasca, Militi, i campioni prelevati tra le stratificazioni rocciose dei fondali. Piccoli talismani che hanno rilevato la presenza del "tesoro" sottomarino. Da una botola compare il robot, grondante di acqua e di alghe. Per oggi ha finito di esplorare il segreto del mare lì sotto, alla quota record di 850 metri.

BOX
IL PETROLIO IN NUMERI QUANTO CE NE SERVE L' Italia ha consumato, nel 1992, 94 milioni di tonnellate di petrolio, per un valore di 14 mila miliardi di lire.
QUANTO NE IMPORTIAMO Compriamo ogni anno circa 90 milioni di tonnellate di greggio all' estero. Il nostro maggiore fornitore è la Libia, da cui acquistiamo il 27,8 per cento del nostro fabbisogno. Seguono l' Arabia Saudita (18,7 per cento), l' Iran (14,9 per cento), l' ex Urss (13,1 per cento) e l' Egitto (8,1 per cento).
QUANTO NE PRODUCIAMO I pozzi italiani producono in totale 4 milioni e mezzo di tonnellate all' anno. La maggior parte del petrolio (3 milioni e 600 mila tonnellate) è estratta dall' Agip.
DOVE LO PRODUCIAMO I giacimenti italiani più ricchi si trovano nella valle del Ticino, in Sicilia (Gela, Ragusa) e in Basilicata, oltreché nell' Adriatico.
Altri campi petroliferi italiani sono già esauriti, come quelli in Abruzzo e nel Canale di Sicilia. Il progetto "Aquila", cioè la piattaforma nel Canale di Otranto, prevede un investimento di circa 160 miliardi.




Testata
Epoca

Data pubbl.
29/06/93

Numero
2229

Pagina
17

Titolo
MONZA I CENTO GIORNI CHE SCONVOLSERO LA CITTA'

Autore
DI M G CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
LA LEGA AL POTERE

Sommario
La rivoluzione è partita dal municipio: i dirigenti ogni 6 mesi cambiano lavoro. Ma come è proseguita? Dai gemellaggi con Indianapolis alla crociata anti Islam, ecco la nuova faccia della capitale brianzola.

Didascalia
MANYFLOWERS
Aldo Moltifiori, 52 anni, dirigente della Digital,
sindaco leghista di Monza da cento giorni. E' soprannominato
"Manyflowers" per la sua formazione angloamericana.
TRENTADUE PER CENTO
Giacomo Bertolini, neoconsigliere leghista,
all' interno della sede del movimento. A Monza, alle elezioni del 13
dicembre, la Lega ha ottenuto il 32 per cento dei voti.

Testo
I primi a rendersi conto che l' aria a Monza era cambiata sono stati i funzionari dell' amministrazione comunale. Il nuovo sindaco della Lega, Aldo Moltifiori, ha cominciato con loro a mettere alla prova il decantato pragmatismo del suo movimento: "Ci vuole la rotazione". In altre parole, chi da vent' anni era abituato a far sempre la stessa cosa, a febbraio, con la nuova giunta a guida leghista, si è trovato in pochi giorni dislocato in un ufficio diverso, con la prospettiva di dover cambiare mansione ogni sei mesi. I funzionari hanno protestato. Un paio hanno anche dato le dimissioni. Ma gli effetti, assicura il sindaco, saranno positivi: "Per far funzionare un apparato come quello del Municipio occorre una selezione darwiniana: chi non sta al passo, chieda pure il prepensionamento".
Modi decisi quelli di Aldo Moltifiori, 52 anni, dirigente alla Digital, esperto in sistemi informatici applicati all' ecologia.
Piglio da manager, barba curata e doppiopetto blu. Cresciuto più che alla scuola di Bossi a quella dell' efficientismo anglosassone: master in fisica all' università di Durham ed esperienze di lavoro negli Stati Uniti, in Francia e in Svizzera. Le elezioni amministrative del 13 dicembre (la Lega Nord ha ottenuto il 32 per cento dei consensi) l' hanno portato in febbraio alla guida della città, con l' appoggio di repubblicani, verdi, pannelliani e voto tecnico del pds.
Il piano regolatore. Il piglio manageriale del sindaco rischia però di non bastare a rimettere in sesto i disastri ereditati dalle precedenti amministrazioni. Monza è infatti una città di 123 mila abitanti, congestionata dal traffico e dal caos edilizio, con due aziende municipalizzate, latte e trasporti, in dissesto, con ottomila disoccupati. E in più, l' effetto Tangentopoli. A quindici chilometri da Milano, Monza ha collezionato in questi mesi, a carico dei vecchi amministratori, più di cinquanta avvisi di garanzia.
Così chi vorrebbe scoprire per le strade i segni visibili dell' effetto Lega, rimane deluso. Aiuole curate? Autobus in orario? Servizi efficienti? Niente di tutto ciò. Per ora la sfida di Aldo Moltifiori, soprannominato "Manyflowers" per le sue manie anglosassoni, si gioca all' interno di un Palazzo in dissesto, con gli operai che lavorano per mettere in funzione l' ascensore e i sacchi della spazzatura abbandonati negli angoli. Il sindaco non dorme quasi più. Arriva in municipio alle sette e mezza del mattino, se ne va ad ora di cena e la sera continua a lavorare per la Digital. Ma Moltifiori e il suo vicesindaco, Ludovico Gilberti, un ex bancario passato alla libera professione come esperto di risanamenti di bilanci, hanno un primo successo da esibire: l' affidamento della variante del piano regolatore allo studio dell' architetto Leonardo Benevolo. Il nuovo consiglio l' ha votato in poco meno di un mese. Ma gli oppositori protestano: "Nessuno ha discusso il tipo di sviluppo urbanistico che si intende dare a questa città". Aldo Moltifiori ribatte: "Avevamo di fronte due strade: aprire il dibattito politico, e non finire mai, oppure agire".
Roma non ci dà soldi. La strategia della giunta "pragmatica e post-ideologica", come l' ha battezzata il sindaco, formata prevalentemente da tecnici alla prima esperienza politca, è quella dei piccoli passi. Niente grandi opere. E tanto meno miracoli.
L' importante è lavorare nella piena trasparenza per evitare le trappole di nuove Tangentopoli: negli ultimi mesi sono stati bloccati, per appalti sospetti, 35 cantieri su 60 ispezionati. E poi, se ci si volesse lanciare in grandi progetti, c' è comunque il problema dei soldi, che sono pochi e bastano a stento per pagare lo stipendio dei dipendenti (anche se è stato appenna raddoppiato quello degli assessori): per esempio il deficit delle aziende municipalizzate, l' Amsa e la Centrale del Latte, grava sul bilancio del comune per oltre 55 miliardi.
Il vicesindaco, che è anche assessore al bilancio e ai tributi, sta studiando un sistema di risamento, rimandando a tempi migliori la promessa privatizzazione. Ma il nuovo corso è stato subito segnato da un incidente che qualcuno attribuisce al carattere autoritario del primo cittadino: si è dimesso il presidente dell' Amsa, scelto poco tempo fa proprio nell' area leghista. Motivo? Non avrebbe gradito l' accordo firmato dal sindaco con i dipendenti dell' azienda che minacciavano uno sciopero per il mancato pagamento di un' indennità.
"Il bilancio del Comune è in deficit", dice il sindaco, "ma sapete quanto riceve dallo Stato una città come Monza che produce ogni anno mille e 700 miliardi di risorse finanziarie? Cinquecentosettantasette mila lire per abitante. Mentre Modena, per esempio, ne ottiene 900 mila". Il paragone non è casuale: è una sfida tra l' efficientismo leghista, ancora in rodaggio, e il decantato successo dei comuni "rossi". "Sappiamo bene che in passato la Dc ha comprato la pax sociale con il Pci in questo modo. Ma adesso è il nostro turno", minaccia, "apriremo una vertenza con il governo".
Nel frattempo, gli abitanti di Monza, a dispetto della campagna elettorale leghista, giocata sulla disobedienza fiscale all' Isi, con la scusa del deficit si beccano le tasse comunali più elevate d' Italia: l' Iciap al 18 per cento, il raddoppio della tassa sui rifiuti e, soprattutto, l' Ici al 6 per mille. "Colpa nostra? No.
Del commissario prefettizio che l' ha messa nel bilancio preventivo del 1993. Quando è arrivata la Lega Nord, dopo sei mesi di commissariamento, era troppo tardi per abolirla".
Sarà, come dice il sindaco, un' esperimento di democrazia nuova, quello di Monza. Ma è anche vero che la luna di miele tra la squadra leghista e i tre assessori "esterni", l' assessore verde all' ecologia Carlo Vittone, quello all' urbanistica Maurizio Antonietti e quello al traffico, Massimo Ferrari (suggeriti dal pds), sembra già finita. Il sindaco voleva per esempio il gemellaggio Monza-Indianapolis. Verdi e pidiessini no, contrari da sempre all' autodromo nel parco. "Manyflowers" l' ha promosso ugualmente e ora è soddisfatto di aver inaugurato "una nuova politica di scambi culturali", primo passo per far di Monza e della Brianza "l' enclave del turismo d' elite". Il secondo passo, dovrebbe essere la ristrutturazione della Villa Reale contesa tra il comune di Monza e quello di Milano, che il sindaco aveva proposto a Bruxelles come sede dell' Agenzia europea dell' Ambiente.
Dichiarazione di guerra. Protesta Valerio Imperatore, capogruppo pidiessino: "La Lega dovrebbe prima dirci quale tipo di sviluppo economico prevede per la città". Si lamenta Paolo Pilotti, segretario del gruppo democristiano: "La politica del sindaco è fatta di incongruenze". Si domandano alcuni cittadini, come Aldo Radaelli, architetto: "Che spazio darà ai temi sociali?". Aldo Moltifiori prende tempo, ancorato alla filosofia dei piccoli passi.
Che in concreto si traduce in una promessa di assunzione di 200 cassintegrati, nel reperimento di 700 alloggi per gli anziani e in una Thema blu del Comune messa a disposizione dei vecchietti che devono far la spola tra l' ospedale e la città.
Sensibile, il sindaco, ai bisogni della terza età, base elettorale della Lega... "Beh, in fondo gli anziani ci costano solo 35 milioni l' anno a testa", ribatte, "contro i 40 degli extracomunitari". Gli extracomunitari,appunto. Cosa intende farne il sindaco di Monza? "Chi è in regola e ha un lavoro può restare. Gli altri no". Anche per gli occupati c' è però una condizione: "Che non siano musulmani.
Non possiamo accettare che il Corano distrugga la nostra cultura".
Ma al consiglio comunale "aperto", inaugurato dal sindaco per presentare alla città programmi e risultati dei suoi primi 100 giorni di governo, il dirigente della Digital ha evitato gli slogan.
Ha portato diapositive, grafici, trasparenti. Ha snocciolato cifre e dati. Ma gli oppositori dicono che è stato uno show personale. Ma per il sindaco era ancora di più: una dichiarazione di guerra al vecchio sistema.
CHE COSA HANNO FATTO UNA THEMA PER I VECCHI Gli anziani? Per loro, un occhio di riguardo.
C ento giorni di amministrazione leghista. Ecco cosa ha fatto in concreto il partito di Bossi a Monza: 1) Delibera di affidamento della variabile del piano regolatore all' architetto Leonardo Benevolo.
2) Gemellaggio con la città di Indianapolis.
3) Stanziamento di 4 miliardi ottenuto dalla Regione per una prima ristrutturazione della Villa Reale.
4) Razionalizzazione degli incarichi in municipio. Ufficio informazione per gli utenti. Snellimento dei tempi di consegna dei certificati.
5) Piano di rifinanziamento dell' azienda dei trasporti Amsa, con gli utili ricavati dall' azienda del gas.
6) Ispezioni sistematiche nei cantieri. Su 60 visitati ne sono stati bloccati 35.
7) Istituzione di un Osservatorio sul lavoro, con progetto d' assunzione di 200 cassintegrati a carico del Comune.
9) Campagna per il riciclaggio dei rifiuti urbani. Spot in tivù e addestramento di 600 studenti che andranno di casa in casa a spiegare come si fa la raccolta differenziata.
10) Rallentatori di velocità all' ingresso dell' ospedale cittadino.
11) Alloggi per 680 anziani, che saranno ospitati in mini appartamenti o posti letto all' interno di quattro case di cura.
12) Una Lancia Thema del Comune messa a disposizione degli anziani per andare all' ospedale.




Testata
Epoca

Data pubbl.
08/06/93

Numero
2226

Pagina
18

Titolo
MORIRE A 50 GIORNI

Autore
DI MARCO CORRIAS E MARIA GRAZIA CUTULI

Sommario
Si chiamava Caterina. Era la figlia appena nata di un vigile e della custode della Torre Pulci. Quando è scoppiata la bomba stava dormendo. Quando l' hanno tirata fuori dalle macerie con i genitori, non c' era più niente da fare. Mentre il mondo si dispera per la perdita degli Uffizi, "Epoca" vi racconta le cinque vittime qualunque di una follia straordinaria.

Didascalia
I VOLONTARI DELL' ARTE
Non appena si è diffusa la notizia, da tutta
Italia sono arrivate offerte di collaborazione per il restauro dei
monumenti. Gli esperti dell' Opificio delle pietre dure si sono
precipitati agli Uffizi.
PEGGIO CHE IN GUERRA
L' esplosione non ha risparmiato praticamente
nessuna delle 45 sale degli Uffizi. Peggio di quello che fecero i
bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Solo l' Arno, nel ' 66,
fece più danni.
100 MILIARDI DI DANNI
Il terribile scoppio ha irrimediabilmente
distrutto tre dipinti di scuola caravaggesca. Gravemente danneggiati
un Giotto e un Rubens. La maggior parte dei capolavori custoditi
agli Uffizi sono stati invece salvati dai vetri antivandali montati
davanti alle opere. Il ministro Ronchey ha ottenuto 30 miliardi per
il primo intervento, ma ha già detto che ne saranno necessari almeno
100.
IL DISCOBOLO DECAPITATO
La copia romana del celebre Discobolo dello
scultore greco Mirone (V secolo avanti Cristo) è stata decapitata e
mutilata. L' esplosione ha fatto volare in pezzi porte e infissi che
si sono trasformati in proiettili devastanti. Sono stati colpiti
anche il "Niobide morto" e il "Cavallo nell' atto di spiccare il
salto", entrambe copie romane di originali greci trasferite a
Firenze alla fine del Settecento.
ANCHE I QUADRI INGESSATI
Sopra e in alto: sale degli Uffizi colpite
dall' onda d' urto. Nella foto grande: uno dei capolavori
danneggiati dall' attentato. In attesa di procedere al restazuro, il
quadro è stato "medicato" con una speciale carta prodotta in
Giappone. La sottilissima pellicola impedisce al colore di staccarsi
e viene rimossa al momento dell' intervento definitivo. Ogni singola
striscia di carta corrisponde a un taglio provocato dai vetri andati
in pezzi.

Testo
Alle 1.04 di giovedì 27 maggio, Fabrizio Nencioni, 39 anni, sua moglie Angela Fiume, 36 anni, le loro due bambine Nadia, 8 anni, e Caterina, 50 giorni appena, sono stati uccisi senza un perchè.
Vittime casuali di una carica di tritolo che ha riportato l' Italia ai tempi più bui. E senza un perchè è morto anche Dario Capolicchio, 22 anni, studente di architettura di Sarzana, in provincia di La Spezia. Carbonizzato dalla fiammata che ha avvolto la sua stanza in affitto. Dormivano tutti, probabilmente, quando un killer senza volto, quaranta minuti dopo la mezzanotte, ha parcheggiato un Fiorino Fiat sotto le loro case, in via dei Georgofili angolo Lambertesca. E hanno continuato a dormire quando lo stesso killer, o un suo complice, ha azionato il comando che ha innescato cento chili di esplosivo. I vigili del fuoco hanno dovuto lavorare per ore prima di poter estrarre quei cadaveri sfigurati, e le ambulanze hanno percorso decine di volte le strade fino agli ospedali cittadini per trasportare i trenta feriti. Mentre le ruspe erano ancora al lavoro, nel piazzale degli Uffizi una piccola folla di tecnici e amministratori, alla luce delle fotoelettriche, cominciava a fare la conta dei danni di un patrimonio storico unico al mondo. Distrutto il palazzo che ospita la più antica accademia del mondo, quella dei Georgofili, un consesso di studiosi di agricoltura che custodiva libri rari e documenti inestimabili. Distrutta una parte dell' ala di ponente della galleria degli Uffizi. Distrutti tre quadri dal valore miliardario. Distrutte decine di negozi, spazzato via l' albergo Quisisana, quello reso celebre in tutto il mondo dal film Camera con vista (era la numero 22, ormai soltanto un ricordo cinematografico). Miliardi di danni. E già è cominciata la corsa alla ricostruzione, come ai tempi dell' alluvione, nel 1966.
Ma i fiorentini, accanto alle loro opere d' arte hanno da piangere quei cinque morti.
"Ero con te, Caterina, quando dal caos tuo padre ti portava a dormire in silenzio". Così si legge su un anonimo biglietto indirizzato alla bambina più piccola dei Nencioni e sistemato sulle decine di mazzi di fiori che la gente di Firenze ha posto accanto al cratere scavato dallo scoppio dell' autobomba. Fabrizio Nencioni e sua moglie li conoscevano in tanti. Lui, ispettore dei vigli urbani, alto e grosso, barba rossa e aspetto mite, una passione per la montagna e per le cose semplici della vita (per festeggiare l' ultima figlia aveva portato in ufficio biscotti fatti a mano personalmente). Lei, Angela, custode dell' Accademia dei Georgofili, napoletana di origine, arrivata a Firenze a sette anni e affidata alle cure degli zii insegnanti dai genitori contadini che sognavano per lei un futuro migliore. "Sembreranno parole di circostanza, ma le assicuro che Angela era davvero una donna stupenda. Affidabile, seria, pronta a qualsiasi lavoro le si chiedesse...". Quasi piange Franco Scaramuzzi presidente da nove anni dell' Accademi, mentre assiste distrutto dalla fatica e dal sonno al lavoro dei vigili del fuco. E ricorda la gioia di Angela e di suo marito per quella casetta di tre stanze più servizi appollaiata in cima alla Torre dei Pulci, all' ultimo piano dell' Accademia. Una casa che i Nencioni avevano desiderato per anni. Un appartamento modesto, ma bellissimo, valorizzato com' era da quella terrazza che si affacciava su piazza della Signoria . Ora, a guardarla dai finestroni senza infissi della sala del Dosso, la numero 31, nell' ala di Ponente degli Uffizi, la casetta appare sventrata, sospesa sullo scheletro di un palazzo che non c' è più.
Un materasso sembra galleggiare sui detriti. Le bambole delle bambine sbucano dai calcinacci. Commuovono gli stessi uomini che lavorano da giorni per salvare il salvabile. Le stesse lacrime ha negli occhi un loro collega, quando il giorno dopo la tragedia torna in via Lambertesca per deporvi un mazzo di fiori. Non lo dice. Ma quei fiori sono dedicati a Caterina, a quel piccolo fagotto che ha tenuto in braccio disperatamente per qualche minuto (quella foto è la copertina del nostro giornale) prima di accorgersi che ormai non c' era più nulla da fare.
All' istituto di medicina legale dell' Ospedale Careggi, il giorno dopo la tragedia, non vogliono parlare di quella neonata. "Il suo cadavere, quello dei genitori e della sorella sono coperti di sangue, di ematomi, di ferite", dice un tecnico, Paolo Venturi. " Non è uno spettacolo da esibire. Già abbiamo dovuto farlo l' altro giorno, quando sono arrivati Spadolini , Ciampi, Mancino con le loro auto di scorta".
Adesso non c' è nessuno a tener compagnia ai morti. Sono andati via persino i genitori di Dario Capolicchio, lo studente bruciato vivo dalle fiamme causate dallo scoppio. "Impossibile da riconoscere", dice ancora Venturi, "i genitori stessi non sono stati in grado di farlo". Sono arrivati da Sarzana , i coniugi Capolicchio, alla ricerca disperata del figlio disperso. Hanno girovagato tutto il giorno tra sale di pronto soccorso e corsie di ospedale, sperando di trovare il figlio di cui nessuno,tantomeno la fidanzata Francesca Chelli, 22 anni, in gravissime condizioni all' ospedale di Ponte a Niccheri, era in grado di dare notizie. Sono arrivati all' Istituto di medicina legale inebetiti di fronte ai resti carbonizzati di quel corpo senza volto. E' stato il dentista a identificarlo, chiamato da La Spezia. "Il medico ha riconosciuto il ragazzo da un' otturazione che gli aveva fatto due mesi fa e dalla posizione di un canino accavallato. Ma i genitori non ce l' hanno fatta ad assistere". Nessuno ha avuto il coraggio di dirlo alla fidanzata che, nel frattempo, sul letto d' ospedale, le gambe ricoperte di ferite e le spalle ustionate, ha continuato a chiedere di lui.
Frequentavano assieme la facoltà di architettura. Avevano preso quella casa in affitto di fronte all' Accademia diei Georgofili, insieme a un loro collega di corso. Quando c' è stato lo scoppio, ha visto il suo ragazzo tra le fiamme. Per l' ultima volta.
Cinque morti. Ventinove feriti gravi. I primi sono arrivati all' una e mezza al pronto soccorso di S.Maria Nuova, uno degli ospedali più antichi di Firenze, a poche centinaia di metri da Piazza della Signoria. "Arrivavano in continuazione, impossibile contarli", ricorda Massimo Minerva, 46 anni, medico di turno durante la terribile notte. "I portantini scaricavano e ripartivano. Alla fine avevamo davanti una ventina di corpi insanguinati". Loro, i medici, solamente in tre. Hanno lavorato fino alle cinque e mezza, con il radiologo e l' oculista chiamati d' urgenza. Al mattino, i casi gravi erano rimasti tre: Alberto Galvani, 56 anni, ingegnere di origine abruzzese, che ha perso un occhio; Jasmina Faraone Mennella, una ragazza di 19 anni, subito operata per le schegge penetrate nelle gambe; Andrea Stefanini, 21 anni, elettricista, arrivato all' ospedale con un trauma cranico. "Erano tutti sotto choc. Ma chi ci ha impressionato di più è stato l' uomo che ha perso l' occhio.
Non riusciva neanche a dire il suo nome". L' unico che ha la forza di raccontare è Andrea Stefanini: "Ero in cucina a leggere un libro.
Non ho sentito nemmeno il botto e ho visto la casa crollare, calcinacci addosso. Mi sono trovato a terra con il tetto che pioveva da tutte le parti. Non so chi, non so come, ma mi hanno raccolto...".
Chi si è salvato, nella notte maledetta di Firenze, ha comunque perso tutto. Settantasei persone hanno visto le proprie case inabissarsi nel macabro triangolo racchiuso tra le stradine che la Protezione civile ha dichiarato inagibile. Il Comune ha dato loro alloggio per cinque giorni in pensione. Ora dovrebbe cercar loro le case, concedendo un prestito di 2 milioni a testa al mese. "Ma chi ci lavorava in via Lambertesca, cosa farà?", chiede Silvia Mazzanti, proprietaria del bar proprio di fronte al Palazzo dei Georgofili.
"Adesso è tutto distrutto".
In piazza della Signoria, mentre una delegazione dell' amministrazione provinciale depone mazzi di fiori sulle macerie, abitanti e commercianti cercano una soluzione per il loro futuro. Invano. Franco Francalanci, in via Lambertesca aveva il suo laboratorio di oreficeria: "Hanno promesso trenta miliardi per restaurare gli Uffizi. Ma noi andremo alla deriva". Si spacca la città: chi vuol raccogliere sottoscrizioni per il patrimonio artistico, chi insiste per aiutare i senzatetto.
Le indagini sono difficili. Un rompicapo persino ricostruire l' attentato. Per ora l' unica cosa certa è la testimonianza di un ragazzo: "Ero in via Lambertesca con la mia fidanzata, quando abbiamo visto un tale che parcheggiava un Fiorino, malamente, proprio dove ora c' è la buca. Ma non sarei in grado di riconoscerlo".
E' stata davvero la mafia, come sostiene il ministro dell' Interno Nicola Mancino? Oppure siamo davanti a un' altra strage di Stato? Sia come sia, resta un dubbio: forse gli attentatori non volevano la mattanza. Quel punto di Firenze a quell' ora è frequentato pochissimo. Qualche passante, qualche coppietta, qualche tossico o travestiti in cerca di compagnia. E' più probabile, dicono gli inquirenti, che volessero colpire solo un simbolo. E lanciare l' allarme nel mondo. Se è così, ci sono riusciti. Gli Uffizi resteranno chiusi per chissà quanto tempo. L' ottimismo dei tecnici del governo che ipotizzano una riapertura dell' ala di levante (quella meno colpita) tra quindici giorni, non trova riscontro tra gli esperti della sovrintendenza di Firenze. "La scala del Buontalenti è lesionata, e in quest econdizioni io non posso riaprire il museo", dice la direttrice Anna maria Petrioli Tofani. E per dimostrare il suo scetticismo guida un gruppo di giornalisti lungo i corridoi devastati. Un percorso di guerra: trenta opere seriamente danneggiate, tre distrutte, tre statue rovinate, una decapitata. Infissi divelti. I segni di una follia.




Testata
Epoca

Data pubbl.
25/05/93

Numero
2224

Pagina
128

Titolo
RIMINI NUOVO CARCERE PARADISO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Sommario
Sono solo in 7. Su 15 mila in galera per droga. Grazie a un direttore antiproibizionista non stanno in cella e non sono sorvegliati da secondini armati. Ma lavorano in serra, fanno terapia di gruppo e vivono in camerate accoglienti. Funziona? Cronaca di un esperimento che ha dell' incredibile. "I migliori momenti della giornata sono quelli che si passano in serra: dà un' illusione di libertà"

Didascalia
SEZIONE "PILOTA" Sopra: al centro con la cravatta, Gian Paolo De
Mari, 45 anni, direttore del carcere di Rimini, convinto
antiproibizionista. A destra: alcuni detenuti che partecipano
all' esperimento della Seatt (Sezione aperta per il trattamento dei
tossicodipendenti) al lavoro nella serra, fuori dalle mura del
carcere. Sotto da sinistra: Marco Tarroni, 30 anni, e Salvatore
Mansueto, 29 anni, giocano a carte nella loro "cella".
SUCCEDE A RIMINI Sopra: Marco Tarroni con Salvatore Mansueto a
tavola per il pranzo. A fianco, nella foto grande: Marco con Rusty,
il cane mascotte. Sotto, a sinistra: Marco in un momento di relax
alla fine della giornata. Sotto, al centro: due giovani che dalla
sezione pilota del carcere di Rimini sono passati alla Comunità
Centofiori. Qui sotto: Danilo si esercita coi pesi durante il tempo
libero. In due anni dalla Seatt sono passati una cinquantina di
ragazzi.

Testo
Dice che bisogna vedere come si sta di là, oltre quel muro, per capire la differenza: "Per i tossici lasciare la cella e venire qui é come passare dall' inferno al paradiso". Lo é anche per lui, guardia carceraria alla casa circondariale di Rimini. E non tanto per i corridoi bui, lo sferragliare di cancelli e catenacci che gli rimbombavano nelle orecchie da mattina a sera. "Quanto per una questione di mentalità. Lì ero il carceriere, l' aguzzino. Qui sono semplicemente un collaboratore". Carlo Di Giulio, 26 anni, al di là del muro indossava la divisa, quella verde oliva dei secondini. Al di qua porta un giubbotto di pelle nera, gli anfibi, i jeans scoloriti. E del resto "di là" é carcere vero, con i detenuti pigiati dentro celle affollate, "di qua" é un caseggiato bianco con le aiuole fiorite e le tendine rosa alle finestre. Quasi un residence, anche se di galera pur sempre si tratta. Ci sono le sbarre a ricordarlo e l' inferriata che corre tutt' attorno.
Succede a Rimini, all' interno di un carcere che soffre degli stessi mali delle altre case circondariali d' Italia. Capienza ideale: 120 detenuti. Reale: 250. D' estate anche 300. Più della metà, condannati per reati connessi all' uso e al traffico degli stupefacenti. Unica differenza, appunto, la Seatt (Sezione aperta per il trattamento dei tossicodipendenti) alla quale possono accedere solo i detenuti tossicomani rinchiusi nella prigione di Rimini che devono scontare una pena inferiore ai quattro anni. La struttura é piccola, quindici posti appena. Ma é stata definita "pilota" dallo stesso Nicolò Amato, direttore generale delle carceri italiane.
Uno scampolo di "paradiso" nel caos degli inferni penitenziari? In Italia le galere straripano. Anche a causa dei reati compiuti dai tossicodipendenti (sono 14 mila 815 su un totale di 49 mila 741 detenuti). Né è servita a molto la vittoria del Sì al referendum sulla droga del 18 aprile: a dispetto degli ex rigori della legge Jervolino-Vassalli, in carcere per "solo" uso di stupefacenti c' erano soltanto un migliaio di detenuti. "Il problema non sono i consumatori "puri" che raramente finiscono in cella", dice il direttore della casa circondariale di Rimini, Gian Paolo De Mari, 45 anni, che si dichiara antiproibizionista. "Chi ha bisogno di sostegno é gente che ha accumulato anni di condanne per reati legati all' uso della droga: scippi, furti, rapine... Sono loro che chiedono di andare alla nostra sezione pilota".
In due anni dal "residence" sono passati una cinquantina di tossicodipendenti. Oggi ce ne sono solo sette, di cui due sieropositivi. Dormono divisi in due camerate. Stanze grandi, con i lettini e gli armadietti di legno. Escono al mattino per andare in serra a lavorare. Sono a poche centinaia di metri dalla casa circondariale, ma é spazio aperto, circondato solo dalle colline che disegnano l' entroterra rivierasco. La guardia che li accompagna non porta armi e nemmeno divisa. Si riconosce per il cartellino appeso sul petto. "In serra passo i momenti migliori della giornata", dice Marco Tarroni, 30 anni, braccia coperte da tatuaggi, uno e anche più per ogni anno di galera. "Questo é un posto meraviglioso, ma che fatica tirare avanti". Fatica perché? "Ho passato dieci anni entrando e uscendo dal carcere. Sono stato anche in comunità. Ma qui non é ne l' uno né l' altro. E' come se avessi cominciato adesso a guardarmi allo specchio". C' é il lavoro e ci sono regole da seguire: "Dieci sigarette al giorno e due caffé al massimo. E per chi va fuori di testa solo la camomilla, mentre in cella ti imbottiscono di psicofarmaci".
Ma soprattutto ci sono le sedute di psicoterapia. Sempre in gruppo: ore a parlare di se stessi davanti agli altri. Bruno, un vententiquattrenne di Foggia, cresciuto tra il collegio e le strade del rione Candelaro, nella periferia più degradata della città ha imparato a farlo solo ora: "Al carcere di Secondigliano mi prendevano a mazzate tutto il giorno... Qui mi sento di nuovo in collegio. No, forse meglio, a casa mia". Bruno non si é mai bucato.
Ha sniffato, spacciato, rubato. Ha tentato anche di lavorare. Faceva il pizzaiolo l' ultima volta che gli hanno messo le manette. "Ho passato otto mesi in cella, poi ho deciso di venir qui. E' cambiata la mia personalità. Ero chiuso, ora non lo sono più". Ha due foto attaccate sul letto: quella della madre morta quando aveva due anni, e quella del fratello diciassettenne, trovato ammazzato in fondo a un pozzo.
Una storia in qualche modo esemplare, la sua. Caterina Staccioli, 36 anni, medico dell' Usl 40 di Rimini, specializata in psicoterapie di gruppo e coordinatrice dell' intero progetto, conosce bene i problemi che ci sono dietro ognuna di queste vite spezzate: "A monte ci sono quasi sempre drammi familiari. Noi cerchiamo di riallacciare le relazioni con i parenti, di ricostruire il loro mondo affettivo".
Non per tutti é facile. Salvatore Mansueto, per esempio, 29 anni, origini salernitane, é stato preso dal panico quando si é trattato di parlare di sé: "Mi hanno scavato dentro, hanno cercato nella mia infanzia i motivi che mi hanno portato all' eroina. Ma io non ho voglia di parlarne". Non ha voglia. Ma poi racconta lo stesso che da bambino ha vissuto in collegio, che a 14 anni già faceva le "storie", che usava droga "così, solo perché era nel giro". E che adesso é certamente meglio di quando stava in galera: "Già è bello non vedere le guardie in divisa, non sentire il rumore delle chiavi che aprono e chiudono le celle". Il cambiamento c' é stato. E' arrivato con la richiesta di passare alla comunità di San Patrignano: "Mi insegneranno un mestiere. E per me é sicuramente la prima volta". Del morto che c' é stato nella comunità di Vincenzo Muccioli e dello scandalo che ne è seguito non gliene importa niente: "Un incidente. Può capitare... Ho visto tanta di quella violenza in vita mia...". Eppure quando Muccioli é arrivato alla Seatt di Rimini con alcuni dei suoi ragazzi (il programma prevede visite periodiche di operatori delle comunità), gli altri detenuti l' hanno guardato male: "Si é portato dietro dei burattini che parlano come macchinette", hanno commentato.
E' ora di pranzo. Agostino, addetto alla cucina, prepara maccheroni e polpette. E' sieropositivo, ma nessuno ha fiatato quando si é proposto ai fornelli. Danilo, fisico da culturista, capelli lunghi e orsetti di peluche sul comodino, approfitta della pausa per scaldarsi i muscoli in cortile. La sera, si guarda la tivù. Marco Tarrozzi mostra un foglietto: "Votiamo per decidere quale film vedere". E per allegerire tensioni, litigi, incopresioni? "La prima cosa che ci insegnano", dice ancora Marco, "é di cambiare il rapporto con gli altri. In galera funziona il principio della complicità, che é soprattutto omertà. Qua le cose dovrebbero andare diversamente...". Dovrebbero? Marco da parte sua ci crede: "Quando finirà tutto vorrei potermi occupare degli altri, fare l' operatore in comunità terapeutica".
Già, la comunità. Dopo il periodo che va dai due ai sette mesi alla Seatt, é una tappa d' obbligo. Il progetto di Rimini, che nasce da una collaborazione tra l' Usl 40 e la direzione del carcere, é stato infatti possibile grazie all' articolo 47 bis della legge Jervolino-Vassalli. Articolo che prevede la sospensione della pena in cambio di un programma terapeutico. "Tredici dei cinquanta ragazzi seguiti in questi due anni", dice Caterina Staccioli, "sono ancor oggi in comunità. Tra gli altri, dieci si tengono in contatti con i servizi Usl, due sono morti per overdose. Dei rimanenti abbiamo perso le tracce". Per lei è un bilancio positivo. I problemi stanno altrove: "La Seatt, per esempio, non riceve finanziamenti.
Il suo bilancio pesa interamente su quello dell' amministrazione carceraria". Regolamenti? Non ce ne sono. Tutto viene deciso dal magistrato di sorveglianza che fortunatamente lavora con elesticità.
"Un ragazzo ha un processo fuori provincia? Secondo la prasi dovrebbero essere i carabinieri a portarlo in aula, ovviamente in manette. Per noi, é impensabile. Sono le guardie che si offrono volontarie per accompagnare il detenuto con le macchine dell' Usl".
Un bel rischio... Il direttore Gian Paolo De Mari scuote la testa: "Lo corriamo. Qui tutto corre sul filo del rasoio. Di certo finora non é mai scappato nessuno".
E le guardie? Hanno accettato in diciassette di lavorare alla Seatt.
Due però hanno battuto in ritirata proprio durante i corsi di formazione. Perché? "Nessuno di noi aveva mai immaginato di doversi sottoporre a delle sedute psicoanalitiche", spiega l' agente Di Giulio, quello con il giubbotto di pelle nera e gli anfibi, "di doversi scoprire davanti agli altri, per ritrovarsi addosso magari gli stessi problemi dei detenuti". Lui l' ha fatto e di una cosa é certo: "Meglio qui che davanti alle celle". Forse non é il paradiso che dice. Ma un purgatorio, probabilmente sì.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/05/93

Numero
2223

Pagina
142

Titolo
LA DISFIDA DI CATANIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI TONY GENTILE ha collaborato Alfio Sciacca

Sezione
STORIE

Occhiello
ELEZIONE DIRETTA DEL SINDACO: ECCO COME SI PREPARA AL 6 GIUGNO UNA CITTA' DI FRONTIERA

Sommario
Due campioni del "nuovo" l' un contro l' altro armati. I vecchi notabili all' angolo. Un intraprendente avvocato a far da terzo incomodo. Viaggio nei grandi retroscena e nelle piccole curiosità di una campagna elettorale tra le più delicate. Dove a complicare i giochi ora ci si è messa anche la Tangentopoli siciliana. Dice Antonio Scavone, candidato Dc: "Fare il sindaco a Catania significa rischiare la vita oppure la libertà"

Didascalia
CLAUDIO FAVA Deputato della Rete, 36 anni, è il figlio del
giornalista Giuseppe "Pippo" Fava, ucciso dalla mafia nel 1984.
Anche lui giornalista, si presenta sotto le nuove insegne "retine"
della lista "Liberare Catania".
ENZO BIANCO Deputato repubblicano, 42 anni. Già sindaco della città
etnea, dal 1988 al 1989, Bianco è il candidato del cosiddetto "Patto
per Catania" ed è appoggiato da Pri, Pds, Verdi, parte del Psi e da
diversi gruppi cattolici.
ANTONIO SCAVONE Deputato Dc, 36 anni, radiologo, candidato dello
scudo crociato, con la benedizione dell' arcivescovo.
ENZO TRANTINO Deputato del Msi dal 1972, 58 anni, avvocato (tra i
suoi assistiti, Nitto Santapaola), è il fondatore della lista
"Ricostruire Catania". Ha organizzato per finanziarsi una
convention: 650 invitati a 100 mila lire a testa.
MARIO PETRINA Candidato della lista omonima, 50 anni, è
caporedattore della Rai, segretario dell' Ordine dei giornalisti.
Sopra: la macelleria di via Paulet dove si raccoglievano le firme
per Enzo Trantino. A destra: il verde Saro Pettinato mostra il
gioco dell' "Ocatania". Costa 10 mila lire.

Testo
La vecchia Arna arranca a disagio sull' asfalto bucherellato. "Via Paulet?" domanda il giovane alla guida. "Via Paoletta?", rimbeccano gli abitanti. "Penultima a destra". Via Paulet, o "Paoletta", quartiere popolare di Catania alle spalle del porto, è il teatro di un inaspettato scenario di propaganda elettorale. I tre a bordo dell' Arna, due attivisti dell' Msi più un notaio, si fermano davanti a una grande macelleria per allestire un banchetto di firme.
"Verrà la gente, verrà" assicura il proprietario, con la flemma tipica dei catanesi quando vogliono far capire che la sanno lunga.
Verranno infatti, a decine, a centinaia, per sostenere uno dei candidati a sindaco alle prossime elezioni, l' avvocato EnzoTrantino, missino, difensore del boss mafioso Nitto Santapaola al maxi processo del 1991, oggi fondatore di una lista apartitica, "Ricostruire Catania".
Il 6 giugno si vota, prime elezioni dirette del sindaco, e Catania è tra le città chiamate a sperimentare il sistema. Tra le innovazioni della vigilia, il fatto che ogni candidato, per potersi presentare, deve essere sostenuto da un certo numero di cittadini: 1200-1500 firme in una città con 334 mila abitanti (ultimi dati Istat) bastano. Così per raccoglierle va bene tutto, anche una macelleria.
Bizzarrie della nuova politica. Ma la sostanza del nuovo è ben altra. A Catania, per cominciare, nella sfida elettorale brillano per la loro assenza i due partiti forti, Dc e Psi, che si arrabbattano da mesi per inventare un candidato "credibile" (la Dc era stata persino tentata da Pippo Baudo). Poi c' è lo strano destino della coalizione progressista, il cosiddetto "Patto per Catania". Nato a sinistra, come risposta trasversale alla crisi dei partiti tradizionali, il Patto si spezza dolorosamente in due. Da una parte il repubblicano Enzo Bianco, sindaco nel 1988 della "primavera" di Catania, che dispensa saluti e sorrisi per le strade della città. Dall' altra il deputato della Rete Claudio Fava, sorretto e avvisato da un gruppo di studenti che gli dicono: "Noi ti votiamo, ma stai attento a come ti comporti". Bianco, affiancato dai cattolici di "Città insieme" e da una parte dei Popolari per la Riforma di Segni, è appoggiato da Pri, Pds, Verdi e dai socialisti che fanno capo al fratello Arturo. Fava conta su Rifondazione.
Un anno fa Bianco e Fava erano insieme, a misurare le proprie forze contro la vecchia politica. Oggi sono l' uno contro l' altro, avversari, duellanti, nemici.
Un anno fa. L' ultimo atto della politica che fu è del 30 luglio scorso. Undici giorni dalla morte del giudice Borsellino a Palermo.
Due mesi da quella di Falcone. La piazza del Municipio, con l' elefante di pietra lavica che ha in groppa l' obelisco egiziano, emblema di Catania, è piena di gente. Migliaia di persone rispondono all' appello delle forze antimafia. Le finestre del municipio sono illuminate. Dentro si sta tentando in extremis di salvare il consiglio comunale dallo scioglimento. I consiglieri si affacciano. "Quella folla", dice adesso Claudio Fava, "stava celebrando il loro funerale". Da lì a poco il consiglio sarebbe stato sciolto. Sarebbe arrivato il commissario, ancora adesso insediato a Palazzo degli Elefanti.
Chi governava la città prima dello scioglimento? A Catania nessuno lo ricorda. Un pentapartito? Un quadripartito? Negli ultimi due anni sono cambiate tre giunte. L' ultima era formata da un pentapartito, con un sindaco Psdi. Ventuno consiglieri scudocrociati su 60, in una città dove la Dc con il voto del 5 aprile aveva ribadito la sua supremazia. Una città dove i record sono specialmente negativi: massima concentrazione di delinquenza minorile (si parla di 5 mila ragazzini affiliati alla criminalità organizzata), 9 commercianti su 10 taglieggiati dal racket, peggiori condizioni di vita in Italia, con un ricorso alla cassa integrazione che da settembre a oggi ha avuto un' incremento del 30 per cento.
Adesso, alla vigilia delle elezioni, la metà dei 60 politici che hanno governato Catania negli ultimi anni è sotto avviso di garanzia. E altri "avvisi" è facile che partiranno dopo le prime confessioni su Tangentopoli in Sicilia rilasciate da imprenditori del calibro di Giuseppe Costanzo, figlio del cavaliere Carmelo. Ma anche senza la nuova bufera, il quadro non è roseo. Il penultimo sindaco, Giuseppe Azzaro, democristiano, vicepresidente della Camera alla scorsa legislatura, è stato rinviato a giudizio per un' assunzione di 15 vigili urbani più bassi della norma. Un altro dc catanese, l' ex presidente della Regione, Rino Nicolosi, è sotto indagine per voto di scambio. Così Salvo Andò, ex ministro della Difesa e gran patron del Psi di Catania, accusato di aver barattato voti con Nitto Santapaola. Persino Enzo Bianco, ex sindaco della breve stagione del rinnovamento, è sotto avviso. Una sciocchezza, per la verità: il trasferimento di una farmacia dal quartiere popolare di Librino a una zona commerciale del centro. Ma c' è un' altra inchiesta in corso, per un uso improprio dei cottimi fiduciari che avrebbe fatto la sua giunta: "Io ho la coscienza a posto", dice Bianco. "La mia giunta è stata capace di rompere con i comitati d' affari. Se adesso qualcuno vuole incastrarmi per ragioni strumentali...".
Pesa l' incubo di una Tangentopoli siciliana. E ancor di più si impone il bisogno di una campagna elettorale all' insegna della "trasparenza", del candidato-personaggio, dei soldi che sono pochi e perciò bisogna autofinanziarsi. Aiutano le tivù locali: da Telecolor ad Antenna Sicilia, che organizza un vero circo elettorale. Pubblico e candidati si incontrano sotto il tendone dell' ente fiera, di fronte alle spiagge di sabbia gialla della Playa. Vanno in onda Bianco, Trantino, Fava. Ma debuttano anche canditati minori, come Mario Petrina (per l' omonima lista "Mario Petrina"), 50 anni, segretario dell' Ordine dei giornalisti, caporedattore Rai, che si presenta alle elezioni con il solo supporto tecnico di un cellulare. In compenso fa show in tivù rivolgendosi confidenzialmente alla zia Ciccina e a compare Turiddu.
Le strategie dei candidati riflettono anche le loro storie personali. Enzo Bianco, per esempio, 42 anni, è l' unico che si serva di un esperto di comunicazione, Luca De Mata, regista, già curatore dell' immagine per la Santa Sede, e di un grafico di fama, Michele Spera, l' inventore del tridente della Maserati. Gli avversari accusano Bianco di essere un prodotto dei mass media, di essere stato capace, quand' era sindaco, solo di riempire Catania di fiori e aiuole. Sarà poco? La gente lo ama. Una prova: le primarie che il Patto per Catania ha organizzato dal 28 marzo al 5 aprile, montando un tendone bianco sulla centralissima Piazza Stesicoro. I catanesi di sinistra potevano scegliere come candidato a sindaco tra lui, Anna Finocchiaro, magistrato, parlamentare del Pds, e il verde Saro Pettinato, avvocato penalista, assessore "pannelliano" quando Pannella nel 1988 presentò al Comune di Catania una sua lista. Ha vinto Bianco, con 3 mila e 400 voti su 5 mila.
E la Rete, che si presenta con la sigla "Liberare Catania"? Spiega Bianco: "A dicembre, dopo il successo alle elezioni di Monza e di Varese, il partito di Fava si è staccato". L' ha fatto con orgoglio secessionista. Con la solita foga khomeinista. Perché? "Perché il Patto si basa su un' operazione di trasformismo politico", dice Fava, "che tradisce il progetto di rinnovamento". Si separa la Rete con clamore, e non sono politico. Se gli accoliti di Bianco esordiscono sotto il tendone, Claudio Fava, 36 anni, figlio del giornalista Pippo, ucciso dalla mafia nel 1984, egli stesso secondo le dichiarazioni di un pentito nei programmi di sangue delle cosche, si fa portare in trionfo da una banda musicale. Sono con lui, accompagnati dai clacson delle scorte, dalle urla dei megafoni, dal rullo dei tamburi, Leoluca Orlando, Nando Dalla Chiesa, Diego Novelli, candidati sindaci di Palermo, Milano e Torino.
"Venditori di tappeti", li definisce il terzo candidato, Enzo Trantino, l' avvocato della lista "Ricostruire Catania" (simbolo l' Etna circondato da un arcobaleno tricolore). Lui preferisce gli spazi chiusi, come la Perla Jonica, residence sul mare, dove ha invitato amici e sostenitori. Alla "convention", in stile banchetto nuziale, hanno partecipato 650 persone. Biglietto d' ingresso a 100 mila lire.
Deputato dell' Msi dal 1972, 58 anni, elegante e compunto con il suo pizzetto bianco, Trantino è notissimo in città. Benvoluto negli ambienti alto borghesi, è altrettanto corteggiato, per la sua fama di penalista, nei quartieri popolari. Per dimostrare che l' Msi non interverrà in suo sostegno, ha preso un ufficio separato dalla segreteria del partito. "La mia candidatura", dice, "nasce nei salotti, appoggiata da amici medici, avvocati, professionisti". Come Antonio Mauri, l' ex presidente degli industriali, brianzolo trapiantato a Catania, due anni fa promotore di un campagna antiracket: Trantino lo vorrebbe tra i suoi assessori. Bianco, invece, avrebbe già scelto come vicesindaco Nino Milazzo, catanese, ex vicedirettore del Corriere della Sera. Nella giunta proposta dal "Patto" ci sarebbe anche Saro Pettinato come assessore all' Ambiente, che intanto si dà da fare distribuendo il Gioco dell' Ocatania, su carta ecologica: tante caselle per raccontare fatti e misfatti della città.
Manca, in questi progetti di giunte future, niente meno che la Dc.
Solo all' ultimo momento ha trovato una faccia presentabile: Antonio Scavone, 36 anni, neodeputato, vice presidente dell' Ordine dei medici. Quasi un missionario: "Fare il sindaco a Catania", dice, "significa rischiare la vita oppure la libertà". Spera di aprire la campagna a braccetto di Martinazzoli, mentre giura: "Per candidare me la Dc ha dovuto mandare gli andreottiani a casa". Contento l' arcivescovo Luigi Bommarito, che ha finalmente dato la sua benedizione: l' alto prelato, che nella pastorale di gennaio aveva invitato la città a spezzare i legami con i potenti, disperava infatti di poter suggerire ai suoi fedeli un candidato pulito. Si era rivolto persino a Saro Pettinato, il barbuto avvocato pannelliano.
Ma su cosa si impegnano gli aspiranti sindaci? Nella bagarre elettorale i programmi per Catania in fondo si assomigliano. Si parla di revisione del sistema degli appalti, di riorganizzazione del territorio... Fava insiste sulle opere pubbliche: "Ci vogliono 72 scuole, 5 spazi verdi attrezzati, il rifacimento della rete fognaria". Bianco propone un progetto per l' infanzia: un assistente sociale per ogni bambino. Trantino sogna di trasformare il vecchio San Berillo, ex casbah della prostituzione, in una " nuova Brera".
Scavone, per cominciare, punta a riorganizzare gli uffici comunali.
Vale per tutti quello che dice Fava: "Qui ci vuole una vera opera di ricostruzione, come se ci fosse stata una guerra". Servono almeno tremila miliardi. E solo per le grandi opere, bloccate da anni: il piano regolatore, per esempio, l' asse attrezzato, il centro direzionale. Da sempre a Catania, sugli appalti, hanno dettato legge i quattro Cavalieri del lavoro, gli imprenditori Costanzo,Rendo, Graci e Finocchiaro. Oggi, con Mani Pulite sbarcata in Sicilia, emerge con evidenza quanto l' influenza dei Cavalieri dell' Apocalisse si estendesse anche sulla classe politica catanese: finanziamenti illeciti, regalie, sostegni alle campagne elettorali dei candidati amici. I loro voti, però, potrebbero continuare a pesare. In favore di chi, stavolta? Antonio Mauri, l' ex presidente degli industriali, risponde a sorpresa: "Anche in favore di Enzo Bianco" Perché mai? "Perché no?", e non aggiunge altro. Un siluro da vigilia del voto? Oppure un attestato di buona fede per i bistrattati Cavalieri? Quel che è certo è che a Catania, e non solo a Catania, la battaglia vera si combatterà tra il nuovo che avanza, sia pure in ordine sparso, e il vecchio che resiste, sia pure sotto mentite spoglie.




Testata
Epoca

Data pubbl.
27/04/93

Numero
2220

Pagina
52

Titolo
QUANDO L' AMORE E' CIECO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
PERCHE' TANTE DONNE SI INFATUANO DI CARCERATI FAMOSI

Sommario
Da Cutolo a Pietro Maso, la prigione ha sempre propiziato grandi passioni. Inspiegabili?

Didascalia
200 ANNI DI CARCERE
Renato Vallanzasca, pluriomicida, si è sposato con Giuliana Brusa.
HA UCCISO I GENITORI
Pietro Maso: lo vuole sposare Alessandra, una ragazza bolognese
di 27 anni.
VORREBBE UN FIGLIO
Raffaele Cutolo, boss della Nuova camorra
organizzata, ergastolano. Ha chiesto alle autorità di poter avere un
figlio dalla moglie, Immacolata Iacone.

Testo
BOX
Al carcere di Genova andavano tutte e tre assieme, Alessandra, Dania e Natascia, amiche per uno strano destino: quello di essersi innamorate di tre "poco di buono", condannati alla galera per omicidio. Incontri brevi, ma carichi di aspettattive, anche se i fidanzati delle ragazze, Pietro Maso (il veronese che trucidò i genitori nella speranza di accaparrarsi l' eredità) e i suoi due complici, Giorgio Carbognin e Paolo Cavazza, devono scontare il primo 30 anni di galera, gli altri due 26 anni. Le ragazze dicono di volerli sposare, di essere disposte ad aspettare. Alessandra in particolare, 27 anni, promessa sposa di Maso, è la più determinata: per lui si é licenziata dalla tintoria dove lavorava, a Bologna, e adesso fa la spola con Verona, dove Maso è rinchiuso da qualche settimana.
L' ha conquistato con le sue lettere, sgominando la concorrenza: a Maso scrivono decine di ammiratrici, tartassandolo di foto, telegrammi, dichiarazioni di solidarietà. Un assassino trasformato in eroe? "Certamente" dice Lella Ravasi Bellocchio, psicanalista di scuola junghiana. "Un eroe negativo. E' il principe azzurro vissuto al contrario".
L' amore dietro le sbarre sboccia infatti ogni volta che un carcerato viene investito dalla luce della notorietà. E' successo tra gli altri a Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra organizzata, a Renato Vallanzasca, al bandito Graziano Mesina, a Lorenzo Bozano, accusato dell' omicidio di Milena Sutter, a Franco Freda, imputato della strage di Piazza Fontana. Schiere di samaritane si mobilitano in loro sostegno, pronte a rinunciare a tutto. "Si chiama fascino dell' ombra", dice Lella Ravasi Bellocchio, "Queste donne, cioé, che apparentemente conducono una vita normale, proiettano sul detenuto la loro voglia di trasgressione".
Lo fanno proponendosi come ancora di salvezza. "Non potendo accettare il loro desiderio di trasgredire, lo sublimano con la dedizione assoluta". Come Immacolata Iacone, 31 anni. Vide Cutolo per la prima volta 14 anni fa nel carcere di Ascoli Piceno, mentre era in visita a un familiare. Si innamorò del boss e lo sposò. I nemici di don Raffaele le hanno ucciso il padre e il fratello. Lei stessa vive da dieci anni blindata, senza peraltro aver diviso con il marito un solo momento di intimità, nella speranza che la legge le consenta di fare un figlio almeno attraverso l' inseminazione artificiale.
"Sono donne dalla personalità fragile", dice la psicanalista, "che vivono creandosi un sistema ideale, credendo di avere completamente sotto controllo l' uomo che amano, per il semplice fatto che si trova in carcere". Illusioni? Basta vedere il caso di Vallanzasca, condannato per rapina, omicidio, sequestro di persona a un totale di 200 anni di reclusione. Patrizia Cacace, una ragazza che aveva conosciuto durante la sua latitanza, per lui arrivò addirittura a costituirsi, dichiarandosi sua complice. Ma Renato nei suoi memoriali l' ha sempre definita "quella cretina". Nel 1979 sposò nel carcere di Rebibbia Giuliana Brusa, una diciannovenne di famiglia borghese che si era invaghita di lui vedendolo in televisione. Vita grama anche per lei. Nel 1988, a un anno da una rocambolesca evasione che servì tra l' altro al "bel René" per arricchire il suo curriculum di conquiste, il bandito annunciò di essere innamorato di Lia Basanisi, una milanese che eleggeva a donna della sua vita.
Sacrificio inutile anche quello di Valeria Fusé, la compagna di Graziano Mesina. La loro relazione, cominciata nel 1977, è finita quando il bandito è tornato in libertà. Più fortunata, ma si fa per dire, Marzia Casiraghi, milanese, madre di due figli, compagna di Lorenzo Bozano. Abbandonato dalla moglie Eleonora Guerrini, l' ex "biondino della spider rossa", venne conquistato dalle lettere e dalle foto della donna che per lui lasciò casa e figli a Paderno Dugnano per trasferirsi sull' isola d' Elba, dove Bozano era rinchiuso. Dedizione premiata. L' ergastolano non ha mai lesinato il suo riconoscimento: "Se non sono impazzito", raccontava nel 1990, "è merito di questa donna". Così come è merito di Rita Cardone, ex proprietaria di un negozio di elettrodomestici a Brindisi, se il neofascista Franco Freda, dopo 13 anni di carcere, adesso che è in libertà ha ritrovato pace e serenità. L' ha conosciuta durante un processo, l' ha frequentata in prigione e poi sposata. Adesso vive con lei, a Casale, in periferia di Brindisi, amministrando "i beni di famiglia", leggasi il ricavato dalla vendita di un negozio di elettrodomestici e della casa editrice di cui è intestatario.
L' unione regge. Ma forse è un miracolo. Tra i rischi a cui vanno incontro le samaritane delle prigioni c' é anche quello che "una volta tornato libero l' uomo di cui sono innamorate, la passione svanisca", conclude Lella Ravasi Bellocchio. "Un eroe in ciabatte, chi lo sopporta più?"



Testata
Epoca

Data pubbl.
27/04/93

Numero
2220

Pagina
100

Titolo
LO STRANO CASO DEL DOTTORE ANTI - AIDS

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Beda Romano

Sezione
STORIE

Occhiello
E' FRANCESE, SOSTIENE DI AVER INVENTATO UNA CURA CONTRO LA PESTE DEL SECOLO: E' UN GENIO O UN CIARLATANO?

Sommario
Giura di aver trovato la sostanza miracolosa che blocca la malattia: la placenta umana. E da Parigi ora ha esportato il suo metodo anche in Italia. Ma c' è da fidarsi? I luminari della medicina ufficiale lo snobbano, i colleghi lo guardano con sospetto. Lui però esercita lo stesso. In un salone di bellezza.

Didascalia
NEL CENTRO ESTETICO
Alain Exposito, 43 anni: il medico francese sta
entrando nel centro di estetica bresciano dove sperimenta la sua
cura anti-Aids a base di placenta. Ai pazienti sieropositivi
(sarebbero almeno una decina quelli che segue regolarmente),
Exposito non promette la guarigione, ma un rallentamento della
malattia. Al "Franciacorta Fitness club" la placenta, che ha un
effetto rivitalizzante e anti-stress, è usata anche a fini estetici
e venduta a 250 mila lire la fiala. "I malati di Aids danno quello
che possono" dice Exposito. "Chi vuole essere bello, invece, è
giusto che paghi".

Testo
L' unica testimone disponibile non è una sieropositiva. Ma fa lo stesso. E' la signora Mary Pinzini, cinquant' anni ben portati, capelli color platino, abbronzatura di quelle che solo la lampada sa dare. Con modi bruschi e nervosi, la signora elogia i risultati dell' ultimo ritrovato non ufficiale anti-Aids: "Sì, noi usiamo la placenta", dice. "Funziona contro la sieropositività, ma non solo.
Io mi curo con questo metodo da due anni e mi sembra un miracolo.
Avevo avuto una pleurite a 18 anni che mi costringeva periodicamente a cicli pesantissimi di antibiotici. Da quando uso la placenta, i miei bronchi si sono letteralmente rigenerati".
Guarita, dice lei. E forse anche più ricca. Mary Pinzini è infatti la direttrice di un centro di estetica del bresciano, il "Franciacorta Fitness club", dove la placenta viene venduta a 250 mila lire a fiala, non solo come rimedio "rigenerante" per manager stressati e dame smaniose di mantenersi in forma, ma addirittura come medicamento contro l' Aids. Una decina di sieropositivi, ma c' è chi dice otto o anche solamente sei, da due anni partirebbero con scadenza settimanale dai comuni vicini per raggiungere l' ambulatorio del centro, al pianterreno di un albergo di lusso, il "Franciacorta golf hotel" di Paratico, dove viene dispensato il rimedio.
LA "CLINICA" Strano posto, un salone d' estetica per curare l' Aids.
Ma ancor più strano è il metodo esportato a Paratico da un medico francese, Alain Exposito. La placenta (è lui a produrla e inviarla nel bresciano) permetterebbe a chi è stato infettato dal virus dell' Hiv non di guarire, ma di tamponare le infezioni, recuperare energia, tono muscolare, peso. Si inietta per via intramuscolo.
Oppure si applica con il bisturi, sotto pelle all' altezza dell' ombelico. Mary Pinzini non è disposta a dir di più. "Noi facciamo solo da mediatori. E' il dottor Exposito ad occuparsi della placenta e dei sieropositivi. Ma non qui. Lavora a Parigi per l' Istituto Pasteur. Figurarsi... E' un collaboratore di Luc Montagner".
Collaboratore di Montagner, il medico francese numero uno al mondo negli studi sull' Aids? All' ordine dei medici di Parigi il dottor Exposito, 43 anni, risulta semplicemente "generalista", titolare di un "cabinet medical", un ambulatorio che si trova in Faubourg Saint-Honoré. Ottavo arrondissement, quartiere bene della capitale francese. Al Pasteur di Parigi non lo conoscono. Ma l' equivoco è presto spiegato. Alain Exposito in persona, nato ad Oran in Algeria, da padre francese, lo chiarisce al "Fitness club" di Paratico dove lo incontriamo con un fascio di documenti sotto il braccio: "Ho qui i certificati dell' istituto Pasteur du Brabant, a Bruxelles, che attestano l' efficacia della placenta contro il virus Hiv".
Nessuna collaborazione con Montagner, quindi. Solo test di laboratorio effettuati dall' istituto di Bruxelles, dove la presidentessa del centro anti-Aids, amica sua, gli farebbe tariffe favorevoli. Per il resto Exposito lavora da solo. A Parigi ha un laboratorio, dove studia e sperimenta gli effetti della placenta: "La recupero gratuitamente negli ospedali. Ma uso solo quella che proviene da gravidanze cesaree, riscaldandola a 56 gradi per essere certo che non sia infetta da Aids, da epatite o da sifilide". Si ispira, il medico, agli studi realizzati negli anni Quaranta dal sovietico Filatov: teorie che la medicina ufficiale ha messo da parte da anni, rispolverate e debitamente aggiornate da Exposito: "E' stato dimostrato che quest' involucro embrionale otto volte su dieci riesce a evitare la sieropositività nei nascituri mentre sono nel ventre della madre malata. La sorpresa è che la placenta, oltre a proteggere il neonato, non solo blocca il virus in provetta, ma rallenta anche la sua moltiplicazione".
Si ripete quello che è successo con il cancro? Il bluff, per esempio, del siero Bonifacio che doveva servire a curare i tumori e si è invece dimostrato fasullo? Certo la casistica di cui dispone Exposito è debole: su 150 casi seguiti dal medico in questi anni, solo 48 sono "statisticamente affidabili". Si tratta di pazienti sieropositivi nei quali la somministrazione di placenta avrebbe arrestato l' insorgere di malattie "opportunistiche", quelle cioè che accompagnano la sindrome di immunodeficienza acquisita. Come? "Potenziando i natural killer, i globuli bianchi che permettono all' organismo di proteggersi dai virus". Che 48 casi siano pochi, il dottore lo ammette. "Ma non è colpa mia", dice. "Non ho i mezzi per poter portare avanti una ricerca più ampia".
I SOCI E I CLIENTI SANI Così si aiuta come può. Ricorrendo anche a strutture come quella di Mary Pinzini, l' estetista incontrata due anni fa durante un congresso. Exposito in quell' occasione conosce anche Maurizio Bellinazzi, otorinolaringoiatra di Verona e responsabile dell' ambulatorio medico che c' è all' interno del "Fitness club". E' lui, secondo la versione ufficiale, che somministrerebbe la placenta ai sieropositivi, nella stanza accanto alla "reception", dove svetta una segretaria bionda méchata. "Userei qualsiasi spazio disponibile, anche un bar, se fosse necessario, pur di curare i malati di Aids", spiega Exposito.
In realtà il centro bresciano è frequentato soprattutto da clienti in perfetta salute. E la placenta, che darebbe un effetto stimolante (per qualcuno addirittura simile a quello della cocaina), viene venduta a caro prezzo per uso estetico o "rivitalizzante". "I malati di Aids pagano quello che possono", dice Exposito. "Ma gli altri no.
Ritengo che 250 mila lire per farsi belli siano anche poche". Di affare in affare. Paratico non è che una provincia dell' impero di Exposito, il quale esporta placenta a Gallipoli, a Padova, a Milano, e in Germania, Svizzera, Belgio. Com' è organizzato? "Questi sono affari miei. Privati", sottolinea il medico. Di "pubblico" c' è solo il nome di un' associazione, la Societé de revitalisation biologique, che Exposito ha fondato nel 1979, prima per studiare gli usi estetici della placenta, poi per sperimentarne gli effetti sull' Aids. Soci? Una trentina di medici francesi, oltre a svizzeri, belgi, italiani. Sono loro che aiutano economicamente il "capo", versando la quota necessaria a far funzionare il laboratorio di Parigi. La Societé avrebbe inoltre contatti con le università di Liegi, di Losanna, di Kiev.
Eppure, nonostante i vantati contatti, nessuno tra i luminari impegnati nelle ricerche degli studi sull' Aids è disposto a dar credito a Exposito. All' ospedale di Brescia il professor Giampiero Carosi, primario del reparto di malattie infettive e tropicali, è il primo a sbarragli la strada. "Sì, siamo stati messi al corrente degli esperimenti di questo medico francese", dice il primario.
"Stravaganti. Sostiene di usare placenta non centrifugata, che sarebbe più attiva. Mah... Associata a zinco e penicillina per evitare il rischio di sifilide? E' talmente comico... ".
MEZZO STREGONE Poco clementi anche i rappresentanti delle associazioni nate a difesa dei sieropositivi. Come Stefano Marcoaldi, giornalista di Capital, egli stesso colpito dal virus, oggi presidente dell' Asa (Associazione solidarietà Aids): "Questi mezzi stregoni", dice, "sono pericolosi. Operano sulla disperazione dei sieropositivi, stimolano la curiosità dei malati. Si mettono al riparo promettendo non la guarigione, ma il rallentamento della malattia. Ma che garanzie offrono?".
Nessuna. Speranze però tante. Al centro di Paratico lavora anche Angelo Pedruzzi, 30 anni, maestro di yoga. Dopo anni di volontariato con i sieropositivi, ai quali insegna le tecniche energetiche che vengono dall' Oriente, Angelo è convinto di aver trovato la soluzione: "I miei ragazzi praticano lo yoga e adoperano la placenta. Posso dire solamente che unendo entrambe le cose gli effetti si vedono". Ad esempio? "Una ragazza malata di Aids: è arrivata da noi che pesava 39 chili. In poco tempo è arrivata a 44".
E il maestro di yoga nei rimedi alternativi alla medicina ufficiale crede talmente che da mesi coltiva un progetto. O forse un sogno: vorrebbe mettersi in contatto con Don Pierino Gelmini. Ha tentato di raggiungerlo per telefono, per posta, per fax. Ma Don Pierino, il prete che ha provato su di sé il vaccino anti-Aids, non gli ha risposto. Le esperienze di un "Fitness club" evidentemente non lo interessano.




Testata
Epoca

Data pubbl.
30/03/93

Numero
2216

Pagina
10

Titolo
QUANDO IL CITTADINO HA PAURA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO MASSIMO SESTINI ha collaborato Stefano Cavicchi

Sezione
STORIE

Occhiello
Esplode l' emergenza criminalità ESPLODE L' EMERGENZA CRIMINALITA'

Sommario
Droga, innanzitutto. Ma anche prostituzione dilagante, scippi, furti d' auto... Le notti italiane sono sempre peggio. E la gente comincia a ribellarsi. Tra propositi di vendetta, assemblee agguerrite e cortei antispaccio ecco che cosa sta succedendo nelle nostre città. Cominciando da un caso al limite dell' insurrezione: quello di Milano.

Didascalia
UNA NOTTE IN CENTRO A fianco: l' acquisto di una dose in corso
Buenos Aires a Milano (sui muri il manifesto antispaccio affisso
dagli abitanti della zona). In alto: un' operazione antidroga in
mezzo al traffico dello stesso viale milanese, l' arteria
commerciale più lunga d' Europa. Per terra l' armamentario dei
tossicomani. Nell' altra pagina: un "viado" sudamericano al lavoro
a Porta Venezia, a pochi minuti da piazza del Duomo.
SCENE DI ORDINARIA VIOLENZA PER LE STRADE DI MILANO Porta Venezia,
notte di giovedì 18 marzo. Di fronte all' uscita di un cinema, un
gruppo di spacciatori comincia a litigare con alcuni clienti (prima
foto). I contendenti passano alle vie di fatto sotto gli occhi di un
automobilista di passaggio (seconda foto). Due uomini del gruppo
cercano di andarsene in auto, ma gli altri si mettono davanti alla
vettura cercando di fermarli (terza foto). La macchina parte
travolgendo l' ostacolo (quarta foto). Uno degli automobilisti si
sporge armato dal finestrino (ultima foto).
Salvatore Santacroce
Gianluca Luti
Franca Caffa
La presidentessa del Comitato di piazza Sempione
Paola R.
Silvana Ghezzi

Testo
A Genova hanno dovuto blindare gli autobus, munirli di una scorta armata e isolare gli autisti in una cabina a prova di sfondamento.
Da tempo ormai la linea del quartiere Cep di Prà, sulle colline del capoluogo ligure, era regolarmente assalita da bande di ragazzini tra i 15 e i 18 anni: sedili divelti, finestrini spaccati, pareti imbrattate, e persino conducenti costretti a cambiare rotta per portare ad altre destinazioni i giovani teppisti.
Sempre a Genova, nelle stradine dell' angiporto ogni giorno si rischiano le barricate: gli abitanti del centro storico, negozianti in testa, protestano contro la nuova criminalità, soprattutto di colore.
E a Milano due settimane fa sono scesi in piazza gli abitanti dei quartieri Buenos Aires e Trenno. I primi armati di palloncini multicolori, gli altri più minacciosi, in qualche caso esibendo i randelli. Entrambi quartiere a rischio, invasi da spacciatori, tossicodipendenti e piccoli criminali di varia tacca, chiedevano un più deciso intervento dello Stato.
Milano e Genova non sono sole. Un po' ovunque al malessere generale, dovuto a una forte crisi economica e all' effetto Tangentopoli, si aggiunge l' insofferenza dei cittadini per l' imperversare della piccola e grande criminalità. Le nostre città, da Milano a Palermo, da Bologna a Firenze, da Bari a Torino, appaiono smarrite, incapaci di reagire davanti all' invasione di borseggiatori, scippatori, rapinatori, spacciatori, prostitute e viados. Il fenomeno non riguarda solo le periferie. Anche i centri storici e commerciali sembrano soccombere davanti alla violenza. Con i risvolti conseguenti di reazioni incontrollabili da parte di cittadini esasperati. Epoca, da questo numero, comincia un viaggio nelle città "malate" d' Italia. Prima tappa: Milano.
Salvatore Santacroce, portinaio in viale Abruzzi "ADESSO BASTA, HO PRONTO IL BASTONE" Il bastone, un ramo di platano bianco e nodoso, sta in un angolo della portineria. Il proprietario, Salvatore Santacroce, lo indica con fare minaccioso: "Non l' ho mai usato. Ma se ce ne fosse bisogno..." Per lui, custode di uno dei palazzi che si affacciano su viale Abruzzi, quando c' è di mezzo il quieto vivere il ricorso alla giustizia privata diventa un diritto. Legittimo, vista la zona in cui Santacroce vive e lavora: "Sembra un minestrone Findus. C' è di tutto: spacciatori, drogati che dormono nei pulmini, travestiti che urlano tutta la notte lanciando bottiglie contro le saracinesche, gente che fa l' amore sui passi carrai, mandrie di negri che imperversano nei bar".
Periferia degradata? Quartiere ghetto? Macché. Viale Abruzzi, è a dieci minuti dal centro storico, un' arterie alberata con belle case liberty, via vai di macchine, di gente, un' infilata di negozi e non certo a buon mercato. "Sì, ma bisogna provare a uscire di casa ogni mattina alle cinque. Mia moglie, portinaia anche lei, non può fare un passo senza che si formino code di macchine per la strada.
La scambiano per una viados. La mattina è peggio di un pisciatoio. I travestiti fanno tutto sui marciapiedi. Ho visto l' altro giorno un gruppo di ragazzine innocenti passare davanti a uno di questi che si è aperto la cerneria dei pantaloni".
Protestare non basta. Il proprietario del bar di fronte, tessera della Lega in tasca, ha bloccato l' ingresso al suo locale a travestiti e magnaccia. "Quello sì che è uno in gamba". Per il portinaio di viale Abruzzi, orginario di Sibari in provincia di Cosenza, il rimedio è infatti solo uno: "Me l' hanno insegnato al mio paese: "Sibari, Cassano e Polidoro", si dice dalle mie parti, "fanno la legge a modo loro"".
Gianluca Luti, negoziante in corso Buenos Aires "LE MIE COMMESSE HANNO PAURA DELL' AIDS" Gli extra comunitari sono fermi agli incroci con i banchetti delle sigarette. Una ragazza, imbottita di eroina, si accascia su un gradino, all' entrata della Standa. Corso Buenos Aires alle dieci del mattino è quello di sempre. Ma Gianluca Luti, proprietario di due negozi di biancheria intima sul corso, sembra soddisfatto: "La nostra protesta a qualcosa è servita. Gli spacciatori pare proprio che siano andati. E forse qua, si comincia a respirare".
E' azzimato e compito il signor Luti, residente doc di Buenos Aires: 32 anni passati tutti nel quartiere. "Posso ben dire: ho visto giorno dopo giorno il degrado di questa zona". Si vantava Buenos Aires di essere il primo quartiere multirazziale di Milano, un' allegra casbah commerciale, abitata da stranieri, ma anche dalla buona borghesia, con 250 negozi solo sul corso e un movimento di pubblico di 90 mila persone al giorno. Oggi spacciatori e tossicodipendenti l' hanno messa sotto assedio, portando all' esasperazione gli abitanti. "La gente vive incarcerata in casa, per paura degli scippi e delle rapine. E poi, guardate qui..." Mostra la galleria sul retro del negozio: "Fino a pochi giorni fa questo era un domitorio per tossicodipedenti. Siringhe sporche, sangue dappertutto. Le mie commesse erano arrivate al punto che si rifiutavano di aprire la saracinesca del negozio. Ogni mattina si rischiava l' Aids".
L' Aids appunto. Per gli abitanti è come un incubo: "Un mio cliente è stato sfregiato con le unghie da uno scippatore. Ogni sei mesi è costretto a ripetere gli esami del sangue. E poi ci sono i bambini.
Non possono più correre per strada, andare ai giardini senza il rischio di incappare in un siringa infetta". C' è chi minaccia di ricorrere ai manganelli, chi si difende buttando acqua calda dai balconi. Lui preferisce i sistemi democratici: "Siamo scesi in piazza a protestare, no?".
Franca Caffa, abitante dei palazzi Iacp di viale Molise "E' L' ALTRA FACCIA DI TANGENTOPOLI" Il giro delle cantine è come un inferno dantesco. Giacigli per terra, siringhe, stracci. Un invasione di topi e di scarafaggi, in mezzo ai quali trovano rifugio tossicodipendenti, barboni e disperati. Sopra, abitano 7 mila persone negli alloggi popolari Iacp a sud est di Milano, tra via Calvairate e viale Molise. Franca Caffa, volontaria a tempo pieno del comitato degli inquilini, è una di loro. Dice: "Lo Iacp alla fine degli anni Settanta ha cominciato ad abolire il servizio di custodia. Risultato: portoni aperti, entrate delle scale spalancate, solai e cantine senza serrature. La gente è terrorizzata dai tossici che ormai stanno qui giorno e notte. La vecchietta che mette il naso fuori dalla porta viene minacciata a colpi di siringa insaguinata". L' 11 gennaio c' è stato anche un morto per overdose: "Un vecchio del palazzo aveva visto la giacca appesa alla maniglia della porta del solaio. Il cadavere era lì da 48 ore".
Da via Calvairate per raggiungere il centro bastano dieci minuti di autobus. Più di due anni invece per ottenere dai vertici dell' istituto autonomo delle case popolari la bonifica delle cantine dove in due anni sono scoppiati sei incendi. "Questa è l' altra faccia di Tangentopoli", dice Franca Caffa. "La lottizazione dello Iacp con le sue spartizioni interne dal 1990 ha reso impossibile qualsiasi intervento in nostro favore. Abbiamo presentato un esposto al giudice Di Pietro per avvertirlo di quello che succede qua". Solo da qualche giorno lo Iacp si è deciso a mettere le prime serrature alle cantine. Ma non a tutte. Il traffico dei tossici continua. Dormono comunque sulle scale.
La presidentessa del Comitato di piazza Sempione "LA NOSTRA PIAZZA ORMAI E' IN MANO LORO" "Ecco le panchine, sono quelle a destra. Gli spacciatori sono già là" Dal primo piano di un appartamento di Piazza Sempione, le due presidentesse del comitato di zona, indicano accanto all' Arco della pace di napolenoica memoria, la solita compravendita di droga, tra i sanpietrini saltati, le aiule abbandonate di una piazza costata miliardi e tangenti. "I guai sono cominciati quando hanno deciso di chiudere la piazza al traffico. Si è trasformato in un ghetto dove è ormai impossibile anche andare a passeggio. Da pazzi poi, portarci i bambini, con le siringhe che ci sono dappertutto". Nessuna delle due signore vuole dire il nome: "Le nostre famiglie non amano che ci si esponga. Questo un tempo era uno dei quartieri più eleganti di Milano. Far sapere a tutti che è diventato un covo di drogati svaluta anche noi". E poi, ogni protesta genera ritorsioni: "Ci tagliano le gomme della macchina, hanno bruciato auto, motociclette.
Ci fanno paura". Hanno paura anche i passanti. "Nessuno viene più a far spese da queste parti. Un negoziante su tre è stato costretto a chiudere. Persino i bar sono vuoti".
Ecco una delle impreviste conseguenze della pedonalizzazione di una delle zone più belle di Milano. Di fronte, il Parco Sempione, un tempo allegro polmone verde della città, ora luogo in cui convivono cittadini perbene e gente spesso disperata. La domenica e nelle ore di maggior traffico il clima è quasi piacevole, ma nella parte centrale della giornata, spiegano le due signore, quando i ragazzi sono a scuola e gli adulti a lavorare, nel "deserto" spuntano i venditori e i compratori di droga.
E pensare che il Comitato di difesa del quartiere era nato per tutt' altri motivi. Protestavano, le signore, per motivi politico-urbanistici. Perché era stata snaturata la forma di piazza Sempione? La pavimentazione non era più quella di una volta, una strana torretta era stata costruita in occasione dei Mondiali del 1990. Tutti problemi dimenticati: ora c' è la paura della droga.
Paola R., abitante di piazza Aspromonte "PROVATE VOI A VIVERE IN MEZZO ALLE PROSTITUTE" Una prostituta ogni cinque metri, bianca o nera, a scelta. A poca distanza, i magnaccia che le controllano a vista. E poi gli alberghi a una stella. "Tutti sede di bordelli. Dovrebbero essere chiusi e invece fanno i miliardi". A parlare è la proprietaria di un appartamento che dà proprio su piazza Aspromonte, zona Città Studi, un tempo quartiere tra i più ambiti della città. Vuole rimanere anonima, e il motivo è presto spiegato: "Ho già subito minacce di morte. Contro di me, ma soprattutto contro mia figlia di 15 anni".
La signora, la chiameremo Paola R., da due anni porta avanti una sua personale indagine sul racket che imperversa nel quartiere. "Ho scoperto che in ciascuna di queste pensioni lavorano dalle sei alle sette prostitute. Pagano un milione al mese più il 30 per cento su ogni prestazione. Ci hanno reso la vita impossibile. Le nere soprattutto, sono violente, aggressive. La notte urlano, litigano con i clienti, seminano sporcizia dappertutto. Il ticchettio delle loro scarpe mi è entrato nel cervello". Un tarlo che le impedisce di riposare la notte e di rilassarsi anche durante il giorno. "Mia figlia da quando abitiamo qui non si è mai azzardata a invitare un' amica per vergogna. E i miei amici, "ma dove abiti?" mi ripetono scandalizzati. Dove abito? Questo è lo stesso quartiere dove vive il presidente del Rotary, dove ha casa Giorgio Gaber, e poi medici, professionisti di grido...".
Un eccesso di perbenismo? Di certo, tutti gli abitanti del quartiere sono in guerra con le prostitute, lanciano secchi d' acqua, uova, vasi dei fiori. Tutti si chiedono perché il questore non chiuda le pensioni del malaffare, perché polizia e carabinieri non intervengano la notte. Ma sembra una lotta impari. Pericolosa, addirittura. Una vicina per esempio ha ricevuto un macabro avvertimento: "Vuoi finire su una sedia a rotelle?", le ha detto il proprietario di una delle pensioni.
Silvana Ghezzi, pensionata di Porta Venezia "COSI' SIAMO RIUSCITI A CACCIARLI VIA" La prima a mobilitarsi per la difesa di corso Buenos Aires è stata una farmacista in pensione, Silvana Ghezzi, temperamento combattivo, polemico, appartamento di lusso in una delle vie più eleganti dell' intera zona, via Jan.
La lotta agli spacciatori che dettavano legge anche sotto casa sua, per la signora è stata subito una missione: "Già, arrivavamo a contare anche venti drogati per volta. per non parlare dei senegalesi che venivano a bande. Anche loro coinvolti, certamente".
Li ha osservati, ore e ore. E ha visto una scena che non riusciva a capire. Gli extracomunitari sotto casa sua ogni tanto cominciavano a bere acqua in quantità industriali. A ingozzarsi letteralmente.
Finché accadeva l' inevitabile: rigettavano. "Perché? Lo fanno per vomitare il "pallino" con la droga che inghottono quando arriva la polizia".
Ancora: sotto casa sua, i tossici si rincorrevano con le bottiglie in mano, litigavano, rubavano negli appartamenti, le rimpivano l' auto, una vecchia 850 rossa, di siringhe insaguinate. "Così dovevo mettermi i guanti, disinfettare tutto e controllare anche che non mi avessero nascosto della droga in macchina". Per non parlare poi di corso Buenos Aires. I toni della signora Ghezzi diventano apocalittici: "Negri dappertutto, abusivi con le bancarelle, non si può più neanche camminare. Escrementi, vomito dovunque. E quelli che vendono sigarette di contrabbando? Li ho visti io far da base agli spacciatori".
Così, con i vicini di quartiere è partita la crociata: "Prima tappa, il Consiglio di zona. Abbiamo partecipato a una riunione, ma gli esponenti politici erano supponenti, sembrava di essere in parlamento. Discussioni infinite, litigi, votazioni su tutto.
Insomma, eravamo ancor più esasperati". La riunione successiva si è tenuta a casa della signoroa Ghezzi, e senza tante chiacchiere gli abitanti di Buenos Aires hanno deciso di andare subito dal sindaco.
"Ma non si è degnato di riceverci. In compenso, ho trovato una siringa conficcata nel mio citofono. A quel punto abbiamo deciso di fare da soli. Ci siamo autotassati e abbiamo affittato il cinema della parrocchia di zona. La gente non riusciva a entrare. E sono spuntati i politici, Msi e Lega soprattutto. Li abbiamo cacciati: nessuna tessera nel nostro comitato. la settimana dopo eravamo in piazza in 2 mila".




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/03/93

Numero
2215

Pagina
50

Titolo
COME SI FA FUNZIONARE UNA USL

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI MAKI GALIMBERTI

Sezione
STORIE

Sommario
Vent' anni passati in Ibm. Altri 27 in Montedison. Poi, nel 1991, la svolta: manager di un "carrozzone" di Stato. Tra bilanci in rosso, sprechi e privilegi da combattere, ecco la rivoluzione di Carlo Orlandini, il Romiti della Sanità. "Ho trovato sette o otto dipendenti che non fanno nulla: ma sto riuscendo a cacciarli via"

Didascalia
Carlo Orlandini, 64 anni, triestino, laureato in giurisprudenza.
Dall' estate 1991 guida una delle maggiori Usl lombarde.
Carlo Orlandini. La Ussl 67 ha 3.300 dipendenti e 151 mila pazienti.

Testo
"Lei signora... Mi dicevano che ha chiesto di cambiare ufficio. Vuole trasferirsi al piano di sopra? Vada pure. Da domani, le sta bene?" L' impiegata, bloccata nel corridoio, lo guarda e trasecola.
"Grazie dottore, grazie". Carlo Orlandini, amministratore straordinario della Ussl 67 in provincia di Milano (Rho, Bollate, Garbagnate e Limbiate), sorride soddisfatto: "Visto come si fa? Che bisogno c' è di perdere tempo con pratiche e cavilli per risolvere anche i problemi più banali? Quella dipendente voleva essere trasferita. Ecco fatto". Tutto così facile? Nel Paese della "malasanità", delle Ussl che spendono 17 mila miliardi l' anno in più degli 87 mila stanziati dal Ministero, della nuova riforma che proprio in questi giorni ha messo a soqquadro l' intero settore, Carlo Orlandini cos' è, un marziano? Il dottore non risponde. Amministratore straordinario di una delle Ussl più grandi di Lombardia, con 3.300 dipendenti e 151 mila pazienti distribuiti in quattro Comuni affollatissimi, tira fuori da un cassetto un mazzo di fascicoli: "In sei mesi ho chiuso i bilanci di cinque anni, dal 1987 al 1991". Che cosa intende dire? "In pratica ho rimesso ordine nei conti di cinque esercizi, lasciati in sospeso durante la precedente gestione". Non solo. "Alla fine del 1991 mi risultava un disavanzo di 68 miliardi. Ma ce l' abbiamo fatta. Con il bilancio del 1992 siamo finalmente in pareggio". Come è successo? "Controllando le spese, le gare d' appalto, annullando gli sprechi legati ai vecchi contratti".
Negli occhi chiari dell' amministratore straordinario passa un lampo che contraddice l' aspetto pacioso. Si capisce che Carlo Orlandini, 64 anni, un distinto signore di origini triestine già vicino alla pensione, è uno abituato a far di testa sua, a non cercar consensi.
E a non trovarli. Da quando si è insediato alla Ussl si è messo contro politici, sindacalisti e anche parecchi dipendenti.
La sua sfida comincia il primo luglio 1991, quando l' allora ministro De Lorenzo ha da poco varato la legge che sostituisce gli ex comitati di gestione, notori feudi di lottizzazione partitica, con gli amministratori straordinari. A differenza degli altri, riciclati in maggioranza dalla pubblica amministrazione, Carlo Orlandini viene dall' imprenditoria privata. Ha lavorato come dirigente per vent' anni in Ibm, per 27 in Montedison. Nel 1980 ha fondato la catena commerciale Euromercato (controllata dalla Standa), lasciandola nove anni dopo, al momento della vendita alla Fininvest. La Ussl che gli viene assegnata comprende due ospedali generali, un ex ospedale psichiatrico, una casa di riposo, più otto distretti sanitari: un vero labirinto con il bilancio in deficit da 15 anni.
L' ospedale Santa Corona di Garbagnate, sede dei suoi uffici, è circondato da un parco. La facciata è stata rinfrescata da poco, tutta gialla e grigia, color pastello. Ma quando Orlandini arriva, il primo luglio 1991, l' accoglienza è scoraggiante. "Nessuno a darmi le consegne. Solo degli usceri distratti che mi indicano la stanza dell' ex direttore". Il manager si fa conoscere subito. Primo ordine di servizio: "Proibita qualsiasi forma di propaganda all' interno dell' ospedale. Ho fatto strappare i manifesti, cancellare le affissioni". Insorgono i rappresentanti dei partiti, accusandolo di metodi antidemocratici. Ma lui va avanti imperterrito: "Per troppi anni qua dentro hanno dominato i politici, e per giunta quelli di seconda scelta". Un riferimento all' ex presidente della Ussl 67, Rolando Rossi, professione architetto e tessera Psi? Orlandini cambia discorso. Porta un altro esempio di inefficienza: i dipendenti. "Ce ne sono sette o otto che non fanno assolutamente nulla. Sto riuscendo a cacciarli". E i sindacalisti che hanno denunciato Orlandini per comportamento vessatorio? Liquidati anche loro: "Anziché fare retorica e rimanere attaccati ai vecchi schemi, dovrebbero accorgersi che il mondo sta cambiando".
Nell' arco di un anno, accentrando nelle sue mani i poteri che erano del consiglio di amministrazione, del presidente e del vicepresidente, mette tutto sotto controllo: gare d' appalto, lavori di ristrutturazione, polizze assicurative...
Piglio da podestà oltre che da manager? Figlio di un ferroviere triestino, a 16 anni Orlandini scappa di casa per unirsi ai partigiani. "Avevo inventato un codice per comunicare con gli alleati. Mi mandarono sei volte oltre le linee a consegnarlo". Dopo la guerra comincia a fare il giornalista per l' Arena di Verona, che lascia quando la proprietà del giornale decide di sostenere il partito dell' Uomo qualunque. Epoca, di cui nel frattempo è diventato collaboratore, lo manda a intervistare De Gasperi. "Quando arrivai a casa sua, a Sella di Valsugana, trovai un uomo distrutto, amareggiato dalle difficoltà politiche. Non me la sentii di intervistarlo. Mi sembrò una mancanza di rispetto". Cambia lavoro.
Dopo la laurea in Legge, all' univeristà di Bologna, lo chiamano in Ibm: "Mi chiesero se da piccolo giocavo con il meccano. No, veramente... con il teatro dei burattini". Lo prendono lo stesso, e Orlandini fa subito carriera. E' a Stoccarda, a Parigi, a New York, a Roma, a Washington, a Bangkok. Nel 1972 passa a Milano in Montedison dove lancia Euromercato, portando il fatturato a 750 miliardi e l' organico a 2 mila persone. Politica? "Mai. Anzi una volta: consigliere comunale a Carimate, il paese dove vivo, come indipendente nelle liste della Dc". E la candidatura alla guida della Ussl, ottenuta battendo circa mille concorrenti? "Ho buoni rapporti alla Regione". Qualche nome: il deputato Maria Pia Garavaglia, l' assessore regionale alla Sanità Patrizia Toia, il presidente Giuseppe Giovenzana, tutti democristiani. Ma anche Piero Borghini, ex Pds, oggi sindaco dimissionario di Milano.
Amici politici... L' ondata di Tangentopoli si è abbattuta anche sulla Sanità, con avvisi di garanzia ai vertici delle Ussl di Torino, Napoli, Catania, Roma, Milano. E nella sua Ussl? Orlandini comincia l' operazione pulizia controllando le polizze assicurative.
I vecchi contratti comportano una spesa di un miliardo e mezzo l' anno. L' amministratore straordinario indice una nuova gara.
Risultato: risparmiati 500 milioni ottenendo uguali coperture.
Stessa storia per i lavori di ristrutturazione di un reparto dell' ospedale di Limbiate: "Erano stati stanziati 400 milioni, secondo le vecchie regole". Rivedendo tutto, i lavori vengono a costare 290 milioni, 110 in meno. C' era poi la macchina per la Tac, acquistata dalla Siemens per 750 milioni, e mai messa in funzione.
Orlandini la attiva nel giro di pochi mesi. E ancora: inaugura laboratori, centri studi, sistemi diagnostici...
Ultima impresa: vieta il "mercato del caro estinto". "Non sopportavo quello spettacolo osceno, il via vai in corsia di impresari funebri pronti a vendere i loro servizi prima ancora che il malato morisse.
Ho buttato fuori tutti. D' ora in poi chi vuole accedere alla salma deve avere l' autorizzazione dei parenti". Anche qui, ovviamente, reazioni della categoria, che l' ha sommerso di lettere di diffida degli avvocati. "Fossero solo questi i miei nemici: da altri ambienti mi sono arrivate autentiche minacce". Quali ambienti, dottore? Orlandini rimette i fascicoli nel cassetto, fa un gesto di sufficienza, come dire: "Lasciamo perdere". L' ex partigiano se la caverà da solo?



Testata
Epoca

Data pubbl.
16/03/93

Numero
2214

Pagina
36

Titolo
VI RACCONTO COM' E' FATTO PAPA'

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
Parla Cristiano, il figlio del giudice Antonio Di Pietro appena premiato come poliziotto modello ESCLUSIVO PARLA CRISTIANO, IL FIGLIO DEL GIUDICE ANTONIO DI PIETRO APPENA PREMIATO COME POLIZIOTTO MODELLO

Sommario
"Quando torno la notte lo trovo spesso sul divano: dorme con la pistola sotto il cuscino". Dopo quattro mesi in caserma, "Dipietrino" è di nuovo a casa. E per la prima volta dice tutto sul padre-mito con cui vive.

Didascalia
BACI E ABBRACCI Cristiano Di Pietro, 19 anni, abbracciato dalla mamma
Isabella Ferrari (sopra), e baciato dalla fidanzata Brunella
Pellegrini (al centro). Cristiano ha "giurato" fedeltà alla polizia
il 3 marzo.
COME ME DA GIOVANE Cortile della caserma Annarumma di Milano:
Cristiano Di Pietro riceve i complimenti del padre Antonio. Anche il
giudice di Mani pulite ha esordito come poliziotto. Dopo un periodo
trascorso a Roma, nel 1981 divenne commissario a Milano, alla
caserma Vittoria-Monforte. Il figlio ha scelto per ora di svolgere
il servizio di leva in polizia: "Se le cose andranno bene resterò
anche dopo". Adesso è stato destinato agli uffici centrali della
questura. La notte dorme a casa, in un appartamento in centro avuto
in affitto dalla Cariplo.
IL MIGLIORE DEL SUO CORSO Cristiano Di Pietro con la targa ricevuta
per essere arrivato primo nel corso di "tecniche operative":
perquisizioni, arresti, posti di blocco... Al suo fianco, la
fidanzata Brunella Pellegrini, conosciuta durante un ritiro
spirituale, e la mamma Isabella. I coniugi Di Pietro sono separati
dal 1983. Il giudice vive vicino a Bergamo con la nuova compagna
Susanna Mazzoleni, avvocato, e due figli piccoli.
C' ERA ANCHE BORRELLI Alla cerimonia del giuramento del figlio di Di
Pietro ha partecipato anche il procuratore capo di Milano Saverio
Borrelli. Dice Cristiano: "Tangentopoli? La seguo solo in tivù".
SULL' ATTENTI DAVANTI A PAPA' Il giudice Antonio Di Pietro passa in
rassegna i 150 ragazzi che hanno prestato il giuramento da
poliziotti: il primo a destra è il figlio Cristiano.

Testo
Il solito numero di cellulare, ormai imparato a memoria: "Ehi, papà, domani mi danno l' arnese". Dall' altra parte dell' apparecchio, il giudice Antonio Di Pietro prende quel tono da compagnone che riserva solo al figlio: "Bravo, sono contento. Stai attento, però". Ora l' arnese, una Beretta 92S lucida e lustra da non sembrare vera, Cristiano se la porta stretta alla cintura, nascosta nella fondina di cuoio marrone. Non riesce a staccarsene nemmeno adesso che è in casa e si è tolto il berretto, la divisa, gli abiti da poliziotto.
"Mi hanno detto di non abbandonarla mai. Un poliziotto è sempre in servizio". Però lui non è un poliziotto qualunque. E' Cristiano Di Pietro, il figlio dell' uomo che ha sconvolto l' Italia. Fisicamente gli somiglia tanto: stesse sopracciglie folte, stessa camminata, uguale stazza, solida e massiccia, da stirpe contadina del Sud. Solo l' espressione è quella di un ragazzino, 19 anni appena, sbigottito dalla luce un po' troppo violenta della notorietà.
I flash gli sono stati sparati addosso mercoledì 3 marzo, quando ha giurato fedeltà al Corpo, nel cortile della caserma Annarumma di Milano: a destra Di Pietro padre che passava in rassegna gli agenti, a sinistra Di Pietro figlio, impettito, un po' imbarazzato, in uniforme in mezzo colleghi. "Dovevo star serio", dice. "E invece mi veniva da ridere". L' hanno premiato, targa come migliore allievo in tecniche operative, selezionato con altri otto tra i 143 allievi del corso per agenti ausiliari. Un riconoscimento arrivato grazie al cognome che porta? "Mah, le tecniche operative mi piacciono", dice lui. "Imparare a sfondare una porta per fare una perquisizone, come mettere le manette, in che modo presidiare un posto di blocco è quello che mi attira di più di questo lavoro". E in caserma, ci sono privilegi per il "dipietrino"? Non si direbbe. Sul giornalino del suo corso, il 33° Horus, tra le biografie degli allievi alla voce Di Pietro Cristiano c' è scritto: "Stato civile: "celebre"". E poi: "Con un cognome così non potevano che toccargli sei turni da piantone, per giunta di sabato", contro i tre affibiati di norma ai ragazzi di leva. Conferma il comandante, Edoardo Malato: "Cristiano è uno come tutti gli altri. Ha sempre dormito qui, in camera con altri due, sveglia alle sei e trenta, libera uscita dalle 7 alle 11 di sera".
Un piccolo privilegio, però, come figlio del giudice, Cristiano Di Pietro l' ha avuto: l' appartamento che gli ha preso in affitto il padre nel centro di Milano, in via Manzoni, a pochissimi metri dalla Scala. La casa è all' ultimo piano di uno quegli antichi palazzi signorili dagli atrii in penombra, dove i nomi sul citofono sono sostituiti da numeri e i portinai hanno l' aria più snob della gente che ci abita. Di Pietro l' ha avuta a equo canone dalla Cariplo tramite la Procura di Milano ("Quanto paga esattamente non possiamo dirlo", dichiarano i funzionari della banca). Una prassi consueta per i magistrati, come ha spiegato il giudice stesso nel libro Le mani pulite (Mondandori) scritto dai giornalisti Enrico Nascimbeni e Andrea Pamparana sulla vicenda Tangentopoli.
Già, Tangentopoli. Cosa ne pensa Cristiano? Dolcevita bianco, jeans e anfibi neri, il neopoliziotto ammette che dell' inchiesta sa poco o niente, la segue solo in tivù. D' altra parte non ha idea nemmeno di quanto costi l' affitto del suo appartamento di due stanze più cucina. Nella casa si muove quasi a disagio, come fosse un ospite capitato lì da pochi giorni. Del resto è tornato ad abitarci solo ora che l' hanno mandato a lavorare in Questura, dopo quattro mesi passati in caserma. Prima faceva il perito assicurativo per la compagnia Maa. L' arredamento è moderno, essenziale come fosse la casa di uno studente. Libri, in verità, ce ne sono pochi: qualche fumetto e una serie di volume d' arte ("Ma sono lì solo per fare scena"), poster alle pareti (ma niente cantanti o attori), una bandiera americana dietro lo stereo e la maglietta che gli ha regalato il padre, "Milano ladrona, Di Pietro non perdona", attaccata a una parete del corriodio, sotto lo stemma della Procura della Repubblica.
In camera da letto, dentro l' armadio, ci sono gli abiti di papà.
"Questa è anche casa sua", spiega. "Lui vive vicino a Bergamo, ma sta qui quando ha bisogno di restare a Milano. Lo trovo spesso, quando torno la notte, che dorme sul divano con la pistola sotto il cuscino. E' grande mio padre: mi fa ridere vederlo in tivù con quella sua camminata goffetta e sapere che invece, quando poi ci incontriamo, mi dà ancora cazzotti capaci di stendermi".
Tutto cambiato tra loro dopo Tangentopoli? "In effetti, prima che gli mettessero la scorta andavamo a passeggio, mangiavamo il gelato, compravano viti e bulloni. Ora ci sentiamo per telefono, oppure mangiamo un panino al bar del Tribunale". Ma non solo. Uno dei giornalisti di stanza a palazzo di Giustizia, Luigi Moncalvo, autore della prima biografia pubblicata su Di Pietro, racconta di certe misteriose sparizioni del giudice, a orari fissi, a metà del pomeriggio. "Per settimane abbiamo sguinzagliato le troupe televisive cercando di capire perché Di Pietro a quell' ora fugisse dai suoi uffici. L' abbiamo scoperto: andava al supermarcato a fare la spesa per il figlio". Cristiano ride: "Sì papà mi ha insegnato tutto, anche che per mangiare non si comprano solo patatine e cioccolato". Cristiano non lo ammette, ma in un certo senso ha sempre cercato di imitarlo. La scelta di fare il poliziotto, per esempio: "Sin da piccolo ho vissuto in caserma con papà, quando faceva il commissario a Roma. Mi affascinava quel mestiere per il suo dinamismo. Il lavoro del giudice invece non l' ho mai capito.
Cosa fa un magistrato? Boh, e chi lo sa? Forse adesso comincio a intuirlo".
Parla del passato e gli torna in mente l' infanzia, i primi anni a Milano quando il padre lavorava all' Aster, un' azienda di apparecchiature elettroniche. Poi il passaggio in polizia, il trasferimento dei genitori a Lambrugo d' Erba in provincia di Como, e infine la separazione tra padre e madre nel 1983. "Sono rimasto con la mamma fino a 11 anni. Poi però ho preferito papà, perché lei voleva restare a Lambrugo e a me non piaceva. C' erano solo quattro case, una chiesa e l' oratorio". Ma non c' è stata rottura: la madre, Isabella Ferrara, coordinatrice amministrativa in una scuola elementare di Lambrugo, è sempre presente. Si sentono quattro volte al giorno.
"Io e papà siamo andati a vivere a Bergamo. Quando lui ha cominciato a lavorare come giudice io sono finito in collegio, al convitto Esperia. Mi ricordo la prima volta che non andai a scuola perché non avevo studiato. Dopo un paio d' ore sapeva già tutto". Cristiano frequenta l' istituto per periti elettronici. Non brilla particolarmente, ma se la cava soprattutto in italiano "grazie alla parlantina". In collegio lo segue un giovane sacerdote, padre Roberto, "il mio padre spirituale". E' lui che gli insegna a vivere con i compagni, a stringere amicizie con ragazzi di tutta Italia, a superare la separazione dei genitori . E anche il dolore per la nuova unione del padre con Susanna Mazzoleni, avvocato di Bergamo.
"Ma di questo non voglio parlare", taglia corto il ragazzo, "i miei rapporti con lei sono un capitolo delicato".
Padre Roberto lo porta due volte l' anno al corso di teologia tenuto dai gesuiti in Val Gardena. Cristiano mostra le foto un po' sfocate di una messa celebrata tra la neve alle prime luci dell' alba. "Sono cattolico, come papà, del resto. Lui forse più di me. Va ancora ogni domenica a messa. Gliel' ha insegnato nonna Annina, l' unica donna al mondo capace ancora di comandare su di lui".
Proprio in Val Gardena, due anni fa, ha conosciuto Brunella Pellegrini, oggi sua fidanzata. "Come l' ho incontrata? Le sono letteralmente cascato addosso per sbaglio durante una marcia. Poi da cosa nasce cosa...". Dicono che quando ha capito che era "una cosa seria", il giudice abbia fatto un commento dei suoi: "Peccato, non potremo andare più a donne assieme".
Cristiano arrossisce: "Sì, io e mio padre ne abbiamo fatte di tutti i colori. Ogni estate mi portava in campeggio per l' Europa, noi due e una tenda canadese che ho ancora di là, nell' armadio. Giocavamo a calcio e vinceva sempre lui. Andavamo a pescare. O anche a zappare, a Montenero di Bisaccia, in campagna dalla nonna". Oggi le cose sono cambiate. "La scorsa estate abbiamo passato assieme io e lui due o tre giorni al massimo. Era per giunta un periodo in cui io avevo molta paura per quello che lui stava facendo".
La morte di Falcone a maggio, quella di Borsellino a luglio, le prime voci di un attentato a Di Pietro gettano nel panico il ragazzo: "Mio padre è diventato un altro. Mi dà ancora le pacche sulla spalle, ma è più taciturno, si è chiuso in se stesso. Anche la casa di Curno, dove abita con la nuova famiglia, sembra ormai un bunker, con il giardino illuminato notte e giorno dalle cellule fotoelettriche, gli uomini armati".
Sullo stereo le note malinconiche di Stand by me, colonna sonora del film-cult degli anni Ottanta, Il grande freddo. Padre e figlio la ascoltano in continuazione, come fosse ormai anche la colonna sonora dell' era gelida di Tangentopoli. "No, non lo farei mai il giudice", dice Cristiano. "Non voglio che mi succeda quello che sta capitando a lui. Io voglio farmi una famiglia, voglio vivere con i miei figli". E il lavoro in polizia? "Beh, per ora è solo una prova.
Resterò se ne varrà la pena". La pistola non ce l' ha più. L' ha messa su uno scaffale, adesso.




Testata
Epoca

Data pubbl.
09/03/93

Numero
2213

Pagina
122

Titolo
I DIMENTICATI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI PIGI CIPELLI

Sezione
STORIE

Occhiello
Problemi, paure e progetti dei ventiquattromila nostri connazionali che vivono nell' Istria divisa tra le repubbliche di Croazia

Sommario
Storie di italiani nelle terre sconvolte dell' ex Iugoslavia Problemi, paure e progetti dei ventiquattromila nostri connazionali che vivono nell' Istria divisa tra le repubbliche di Croazia e Slovenia Il presidente degli italiani d' Istria: "Il maggiore giornale sloveno ha pubblicato un appello che invita i nazionalisti a lottare contro di noi" Si chiamano Carboni, Milotti, Visentin, ma sono sloveni o croati. Tra dispute elettorali, beghe di confine, scontri etnici e echi di guerra, viaggio in un pezzo d' Italia nel mezzo del caos iugoslavo.

Didascalia
ISTRIA REGIONE D' ITALIA Separata definitivamente dall' Italia nel
1947 dopo la Seconda guerra mondiale, la penisola è rimasta patria
di 24 mila italiani, che oggi vivono divisi tra le due nuove
repubbliche di Slovenia e Croazia. Tremila a nord, in Slovenia. Il
grosso, 21 mila, a sud, in Croazia. Qui alle scorse elezioni
regionali hanno preso il 16 per cento degli eletti presentandosi
nelle liste della Dieta istriana, partito che ha stravinto sul
quello del presidente croato. A fianco: Maurizio Tremul (primo a
destra), presidente della giunta dell' Unione italiana, durante
un' assemblea. Sotto, controlli di dogana alla frontiera slovena.
VIETATO ANCHE IL MARE Berto Germek, pescatore di Pirano, in
Slovenia. Le guardie costiere croate gli impediscono di lavorare.
FAMIGLIA DIVISA Danilo Makovac, italiano con residenza croata. Non
può andare dai suoceri che stanno in Slovenia.
PERICOLO FRONTIERA Duilio Visentin, italiano in Croazia. Colto da
infarto, non ha potuto raggiungere l' ospedale in Slovenia.
IN TIVU' SOLO PER POCHI La redazione di Telecapodistria. La
televisione-simbolo dell' unità italo-istriana trasmette oggi solo
in Slovenia. La Croazia ha negato i ripetitori. Dice Tullio
Vianello, caporedattore (al centro): "Gli italiani di lì non possono
più vederci".

Testo
Piazza Tito, la piazza centrale di Capodistria, sembra un campiello veneziano, delimitato dai portici, con le bifore e le colonnine con i capitelli. Il bar principale della città, che si affaccia sulla piazza, si chiama Caffè Loggia. Ed è facile, quasi scontato, affermare che "questo è proprio un pezzo d' Italia".
Maurizio Tremul, 31 anni, presidente della giunta esecutiva dell' Unione italiana, lo ripete da sempre. Ma in questi giorni con maggior vigore: per la minoranza italiana che vive in Istria è infatti un momento decisivo. Una commissione del nostro ministero degli Esteri sta ridiscutendo a Lubiana alcune clausole del trattato di Osimo, l' accordo fra i due Paesi firmato nel 1975 che attribuì alla Iugoslavia di Tito la cosidetta "Zona B", una fascia tra Trieste e l' Istria rimasta d' incerto dominio alla fine della Seconda guerra mondiale. I confini non verranno toccati, è stato già detto. In discussione ci sono soltanto alcuni accordi commerciali.
Ma gli italiani che vivono dall' altra parte della frontiera sperano che sia giunta l' occasione buona per far valere i loro diritti.
Non senza polemiche. Già nel dicembre scorso i missini avevano organizzato a Trieste un manifestazione durante la quale vennero lanciate in mare centinaia di bottiglie, contenenti messaggi perentori: "Istria, Fiume, Dalmazia, ritorneremo". C' è poi stata una petizione popolare, 150 mila firme raccolte dal Giornale di Montanelli, per la revisione di Osimo. E, infine, anche il coro degli esuli, istriani e dalmati, che due settimane fa hanno chiesto a Scalfaro di riaprire i conti con la Storia. Il presidente, in risposta, ha inviato una lettera ad Amato, invitandolo a far luce sui crimini commessi da Tito nell' immediato dopoguerra: le famigerate "foibe", fosse carsiche nelle quali furono sepolti vivi migliaia di italiani, durante i 40 giorni in cui i partigiani iugoslavi occuparono Trieste.
DIVISI DUE VOLTE "E' giusto", dice Maurizio Tremul, "che la ex Iugoslavia si ripulisca dalle sue macchie". Ma non dimentica che adesso bisogna far i conti con due Stati diversi. La proclamazione d' indipendenza di Slovenia e Croazia, il 25 giugno 1991, per gli italiani d' Istria è stato infatti un mezzo disastro. Ha tagliato in due la penisola con una frontiera che ha spaccato anche la comunità italiana. Tremila persone sono rimaste a nord, in Slovenia, sparpagliate tra Capodistria, Pirano, Portorose, Isola. Il grosso, 21 mila italiani, vive invece a sud, in Croazia, tra Buie, Fiume, Umago, fino a Pola e Rovigno.
Tremul guarda preoccupato a quanto sta avvenendo dall' una e dall' altra parte. "Da Lubiana ci attaccano", dice. "Proprio qualche giorno fa, sul Delo, il maggiore quotidiano sloveno, è apparsa una lettera di un istriano che definiva la nostra bandiera, la "bandiera dei maccheroni" e invitava un vecchio movimento nazionalista, il Tiger, a lottare contro gli italiani". Da Zagabria, è Tudjman in persona a guidare la crociata. Per le elezioni regionali del 7 febbraio ha fatto mandare in onda in tivù un cartone animato che raccontava le avventure di una capretta, simbolo dell' Istria, assalita da un italiano vestito da fascista e poi bastonata da un cetnico. Errore clamoroso. In Istria, regione autonomista per vocazione, italiani e slavi hanno fatto fronte comune, causando al premier croato, proprio negli stessi giorni in cui apriva nella Krajina un nuovo fronte con la Serbia, la sconfitta più clamorosa del suo governo.
La Dieta democratica istriana, partito regionalista e interetnico, ha infatti battuto l' Hdz di Tudjman con il 72 per cento dei voti.
Grazie anche agli italiani, che sono sì l' 8 per cento della popolazione, ma aderendo alla Dieta hanno ottenuto il 16 per cento degli eletti: cinque deputati e maggioranza assoluta in comuni come Dignano, Valle, Grisignana, dove probabilmente prenderanno la poltrona di sindaco.
FINALMENTE PROTAGONISTI Finora i 24 mila italiani che vivono in Istria non hanno avuto vita facile. Tenuti assieme da quell' organizzazione politica e culturale che è l' Unione, hanno sempre rappresentato una minoranza sparuta che per quasi 50 anni ha vissuto mimetizzata nel calderone delle etnie slave. "Ricordo l' esodo del 1945. E' stato spaventoso", racconta Olga Milotti, 59 anni, presidente della comunità di Pola, oggi eletta nel consiglio comunale. "Noi che siamo rimasti abbiamo pagato lo scotto di una dittatura che ci ha sempre visti come nemici". Figli di una spartizione, quella che nel 1947 li separò da Trieste, gli italiani d' Istria si portano addosso una doppia colpa: da una parte l' accusa di aver tradito Roma per il comunismo di Tito; dall' altra il sospetto di nutrire spirito fascista e irredentista.
Adesso che la Iugoslavia di Tito non c' è più, fatta a pezzi dai nazionalismi e dagli odi etnici, gli italiani tornano a farsi sentire, chiedendo autonomia per l' Istria e difesa dei loro diritti. Differenza con la Bosnia: "Vogliamo vivere in pace con le altre etnie", dice Olga Milotti. In altre parole: croati, sloveni, italiani, minoranza serba, tutti insieme purché ci si riconosca come "istriani".
La frontiera tra Slovenia e Croazia, pesa però come un macigno sulle aspirazioni regionalistiche. Elio Velan, giornalista di Rovigno, oggi neo deputatato del Consiglio regionale di Croazia, la definisce "un pericolo enorme, un confine invalicabile per le nostre coscienze". Ma non è solo un fatto psicologico. In concreto si tratta di una linea di divisione costituita da dogane, posti di blocco, valichi chiusi al traffico. Uno sbarramento che rende impossibile la vita di commercianti, contadini, insegnanti, impiegati, abituati da sempre a far la spola da una parte e dall' altra.
Come Duilio Visentin, agricoltore dell' alto buiese. Zappa e borbotta in un veneto stretto: "Stavo per restarci secco l' anno scorso. Sì, proprio per colpa di questa maledetta frontiera". Doveva essere ricoverato d' urgenza all' ospedale di Isola, in territorio sloveno, per sospetto di infarto polmonare, ma a causa appunto della maledetta frontiera, ha rischiato di non arrivare a destinazione.
"Nella fretta io e mia moglie ci eravamo scordati i documenti. Le guardie non hanno voluto sentir ragione. Malato o no, mi hanno detto, di qui non si passa". Anche adesso che il pericolo è scampato e Visentin può brindare con un bicchiere della sua Malvasia, che in questa regione si produce in abbondanza, non si sente sicuro. "Ecco cosa ci hanno fatto, sloveni e croati: il muro di Berlino".
Eppure questa frontiera, quando fu creata nel 1991, doveva essere solo un confine amministrativo. "Un filo di seta", avevano assicurato le autorità di Lubiana e di Zagabria. Falso. Il fiume Dragogna, che passa in mezzo ai due Stati, segna ormai non solo una divisone politica, ma anche lo spartiacque tra due mondi: la Slovenia con la sua vocazione germanica e mitteleuropea, il suo relativo benessere, e la Croazia, travolta invece dalla crisi economica, da fiumane di esuli in fuga, massacrata dalle conseguenze della guerra con la Serbia.
CONTROLLI ANTI-GUERRA In Istria, a un anno e otto mesi dei giorni in cui i serbi occuparono la Slovenia e bombardarono Fiume, la paura degli spari si è sopita. Restano però, pesanti, gli effetti del conflitto che si combatte trecento chilometri più in basso. Ai due posti di frontiera slovena, Sicciole e Dragogna, i doganieri ripetono che è per paura del traffico d' armi se i controlli sono capillari. C' è una frontiera sulla vecchia via napoleonica che collega Pola a Trieste , mentre sono bloccati del tutto i sentieri di campagna: possono passare da lì solo i contadini in grado di esibire un foglio che attesta il possesso di terre dall' altra parte. Come Alberto Scherlich e il suo vicino, Mario Susanj, triestini, con casa e piccolo appezzamento in Croazia, a Scalici, a ridosso dal confine sloveno. "Grazie a questo", dicono mostrando il documento, "riusciamo a passare". Ma la maggior parte della gente si trova tagliata fuori, costretta a percorrere decine di chilometri per raggiungere posti dove prima si andava a piedi. Posti dove si hanno parenti, amici, ricordi che adesso fanno parte di un altro Stato.
Ci sono famiglie spezzate per via di questo confine. Come quella di Danilo Makovac, 36 anni, italiano con residenza croata, sposato con una slovena di Pregara, villaggio a un chilometro dalla "linea". Per anni lui e la moglie hanno abitato dai genitori di lei. Quando è stata costruita la casa dalla parte croata, hanno continuato a far la spola, lasciando spesso i bambini dai nonni. "Adesso mia moglie e i ragazzi possono passare facilmente. Io no, perché non ho la cittadinanza slovena".
Confini di Stato che creano rogne a tutti coloro che abitano da una parte e lavorano dall' altra. Come gli insegnanti croati che per andare nelle scuole slovene hanno bisogno di un permesso di soggiorno. Confini che corrono lungo pendii disegnati dai filari delle vigne. E poi, confini sul mare, che hanno aperto un contenzioso infinito tra i pescatori. Sulle acque del golfo di Pirano, pochi chilometri da Capodistria, per esempio, capita spesso di sentirsi dare l' altolà dalle guardie croate. "E io che ne sapevo di essere in acque straniere", dice Berto Germek, 51 anni. "Questo è il mio mare, il posto dove ho sempre pescato. Ma loro, quelli in divisa, hanno minacciato di sequestrarmi le reti".
PICCOLI E GRANDI PROBLEMI "Gli inconvenienti creati da questa nuova frontiera", spiega Maurizio Tremul, "toccano il lavoro, il commercio, l' assistenza sanitaria, le strutture turistiche.
Un' infinità di settori, una miriade di rapporti tra i due nuovi Stati non ancora regolati". I commerci, appunto. Mario Carboni, 56 anni, un omone robusto con una Chrysler Le Baron posteggiata nella piazzetta di Buie, è il presidente dell' Aipi, l' associazione degli imprenditori privati italiani. Conosce bene lamentele e recriminazioni dei connazionali. Anche perché l' odissea tra dazi, dogane, autorizzazioni per il passaggio delle merci la vive lui stesso ogni giorno. Così se a Isola la sua azienda di copertoni continua a produrre con i ritmi di sempre, dalla parte croata gli affari hanno rischiato un mezzo tracollo: "Avevo comprato un capannone con l' intenzione di creare una filiale, ma l' ho dovuto affittare. I macchinari sono infatti rimasti bloccati dalla parte slovena". Oltre ai dazi, c' è anche l' ostacolo rappresentato dalla moneta: talleri a nord, dinari a sud. Talleri abbastanza solidi, dinari con un valore dodici volte più basso.
Colpa della divisione, ma anche della guerra che riempe gli alberghi di profughi, che scoraggia i turisti anche dove la costa istriana rimane il paradiso di sempre. Per un altro imprenditore italiano, Antonio Furlan, 32 anni, residente a Buie, con interessi appunto nel turismo, la scorsa annata è stata proprio quella delle vacche magre. A parte il fatto che è stato anche mandato al fronte.
"Il mio nome fino a un anno e mezzo fa era nelle liste dell' esercito federale. Dieci mesi fa sono stato chiamato dalle forze regolari croate". Furlan è uno dei 650 italiani reclutati l' anno scorso a Buie, benchè la comunità italiana in Istria si fosse opposta all' intervento. Con scarso successo. Zagabria ha reagito infatti accusando gli italiani di slealtà. Così come in altre occasioni li ha accusati di essere fascisti o di voler italianizzare la Croazia.
ITALIANI COME OSTAGGI La vittoria elettorale non ha certamente migliorato i rapporti. Prima dichiarazione di Tudjman: "Garantirò agli italiani gli stessi diritti assicurati alle minoranze croate in Italia". Commenta indispettito Dino Debeljuh, vicepresidente della Dieta istriana: "Come si trattasse di ostaggi. Il solito sistema di Zagabria". Debeljuh si definisce "istriano" , ma ha sposato un' italiana, Loredana Bagliun, docente all' università di Pola, che è tra i deputati eletti il 7 febbraio. Entrambi rifiutano il paragone tra la Dieta e la Lega di Bossi. "Il nostro partito è per l' autonomia amministrativa, ma soprattuto per il rispetto delle etnie. Non vogliamo diventar croati a tutti i costi".
E' questo infatti, secondo Debeljuh, quello che vorrebbero fare i governanti di Zagabria, negando per esempio la concessione di carte d' identità bilingue a chi, secondo loro, non è in grado di dimostrare le origini italiane. Non solo. "Anche i preti in chiesa fanno propaganda per il governo, scoraggiando i fedeli dall' iscriversi alle comunità italiane". In campagna elettorale, a Sterna, un sacerdote si sarebbe persino lanciato con l' auto contro i cartelloni dalla Dieta. Attacco a tutto campo. Anche in tivù. A parte i cartoni animati con gli italiani vestiti da fascisti, dagli schermi croati è scomparsa Telecapodistria, emittente simbolo dell' unità italo-istriana. Zagabria non ha concesso i ripetitori. Si lamenta il caporedattore, Tullio Vianello, 38 anni: "Con la nuova frontiera abbiamo perso il nostro retroterra. Siamo orfani per la seconda volta". Era la tivù della minoranza italiana. Oggi "solo una voce sparuta che sopravvive grazie al canone sloveno".
Eppure una forza d' attrazione tra gli orfani divisi rimane. Dopo il giugno del 1991, le comunità italiane sono passate da 22 a 39. A Visignano, paesino dell' Istria croata, la scorsa estate al battesimo della nuova associazione, erano in duecento. A parlar di scuole, di chiese, di strutture per gli italiani. A cercar di dimenticare il passato: "Ci hanno accusati di essere fascisti, comunisti, filoserbi, filocroati. Adesso basta". Ha detto un vecchio, alzandosi in piedi: "Ricordiamoci che siamo italiani".




Testata
Epoca

Data pubbl.
03/03/93

Numero
2212

Pagina
64

Titolo
DALLA "BERSAGLIERA" ALLA LEGION D' ONORE

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
Vita pubblica e privata di Gina Lollobrigida da Subiaco ESCLUSIVO VITA PUBBLICA E PRIVATA DI GINA LOLLOBRIGIDA DA SUBIACO

Sommario
Quarantacinque anni di carriera costellati di grandi passioni e piccoli fallimenti. Tutto comincia in una strada di Roma.

Didascalia
A fianco: Gina Lollobrigida nel 1947. Al centro: un anno dopo, con
il fidanzato Milko Skofic. A destra: con Vittorio DeSica nel
"Processo di Frine", per la regia di Blasetti.

Testo
BOX
Il titolo di "ambasciatrice della bellezza" è abusato, ma sicuramente meritato. Nessun' altra diva italiana ha mai avuto l' onore di incontrare tanti capi di Stato quanti Gina Lollobrigida. Mitterrand, ma anche Peron, lo scià di Persia, i reali d' Inghilterra. Con Fidel Castro andava addirittura a pesca assieme. In Iugoslavia fu l' unica a essere ricevuta da Tito: il resto della delegazione italiana venne snobbato. Ma l' incontro più piccante la Lollobrigida lo ebbe con il ministro della guerra siriano, Mustaphà Tlass, che si invaghi di lei dopo aver visto Pane amore e fantasia. In piena guerra libanese riuscì a coinvolgere persino l' ambasciata italiana con l' incarico di recapitare alla Lollo un diamante. Lei accetttò non solo il dono, ma anche l' incontro con il ministro, che anni dopo le dedicò una foto in un libro intitolato Le rose che colsi: lei china a baciare un fiore dal quale cadevano perle di rugiada.
Il suo passaporto è sempre stato la bellezza; sin dall' inizio, anno 1946, quando in una strada di Roma la nota il regista Stefano Canzio. Gina Lollobrigida, originaria di Subiaco, non ha ancora vent' anni. A Roma studia pittura e canto, ma ha anche bisogno di soldi. Così non disdegna Cinecittà. Ci va in autobus con Silvana Mangano. L' anno dopo si classifica terza a Miss Italia, ma è già quasi una diva. Nel 1949 sposa Milko Skofic, profugo iugoslavo, neodottore in medicina. Lui lascia la carriera per farle da agente.
Nel frattempo, Howard Hughes, miliardario di Los Angeles, la chiama a Hollywood. Sull' interesse di Hughes si spettegola molto, troppo, tanto che la Lollo rimpatria. Poco male. Le si aprono le porte di Parigi, dove debutterà con Fanfan la tulip, accanto a Gérard Philippe. Gli anni seguenti sono quelli della bersagliera di Pane amore e fantasia, dell' amiciza con Comencini, della villa sull' Appia, degli abiti Chanel e Dior, degli inviti internazionali. Ma anche della maternità. Mentre tutti vociferano sulla fine del suo matrimonio con Milko, che durerà invece fino al 1966, Gina mette al mondo un bambino, Milko junior.
Altri film, altri successi, e dopo la seperazione, molta mondanità.
Gina saltella dal ballo dei Rothschild a Parigi, al carnevale di Rio, ai ricevimenti dell' ex presidente indonesiano Sukarno.
All' estero le offrono ruoli accanto a Frank Sinatra e Rock Hudson.
Nel 1964, a 37 anni, ha già girato 40 film. Ma il cinema comincia a stancarla. Decide che è il momento di passare ad altro: la fotografia. Reportage per Paris Match, un libro per Life. Nel 1976, anche l' ex presidente filippino Marcos le chiederà due album fotografici su Manila che fanno scoppiare uno scandalo per il costo presunto: un miliardo e mezzo. Le si attribuiscono inumerevoli flirt: il calciatore Falcao, il gioielliere Piaget, il chirurgo Christian Barnard...
Nel 1988, l' occasione di tornare al grande cinema: La romana, dal romanzo di Moravia. Ma c' è Francesca Dellera a farle la guerra. La Lollo passa al contrattacco: "Non si può chiamare una professionista come me e mandarla allo sbaraglio con una debuttante".
Toccata e fuga. Lo scorso settembre il cognome Lollobrigida compare in Francia nella lista di intellettuali che firmano per il sì a Maastricht. Ricompare all' Expo di Siviglia, in calce a un' aquila in bronzo: otto deputati italiani presentano un' interrogazione parlamentare. La statua rimane al suo posto. E all' apertura dell' Expo la più fotografata tra gli italiani è ancora lei, l' ormai sessantacinquenne "ambasciatrice della bellezza".




Testata
Epoca

Data pubbl.
24/02/93

Numero
2211

Pagina
116

Titolo
LA MAFIA DEI SEMAFORI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI E FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Sommario
Una raffica di mitra a un incrocio di Milano, due marocchini feriti e spunta l' ultimo racket: quello dei lavavetri . Ma è possibile arrivare a sparare, quasi uccidere, per un lavoro così miserabile? "Epoca" ha parlato con gli immigrati e con la polizia, ha fatto un po' di conti. E ha scoperto che in questo affare non ci sono soltanto spiccioli.

Didascalia
A questo semaforo di Baggio, periferia di Milano, l' 8 febbraio
scorso due uomini armati di mitra hanno sparato contro un gruppo di
30 immigrati. Due di loro sono rimasti feriti. Il lavoro di
lavavetri frutta anche 200 mila lire al giorno.
Racconta Mahfud, lavavetri a Milano: "Un mio collega incassa 250
mila lire al giorno. Arriva al lavoro in automobile e alla fine
della giornata, finito il turno, si cambia. Non sembra neanche uno
di noi".
Sopra: lavavetri in viale Marche a Milano. La concorrenza tra gli
extracomunitari, perlopiù marocchini, è durissima. Per conquistare
un incrocio si paga: "Se non hai soldi per comprarlo", racconta un
immigrato, "puoi affittarlo, a un tanto al giorno".
Tre ragazzi marocchini bloccati dai vigili urbani a un semaforo di
corso XXII Marzo a Milano. Con loro un uomo che ha detto di essere
il padre. In realtà spesso i ragazzi del Magreb vengono affittati ad
adulti del loro Paese che li portano in Italia e ne sfruttano il
lavoro.

Testo
L' ufficio del giudice Forno è al quarto piano del tribunale di Milano. Sullo stesso corridoio lavorano Di Pietro, Colombo, Borrelli, l' intero pool di magistrati che guida l' inchiesta Mani Pulite. Ma nella stanza del giudice Forno non si discute di tangenti multimiliardarie, bensì di una vecchia storia già dimenticata: quella di Mustafà, 8 anni, marocchino, costretto con un braccio semiparalizzato a lavar vetri a un semaforo. "A settembre, quando è successo, avevamo creduto", dice il giudice Forno, "di trovarci di fronte a un caso di riduzione in schiavitù". Un' ipotesi che accendeva un altro sospetto: che ci fosse un racket ai semafori dedito allo sfruttamento dei minori? Era solo un' intuizione. A distanza di cinque mesi, sempre a Milano, mentre la città è assorbita dai fatti di Tangentopoli, un fatto nuovo riporta alla ribalta l' affare dei semafori: l' 8 febbraio due killer in moto sparano contro una decina di extracomunitari, fermi a un incrocio di periferia. Trentadue colpi di mitra, due feriti. E un mare di ipotesi. Gesto razzista? Regolamento di conti legato al contrabbando delle sigarette? Spaccio di droga? Oppure, come si era già detto, "racket dei semafori"? Al crocevia di Baggio, dove è avvenuta la sparatoria, Muhammed scuote la testa con occhi cupi: "Non so perché ce l' hanno con noi", dice. "Qua lavoriamo dieci ore al giorno. E tutto per guadagnare poche lire". Rahal, invece, più aggressivo, ha lasciato lo spazzolone e se ne va in giro con una cartelletta sotto il braccio piena di volantini da distribuire per una manifestazione di solidarietà: "Basta stare zitti", protesta. "Ci scambiano per spacciatori o ladri. Ma se fossimo così, perché dovremmo beccarci tutto il freddo, lo smog e le parolacce?". Anche al commissariato di Porta Genova sembrano scettici: "Che sia una questione di racket non possiamo escluderlo", dice un dirigente. "Ma dovremmo credere che tra i lavavetri ci sia un' organizzazione così potente da poter armare due killer? Finora i regolamenti di conti tra marocchini sono avvenuti a colpi di coltello e non con le raffiche di mitra".
Che ci sia stato un salto di qualità? Lavorare ai semafori frutta una media di cento-centocinquantamila lire al giorno. Un discreto guadagno che fa gola soprattutto agli irregolari e ai clandestini.
Fino a due anni fa erano i polacchi ad agitare lo spazzolone. Oggi sono i marocchini ad aver preso in mano "l' affare". Quanti? In città, registrati all' Ufficio Stranieri, ce ne sono 11 mila. Gli altri, quelli non registrati, è impossibile calcolarli. A ogni semaforo se ne trovano quattro o cinque che moltiplicato per i maggiori incroci di Milano fa...
"Tanti", dice Mahfud, 24 anni, sorriso cariato e ciabatte ai piedi.
"Troppi per poter guadagnare tutti". Così, come già succede con le sigarette di contrabbando, ci sono boss marocchini che vendono, affittano, "subappaltano" gli incroci più redditizi. Signori dell' accattonaggio che talvolta si alleano, talvolta si danno guerra, in questa piccola corte dei miracoli che sopravvive all' ombra della Madonnina.
MARCIAPIEDE VENDESI Se "comprare" un marciapiede per vendere sigarette può costare dai due ai cinque milioni, procurarsi un semaforo è più economico e meno pericoloso. Con i tabacchi si rischia di finire in mano alla Guardia di Finanza, che con i sequestri al dettaglio si porta via anche tre o quattro milioni di roba. Con il lavaggio dei vetri, se arriva un vigile, al massimo si perdono cento o duecentomila lire. Spiega Mahfud, da due mesi "proprietario" di un incrocio sulla circonvallazione esterna.
"Questo posto qui per esempio non vale granché. Ci ricavo al massimo un milione al mese. Ma c' è un mio amico che ha preso un semaforo sulla tangenziale dove si guadagnano 250 mila lire al giorno". Gliel' ha venduto per un milione e mezzo un "compaesano", che stava per tornarsene in Marocco. "Quello era uno", aggiunge Mahfud, "che la mattina a lavorare ci andava in macchina e non come me a piedi. Quando finiva, si cambiava, si metteva i vestiti puliti e faceva invidia a tutti perché non sembrava affatto un lavavetri".
I boss, ciascuno dei quali gestisce cinque o sei semafori, per usare una trita metafora sanno come spremere il sangue dalle rape. Come far fruttare quello che a prima vista sembrerebbe il più miserabile degli affari. "Se non hai i soldi per pagare il posto in anticipo", racconta un altro lavavetri, "puoi prenderlo in affitto, versando una percentuale ogni giorno". Chi garantisce che non ci siano invasioni di campo da parte di altri marocchini? Mahfud scrolla le spalle: "Bisogna mettersi d' accordo". Come? "Con la parola". Oppure con il coltello. Ma questo lo dicono al Commissariato di Porta Genova.
"Coltelli e non solo ". Beppe Cordini, responsabile dell' ufficio di sorveglianza del territorio dei Vigili Urbani, un dirigente alto e grosso che da anni sostiene una crociata contro abusivi e clandestini, aggiunge: "Pistole, fucili. Abbiamo trovato parecchi marocchini armati". Sulle rive del fiume Olona, per esempio, alla periferia di Milano, un gruppo di clandestini si nasconde dietro le siepi, tra baracche costruite con i rovi. "Provate ad avvicinarvi.
Con molta probabilità vi spareranno addosso". Cordini ha notato anche che su certi affari ci marciano tutti, "Gli italiani per primi, quando si tratta di contrabbando o compravendita di merci rubate. E poi gli slavi". Che sono dei veri strozzini: "Affittano le baracche ai marocchini, fanno pagare il pedaggio. Parchi, cascine, dove senza il loro permesso non può stare nessuno".
GUERRA TRA POVERI Una guerra tra poveri, nei ghetti dell' ex "Milano da bere", che lascia tiepidi persino gli stessi dirigenti della Questura. "Il business dei semafori? Ci sono in città organizzazioni criminali come la mafia cinese (vedi riquadro a pagina 119), in confronto alla quale i marocchini fanno ridere", dice il vicequestore Roberto Cavaciocchi, dirigente dell' Ufficio Stranieri. "Certo ci preoccupano. Abbiamo infatti una grossa indagine in corso". Ma quello che preme al vicequestore sta a monte. "Bloccare i canali d' ingresso ai clandestini che, a dispetto della Legge Martelli, continuano a riversarsi su Milano e provincia". I bambini per esempio. "Salvo i rari casi in cui è possibile concedere il ricongiungimento familiare, non dovrebbero affatto essere qui".
Invece ci sono. E in prima linea, sul fronte del semaforo. Segnati sui passaporti di "sedicenti" padri, appena messo piede a Milano hanno varie possibilità: vendere sigarette, distribuire merce porta a porta, oppure stare agli incroci. In tutti e tre i casi lavorano per lo più gratis, per ripagare chi li ha accompagnati in Italia.
Arrivano dalle zone più povere del Marocco, come la provincia di Beni Mellal, dove i genitori li cedono in cambio di due o tre milioni a "capi" marocchini che fanno la spola dall' una e dall' altra parte del Mediterraneo.
Tre di loro a novembre si sono presentati alla parrocchia di San Francesco. Li ha raccolti Fra Stefano Invernizzi: "Il più piccolo aveva 12 anni. Ce n' era uno di 15 e l' altro di 17. Erano i primi ragazzini marocchini che venivano in mensa da noi". Segnalati all' ufficio di Pronto intervento del Comune sono stati messi in una comunità. Ma protestavano. "Non possiamo star qui", dicevano agli operatori. "Dobbiamo lavorare". Avevano da restituire tre milioni a testa al "capo" che li aveva comprati dai genitori.
Anche Mustafà, il ragazzino trovato a settembre con un braccio semiparalizzato, era stato accompagnato al semaforo da un "amico" dello "zio" che lo prendeva a calci ogni volta che si lamentava di essere stanco. "Ma nel suo caso, il padre, quello vero c' era" spiega il giudice Forno, vicino di stanza di Di Pietro, Colombo, Borrelli e gli altri di Mani Pulite. "E' riuscito anche a dimostrare che il bambino era stato effettivamente portato a Milano per le cure al braccio e solo dopo impiegato al semaforo". Padre, amico e zio si sono fatti sei mesi di carcere per "violenza finalizzata a far commettere un reato", cioè accattonaggio agli incroci. Può un reato così modesto scatenare una guerra? I primi colpi li hanno sparati a Baggio.

BOX
QUANTO COSTA AI CLANDESTINI VENIRE IN ITALIA UNA TANGENTOPOLI IN GIALLO I più esosi? I cinesi. Ecco, una per una, le tariffe del racket.
Le "tangenti" più alte le pagano i cinesi: dai 15 ai 20 milioni per entrare in Italia. Con la garanzia di trovar lavoro in uno dei 180 ristoranti che ci sono per esempio nella sola Milano. Oppure in un laboratorio di pelletteria, ultimo dei business intercontinentali creati dalla "mafia" gialla. Ma per l' Ufficio Stranieri della Questura di Milano anche l' emigrazione dalle Filippine rende bene agli intromettitori: dai 5 ai 7 milioni pagabili metà alla partenza e metà a destinazione. Le organizzazioni attive a Manila avrebbero corrispondenti efficienti pure nel capoluogo lombardo. Non restano indietro nemmeno il racket dello Sri Lanka (dai 6 agli 8 milioni per clandestino), e della Turchia, 5 milioni alla partenza più 500 mila lire per chi provvede al viaggio. E il Magreb? Dati certi non ce ne sono. Ma da un' inchiesta fatta da Epoca (n. 2195), risulta che in Marocco basta un milione e mezzo per un permesso di soggiorno falso.




Testata
Epoca

Data pubbl.
17/02/93

Numero
2210

Pagina
120

Titolo
KILLER A 15 ANNI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI FRANCESCO CITO ha collaborato Alberto Selvaggi

Sezione
STORIE

Occhiello
Epoca ha visitato il Bronx di Bari EPOCA HA VISITATO IL BRONX DI BARI

Sommario
"Mi ubriaco di sabato e allora piango. Penso a quando sparo e vedo sangue dappertutto". E' piccolo e povero. Per un milione ammazza un uomo. E' uno dei mille minisicari della città con la più alta delinquenza minorile d' Italia. Abbiamo parlato con lui, ma anche con i suoi psicologi, con gli insegnanti e con i giudici. Per cercare di capire com' è possibile tutto questo. E raccontarvelo.

Didascalia
MINORENNI ALLO SBARAGLIO
Roberto Fumarola, 57 anni, assistente sociale a Bari
dal 1961. Da due mesi è in pensione, ma ha deciso di continuare a
lavorare come volontario. "Questa città", dice, "non fa
niente per i ragazzi in difficoltà". Dei 75
assistenti sociali previsti in organico dal
Comune e dal
Tribunale dei minorenni, solo venti sono in servizio. La squadra di
polizia giudiziaria non possiede neanche
un' automobile. Per catturare qualcuno gli agenti devono inseguirlo
a piedi. Il ministero di Giustizia ha
perfino deciso di eliminare gli psicologi perché costavano troppo.
Risultato: nel 1992, 26 minorenni sono stati accusati d' omicidio.
L' anno prima erano 22. Si sono moltiplicate
negli ultimi 5 anni le denunce per
spaccio di droga (da 48 a 129), detenzione d' armi (da 35 a 89) e
rapina da (72 a 106).
SCIPPI IN CHIESA
"I pellegrini restano spesso in mutande", racconta
don Salvatore Manna (nella foto), priore della basilica di San
Nicola, a Bari Vecchia. I bambini del quartiere usano infatti una
lametta per tagliare ai fedeli la tasca posteriore dei calzoni. Oggi
la basilica è presidiata dalla polizia. C' era anche una telecamera,
ma è stata presa a colpi di pistola.
INSEGNANTI TERRORIZZATI
La scuola media San Nicola, presa d' assalto
dalle bande di ragazzini che imperversano a Bari Vecchia, rischia di
chiudere. "Gli insegnanti vengono insultati, presi a sputi,
malmenati. Non resistono mai più a lungo di un anno", dice la
vicepreside Anna Tomasicchio (nella foto). Due anni fa un allievo ha
aggredito persino lei. Intanto i compagni applaudivano.
LUI LI VUOLE SALVARE
Piero Rossi, 28 anni. Lavora per una società di
Bari che sperimenta un progetto di recupero per minori "a rischio":
15 ragazzini vengono impiegati per un anno come giardinieri.
"Difficile convincerli a lasciare la malavita per 700 mila lire al
mese. Molti ci hanno detto : "A guaglio' , ma siete scemi?". Sullo
sfondo, il quartiere di Enziteto.

Testo
Certo che ce l' ha la pistola. "Una calibro 7,65", dice. "Non ci sono i proiettili adesso. Però domani posso andarli a prendere". I proiettili? A chi devi sparare? "La pistola ce l' ho vicino a casa mia. Su una terrazza. Ho fatto un buco e ce la tengo dentro, in un sacchetto nero". Quando la usi? "Quando c' è una guerra. Contro quegli infami dei Manzari. Ognuno ha la sua. Se scatta l' allarme e dobbiamo cominciare a sparare, allora l' andiamo a prendere". Tu e chi altri? "Quelli della mia banda. Io sono un boss".
Il boss è alto un metro e 40 . Ha 14 anni. Lo chiameremo Nicola.
Parla solo dialetto stretto. Porta capelli lunghi sul collo e un orecchino al lobo sinistro. Arriva accompagnato da un assistente sociale. All' inizio si vergogna. Poi vuole una birra, due. Fino a quattro. Mostra due cicatrici di proiettile calibro nove in una gamba. "Non ci credete che sono un boss? Chiedete a Carrassi, il quartiere dove me la faccio io". L' assistente sociale conferma, costernato. E' uno dei pochissimi operatori chiamati a occuparsi, possibilmente a redimere, di una gioventù tra le più bruciate d' Italia: quella di Bari.
Crocevia adriatico di traffico d' armi e spaccio di droga, Bari è stata appena promossa da un rapporto del ministero di Giustizia capitale dei baby killer, ragazzini di 13, 14, 15 anni, addestrati a uccidere. Tre sono stati presi dalla polizia il 20 gennaio, per rapina a mano armata. Uno di loro, Gianni P., 14 anni, è amico di Nicola. Frequentavano i biliardi di Carrassi. Posti pericolosi, dove Nicola ha avuto il suo battesimo di fuoco: i due colpi alla gamba. Glieli ha scaricati addosso, un anno fa, il padre di un ragazzino con cui aveva fatto a botte.
PICCOLI MAFIOSI CERCASI Carrassi, nel centro di Bari, è territorio degli Anemolo, fiancheggiatori dei Diomede, uno tra i maggiori clan della città. Sarebbero proprio gli Anemolo ad aver reclutato i minorenni, come avevano già fatto i Madonia a Gela. Anche a San Paolo, a Enziteto, al Japigia, quartieri dormitorio costruiti come lager, la criminalità organizzata non esita a utilizzare i ragazzini dell' età di Nicola. Gli ultimi processi di mafia (in queste settimane a Bari se ne celebra uno con 58 imputati), hanno infatti decimato le cosche baresi, mettendole a caccia di manovalanza fresca. I minorenni offrono inoltre un vantaggio: la legge in genere risparmia loro la galera. Risultato: nel 1992, 26 minorenni a Bari sono stati accusati d' omicidio. L' anno prima erano 22. Più che in qualsiasi altra città italiana.
Ma perché proprio Bari? "Anche per colpa di una politica sociale sbagliata", dice il giudice Franco Occhiogrosso, presidente del Tribunale dei Minori. A Bari infatti, negli ultimi anni, gli interventi preventivi a sostegno dei minori sono diminuiti fino a scomparire del tutto. Gli psicologi costavano troppo al ministero di Giustizia. Gli assistenti sociali sono 20, contro i 75 previsti in organico per Tribunale e Comune: davanti a loro, una città che conta 350 mila abitanti, con 42 mila minorenni, tra i quali almeno 1.200 in "stato di disagio".
I bambini che vivono in famiglie difficili, in quartieri dominati dalla malavita, sono abbandonati a se stessi. Finiscono facilmente in mano ai clan che offrono loro protezione, soldi, lavoro. "Molto spesso i boss forniscono anche gli avvocati, penalisti di grido specializzati nella difesa dei mafiosi", dice Occhiogrosso. La contropartita? "E' successo che al Fornelli, il carcere minorile di Bari, ragazzini terrorizzati abbiano chiesto aiuto ai giudici per paura che qualcuno li obblighi ad uccidere altri detenuti".
TOPINI IN CARRIERA "Ieri facevano scippi. Li chiamavano topini", dice Sara Carone, 44 anni, giudice delle indagini preliminari al Tribunale dei Minori dal 1985. "Oggi sparano. Dove prendono le armi? Ce lo chiediamo. Ma a Bari questo sembra non essere un problema". I topini sono diventati baby killer. Un omicidio su commissione costa intorno al milione. Con lo spaccio di droga guadagnano anche di più. "A casa di un sedicenne abbiamo trovato la contabilità della giornata: 40 milioni".
Il giudice Carone non è mai riuscita ad avere prove certe di affiliamento alle cosche. Sospetti, però, tanti. Il più concreto su Vincenzo, 17 anni, un handicap mentale e due accuse per tentato omicidio. "Una macchina per uccidere. Incosciente. Spietato, anche se menomato. E' stato addestrato a usare la pistola esercitandosi sui cani".
Il giudice ha seguito il suo caso per mesi. "Neanche la madre riusciva a fermarlo. Gli ha fatto cambiar casa, quartiere. Ma non è servito. Ha persino minacciato i boss. Ma quelli erano troppo forti per lei". Non serve nemmeno affidare Vincenzo a una comunità.
Continua a scappare. Invano Sara Carone chiede che il ragazzo venga allontanato da Bari. All' ennesima fuga gli danno 30 giorni da scontare in un istituto di pena.
LA BANDA DI GIANNI Al San Paolo, sulla tangenziale di Bari, le finestre hanno grate fino all' ottavo piano. I ragazzini si dividono il controllo del quartiere, già regno dei Diomede e dei Montani. Anna Ferrara, 34 anni, madre di due bambini, vive qui da tre anni. Fa l' assistente sociale. E' stata lei a seguire il caso di Gianni P., il quattordicenne di Carrassi, arrestato il 20 gennaio per rapina. Lui e tre complici avevano saccheggiato un negozio di alimentari. Uno di loro, Giuseppe, ha sparato al salumiere, salvo per miracolo.
Gianni adesso è a casa, impunito. Per un colpo di fortuna. La rapina è infatti avvenuta il giorno prima che compisse i 14 anni.
"Un ragazzino incosciente e sfrontato", lo descrive Anna Ferrara.
"Intelligente, non so. Di certo uno che non ha paura di nulla". Si è visto l' estate scorsa, quando due killer in moto gli hanno sparato addosso. Gianni non ha fiatato. Un avvertimento? "Da tempo il ragazzino e il fratello, Vito di 16 anni, erano stati presi sotto la protezione di un certo Franco, amante della sorella. Li portava con sé, a vendere sigarette di contrabbando. Ma probabilmente Franco, un tipo molto poco raccomandabile, li aveva coinvolti anche in altro".
Il caso di Gianni viene segnalato ad Anna Ferrara nell' aprile del 1991. "Il padre, un tipo violento, minacciava la madre. La donna era scappata portandosi via Gianni e i suoi cinque fratelli, a casa della nonna: un tugurio di due camere dove litigavano da mattina a sera".
Gianni, piccolo di statura, Rolex d' oro al polso, passa la giornata per strada, fumando Marlboro e scorrazzando su un' Aprilia rosso fuoco. L' assistente sociale lo convince a riprendere gli studi. Ma lui a scuola non vuole andare. "Si vergognava dei compagni, tutti più giovani". Riesce a prendere la licenza elementare da privatista. E' l' estate del 1991. In famiglia le liti aumentano. "Gianni si scoraggia. Odia la nonna, detesta la madre. Si lega sempre di più a Franco, l' amante della sorella, e a quelli del suo giro". Il Tribunale dei Minori lo affida a una comunità, ma un mese dopo, a settembre, è già fuori, bollato come "irrecuperabile".
Ad Anna Ferrara viene tolto l' incarico di occuparsi di lui. Gianni si perde definitivamente. A luglio 1992 viene colpito dai due killer in moto. Due mesi dopo tocca al fratello Vito. Il medico dell' ospedale commenta: "Nessuna lesione agli organi vitali. Si salverà. Purtroppo".
KILLER PER CASO Roberto Fumarola: 57 anni, per 34 assistente sociale. Due mesi fa si è messo in pensione. Un veterano. Tra i "suoi" ragazzi, anche Giuseppe, l' amico di Gianni, quello che ha sparato al salumiere.
"Solita storia: genitori separati. Il fratello maggiore reagisce lavorando, dedicandosi allo sport, Giuseppe invece soffre come un matto". Cerca di conquistare spazio e prestigio nei biliardi di Carrassi. I primi incarichi da mini-boss nel racket delle estorsioni. I primi problemi con la giustizia per detenzione di armi. "Ogni volta che gli chiedevo informazioni sul suo "lavoro", su chi lo proteggeva, non una parola. A sentire lui, tutto sembrava capitargli per caso". Per caso era nella malavita. Per caso portava la pistola. Per caso ha sparato al salumiere.
FACCIAMOLI LAVORARE L' idea è venuta a Piero Rossi, 28 anni, ricercatore di criminologia all' università di Bari: prendere in incarico un gruppo di minori proposti dal Tribunale e offrire loro lavoro per un anno. Il progetto parte lo scorso ottobre con i fondi del ministero di Giustizia. Quaranta i minori segnalati. Ma Rossi sarà costretto ad assumerne molti meno. "Quando sentivano che offrivamo 700 mila lire al mese, i ragazzi ci davano una pacca sulla spalla: "A guaglio' , ma siete scemi?"". Nel quartiere Libertà si è fatto avanti un boss di zona: ""Io i ragazzi ve li mando", ci dice, "ma deve restare tempo per fare gli scippi"".
I 15 che hanno accettato l' offerta di Rossi oggi lavorano come giardinieri. Cinque di loro sono ogni mattina ad Enziteto, quartiere fantasma della periferia di Bari, dove le case sembrano ricavate da uno scatolone del Lego, gialle, rosse, turchesi. Tra di loro c' è Alberto, 17 anni. Ha ammazzato un barbiere durante una rapina. I giudici gli hanno dato la "messa alla prova", tre anni in una casa-alloggio, invece che la galera. Ma Alberto ha lo sguardo cupo.
"In comunità nessuno si occupa di me ", dice, "meglio il carcere. Là si gioca a pallone, c' è la tivù".
FEDELI IN MUTANDE "Qui non ci sono santi", borbotta don Salvatore Manna, priore della basilica di San Nicola, "venivano a fare gli scippi anche in chiesa e i pellegrini mi rimanevano letteralmente in mutande". Fino alla scorsa estate succedeva che appena un turista metteva piede a Bari Vecchia, l' antico borgo medievale in pietra bianca controllato dai Manzari e Capriati, i "topini" della zona erano già in agguato con la lametta: colpo secco alla tasca posteriore dei pantaloni e tutto un pezzo di stoffa, compreso il portafoglio, veniva via. "Subito dopo comparivano le donne del quartiere per vendere calzoni nuovi". Don Manna ha cominciato a protestare. Vibratamente. Si è fatto fotografare con un paio di pantaloni laceri. Ha minacciato di chiudere la chiesa, fino a quando il questore non ha piazzato davanti alla basilica una camionetta della Polizia. E anche una telecamera che, però, è stata subito presa a pistolettate.
NELLA SCUOLA TRINCEA Ma i guai a Bari Vecchia non sono finiti. Se la basilica è salva, rischia di chiudere la scuola media San Nicola.
Invano Antonia Lacorte e Anna Tomasicchio, preside e vicepreside, si affannano a difenderla come una fortezza. Le bande del quartiere, ammirate dagli scolari, sfondano i muri a colpi di piccone, sputano addosso agli insegnanti. Due anni fa, un allievo ha anche aggredito l' ex preside. La signora ha chiesto subito il trasferimento, come fanno del resto tutti i professori della scuola. Un anno e via, da scontare come una penitenza. L' unica ad essere rimasta è Anna Tomasicchio, vicepreside da 10 anni. "Per me è una missione", dice.
IL FUTURO DI NICOLA L' assistente sociale gli ha trovato lavoro in una lavanderia. Nicola, il bambino del quartiere Carrassi con due fori di proiettile nella gamba, dice che ci va volentieri "perché così la polizia pensa che io sono pulito. E poi di giorno, comunque, non ho niente da fare". E' la sera che va nei biliardi.
Sabato e domenica beve. "Mi ubriaco e poi mi viene da piangere.
Non so perché. Penso alle cose belle, a quando sono con la mia ragazza. E poi a quelle brutte, a quando spariamo e ci sono gli schizzi e il sangue dappertutto". Si fa scuro in faccia: "Cosa farò da grande? Quello che faccio ora".




Testata
Epoca

Data pubbl.
13/01/93

Numero
2205

Pagina
74

Titolo
FRATELLO MIO TI SCRIVO...

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI PAOLA COLETTI

Sezione
VENTI DOMANDE DEL 1993

Occhiello
11 - Agli extracomunitari conviene ancora sbarcare nel nostro Paese?

Sommario
Razzismo, violenze, sfruttamento: per 750 mila stranieri in Italia l' anno scorso si è chiuso così. Come sarà questo? Ecco ciò che prevedono tre di loro. E che cosa consigliano ai compatrioti che vorrebbero raggiungerli.

Didascalia
MARUBI MASR EGIZIANO DISOCCUPATO
Ex doganiere al Cairo, 28 anni, è
arrivato in Italia nel 1989. Non ha casa né lavoro fisso. "Una
esperienza pessima" .
ABDEL, MAROCCHINO, INSERVIENTE
Ha 28 anni, è a
Milano dal 1990. Ha dormito sopra una panchina e in un vagone. Ma
adesso ha casa e lavoro. Eppure: "L' Italia non è un' America" ,
dice.
MUSTAFA', MAROCCHINO, GARAGISTA
Lavora 16 ore al giorno per un milione 200 mila lire al mese, e ha
portato con sé i due figli. "Sono contento. Qui la gente è brava" .

Testo
"Ma che vieni a fare a Milano? Vuoi finire nella merda anche tu? Vuoi capirlo che è una pazzia?" . Abdel Majidi Yattimi, 28 anni, marocchino, fisico smilzo dentro una tuta da ginnastica blu, è al telefono con il cugino. L' ennesima chiamata dal Marocco. "Lui insiste perché gli trovi una sistemazione in Italia e io a ripetergli che non è il momento, di starsene tranquillo a casa sua" . Ma il cugino ha la testa dura e ci sono buone probabilità che dopo Natale arrivi davvero. Ad Abdel non resta che borbottare: "Così si renderà conto anche lui..." . Si renderà conto, il cugino, che in Italia c' è crisi, che non si trova lavoro, che quei 750 mila immigrati registrati dal ministero dell' Interno, senza contare i clandestini, cominciano a diventar troppi? "Una bomba ad orologeria" li hanno definiti due mesi fa i sindaci di Milano, Roma, Bologna e Genova chiedendo una revisione della legge Martelli. "Non sappiamo più come alloggiarli" , si lamentavano gli amministratori, "non c' è lavoro per tutti" . Effetti della recessione. E in più, un' esplosione di intolleranza e razzismo che dal centro Europa sta arrivando anche da noi. "L' Italia non è come la Germania" , sostiene Abdel, ma ci manca poco. Lì i naziskin massacrano neri ed ebrei in nome della purezza razziale. Qui le bande locali urlano slogan antisemiti e pestano a sangue gli stranieri. Come è successo con un ragazzo spagnolo a Milano, colpevole solo di portare i capelli lunghi. Una violenza meno diffusa di quella tedesca ma comunque allarmante, tanto è vero che il governo ha appena approvato d' urgenza un disegno di legge particolarmente drastico contro chiunque professi xenofobia.
NON E' L' AMERICA Abdel non si considera una vittima. "A me in fondo le cose sono andate abbastanza bene" , dice. Ha una casa, un lavoro in un' azienda di pulizia che gli frutta un milione e mezzo al mese.
Eppure i bilanci di fine d' anno sono grigi come le nebbie lombarde.
"Per uno come me che ha avuto fortuna ce ne sono mille che restano per strada. Bisogna far smettere di credere a chi vive in Marocco che qua c' è l' America" . E' il vizio di tanti emigrati: "In Italia stanno da cani, però quando tornano a casa sfoggiano belle camicie, belle macchine, portano roba, senza dire magari che l' hanno presa dai sacchi dei poveri" . C' è cascato anche lui, tre anni fa.
E' venuto in Italia con l' agenda zeppa dei numeri telefonici degli amici immigrati che gli avevano detto: "Vienici a trovare. Ti cerchiamo noi lavoro e casa" . Ma quando è arrivato a Milano ha trovato soltanto una panchina. Poi il vagone di un treno abbandonato, e infine un giaciglio a Cascina Rosa, rudere abitato dai clandestini. Il calvario tipico di tanti extracomunitari. Abdel, però, non l' ha mai nascosto alla famiglia: "Ecco come vivo" , scriveva alla madre, inviando le foto dei posti dove dormiva. Oggi spedisce quelle del monolocale che gli ha dato in affitto il Comune, ma il suo giudizio sull' Italia non cambia. "E' stato duro riacquistare l' aspetto di persona civile" . Abdel nel 1990 trova il primo impiego, in una ditta di cosmetici che, però, "era in crisi e non pagava mai" . Incontra una ragazza italiana e decidono di vivere assieme. "E' con lei che sono entrato per la prima volta in un ristorante" . Ma il rapporto con i "bianchi" non è facile. Con lei finisce: "perché sono pur sempre un arabo, e non posso trasformarmi in uno svedese, lasciando la mia donna libera di fare tutto quello che vuole" . Con gli estranei, rimane comunque un muro di diversità: "Se sei un barbone, la gente si impietosisce e ti aiuta. Se cominci a metterti in giacca e cravatta, si irrita. Non ammette che un extracomunitario possa diventare come un italiano" .
16 ORE DI LAVORO Confini invalicabili che fanno dell' Italia un Paese di ghetti? Se Abdel ha il coraggio di riconoscerlo, c' è chi invece lo nega anche davanti all' evidenza, aggrappato ai quattro soldi che alla fine dell' anno riesce a portare a casa. Jamal Idrissi El Mustafà, per esempio, 38 anni, di mestiere garagista. Vive a Milano da 12 anni, chiuso in uno stanzino. Dieci metri quadri, non di più, ritagliati all' interno del garage dove presta servizio, giorno e notte. Qui fa tutto: mangia, dorme, tiene la sua roba, guarda la tv (ne ha tre). "Mi alzo alle sei del mattino e smonto alle due" , racconta. "Poi rimonto alle sei del pomeriggio e smetto nuovamente alle due di notte" . Unica perplessità è il salario: un milione e duecento mila lire al mese. "Sono pochi, no? Eh, l' Italia è così.
Ora poi c' è la crisi" . Ma si consola quando torna in Marocco: "Lì ho una casa grande, due trattori, tanti terreni e una Mercedes" , dice. Credergli? A Milano Jamal ha portato due figli e non riesce a metterli in regola. Dormono con un zio e di giorno vendono sigarette. Ma a rimandarli indietro non pensa nemmeno: "Ai bambini piace stare qui. Vogliono bei vestiti, le tasche piene di soldi..." . Così quando la moglie lo chiama al telefono, la parola d' ordine è sempre la stessa: "Noi tutti bene, tutti bene" . E di razzismo, sarà per orgoglio, ma neanche a parlarne: "A Milano, la gente è brava. Ci sono gli amici che mi invitano al bar a prendere il caffè" .
IL DANNATO Nei gironi più bassi del ghetto, il caffè se lo sognano. Al massimo, ci sono i pasti caldi offerti da preti, suore e volontari.
Marubi Masr, 28 anni, egiziano, ex impiegato di dogana del Cairo, ha il suo appuntamento fisso ogni mattina, alle 11, dalle suore di San Francesco per una doccia e una minestra. Dopo 4 anni di vita in Italia, non può che ripetere con aria sconsolata: "Brutta esperienza. Tanti problemi" . Il lavoro, soprattutto. Quattro anni fa, quando è arrivato, ce l' aveva: un contratto a termine per la pulitura del riso. "Dopo due anni sono andato in Egitto per le vacanze e poi non ho più trovato nulla. Mi hanno offerto di lavorare in nero come muratore, ma solo poche ore al giorno" . Dall' anno scorso, effetto probabilmente della crisi, non ha trovato neanche questo. "Ho provato a Bergamo, a Brescia, a Piacenza. Niente. Non ci sono posti, mi dicono. Mi alzo alle sette del mattino per rispondere alle inserzioni su Secondamano, ma stessa cosa: "Abbiamo già assunto" . Come, dico io, alle sette del mattino?" . Tra qualche giorno Marubi, oltre all' impiego, non avrà neanche un tetto. Al centro di solidarietà San Martino gli hanno comunicato che deve andarsene. Prima che inizi il 1993.

BOX
QUANTI SONO E DA DOVE VENGONO Aumentano ogni anno. Secondo le stime ufficiali nel 1990, quando è entrata in vigore la legge Martelli, gli extracomuntari presenti in Italia erano 632 mila. Nel 1991 avevano raggiunto le 718 mila unità. Quest' anno sono 750 mila.
Cifre calcolate per difetto, destinate, secondo il Censis, a raddoppiare se agli immigrati in regola si sommano anche i clandestini. Tra quelli dotati di permesso di soggiorno, la maggior parte proviene dal Marocco (95 mila), dalla Tunisia (50 mila), dalle Filippine (43 mila). Ci sono anche i profughi della ex Jugoslavia, 39 mila persone residenti in Italia, seguiti da 27 mila senegalesi e altrettanti albanesi.




Testata
Epoca

Data pubbl.
13/01/93

Numero
2205

Pagina
102

Titolo
CON IL "PILLOLO" CI PENSA LUI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
VENTI DOMANDE DEL 1993

Occhiello
18 - Arriva la pillola per uomo: sarà una rivoluzione tra i sessi?

Sommario
Sulle scimmie funziona. E da gennaio un medico di Bologna vuole provarci anche sugli uomini. Le cavie? Un esercito di volontari pronti a correre qualche rischio. Compreso quello di ritrovarsi papà.

Didascalia
A fianco: Carlo Flamigni, 59 anni, ginecologo dell' ospedale
Sant' Orsola di Bologna. Sopra: Mastroianni "mamma" in un film del
1975.

Testo
Squilla il telefono sulla scrivania del professor Carlo Flamigni, all' ospedale Sant' Orsola di Bologna. "Un altro volontario" , dice il medico sottovoce. "Mi lasci pure il suo nome" , risponde all' anonimo interlocutore, "ci risentiamo la prossima settimana" . Sono sorprendentemente tanti i maschi che chiamano il Servizio di fisiopatologia della riproduzione (di cui Flamigni è direttore) per far da cavie al "pillolo" .
Ovvero, il nuovo anticoncezionale per uomo al centro di un progetto di studio in partenza a gennaio. Tutto nasce da un annuncio apparso sui giornali alla fine di ottobre: "Cercasi venti volontari, giovani, sani, con regolare vita di coppia, disponibili a provare l' anticoncezionale per lui" , firmato Washington University di Seattle e Università di Bologna. In realtà, il "pillolo" proprio una pillola non è. Si tratta, più precisamente, di un ciclo di punture a base di ormoni che dovrebbe bloccare la produzione di spermatozoi e rendere infecondi i maschi. Tutto facile? Dipende. Il sistema ha funzionato con le scimmie prese a cavia dall' équipe del professor Bremner dell' Università di Seattle, ma non è detto che abbia lo stesso effetto sugli umani. Così (e nel documento di sperimentazione presentato dall' università di Bologna lo si specifica bene), i volontari e le loro compagne dovranno anche essere disposti, in caso di insuccesso, a diventare genitori. Il professor Flamigni invita alla cautela. "Che gli uomini comincino a mostrare più rispetto per le proprie compagne, al punto da voler pensare loro alla contraccezione, è un buon segno. Ma andiamo piano. Da qui a dire che da quest' anno metteremo in commercio la pillola "per lui" ne corre" . Il 1993 insomma potrebbe diventare per l' Italia l' anno della grande prova, ma "ci vorrà forse un decennio per soppiantare la vecchia pillola anticoncezionale per la donna con un anologo sistema maschile" . Oltretutto, prima di far partire il progetto dell' Università di Bologna, ci vuole ancora l' assenso del Comitato di bioetica, un organismo di tutela e "riflessione" voluto dalla presidenza del Consiglio. Che qualche controindicazione ci sia, lo ammette lo stesso professor Flamigni. Specialista di fecondazioni in vitro (il 30 luglio ha fatto partorire una donna di 61 anni), il medico conosce bene gli errori del passato. Uno in particolare: "La maggior parte delle sperimentazioni fatte finora hanno causato due seri effetti collaterali: l' impotenza e il calo della libido" .
E' successo, per esempio, quando è stato usato il Cyproterone acetato, una sostanza impiegata anche per la contraccezione femminile. Adottato in Germania come misura punitiva per i criminali sessuali, il Cyproterone rallenta negli uomini il movimento del seme, mortificando però anche la loro virilità. La difficoltà di queste sperimentazioni sta nel fatto che il meccanismo della fertilità maschile è più complesso da gestire di quello femminile.
Non si tratta infatti di rendere sterile un ovulo che si produce una volta al mese, ma di arrestare il flusso di quei tre milioni di spermatozoi che vengono liberati in media in ogni atto sessuale. E non solo. Mentre nella donna fertilità e produzione ormonale camminano sullo stesso binario, nell' uomo ci sono come due "linee" , due ormoni sfornati dalla ghiandola dell' ipofisi. Il primo, l' Fsh, stimola la produzione di spermatozoi, mentre il secondo, l' Lh, quella di testosterone, sostanza che influenza l' istinto e la potenza sessuale. "Per bloccare la fertilità bisogna fermare la produzione di spermatozoi" , spiega Flamigni. "Lo si può fare, appunto, somministrando testosterone artificialmente, ma questo finora non è riuscito a garantire una completa azospermia, una totale assenza, cioè, di spermatozoi" . Qual è allora una possibile via d' uscita? "Associare gli androgeni, cioè i vari tipi di testosterone utilizzati finora, con altre sostanze simili all' ormone che regola le secrezioni dell' ipofisi" . Un doppio intervento che permette da un lato di "uccidere" gli spermatozoi, ma dall' altro di salvaguardare l' efficienza sessuale dei pazienti. Il tutto con una semplice iniezione intramuscolo. "Altri sistemi usati finora si sono mostrati fallimentari. Qualcuno ha provato sui topi con le capsule sottocutanee. Altri hanno sperimentato sugli uomini un gel al testosterone da spalmare sul ventre. Con il risultato che cominciavano a crescere peli non solo sulla pancia di lui, ma anche su quella della partner" . Tuttavia, anche nel metodo messo a punto dall' équipe di Bologna le incognite rimangono: "Bisogna saper scegliere i dosaggi giusti, calcolare gli effetti collaterali. Non sappiamo ancora cosa succede somministrando il testosterone con un ritmo farmacologico e non biologico. E poi c' è anche da prevenire il rischio che, una volta sospesa l' azione contraccettiva, i nostri pazienti non restino sterili a vita" . Il "pillolo" rimane dunque un' utopia? Il professor Flamigni è convinto di no, anzi pensa di essere vicino alla soluzione del problema. Basti pensare che oggi, con gli ultimi esperimenti sugli ormoni, siamo già molto avanti rispetto ai rudimentali tentativi di inibire gli spermatozoi. "Fino a ieri" , dice Flamigni, "si lavorava su elementi "tossici" : il Gossipal, per esempio, estratto di olio di semi di cotone che tentava di "avvelenare" gli spermatozoi" . E domani? "La meta è quella di un anticoncezionale basato sulla risposta immunologica" .
In sintesi: indebolire contemporaneamente ovuli femminili e seme maschile. "In futuro potremo adoperare anticorpi in grado di neutralizzare nell' uomo le proteine di superficie degli spermatozoi, quelle che si fissano agli ovuli, e inibire la ricettività da parte femminile" . Risolte le difficoltà di carattere scientifico, resta però un altro ostacolo, le obiezioni di carattere morale. Riuscirà Flamigni, per esempio, a ottenere l' approvazione del Comitato bioetico? Per ora ha l' appoggio dell' Organizzazione mondiale della Sanità che ha già dichiarato di voler collaborare al progetto messo a punto dai ricercatori di Seattle e di Bologna. Non a caso l' Oms ha già esordito in proprio nelle ricerche in materia.
Qualche mese fa ha costituito una task force per studiare l' effetto del testosterone su 1.500 soggetti. Un esperimento riuscito solo a metà. Se il 70 per cento dei pazienti aveva ottenuto l' agognata sterilità, nel resto si era verificato solo una riduzione del numero degli spermatozoi. E qualcuno alla fine dell' esperimento si era ritrovato con prole. A dispetto del "pillolo" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
09/12/92

Numero
2200

Pagina
60

Titolo
IL CANTAUTORE E IL TERRORISTA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI PIGI CIPELLI

Sezione
STORIE

Occhiello
TUTTA LA VERITA' SULL' INCONTRO IN CARCERE TRA FRANCESCO BACCINI E RENATO CURCIO

Sommario
"Gli ho scritto perché volevo girare un video con lui. E lui...". Dopo avergli dedicato una canzone, il più arrabbiato dei cantanti è stato ricevuto dal capo storico dei brigatisti. Con risultati imprevisti. "Sono quello che hai descritto tu nella canzone, un uomo solo"

Didascalia
Francesco Baccini, 32 anni, genovese. Ha appena terminato una
tournée in un tendone da circo. Tra le canzoni più applaudite,
quelle dedicate a Curcio e Andreotti.

Testo
Prima lo stupore dei secondini, "Ma che ci fa lui qui?", quando hanno visto Francesco Baccini, il cantante che in questi giorni riempie i teatri tenda di mezza Italia, entrare nel carcere di Rebibbia. Poi, un corridoio che sembra un reparto d' ospedale. E infine lui, l' ex capo delle Br, Renato Curcio, con un maglione, un gilet di lana beige e un paio di jeans, in piedi accanto alla porta. Si sono stretti la mano il cantautore e il brigatista, complice una canzone che Baccini ha dedicato proprio all' uomo che da 18 anni vive recluso in una cella. E' successo lunedì 23 novembre. Due giorni prima che a Rebibbia arrivasse, capricci del caso, un altro visitatore insolito, l' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Anche lui per incontrare Curcio.
Un giovane cantautore e un Presidente in pensione: sono rimasti solo loro ad occuparsi dell' ex capo delle Brigate Rosse. Eppure è questo un momento importante per Curcio. A gennaio il Tribunale di sorveglianza di Roma dovrebbe decidere se concedere o no la semilibertà all' ex terrorista. Una misura che allevierebbe la sua condanna, altri dieci anni di carcere che dovrebbe scontare fino al 2002.
Cossiga dice di averlo voluto incontrare solo per un' opera di "misericordia spirituale". E poi, per "chiedergli scusa, per aver turbato l' anno scorso il silenzio della sua prigionia facendo balenare la possibilità di concedergli la grazia". Baccini, 32 anni, ha voluto conoscere il fondatore delle Brigate Rosse per "simpatia umana". Niente di politico. Ha scritto una canzone che si intitola appunto Renato Curcio, uscita insieme a un brano su Andreotti sull' album Nomi e cognomi (200 mila copie già vendute). E se tutto va bene nei prossimi giorni dovrebbe cominciare anche a girare un video con lui, dentro la cella.
E' stato il libro-confessione del brigatista Alberto Franceschini, Mara, Renato ed io a fargli venire in mente l' idea della canzone per il fondatore delle Br. "Un uomo con una grandissima dignità, che non si è mai pentito, che non ha mai rinnegato il passato". E che per questo, nonostante non sia mai stato coinvolto in reati di sangue, è rimasto in carcere. Non valgono infatti per lui gli sconti di pena previsti per i dissociati, come quelli toccati all' ex compagno di lotta, Franceschini, che a luglio scorso è riuscito a tornare in libertà.
SEMBRAVA PIU' ROBUSTO Il Curcio che incontra Baccini è un uomo magro, invecchiato. Pieno d' energia, però. "In foto", dice il cantautore, "sembrerebbe più robusto. Ha i capelli corti, la barba curata. Parla in maniera forbita". I due si mettono a sedere a un tavolo, con loro il regista che si occuperà del video, Ambrogio Lo Giudice. Un attimo di imbarazzo. "Poi Renato comincia a parlare e restiamo assieme dalle dieci e mezzo del mattino alle due". Curcio dice: "Sono quello che hai descritto tu nella canzone, un uomo solo".
E' stato un amico a fargli ascoltare il brano che parla di lui. Ma Curcio non aveva idea di chi fosse questo Baccini, idolo dei teen-agers. L' ha capito quando a settembre gli è arrivata una lettera del cantautore e una della casa di produzione in cui si accennava al video. "Mi ha risposto", dice Baccini, "scrivendomi parole molto poetiche, spiegandomi anche qual era la prassi per arrivare a Rebibbia". Insomma, alla Curcio.
Poi, nel parlatorio del carcere gli racconta le sue giornate da recluso. "Allena una delle squadre di calcio", dice Baccini, "prepara i detenuti al campionato interno. E' un' umanità a cui lui non era abituato quella che lo circonda da anni e anni. C' è un ragazzo che ha ucciso la fidanzata e adesso vive ossessionato dai sensi di colpa. Mentre gioca soffre spesso di allucinazioni. E' Curcio che lo riporta alla realtà. Ha anche aiutato un travestito brasiliano a scrivere un libro autobiografico".
Sembra ottimista l' ex capo Br per la sentenza del Tribunale di Roma. La semilibertà gli permetterebbe di star fuori dalle 7 e mezzo del mattino fino alle 10 di sera e di lavorare presso la casa editrice "Sensibile alle foglie", una cooperativa che gli ha già pubblicato due libri.
"Non ha mai voluto accettare l' aiuto dei partiti per uscire di galera", ricorda Baccini, "ed è contrario agli atti di pietà". Anche l' anno scorso, quando Cossiga parlò della possibilità di concedergli la grazia, Curcio non approvò che quel gesto dovesse apparire solo "umanitario" e non politico. Lui voleva "un atto di equità". La richiesta di Cossiga, che aveva fatto scattare un conflitto di competenze tra il ministro della Giustizia Martelli e il presidente del Consiglio Andreotti, cadde comunque nel vuoto.
Così come alcuni mesi prima successe alla domanda inoltrata dallo stesso Curcio alla Corte d' Assise di Cagliari affiché venisse riconosciuto un "vincolo di continuazione" tra tutti i reati da lui commessi negli anni Settanta. La sua condanna si è infatti allungata proprio perché i singoli reati attribuitigli sono sempre stati considerati episodi isolati.
L' IRA PER BUSCETTA Passato e presente si intrecciano, si confondono. A Baccini, che degli anni caldi ricorda solo i posti di blocco per strada e la tensione che c' era nella sua città, Genova, Curcio racconta la storia delle "sue" Br: le azioni dimostrative nelle fabbriche, l' appoggio degli operai, le rapine. Ricorda la paura e il pentimento di molti compagni di lotta che non erano riusciti a reggere il peso della clandestinità. "Non condanna nessuno, né i pentiti di ieri né quelli di oggi", dice il cantautore. "Non sopporta però che il passato gli rimanga addosso con tanta violenza, che tutti lo si ricordi ancora per queste Br morte e sepolte". La sua foto pubblicata accanto a quella di Buscetta, dopo le dichiarazioni del boss sul tentativo di Cosa Nostra di appoggiarsi alle Br per un attentanto a Dalla Chiesa, l' ha mandato su tutte le furie: "Buscetta non l' ha mai incontrato.
Con i mafiosi in prigione c' è solo un patto di non belligeranza".
Sfugge a Curcio dopo 18 anni di galera il senso di quello che succede oggi in Italia. Ha confidato al cantautore: "La crisi dei partiti, i pensieri della gente. Da qua dentro la politica mi appare vaga e lontana". Ma il suo nome non è finito in soffitta. A Napoli, il 26 novembre, Baccini ha fatto un concerto e ha chiesto al pubblico di scrivere su una scheda chi avrebbero voluto come presidente del Consiglio. Renato Curcio é arrivato al quarto posto in classifica. Una platea di brigatisti? No: il capo dei capi del terrorismo, Mario Moretti, ha preso un voto solo. Come la Sora Lella.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/11/92

Numero
2197

Pagina
30

Titolo
DROGA PERCHE' AMATO HA DECISO DI CAMBIARE LA LEGGE

Autore
DI RAFFAELA CARRETTA E MARIA GRAZIA CUTULI U M

Sezione
STORIE

Occhiello
BASTA CARCERE PER I TOSSICODIPENDENTI: MA LA PROPOSTA DEL CAPO DEL GOVERNO SPACCA IL PAESE

Sommario
Entro dicembre, niente più arresti per pochi grammi di stupefacenti e generale rimessa in libertà di migliaia di tossicodipendenti: dopo appena due anni dall' entrata in vigore della severa "162" , il presidente del Consiglio propone di addolcirla. Ma cosa dice esattamente la legge Jervolino- Vassalli? E perché non ha funzionato?

Didascalia
Oggi un detenuto su tre è tossicodipendente
Erano il 32 per cento della popolazione carceraria
italiana a marzo 1992. E aumentano: più di 13 mila drogati, su un
totale di 40 mila detenuti. Una situazione di affollamento
insostenibile, aggravata dall' incubo Aids.
Rosa Russo Jervolino
Giuliano Vassalli
Vincenzo Muccioli
Giuliano Amato con Marco Pannella, suo alleato
sulla questione droga.

Testo
Li hanno subito definiti "la strana coppia" . Ma la bomba che il presidente del Consiglio Giuliano Amato e Marco Pannella hanno fatto deflagrare insieme, non ha nulla di comico. Tema del blitz a due: la necessità di modificare la legge sulla droga in quella parte, non accessoria, che prevede la carcerazione per il tossicodipendente. Amato, con accenti in tutto simili alle parole d' ordine del movimento antiproibizionista, dice: "La cella di un penitenziario non è il luogo adatto per strappare alla droga un giovane che va considerato come un malato, non come un criminale" .
A due anni dall' approvazione della legge 162 (la "Jervolino-Vassalli" ), punto d' arrivo di 19 mesi di battaglie parlamentari, è proprio il socialista Amato ad abbattere quell' argine fortemente voluto dal segretario socialista Craxi in materia di stupefacenti. E cioè l' annullamento, ai fini della punibilità, della distinzione tra consumo e spaccio. Dunque d' ora in poi drogarsi non sarà più un reato? Amato: "L' illiceità del consumo resta. A cambiare invece sarà il trattamento penale.
L' atteggiamento dello Stato deve essere il seguente: se ti droghi, io ti denuncio e ti punisco. Se ci ricaschi ti obbligo a curarti. Ma la prigione no" . Una bomba. Perché tocca proprio il punto di controversia più accesa, quello che definiva meglio, ai tempi dell' approvazione, la novità del punto di vista con cui lo Stato guardava al problema e contro cui gli antiproibizionisti del Cora avevano promosso un referendum abrogativo sulla legge, ora al vaglio della Cassazione. Che fine farà il referendum? Marco Taradash, deputato antiproibizionista: "Il referendum non è mai stato in discussione. Si farà" .
PRO E CONTRO AMATO Nell' attesa, valanghe di commenti sulla proposta Amato: il ministro della Giustizia Martelli si compiace. Favorevole, a sorpresa, si dichiara l' onorevole Francesco Enrico Speroni della Lega Nord. Il ministro degli Interni democristiano Nicola Mancino ammonisce: "C' è il rischio che dalla repressione si passi alla liberalizzazione" . Anche Craxi, padre della discussa legge, reagisce freddamente: indica la necessità di un bilancio prima di prendere nuove decisioni. E infine, l' interessata più coinvolta, sebbene passata ad altro incarico (Pubblica istruzione), Rosa Russo Jervolino, neo presidente Dc: "Non ne sapevo assolutamente nulla... Sono disposta a tutto purché non si arrivi alla liberalizzazione degli stupefacenti" .
LIBERI TUTTI Alla liberalizzazione temuta è da vedere che si arrivi. C' è invece una conseguenza immediata nel caso in cui la modifica Amato-Pannella vada in porto: la scarcerazione dei tossicodipendenti detenuti.
Quanti sono? A marzo, 12.684, cioè il 32 per cento del totale carcerati. Attenzione: nel dicembre del 1990, poco dopo l' arrivo della "162" , la popolazione delle carceri si fermava a quasi 25 mila persone. Di queste solo 7 mila erano i tossicodipendenti. E la progressione cresce, dando ragione agli apocalittici che ai tempi dell' approvazione pronosticavano intasamento delle carceri, delle prefetture e delle preture, tutte a vario titolo interessate nell' opera di sanzionamento amministrativo e penale del tossicodipendente. Tra i pessimisti, lo stesso Nicolò Amato direttore degli Istituti di pena. A giugno ha detto alla Commissione giustizia della Camera che in alcune carceri di grandi città il numero dei tossicodipendenti raggiunge il 70 per cento del totale.
Ma quanti dei detenuti sono imputati solo per consumo personale di stupefacenti e quindi potenzialmente scarcerabili in base alla modifica proposta? Quanti invece per spaccio o per reati connessi alla droga (scippi, furti eccetera)? E' proprio questa stima a dividere detrattori ed estimatori della "162" . Perché se si dimostrasse che i semplici consumatori sono pochi, cadrebbe uno degli argomenti forti a favore della revisione della legge. "I tossicodipendenti "puri" sono una minoranza" , dice per esempio il prefetto Pietro Sotgiu, direttore del Servizio centrale antidroga.
Obbietta il sociologo Luigi Manconi: "Nel secondo semestre del 1991 sul totale degli ingressi in carcere, i tossicomani solo consumatori erano il 37,6 per cento, cioè 15 mila persone" . Nel pendolo delle posizioni, due dati certi: il primo riguarda la diminuzione della microcriminalità legata agli scippi, il secondo la situazione esplosiva delle carceri italiane. Più di 40 mila reclusi contro i 28 mila posti disponibili.
COSA C' ERA PRIMA DELLA "162" Il caos di oggi è figlio dei guasti provocati dalla vecchia legge, la 685, in vigore dal 1975. All' epoca la droga non era ancora una piaga sociale. E la cultura prevalente era più sbilanciata a tutelare l' autodeterminazione del singolo. Così, la distinzione tra consumatore (non punibile) e spacciatore (punibile) era fatta in base al concetto nebuloso di "modica quantità" . Se una persona veniva fermata con un quantitativo di stupefacenti giudicato entro i limiti della modica quantità, non succedeva nulla. Il problema era determinare quei limiti. E le sentenze dei vari tribunali, nei vari gradi di giudizio, differivano fortemente l' una dall' altra. Col risultato che in ogni processo gli spacciatori cercavano di farsi passare come consumatori per ottenere la non punibilità. Insomma la modica quantità, sostenevano allora i critici, era il "cavallo di Troia" con cui chi smercia droga riesce ogni volta ad aggirare il carcere.
1990: DROGARSI E' REATO Quattro anni fa, sull' onda della guerra al narcotraffico lanciata dall' amministrazione americana, anche in Italia, promotore e ideologo Bettino Craxi, comincia il dibattito infuocato sulla necessità di colpire non solo il fronte dell' offerta, ma anche quello della domanda, cioè dei consumatori.
Si arriva, nel 1990, alla "Jervolino-Vassalli" . Due le novità di fondo: la prima è che anche il consumo è illecito, sia quello di droghe leggere come hashish e marijuana, sia quello di eroina e cocaina. La seconda, gravida di conseguenze, è che al vecchio concetto di "modica quantità" si sostituisce quello, altrettanto incerto, di "dose media giornaliera" , fissata da tabelle del ministero della Sanità. Un confine solo in apparenza netto, al di sotto del quale valgono le sanzioni per il consumatore. Al di sopra, scatta la presunzione di spaccio e si finisce in galera. Ma, importante, il carcere si apre anche per il semplice consumatore. Se non si presenta al colloquio con il prefetto. Oppure quando non intraprende o interrompe il programma terapeutico scelto come alternativa alle sanzioni amministrative. O quando viene per la terza volta fermato con un quantità di droga, anche se questa non supera la "dose media giornaliera" .
PERCHE' NON HA FUNZIONATO Secondo il fronte dei detrattori, la "162" è stata un disastro. "Un pasticcio all' italiana" , la bolla Massimo Campedelli del Gruppo Abele di Torino. "E lo si sapeva dall' inizio, perché era sbagliata tutta. Sbagliata la non distinzione tra droghe leggere e quelle pesanti: così il 40 per cento delle segnalazioni in prefettura riguarda chi fuma spinelli. Sbagliata perché ha interrotto il trend positivo di affluenze ai servizi: solo un quarto di quanti passano in prefettura entrano poi in contatto con le comunità" . Anche per Carla Rossi, dell' Osservatorio delle leggi sulla droga, il bilancio è fallimentare: secondo le sue cifre, il numero dei morti per overdose nel primo anno della "162" è aumentato del 30 per cento. E Giuliano Pisapia, avvocato, mette l' accento sull' enorme spreco di denaro con un esempio: "L' anno scorso parte a Rimini un processo contro tre ragazzi sorpresi con 1,6 grammi di hashish addosso: non a testa, ma in tre. Sono stati impiegati 8 poliziotti, 15 magistrati, due periti. Totale di spesa: 60 milioni. Condanna: quattro mesi a testa, con la condizionale" . Si ritorna ancora al carcere, il luogo, dice Pisapia, dove "il tossico incontra spacciatori e criminali a cui resta agganciato anche quando finisce di scontare la pena, in un giro vizioso ininterrotto" . E in carcere aumenta anche il rischio di contrarre l' Aids, e di morirne. L' Italia è il Paese con il più alto numero di tossicodipendenti fra i malati di Aids: il 68 per cento contro il 31 della Francia.
SE PASSA LA PROPOSTA AMATO Drogati in libertà. E poi? Gli oppositori della proposta Amato già agitano uno spettro minaccioso: ripetere gli errori della legge 180 sull' apertura dei manicomi. Fuori i malati di mente. Ma fuori ad attenderli, il deserto. "Il rischio c' è" , ammette coraggiosamente Taradash. "Eppure le strutture necessarie per curare la gente esistono" . A parte le comunità di volontari, si tratta dei cosidetti Sert (i servizi di tossicodipendenza), che operano all' interno delle Usl. Ma quanti funzionano veramente? Secondo don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, "sono ben pochi e quasi nessuno 24 ore su 24. Addirittura alcuni sono aperti solo per alcune ore la settimana" .

BOX
PERCHE' SI DISCUTE COSA DICE DAVVERO LA LEGGE 162 Dal ritiro dei documenti al processo, dal sequestro dell' auto all' arresto, ecco le norme contestate della "Jervolino-Vassalli" .
Ha fatto discutere aspramente quando è stata approvata. Fa discutere oggi, che sta per essere cambiata. Ma che cosa prevede esattamente la legge "162" ? Entrata in vigore nel luglio del 1990 su proposta di Rosa Russo Jervolino, allora ministro per gli Affari sociali, e di Giuliano Vassalli, ministro di Grazia e Giustizia, conta 35 articoli. Novità più clamorosa rispetto alle norme precedenti? L' uso personale di droga, pesante o leggera, diventa reato. E il tossicodipendente, di conseguenza, può finire in carcere. Ma vediamo nel dettaglio il contenuto di quella parte della legge che adesso Giuliano Amato vorrebbe riscrivere (c' è un' altra parte, quella relativa al supporto del tossicodipendente, che resterà inalterata: finora, comunque, è rimasta sulla carta).
Dose media giornaliera.
E' la discriminante tra chi fa uso personale e chi invece verrà accusato di spaccio (e quindi rischierà pene più gravi). Secondo le tabelle elaborate dal ministero della Sanità, si è spacciatori se si portano addosso più di 100 milligrammi di eroina tagliata al 10 per cento. O più di 150 milligrammi di cocaina. Oppure, per le cosiddette "droghe leggere" , più di 2 grammi e mezzo di marijuana, o di 50 milligrammi di hashish (ma in questo caso si considera solo il Thc, il principio attivo contenuto dall' impasto).
Uso personale di stupefacenti. Chi, per farne uso personale, detiene droga in quantità non superiore alla dose media giornaliera, finisce davanti al prefetto e rischia la sospensione della patente, del passaporto e del porto d' armi da 3 a 8 mesi. Questo procedimento vale per le prime due violazioni. Con il prefetto, il tossicodipendente può anche concordare una cura di disintossicazione. Viene così sospeso ogni altro procedimento e si archiviano gli atti.
Sanzioni penali.
Alla terza volta che si viene sorpresi con la droga, o alla seconda volta che si interrompe il programma di recupero, si rischiano le seguenti sanzioni penali: divieto di allontanarsi dal Comune di residenza; obbligo di presentarsi due volte alla settimana a polizia e carabinieri; obbligo di rientrare a casa la sera a una certa ora; divieto di frequentare locali pubblici; sospensione della patente; obbligo di prestare attività gratis presso un ente di assistenza o protezione civile; sequestro dell' auto; affidamento al servizio sociale. Le sanzioni penali durano da 3 a 8 mesi per le droghe pesanti. Da 2 a 4 per quelle leggere. Non vengono iscritte nel casellario giudiziario ma in un particolare "registro" .
Arresto.
Chi viola le precedenti prescrizioni rischia l' arresto fino a tre mesi o l' ammenda fino a cinque milioni.
Ammonizione. Se qualcuno viene trovato in possesso di droghe leggere e il prefetto ritiene che in futuro la cosa non si ripeterà, può, per una sola volta, chiudere il procedimento limitandosi a un' ammonizione.
Traffico e spaccio. A quanto ammontano le sanzioni penali per spacciatori e trafficanti? Da otto a 20 anni per le droghe pesanti più una multa da 50 a 500 milioni. Da due a sei anni per le droghe leggere con una multa da 10 a 50 milioni. La pena è aumentata per chi spaccia droga "tagliata" .
A FAVORE DELLA "162" MUCCIOLI: "ORA, IL DISASTRO" Quello che spaventa il fondatore di San Patrignano. E non solo lui.
"Cambieremo la 162" : appena Giuliano Amato ha fatto sapere di avere questa intenzione si sono levati gli scudi di chi, invece, la considera una buona legge, anche nelle parti in cui punisce chi fa uso di droga. Molti i politici che la difendono, in testa il ministro Nicola Mancino. Ma il più acceso sostenitore della linea dura resta Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano. Muccioli non ha dubbi: "Scarcerare i tossicodipendenti? Un' iniziativa allucinante" , dice. "Se anche li si fa uscire di prigione, che fine faranno? Si troveranno sulla strada, perchè lo Stato non ha mai garantito le strutture e il sostegno di cui avrebbe dovuto farsi carico" . Il quadro futuro che intravede Muccioli è dunque foschissimo. "Se la 162 dovesse essere cambiata, il tossicodipendente, abbandonato a se stesso, rischierà addirittura di uccidere pur di procurarsi la dose. Non sarebbe ben peggio?" . Anche l' opinionista Saverio Vertone sul Corriere della Sera dà man forte a queste argomentazioni. Ma aggiunge un' analisi più ampia: "Dietro la depenalizzazione della droga si annuncia inevitabilmente la sua legalizzazione" , scrive. E prosegue: "Chi punta alla legalizzazione del consumo pensa di battere la mafia togliendole il monopolio della produzione e dello smercio. E' però una speranza illusoria" . Perché? "Togliete l' eroina alla mafia e si getterà sul crack. Toglietele il crack e troverà altro, in caduta libera verso veleni sempre più efficienti..." .
CONTRO LA "162" DIETRO LA SVOLTA DI AMATO Il presidente del Consiglio ha un obiettivo. Anzi, più d' uno.
"No, non è stata una mossa tattica" , assicura Fabio Fabbri, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, "Giuliano Amato è convinto da tempo che il carcere sia una cura sbagliata per i tossicodipendenti" . Gli esperti del governo sono già al lavoro per chiarire, entro un paio di settimane, quali sanzioni verranno inflitte a chi fa uso di droga. "Bucarsi" , infatti, resterà un illecito, anche se la "punizione" non consisterà più nel carcere.
Gli esperti coglieranno la palla al balzo per introdurre altri eventuali ritocchi alla legge 162, due anni dopo il suo varo.
Probabilmente verrà modificata la "dose media giornaliera" , per distinguere meglio tra consumatori occasionali e tossicodipendenti, e forse verrà sottolineata la distinzione tra droghe "leggere" e "pesanti" . Sul piano politico, intanto, Amato registra tre importanti risultati: 1) ha avvicinato Marco Pannella (e la sua pattuglia di deputati) alle file della maggioranza, che in Parlamento è tale solo per pochi voti; 2) ha praticamente "svuotato" di sostanza il referendum sulla droga indetto per la primavera prossima. Forse si terrà, ma su aspetti che il governo considera, a questo punto, marginali; 3) per usare le parole del senatore Fabbri, "Amato ha inaugurato un metodo di dialogo con i promotori dei referendum che potrà permettere altre intese: dalle nomine bancarie al superamento dell' intervento straordinario nel Mezzogiorno, ai poteri delle Usl in tema ambientale" .
U.M.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/11/92

Numero
2197

Pagina
62

Titolo
IO, IL NERO CHE STA CON BOSSI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI NIKOS MOISE

Sezione
STORIE

Occhiello
UN LEGHISTA PARTICOLARE

Sommario
"I CLANDESTINI? TUTTI CRIMINALI" Ha chiesto di iscriversi alla Lega ed è scoppiato il caso. Che ci fa un nigeriano nel partito che vuol cacciar via gli extracomunitari? Siamo andati a Treviso a chiederglielo. E lui, dall' infanzia africana ai tre figli quasi italiani, ci ha raccontato la sua storia. Spiegando così la sua scelta controcorrente: "Io i negri non li frequento mai".

Didascalia
AFRICANO CONTROCORRENTE
Antonio, nigeriano di Lagos, in Italia da 14 anni. Fa l' operaio nel
Veneto e ha chiesto di iscriversi alla Lega.

Testo
Antonio, va ben, ma non xe da leghista tirarse 'ndrio cussì", protesta Fabio Padovan, deputato della Lega Veneta, fedelissimo di Bossi, uno dei tre parlamentari eletti a Conegliano, 20 chilometri da Treviso. E se lo dice lui, che non è da leghista aver tanta fifa, Antonio può crederci. Il problema è che Antonio Z. è leghista da pochi giorni. Non solo, ma è il primo leghista extracomunitario d' Italia. Trentotto anni, nigeriano, operaio in una fabbrica della Marca trevigiana, ha aderito alla Lega veneta (anche se non è ancora ufficialmente iscritto) il 30 ottobre, quando è apparso a fianco del biondo Padovan al congresso, nell' Hotel San Carlo di Ponte della Priula. Con tutto l' entusiasmo del suo carattere d' africano.
Quello che Antonio non prevedeva erano però i disagi della notorietà. Primo tra tutti i rimproveri del datore di lavoro: "Antonio tu mi ammazzi", gli ha detto il suo capo, democristiano, quando ha letto sui giornali che l' unico operaio di colore della sua azienda se ne va in giro ad appoggiare la Lega, raccontando per giunta delle tante ore di straordinario che fa in fabbrica. Un rimprovero e anche una minaccia, e Antonio comincia ad aver un po' di paura, tanto che prega i cronisti di non divulgare il suo cognome.
Ma l' onorevole Padovan lo rassicura: "Tranquillo. Ghe lo dixemo noialtri al to paròn de star bon". Il deputato non ha certo intenzione di mollare il suo beniamino. Un extracomunitario nelle file nordiste è un bel colpo per la sezione di Conegliano. Ottimo sistema per rifarsi il trucco. Dopo l' incidente di Trento, il manifesto "anti-terroni" affisso il 27 ottobre da un gruppo di estremisti, la Lega vuole mostrare infatti di avere anche un volto umano. E cosa c' è di meglio del volto nero di Antonio, Anthony all' anagrafe nigeriana? A Conegliano, 45 mila abitanti, paese di piccole fabbriche e grande immigrazione, dove la Lega alle ultime elezioni per un soffio non ha tolto lo scettro alla Dc, l' intolleranza della gente verso gli stranieri cresce di giorno in giorno. Eppure Padovan è convinto che una politica a favore degli immigrati in regola, contro i clandestini, è un buon sistema per ottenere consensi: "Dobbiamo fare in modo che gli extracomunitari imparino un lavoro, per poter poi tornare in patria a creare loro stessi delle piccole imprese".
Una politica che piace anche ad Antonio. Nella Lega è arrivato attraverso un amico, il ragioniere Mario Peruk, che lo ha presentato a Padovan e lo ha convinto a partecipare all' incontro dell' Hotel San Carlo. Senza faticare troppo. Anzi. Non fosse per Padovan, che prende tempo, Antonio vorrebbe già la tessera della Lega Veneta. "Dobbiamo però esser sicuri", dice l' onorevole, "che sia diventato leghista nell' animo".
Un nigeriano? L' adesione spirituale sembra ci sia già: "La Lega è l' unico partito che fa qualcosa per quelli del nostro colore", esordisce. Poi si corregge: "Sì, era il nostro nemico numero uno. Ma c' è stato un uomo, Padovan, che si è alzato per darci una mano". E Bossi? "Non lo conosco, ma sono sicuro che aiuterà gli extracomunitari". Solo quelli in regola, naturalmente. "Gli altri vanno cacciati subito. Sono tutti prostitute, ladri, delinquenti.
Normale: senza permesso di soggiorno, che fai? Diventi criminale.
Io ho tre bambini e ho paura per loro".
Tre bambini. I primi due, Kemi e Dabo, 8 e 9 anni, vanno a scuola e parlano solo italiano. Il più piccolo, Roberto, ha un anno: "E' il più fortunato", dice Antonio, "perché non gli è mancato mai niente".
E'' nato in Veneto, a Colfosco, frazione di Susegana, dove il padre ha finalmente una vita e un lavoro regolare.
Dieci minuti da Conegliano, Susegana è il paese del Trevigiano a più alta percentuale di immigrati: 200 extracomunitari su 8 mila abitanti. Lavorano quasi tutti nelle industrie metalmeccaniche, nei laboratori artigiani, nei cantieri. Spesso danno loro una casa gli stessi datori di lavoro, come nel caso di Antonio. Anche il sindaco, il democristiano Gianni De Stefani, ne ha ospitati una trentina nell' ex Casa del popolo. Con qualche difficoltà, però. Deve stare attento ai segnali d' insofferenza della gente, ossessionata dalla preoccupazione che sui bilanci comunali pesi la voce "extracomunitari".
Intolleranza? Quel che è più strano, comincia a dilagare anche tra gli extracomunitari stessi. Antonio: "Io i negri non li frequento.
Ciao, ciao e basta. Se qualcuno viene a casa gli dico come deve fare per trovare lavoro. Ma niente amicizia". Lui, operaio in regola, contro chi vive d' espedienti: "L' altra settimana è venuto uno, con tutta la roba da vendere dietro. Mi ha detto che non vuole stare sotto un padrone, che gli piace così. L' ho cacciato, con i suoi stracci".
Il suo presente? Tre figli, una moglie "che sta in casa perché deve badare ai bambini, educarli, e fare i servizi". E poi i turni di lavoro in azienda, dove guadagna due milioni, due milioni e mezzo al mese. Ogni sabato, Antonio porta la famiglia a passeggio e poi in pizzeria. "La macchina? Certo che ce l' ho". E adesso ha anche l' impegno con la Lega. E'' appena arrivato in sede, che l' hanno già messo a contare le magliette negli scatoloni, quelle bianche con lo stemma di Alberto da Giussano. Antonio viene da Lagos, sul golfo di Guinea. "Mio padre era avvocato. Sono nero ma di buona famiglia.
Sono partito per l' Italia 14 anni fa, per studiare all' università e diventare un buon elemento". Non è stato facile. Dopo un inizio a Architettura, è venuto l' abbandono degli studi, il lavoro da bracciante in Puglia e, finalmente, il Veneto, 3 anni fa.
Pentimenti? Nessuno: "L' Italia è un piccolo paradiso. In quel maledetto Paese, la Nigeria, la situazione è insopportabile, inflazione, lavoro che non c' è. Torno solo se la Lega mi aiuta e se possiamo costruire un futuro più bello".
Il ritorno, appunto. E' proprio ciò che vuole la Lega, quando propone di creare cooperative (vedi riquadro) che diano i mezzi agli extracomunitari per investire nei Paesi d' origine. In fondo non era anche il senso del manifesto di Trento che invitava i meridionali a tornare a casa? Bossi ha preso male quell' affissione, ma l' ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, si è indignato molto meno: era "solo" un invito per chi viene dal Sud a farsi crociato nella propria terra.
Antonio va oltre. "Possiamo portare il federalismo in Nigeria.
Appena avrò la cittadinanza italiana prenderò la tessera della Lega e aiuterò il mio popolo. Se non ce la farò io, ci penseranno i miei figli". L' onorevole Padovan è beato: "Quei tre bimbi saranno i primi leghisti d' Africa".




Testata
Epoca

Data pubbl.
04/11/92

Numero
2195

Pagina
124

Titolo
MAROCCO - ITALIA SULLE ORME DEGLI IMMIGRANTI CLANDESTINI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Occhiello
La capitale dei "vù cumprà" LA CAPITALE DEI "VU' CUMPRA'"

Sommario
Alla stazione di Milano tutti i lunedì arriva un autobus speciale. Viene da Beni Mellal, città dell' Atlante. E' pieno di marocchini. Vecchi, adulti, ragazzi, spesso con documenti falsi. Perché lasciano casa loro? E cosa sperano di trovare da noi? Siamo andati a chiederglielo. Alla partenza della corriera.

Didascalia
L' ARRICCHITO
Abdil Razak Ftah (secondo da destra), 25 anni, che con
i soldi guadagnati in Italia ha aperto uno studio fotografico vicino
a Beni Mellal. "Ero grossista di sigarette e in 9 mesi da
clandestino a Milano ho fatto abbastanza denaro da poter avviare
questa attività" .
MAROCCO (MI)
A Beni Mellal, a giudicare dalle
targhe, sembra di essere in Lombardia. Gli emigranti ritornano
infatti quasi sempre con automobili acquistate in Italia. Poi le
rivendono, guadagnando abbastanza per ripagarsi le spese del
viaggio. Le trattative con i compratori si svolgono quasi sempre nei
bar, oppure durante i mercati settimanali all' aperto. Una vecchia
Mercedes, presa in Italia a 5 milioni, può essere rivenduta anche a
sei milioni di lire. In Marocco passano di mano in questo modo
almeno 40 mila automobili straniere ogni anno.
GRAZIE ITALIA
Salah Tugani, 50 anni, ne ha passati 18 a Novara come ambulante.
Poi, all' inizio del 1990, è tornato in Marocco, e ha aperto il bar
Elasafir, sulla strada principale di Fkih Ben Salah. "I miei figli
sono ancora in Italia" .
IL VETERANO
La famiglia di Mohamed
Nosfi, veterano dei venditori ambulanti marocchini in Italia. "Sto a
Milano dal 1971. E in Marocco mi sento ormai quasi un turista" .
Grazie al suo lavoro da emigrante, Nosfi, 55 anni, mantiene la
moglie e gli otto figli. "Tre di loro mi hanno anche seguito nel
vostro Paese. Il più giovane, Azidin, 15 anni, ha passato l' inverno
scorso con me impiegandosi come carpentiere. Era in regola, certo.
Segnato sul mio passaporto. Prima di tornare, per premio, gli ho
comprato una mountain bike. Mi è costata ben 446 mila lire" .
FAMIGLIA DIVISA
Affacciato alla finestra di casa sua, Hassan Drissi,
37 anni, ambulante a Cremona. Una volta ha tentato di trasferire
tutta la sua famiglia in Italia. "Ma costava troppo mantenere tutti
e ho dovuto rinunciare" .
LA PARTENZA
Fkih Ben Salah, un gruppo di emigranti aspetta l' autobus che li
porterà in Italia. Ci sono almeno sei compagnie di trasporto che
organizzano linee dirette tra la provincia di Beni Mellal e Milano.
Il biglietto, se si ha un visto e un permesso di soggiorno regolari,
costa 250 mila lire. In caso contrario, il costo del viaggio
(compresa la falsificazione del passaporto) arriva a superare il
milione e mezzo di lire.

Testo
"Andate, andate a Beni Mellal..." .
All' ufficio stranieri di Milano, il vicequestore Roberto Cavaciocchi getta sul tavolo l' ultimo rapporto della sua squadra investigativa, specializzata in extracomunitari. Si discute di marocchini. In città ce ne sono almeno 11 mila legali, e chissà quanti irregolari. "Arrivano quasi tutti da là, da Beni Mellal.
Quest' anno ne sono venuti almeno seimila" . Clandestini? Il dirigente fa una smorfia: "Andate, andate a vedere voi cosa succede laggiù" . "Laggiù" è una città a 200 chilometri da Casablanca, 100 mila abitanti, sulle falde del Medio Atlante. Ci siamo andati. Il primo impatto è una Mercedes 200 bianca targata Milano, che imbocca l' arco sotto le mura attorno alla vecchia medina. La guida un uomo con il fez e la jalabjia. Non è il solo marocchino al volante di una macchina italiana. Sfilano, sul boulevard Mohammed V, una Golf nera targata Brescia, una Fiat Uno con la sigla di Milano. E poi Bergamo, Como, Varese. Roba che a Bossi farebbe venire un colpo. A maggior ragione, poi, se sedendosi al tavolino di un bar sentisse parlare con perfetto accento bergamasco Farid, 35 anni, che adesso è in vacanza, ma durante l' inverno fa lo scavatore in un' azienda edile italiana. E ancor più si arrabbierebbe, Bossi, se scoprisse che esistono almeno sei compagnie di pullman che due volte alla settimana portano gli immigrati direttamente da Beni Mellal a Milano. Regolari e clandestini. Adulti e bambini. Operai, lavavetri, venditori di sigarette... Viaggiatori della speranza, pronti a qualsiasi cosa pur di andar via. Destinazione: Italia.
FABBRICA DI CLANDESTINI Sì, questa è Beni Mellal, provincia interna del Marocco.
Città di case nuove, di donne che passeggiano senza velo. Città dove gli umori islamici si sono assopiti, a causa forse del via vai degli emigranti. Solo il "fkih" , il cantastorie, è rimasto ogni pomeriggio su una spianata coperta di pietre e spazzatura a raccontare ai vecchi e agli sfaccendati la storia del Profeta. Sulla carta geografica, solo un puntino, fuori dalle rotte consuete di turisti e viaggiatori. Per la questura di Milano, Beni Mellal è invece un buco nero. Un serbatoio inesauribile di immigrati pronti a imbarcarsi ogni stagione per una nuova avventura di lavoro. Quanti sono? Su 91 mila marocchini registrati in Italia, il 70 per cento arriverebbe proprio da questa zona. E' una provincia povera.
Circondata da una pianura avara di frutti e di novità, non viene salvata dall' assalto periodico della siccità nemmeno dai canali d' irrigazione alimentati dalla più grande diga dell' Africa del Nord, quella di Bin el Ouidane. Le coltivazioni sono misere: agrumi, peperoncini, barbabietole. Poche le industrie, per lo più zuccherifici e stabilimenti per la lavorazione del cotone. "Se ti va bene, come operaio guadagni al massimo 300 mila lire al mese" , dice Ahmed, un ragazzo di 30 anni che, a dispetto di una laurea in legge presa all' università di Marrakesh, ha scelto Milano e un lavoro in nero come rappresentante. In Italia guadagna tre milioni al mese e risparmia anche le cento lire. "Ma quando torno" , dice, giocando con un paio di Rayban, "faccio il signore" . L' emigrazione da Beni Mellal è come una catena di Sant' Antonio. I primi sono partiti quando ancora in Italia non c' era la legge Martelli. E gli altri dietro, a perpetuare la favola bella di Milano che dà lavoro e ospitalità a tutti. Con permesso di soggiorno i più fortunati.
Clandestini gli altri, quelli arrivati senza lavoro dopo l' introduzione dei visti obbligatori. Abilissimi comunque ad aggirare controlli e frontiere pur di metter piede nella leggendaria Lombardia.
"SONO QUASI ANNEGATO" I sistemi non mancano. Hassan Nuijah, 23 anni, un diploma professionale e discreto benessere in famiglia, ha scelto però il peggiore. "Un avventuriero" , dicono di lui gli amici. Ha attraversato infatti lo stretto di Gibilterra su un peschereccio clandestino. Vivo per miracolo. "Il passaggio costava 700 mila lire. Sono rimasto ad aspettare a Tangeri 15 giorni prima di riuscire a partire" . La notte del 28 settembre Hassan è finalmente salito sulla barca, da una spiaggia vicino alla città.
Erano in trenta. Si sono salvati in quattro. "Avevamo viaggiato per 4 ore" , racconta. "Ma a poca distanza dalla costa spagnola il mare si è fatto grosso. La barca è stata travolta" . Hassan è stato aiutato da un amico ad aggrapparsi ad uno scoglio. "Lui poi è annegato. Io sono rimasto lì fino all' indomani, quando ho raggiunto a nuoto Tarifa" . Ne sono morti 200 così nell' ultimo anno, tutti clandestini, vittime di un commercio che per i contrabbandieri dello stretto si sta rivelando più proficuo di quello della droga. Si calcola che negli ultimi sette anni, da quando la Spagna ha introdotto leggi più severe sull' immigrazione, almeno 15 mila africani, non solo marocchini, ma anche senegalesi, zairesi, nigeriani, siano sbarcati in Europa sui pescherecci. Barchette riempite all' inverosimile. Se Hassan ha pagato il suo passaggio all' inferno 700 mila lire, le tariffe di cui si parla a Beni Mellal sono anche più alte. Uno sbarco sulle coste spagnole può costare a seconda della stagione e delle richieste fino a tre o quattro milioni. I contatti? Si prendono a Tangeri. In alcuni bar, come il caffè Fuentes, nel cuore della vecchia medina. O, anche, tramite una rete di intermediari che ormai ha messo radice pure in provincia.
Più sicuro andar via terra. Gli autobus Beni Mellal-Milano sono uno dei mezzi preferiti. Partono il mercoledì e il sabato. Arrivano dopo tre giorni, il lunedì e il venerdì. Tutto regolare? I proprietari dell' agenzia Imilchil sostengono di sì, e si affannano a dimostrare con quanta cura vengono controllati passaporti e visti dei passeggeri.
L' AUTOBUS DELLA SPERANZA Ma ci sono altri capolinea dove le cose sembrano diverse. Il più affollato è davanti all' agenzia Beni Amir Voyage, a Fkih Ben Salah, un paesone della provincia (57 mila abitanti) cresciuto proprio grazie ai guadagni dei marocchini "lombardi" . Qui c' è nervosismo. Una cinquantina di emigranti aspettano impazienti che si faccia sera per salire sul pullman. Hanno tutti in mano il biglietto per Milano. Costo: 250 mila lire. Ma al momento della partenza, la presenza dei giornalisti italiani getta nel panico i proprietari dell' agenzia. Gli emigranti vengono chiamati uno per uno. Qualcuno resterà a terra. "Irregolari" , commenta Mostafà Karim, 50 anni, operaio a Reggio Emilia.
"Normalmente riescono ad imbarcarne sette, otto per pullman.
Stavolta siete arrivati voi a guastare la festa" . Il racket (confermano anche altri) funzionerebbe così: "Ogni paese ha i suoi capizona" , spiega Mostafà, "che raccolgono i passaporti di chi vuole partire, e li portano a Tangeri. Lì c' è un' organizzazione specializzata nel falsificare visti e permessi di soggiorno" . I capizona nel frattempo trasmettono i nomi dei clandestini agli autisti dei pullman, che, poi, lungo la strada, imbarcano gli emigranti illegali. Costo dell' operazione? Un milione di lire al capozona, 400 mila all' autista. Sulla via principale di Fkih Ben Salah, al bar Elasifir, insegna anche in francese Les oiseaux, "Gli uccelli" , un marocchino tornato da Siena contratta la vendita di una vecchia Mercedes. "Comprata in Italia per 5 milioni" , dice. "La rivendo a sei e mezzo. Così mi rifaccio delle spese del viaggio" .
Comprano e vendono, tutti. Non c' è emigrante che torni senza una macchina italiana, segno di benessere, di un' avventura ben riuscita, ma anche fonte di guadagno esente da dogana per decisione del governo marocchino. Si calcola che ogni anno passino dalla frontiera almeno 40 mila automobili acquistate all' estero.
CLANDESTINO COL ROLEX Al bar Elasafir questi affari vanno bene.
E' il posto di ritrovo preferito dai marocchini "italiani" . Grazie anche alla disponibilità del proprietario, Salah Tugani, 50 anni, un omone baffuto, vero pioniere per gli emigranti del suo Paese: 18 anni di lavoro a Novara come ambulante. Poi, all' inizio del 1990, il ritorno in Marocco, per inaugurare appunto il bar, con i suoi tavolini intarsiati, gli specchi colorati e le decorazioni a mosaico. Un' avventura a lieto fine, come se ne vedono tante in provincia di Beni Mellal. Quella di Abdil Razak Ftah, per esempio, un ragazzo di 25 anni, alto e grosso, che si pavoneggia nel suo giubbotto di renna. Ex clandestino, con Rolex d' oro al polso, oggi proprietario dell' unico studio fotografico di Souk Sept, villaggio poco distante dalla città. Il padre è benestante, possiede una sala cinematografica, ma lui l' anno scorso è voluto partire ugualmente per l' Italia. Con un visto turistico. "Ho vissuto a Milano per 9 mesi senza permesso. Sigarette di contrabbando... Io ero il grossista. Poi la Finanza mi ha sequestrato tutto. Così sono tornato" . Portandosi dietro però apparecchiature Kodak e abbastanza denaro da mettere su il laboratorio, con quattro impiegati, mentre il suo vecchio padre fuma la pipa sulla strada. Non sempre, però, tornare è così facile. Nella sterminata pianura che circonda Beni Mellal, a Mes Gona, villaggio dove le case sono di fango e hanno il colore del deserto, Mohammed Nosfi, 55 anni, a Milano venditore ambulante, approfitta degli ultimi giorni di vacanza. Sta in Italia dal 1971. "Qui ormai sono solo un turista" , dice con aria di superiorità. E si toglie la jelabjia, mettendo un doppiopetto blu.
Porta pantaloni di tela ed è a piedi nudi. Nella sua casa vuota e spoglia di Mes Gona abitano la moglie, la nuora e gli otto figli.
Tre, però, lavorano a Milano con lui. In cortile ci sono pecore e vitelli comprati con i soldi che Mohammed ha guadagnato in Italia.
In casa ci sono il televisore, il videregistratore, lo stereo e la mountain bike. "La bicicletta è costata 446 mila lire" , tiene a precisare. E' per il figlio Azidin, 15 anni, che ha passato l' inverno con lui lavorando come carpentiere. "In regola, certo.
Segnato sul mio passaporto" .
RACKET DI BIMBI Del resto dicono tutti così, quelli che portano i ragazzini a lavorare in Italia. Anche Hassan Drissi, ambulante a Cremona, che già una volta ha chiamato presso di sé la famiglia. "Solo che costava troppo mantenere tutti" . Così adesso, dopo aver costruito a Souk Sept una casa a tre piani per moglie e figli, ha deciso di tener con sé solo la secondogenita, di 16 anni. "Ho bisogno di aiuto" , spiega. "E poi lei è contenta di venire" . E gli altri, i tanti bambini che si incontrano per le strade di Milano a lavar vetri o vendere sigarette? Vengono anche loro dalla regione di Beni Mellal, molti da un villaggio che si chiama Uladiish. Venduti e comprati. Le famiglie li cedono a conoscenti in partenza per l' Italia. Ogni emigrante si preoccupa di portar con sé ragazzini che somiglino ai propri figli, registrati sul passaporto. I genitori veri ricevono in cambio un paio di milioni l' anno, mentre i bambini finiscono sotto il controllo di un' organizzazione a doppio livello: l' amico-boss che li accompagna in Italia, e il boss di zona che troveranno a destinazione. Un esercito di nuovi schiavi? Eppure nessuno rinuncia a questa illusione di agio e benessere. A Beni Mellal, una Mercedes targata Milano, una casa nuova in città, un videoregistratore comprato in Italia valgono più del rischio dell' emarginazione e dello sradicamento. La città cresce e prolifera grazie proprio ai suoi nomadi. Sul boulevard Mohammed V, dove le ragazze a passeggio non si vergognano di ammiccare agli uomini, soprattutto se tornano dall' estero, la Banque Populaire ha già aperto due filiali.
E' stata creata proprio per raccogliere i depositi e favorire il credito agli emigranti, che ogni anno portano in Marocco 17 miliardi di dirham, oltre 2 mila miliardi di lire. Una boccata di ossigeno per un Paese che ha un tasso di disoccupazione del 15,8 per cento e un debito estero di 26 mila miliardi di lire. Anche Ahmed, il ragazzo laureato in giurisprudenza, rappresentante in nero a Milano, nel suo piccolo contribuisce. Lui, con i tre milioni al mese che guadagna in Italia, a Beni Mellal mantiene la madre e quattro fratelli. Ha comprato il terreno per costruirsi una casa e fa progetti per il futuro. "L' anno prossimo rientro" , dice "e aprirò un supermercato. Sarò il primo" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
28/10/92

Numero
2194

Pagina
28

Titolo
LA VERA STORIA DI UN "MOSTRO"

Autore
DI ELISABETTA BURBA E MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
IL DELITTO DI FOLIGNO / CHI E' STEFANO SPILOTROS? "EPOCA" E' ANDATA A CASA SUA

Sommario
Girava con un megafono sulla 126 del parroco a invitare la gente alle processioni. Diceva un sacco di balle. Aveva problemi con il patrigno. Poi, quella telefonata alla polizia: "Simone piangeva, l' ho ammazzato" . Ecco come un anonimo ragazzo di provincia è diventato l' uomo più odiato d' Italia.

Didascalia
I DUE VOLTI DELLA TRAGEDIA
Stefano Spilotros, 22 anni, si è autoaccusato dell' omicidio di
Foligno. Nella foto piccola: la vittima, Simone Allegretti,
4 anni.
IDENTIKIT
Ecco le foto segnaletiche di
Stefano Spilotros, realizzate nella questura
di Milano subito dopo il suo arresto, avvenuto
la sera di sabato 17 ottobre.
LA CASA
Via Manzoni 7,
nel centro di Rodano, dove vivono Stefano Spilotros, la madre, una
delle due sorelle e il patrigno.
IL BAR DELLA DOMENICA
Qui Stefano
si trovava con gli amici, poco lontano da casa, a Millepini,
frazione di Rodano.
GLI AMICI
Raccontano che Stefano era un
ragazzo come tanti: teneva alla Juve, leggeva la "Gazzetta dello
sport" , giocava a bowling, beveva birra e Campari. Nessuno di loro
crede che sia davvero stato lui ad uccidere il piccolo Simone. Aveva
anche una fidanzata, Marzia, che però in estate l' ha lasciato.

Testo
E' lui o non è lui? Sabato notte, Stefano Spilotros si è addossato la responsabilità dell' assassinio del piccolo Simone. Ma più passano i giorni e più aumentano i dubbi sulla sua confessione. Al momento in cui queste pagine vanno in stampa, l' atroce giallo di Foligno è tutt' altro che risolto. C' è, ingombrante sulla scena, uno strano ragazzo di 22 anni: che si è detto "mostro" ma che "mostro" , per la giustizia e non solo per la giustizia, ancora non è. Abbiamo ricostruito la sua vita e ripercorso le indagini che l' hanno portato in prima pagina. E' lui o non è lui? La domanda, tragica, resta più che mai aperta. Con un' avvertenza: troppe volte l' etichetta di mostro è stata attribuita con superficialità e non sono bastate le successive smentite a riparare il danno.
Nelle foto dell' arresto sembra un animale braccato. Scompigliato, gli occhi scavati, un inizio di barba. Ma non è così che la gente di Rodano conosce Stefano Spilotros. Capelli corti e ben pettinati, impermeabile bianco sul braccio, ventiquattrore in mano, Stefano sembrava un giovane in carriera. Anche un po' "paolotto" , come si dice dalle sue parti, uno cresciuto tra casa e chiesa. Uno che, con il megafono montato sulla 126 bianca del parroco, annunciava ai fedeli processioni e riti sacri. Che accompagnava i bambini in gita domenicale per la campagna. E che non dimenticava mai di comprar anellini e braccialetti per la fidanzata. Un ragazzo modello, tanto che a Rodano, un pugno di villette e palazzine residenziali a una decina di chilometri da Milano, molti genitori l' avrebbero voluto come genero. Fino a domenica 18 ottobre, quando è arrivata la bomba: "L' assassino di Simone Allegretti ha confessato: si chiama Stefano Spilotros, 22 anni, è di Rodano" . Ma è davvero lui che il 4 ottobre nelle campagne vicino a Foligno avrebbe seviziato e poi ammazzato un bambino di 4 anni? Il sindaco (lista del Riccio, ambientalista), Giuliana Dossi: "Non posso crederci" . Il parroco, don Pietro: "Mi sembra impossibile" . Ivan, l' amico del Trip Bar: "No, non può essere" . E lui, invece: "L' ho ucciso io Simone. Urlava troppo" .
Lui si accusa. Gli altri lo difendono. Vizi di Stefano? Uno solo: l' incontenibile vocazione a raccontare balle. Una volta stava per laurearsi, un' altra si preparava come pugile per le Olimpiadi, un' altra ancora faceva il pilota. Ultimamente "Spillo" , come lo chiamano gli amici per la sua magrezza su uno e 90 di altezza, diceva di aver aperto un' agenzia immobiliare. Mostro o mitomane? Stefano da piccolo è stato abbandonato dal padre, un greco che a lui e alle due sorelle, Monica e Sabrina, ha lasciato in eredità soltanto il cognome, Spilotros. La madre, Chiara Ingrosso, sola e con tre figli da mantenere, allora viveva a Bari. Poi ha incontrato un ragazzo di leva, Pierangelo Lucchini, un lombardo piccolo e forte, che alla fine del militare non ha esitato a portarsi al Nord una donna di dieci anni più vecchia e tre bambini. La casa l' aveva già. In via Manzoni 7, al centro di Rodano. La stessa dove Stefano è stato arrestato. E' una palazzina marroncina a due piani, con i gerani ai balconi e le ortensie sbiadite vicino al cancelletto. C' è scritto "please" , prego, sullo zerbino davanti alla porta. E "prego?" dice garbatamente per citofono anche la sorella Monica, 25 anni. Ma non fa entrare nessuno: "Mio fratello è innocente. Andate via" . Sono giorni ormai che se ne sta con la madre barricata in casa. Ad affrontare la stampa ci pensa Sabrina, una ricciolina di 24 anni che vive per conto suo e continua a lavorare al bar del distributore Q8 lungo la Rivoltana, la strada che collega Milano a Rodano. "Mio fratello vuole distruggersi. Da quando l' ha lasciato la fidanzata non è più lui. Si autoaccusa per farla finita" . Dalla casa di via Manzoni l' unico che entra ed esce come se nulla fosse è il patrigno, Lucchini, stimato caporeparto di un' azienda di Caleppio di Settala, la Fustitalia. Il giorno dopo l' arresto, domenica, è andato in officina a dar da mangiare ai cani. "E' da tempo che lui e la famiglia non vanno d' accordo" , racconta una vecchietta stretta in un golfino di lana verde con le pantofole ai piedi. "Quella casa sembra un inferno" . Da un anno Lucchini sta tentando di cacciare la madre di Stefano. Ha un' altra. Per ritorsione, una volta Stefano ha preso a sassate la macchina della "rivale" . Chiara Ingrosso oggi ha 48 anni, è magra, deperita e zoppica. Lavora in una fabbrica come operaia. Prima faceva la baby-sitter. I bambini glieli portavano in casa, due, tre, quattro alla volta. E proprio Stefano, il "mostro" , la aiutava ad accudirli. "Ci accompagnava a fare giretti nei prati" , ricorda uno di loro ormai grandicello. "Era gentile" . "Con i ragazzini stava bene" , conferma Anna Restelli, che nel luglio scorso si occupava dell' oratorio estivo. L' oratorio dove Stefano organizzava attività per i ragazzi. S' era guadagnato la fiducia del parroco, che gli aveva dato le chiavi della parrocchia. Non mancava una domenica alla Messa. E nemmeno alla Comunione. Soltanto la domenica successiva alla morte di Simone, quando don Pietro ha alzato l' ostia, Stefano è rimasto fermo al suo banco. Ultimamente era un po' meno assiduo in oratorio. Sempre puntuale invece con la sua Peugeot bianca 309 all' uscita dell' istituto commerciale Argentia di Gorgonzola, dove studia Marzia, 18 anni, anche lei di Rodano. Piccolina, brunetta, di buona famiglia cremasca. "La classica brava ragazza" , dice Alessia, una vicina di casa che si affaccia in tuta da ginnastica. "Torna da scuola, fa i compiti fino alle sei e poi esce con il fidanzato" .
Per due anni è stata la ragazza di Stefano. Quest' estate l' ha lasciato. Lui ha pianto. Ha pianto anche lei, quando ha saputo della confessione. Lunedì 19 ottobre il suo banco a scuola è vuoto. In quinta B non si parla d' altro. Così all' Enaip di Melzo, un istituto professionale della Regione dove Stefano ha studiato per tre anni. "No, Spilotros non può essere l' assassino" , dice la responsabile della segreteria. In molti all' Enaip sono pronti a offrire prove della sua innocenza. Come una morettina dell' ultimo corso che dice di ricordare il pomeriggio di domenica 4 ottobre, quando Stefano con il fidanzato di lei sarebbe andato al Ventesimo, una discoteca del Bergamasco, e poi insieme in un bar a bere una birra. All' Enaip Stefano aveva conseguito un attestato di operatore turistico, non certo quel diploma di ragioniere che sosteneva di avere. Nel 1988, a 18 anni, faceva l' operaio in una fabbrica di fornelli per zanzare, la Insao di Liscate. Nel 1990 approdava al distributore Q8 sulla Rivoltana. Cacciato per un ammanco di cassa.
Dopo il servizio militare, la grande occasione: Stefano racconta a tutti di fare l' agente immobiliare. Finalmente può andare al lavoro con la ventiquattrore e la cravatta regimental. "Dopo aver finito gli studi" , ricorda una sua ex insegnante Carla Brambilla, "tornava spesso a trovarci. Sempre raccontando di avere impieghi favolosi" .
Quattro settimane fa si è presentato a scuola offrendo lavoro agli studenti in una fantomatica agenzia di cui sarebbe stato proprietario. "In realtà faceva il procacciatore" , dice Enzo Falzone, socio della General Case, dove Spilotros aveva lavorato un paio di mesi prima di passare alla Italcase di Melzo. "Ma non ha mai procacciato niente. Non era un lavoro adatto a lui" . Mostro o mitomane? Di certo un ragazzo solitario, incapace di essere normale, a cui è crollato addosso il poco di mondo che aveva costruito: la fidanzata, il patrigno, la finta agenzia. E neanche stavolta, la più tremenda, con Stefano che si accusa dell' omicidio di un bambino, Rodano gli crede.




Testata
Epoca

Data pubbl.
14/10/92

Numero
2192

Pagina
132

Titolo
PICCOLI SCHIAVI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI FRANCESCO CITO

Sezione
STORIE

Occhiello
VIAGGIO TRA I BIMBI LAVAVETRI

Sommario
Muhamed, rimasto storpio perché una macchina l' ha travolto a un semaforo. Hassan, spedito all' incrocio con la polmonite. E Jamal eternamente inseguito dai vigili urbani... Bambini marocchini a Milano. Lavorano 14 ore al giorno, guadagnano molto. Ma soltanto per i loro padroni. Dormono per strada oppure nei parchi. Se va bene, in una baracca. I loro genitori li hanno ceduti al racket dei clandestini per un paio di milioni Il prefetto ha deciso: bisogna portar via i bimbi dai semafori

Didascalia
Harafi, 14 anni, marocchino,
bambino lavavetri a Milano. Come lui sono centinaia. Guadagnano fino
a 200 mila lire al giorno.
I sogni di Farid
Quattordici ore di lavoro quotidiane, come
lavavetri in Largo Marinai d' Italia, a Milano. E arrivano momenti
di sconforto come questo. Anche per Farid, 13 anni, di un paese
all' interno del Marocco. Eppure lui, tra i ragazzini dei semafori,
sembra quello che più si è adattato alla sua difficile condizione.
Dice: "Comincio la mattina quando ne ho voglia. Questo è il mio
angolo, nessuno me lo può togliere. Se qualcuno mi minaccia, mi
difende mio fratello" . Il suo sogno? "Vendere accendini" .
Alì, l' "orfano"
Dice di avere 15 anni, ma ne
dimostra molti di meno. In primavera suo padre ha portato a Milano
lui e il fratello Muhamed (nella foto in basso a sinistra), poi è
tornato in Marocco. Racconta: "Dormo in un centro di accoglienza del
Comune" . Probabilmente non è vero. I clandestini non possono essere
ospitati in strutture pubbliche.
Se si ammalano non si
presentano all' ospedale. Temono di venire cacciati dall' Italia e
di perdere il lavoro. Che per Ajub, 13 anni (nella foto a fianco), è
quello di vendere sigarette. Un mestiere considerato privilegiato.
"Solo i "terroni" " , dice, "lavano i vetri" .
Un vigile in borghese ha "catturato"
un piccolo lavavetri. Lo porterà al comando per tentare di scoprire
come si chiama e poi affidarlo a un istituto convenzionato.

Testo
Sono arrivate le pattuglie. Hanno sequestrato le spazzole, i secchi, le bottiglie con il detersivo. Hanno portato via Alì, Hassan, Muhamed, il piccolo esercito di "vulavà" nordafricani che da un anno ha invaso gli incroci di Milano, al posto degli slavi. L' ordine di cacciarli è venuto dal prefetto: lunedì 28 settembre. Ma i 14 vigili urbani incaricati dell' operazione di "ripulitura" non si sono mossi solo per alleviare dall' onere della mancia gli automobilisti recalcitranti.
C' era anche un altro motivo. Troppi bambini lavavetri. Come Mustafà: 8 anni, trovato il 20 settembre in periferia con un braccio semiparalizzato e due occhi da cucciolo bastonato. Lo "zio" l' aveva ceduto a un amico che lo costringeva a lavar vetri. Pugni e schiaffi ogni volta che si lamentava di essere stanco. Non era il solo piccolo schiavo ai semafori. La sua storia è simile a decine di altre raccolte da Epoca a Milano. Bimbi maltrattati, sfruttati, malnutriti. Terrorizzati dall' idea di raccontare la loro vicenda, controllati a vista dagli adulti. Zii, padri, amici. O capoclan? Che ci sia un racket sull' asse Marocco-Italia, per la Questura di Milano è un dato ormai certo. E' stato verificato anche a Torino, dove un gruppo di giornalisti extracomunitari di Radio Popolare ha scoperto che in alcune zone interne del Marocco sono gli stessi genitori a cedere i figli in cambio di due o tre milioni l' anno.
Spediti in Italia a lavar vetri, i bambini frutterebbero dalle 100 alle 200 mila lire a testa al giorno. I ragazzi sono sempre senza documenti. O, quando li hanno, se li scambiano per non essere identificati. E soprattutto per non essere rimandati in Marocco.
Senza generalità certe, il consolato del loro Paese difficilmente concede il lasciapassare per il rimpatrio. Parecchi, poi, arrivano in Italia registrati sul passaporto del padre. Espediente ai limiti della legalità. Per ottenere il cosiddetto "ricongiungimento familiare" , il genitore dovrebbe dimostrare non solo di avere il permesso di soggiorno, ma anche un lavoro e una casa. "E poi siamo davvero sicuri che sia il padre ad accompagnarli?" , si chiede Beppe Cordini, responsabile a Milano della squadra di vigili urbani che si occupa di emarginati. "Abbiamo trovato genitori che hanno al massimo 10 o 12 anni più dei figli" , conferma Patrizia Presutti, responsabile dell' ufficio di pronto intervento del Comune. "E non c' è mai la madre" . I piccoli "vulavà" dormono nei parchi, nelle cascine abbandonate, nelle auto. Per lo Stato sono clandestini.
E' quindi anche impossibile accoglierli nei centri comunali regolati dalla legge Martelli. A Milano, con gli sgomberi degli insediamenti abusivi della scorsa primavera, ne sono stati sloggiati una miriade.
Ma identificati sul serio appena una cinquantina (su 3500 marocchini censiti in città e almeno altrettanti illegali). I bambini provengono quasi tutti da un' unico posto del Marocco, la città di Beni Mellal. "Almeno una trentina, alla fine, sono arrivati da noi" , racconta Patrizia Presutti. "Li abbiamo portati in comunità, molti sono stati mandati a scuola" . Ci sono otto istituti a Milano, convenzionati con il Comune, che ospitano bimbi extracomunitari in difficoltà. "Ma molto spesso scappano" , dice ancora Patrizia Presutti, "oppure viene uno zio o un genitore a riprenderli" .
Poche, insomma, le storie a lieto fine. Per Mustafà sono già arrivate decine richieste di adozione, ma deve decidere il Tribunale dei Minori. Lui, il ragazzino, per il momento è al Cbm, il centro per l' assistenza ai bambini maltrattati. Malato, traumatizzato, impaurito. E quelli che rimangono per strada? Che cosa subiscono, che cosa li attende? Epoca ha raccolto le loro voci.
Muhamed, 16 anni "Travolto da una macchina" Per sedersi a riposare c' è solamente la carcassa di un frigo, sul marciapiede riscaldato dagli scarichi delle marmitte. Poi, il traffico dell' ultima circonvallazione, dove Milano è già periferia. Muhamed, 16 anni, è rimasto solo e storpio a lavare i vetri, con il fratello più piccolo. Solo, perché il padre in estate è rientrato in Marocco e da allora non ha più dato notizie di sé. Storpio, perché tre mesi fa un' auto l' ha investito e la frattura non si è mai sanata. "Mi fa sempre più male" , dice in francese, "Non riesco a camminare bene" .
Sotto i jeans nasconde una cicatrice e una deformazione all' osso che lo fa zoppicare. Anche se sul fogliettino spiegazzato che si porta dietro, un certificato dell' ospedale San Raffale, hanno scritto che la sua gamba è guarita. "Mi avevano detto di stare a riposo. Però ce n' est pas possible, dovevo mettermi a lavorare" .
Controllato, schiavizzato da qualcuno? Lui dice di essere solo, di non avere parenti. "Io e mio fratello dobbiamo mangiare" . La sua storia: "E' stato mio padre a portarmi in Italia. In Marocco lui fa il commerciante, ma guadagna troppo poco. Siamo arrivati attraverso la Francia, dove c' è mio zio che lavora in una fabbrica e ci ha accompagnato in macchina" . Poi il padre se n' è andato, lasciando Muhamed e il fratello, più giovane di due anni, con l' ordine di continuare a pulire vetri ai semafori. "No, non eravamo contenti quando lui ci ha detto che dovevamo venire in Italia. Milano la detesto, una città senza vita" . Indica le ville scalcinate della periferia, i muri imbrattati di scritte, la carcassa del frigo rovesciata accanto al semaforo. "Questo lavoro è sempre più difficile. Ti parlano solo per trattarti male. Ed è tanto se tiri su ventimila lire al giorno. No, Milano non mi piace" . Afferma di dormire la notte in uno dei centri di accoglienza del Comune. Ma forse non è vero. Dorme all' addiaccio, o al riparo di un casolare abbandonato. La città dove Muhamed sogna di andare a scuola? Ma, "ce n' est pas possible" . Tornare a casa? "Ce n' est pas possible" .
Perché? "Mio padre non vuole. Decide sempre lui" .
Farid, 13 anni "Mi difende mio fratello" L' uomo alla guida della Renault voleva suonargliele. L' ha salvato un vigile che gli ha però consigliato di sparire. Ma Farid, 13 anni, occhi vispissimi, due dentoni bianchi e lucidi che spuntano fuori ogni volta che apre la bocca, non si è affatto spaventato. Si è allontanato di poco, per poi ricominciare con spugna e sapone. Spiega: "Sono qui da un anno. Vengo da Beni Mellal. Lavo vetri. Mio padre vende accendini. E poi ho due fratelli più grandi che lavorano in fabbrica. Loro ce l' hanno il permesso di soggiorno. E anche mio zio, che sta a Vicenza" . Il vigile da lontano continua a tenerlo d' occhio. E Farid: "Uno come lui mi ha fermato dopo un mese che ero arrivato a Milano. Mi hanno portato ad Alessandria per farmi studiare, ma io non avevo voglia. Non mi piaceva perché lì non c' era nessuno. Niente famiglia, niente amici" . Non vuoi studiare Farid? "Sì, ma quando ho voglia" . E al semaforo è una bella vita? "Comincio quando ho voglia" . Cioè? "Alle otto del mattino e poi finisco la sera, alle nove, alle dieci" . E i soldi che guadagni? "Cinquantamila. Metà per me, metà per mio padre" . Ti protegge lui? "No, se viene un altro marocchino al semaforo e mi dice "devi andartene via" mio fratello gli dà un pugno" . Dove dormi? "Ora in una casa del Comune. Prima stavo in viale Monza, ma era tutto buchi. Per aprire la porta dovevi dare un calcio" . Da grande cosa vuoi fare? "Voglio vendere accendini" .
Jalil, 16 anni "Voglio andare a scuola" "Lavare vetri, lavoro di terroni. Noi vendiamo sigarette. Quando non piove" . Oggi piove e Jalil, 16 anni, è rimasto in casa con il fratello Ajub di 13. Vivono insieme al padre in un container, in uno dei centri di accoglienza del Comune di Milano. Pochi metri quadri con la stufa rotta e il televisore sempre acceso. Un alloggio provvisorio, clandestino così come la loro permanenza in Italia. Quando sono arrivati, un anno fa, dormivano all' aperto. "Ai giardini" , dice Jalil. "C' erano gli insetti. Si mangiava, si faceva tutto sull' erba" . Poi il padre è riuscito a portarli dentro, anche se i gestori del centro minacciano di cacciarli da un momento all' altro. L' uomo però fa pena. Ha 66 anni. Lo chiamano "il vecchio con la barba bianca" . Ha ossessionato tutti chiedendo di lavorare in fabbrica. "Sei troppo anziano" , hanno dovuto rispondergli e così si è messo a lavare i vetri, anche se i figli ripetono che papà in realtà "vende vestiti vicino alla stazione" . In Marocco, a Beni Mellal, provincia povera sulle montagne dell' interno, faceva il contadino. Due mogli, nove figli da mantenere, la terra che non fruttava e la schiena che a causa dell' età cominciava a dolergli. Così è venuto in Italia. Così ha deciso di portarsi dietro Jalil e Ajub, nella speranza che lo aiutassero. Ma i ragazzi hanno altre aspirazioni. "Vogliamo andare a scuola. Vogliamo studiare" , ripete Jalil, "ma non ci danno il permesso di soggiorno. In Marocco era meglio" . Lì, ha imparato il francese. L' italiano ancora no.
Hassan, 14 anni "Hai la febbre? Lavora" Come Mustafà, costretto a lavare vetri con un braccio semiparalizzato. Hassan, 14 anni, veniva portato ogni giorno al semaforo con la febbre addosso, conseguenza di una broncopolmonite che nessuno si era mai preoccupato di curargli. "I miei figli devono lavorare" , si è giustificato il padre quando i funzionari del Comune di Milano hanno deciso di ricoverare d' urgenza il bambino in ospedale, e di mettere in comunità il fratello Aziz, 11 anni, anche lui "assunto" come lavavetri. E' successo a Milano prima dell' estate. Ad accorgersi di quel ragazzino febbricitante sono stati i volontari di una parrocchia del centro, e l' hanno segnalato all' ufficio di pronto intervento del Comune. "Il padre continuava a dire che aveva bisogno dei figli" , racconta Patrizia Presutti, responsabile dell' ufficio. "Doveva ripartire con loro per il Marocco. Abbiamo concordato che al momento della guarigione di Hassan sarebbero stati tutti e tre liberi di andar via. Mentre il fratello Aziz nel frattempo avrebbe cominciato a frequentare un corso di alfabetizzazione e di avviamento al lavoro" . Sono partiti a luglio. Rientrati, però, ad agosto. Stavolta il padre ha portato con sé altri sei figli.
Jamal, 13 anni Il folletto di piazza Duomo Quando i vigili urbani l' hanno preso, tentando di portarlo in comunità, Jamal, 13 anni, ha protestato: "Mi state facendo perdere giornate di lavoro. Dovete risarcirmi" . E dopo qualche giorno era già scappato, nuovamente in strada a lavare vetri. Un folletto, tanto che l' hanno soprannominato "il pazzo" . Vivace, furbo, ingovernabile, persino per gli uomini della squadra di vigilanza urbana che da sei mesi gli stanno dietro. L' hanno incontrato la prima volta a marzo, durante lo sgombero dell' ex fonderia Pracchi, una fabbrica abbandonata all' estrema periferia di Milano dove bivaccavano in clandestinità 700 extracomunitari. Era solo. Non un parente. I vigili l' hanno accompagnato alla comunità Oklahoma, uno dei centri convenzionati con l' amministrazione milanese. Ma Jamal ha subito trovato modo di scappare. L' hanno riacciuffato, ma è scomparso ancora, per ricongiungersi alla comunità marocchina al centro di accoglienza di via Moncucco. Il giudice del Tribunale dei Minori, con un' eccezione al regolamento, gli ha concesso un alloggio comunale. Ma una sera, dopo essere stato in camera con quattro marocchini adulti, ha cominciato a strillare. Aveva un' emorragia. Violenza carnale? Forse era solo un' infezione intestinale (all' ospedale gli hanno trovato i vermi), ma a quel punto sembrava chiaro che a Milano Jamal non poteva restare più. Si è tentato il rimpatrio. Negli uffici del consolato marocchino, Jamal si è barricato in una stanza. Per tirarlo fuori sono dovuti intervenire i vigili del fuoco, e subito dopo un medico con una doppia dose di Valium. Round finale: all' aeroporto. Qui Jamal è riuscito a terrorizzare anche il pilota dell' aereo che si è rifiutato di prenderlo a bordo. Poi Jamal è sparito di nuovo. C' è chi dice di averlo visto, e riconosciuto grazie alle macchie bianche che ha sul viso, in piazza Duomo mentre rubava un mazzetto di biglietti della lotteria.

BOX
CACCIARLI O NO? E' giusto allontanare i lavavetri? Ecco quattro opinioni qualificate.
"Vulavà" a tutti i semafori. A Milano come a Torino, a Bologna come a Roma. Nel capoluogo lombardo il prefetto decide di cacciarli dagli incroci. Ma già nella Bologna "progressista" lo scorso maggio, l' assessore alle Politiche sociali aveva varato un provvedimento tanto drastico quanto applaudito: multe salate e fermi di polizia per ogni abusivo trovato al semaforo. Segno che la soglia di tolleranza degli italiani di fronte alle piccole forme di disordine sociale si è decisamente abbassata? Mentre a Torino l' assessore alla Polizia urbana ha più volte minacciato di seguire l' esempio emiliano, parte appunto la crociata milanese. Controlli, perquisizioni, sequestri degli strumenti di lavoro. Ma è giusto cacciar via chi cerca di guadagnare qualche lira lavando i vetri? Ecco, da Milano, le risposte di Piero Borghini, Giacomo Rossano e Luigi Manconi, e quella di Fratel Ettore, punto di riferimento dei diseredati metropolitani.
IL SINDACO BORGHINI NO "Non è certo uno spettacolo bello vedere i vigili urbani che fermano i lavavetri ai semafori. Ma capisco i motivi che hanno spinto il prefetto a questa ordinanza. E' un' azione dissuasiva. Si sta cercando di convincere questi immigrati a cercare un lavoro vero.
C' è poi il problema dei più giovani, sfruttati da gente senza scrupoli. Milano è però una città che non ha mai negato solidarietà agli extracomunitari: stiamo quindi cercando una soluzione anche per chi lava i vetri" .
IL PREFETTO ROSSANO SI' "Bisogna in primo luogo far osservare la legge. Intanto, c' è quella di pubblica sicurezza e, poi, anche lo stesso codice della strada che non permette attività di questo tipo. I lavavetri sono inoltre per la maggior parte degli immigrati clandestini. Non hanno dunque alcun diritto di restare in Italia. E come se non bastasse, ai semafori gli adulti guadagnano sfruttando il lavoro di ragazzi e bambini" .
IL SOCIOLOGO MANCONI NO "E' un' operazione ipocrita. Stanno tentando di occultare un fenomeno sgradevole che viene ritenuto fonte di disordine sociale. E giustificano l' intervento di polizia con motivazioni umanitarie. In una città come Milano si dovrebbe invece cominciare a riorganizzare l' assistenza, trattandola come un settore industriale. Non è filantropia di stampo ottocentesco. E' la scommessa del prossimo decennio" .
IL RELIGIOSO FRATEL ETTORE SI' "Chi arriva in Italia deve rispettarne le leggi. E poi, perché dobbiamo continuare a vedere gente per strada che elemosina qualche spicciolo? Sembrano cani randagi. Anzi, stanno peggio dei cani, per i quali esistono i veterinari, le cliniche, le pensioni. No, non si può tollerare. Certo, credo che tutti, cittadini privati, religiosi e soprattutto governanti, abbiamo il dovere di farci carico di queste miserie, ma in un modo diverso. Offrendo a chi soffre un' occupazione vera, una possibilità di vita" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
23/09/92

Numero
2189

Pagina
44

Titolo
COME GESTISCE LA "SUA" MILANO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
IL CARDINALE DI TANGENTOPOLI

Sommario
Il sistema di potere di Martini nella diocesi più grande del mondo.

Didascalia
Con Montanelli e Locatelli, direttore del "Sole-24 Ore" .

Testo
BOX
Il cardinale Baggio, grande elettore di Carlo Maria Martini ad arcivescovo di Milano, aveva dato al suo pupillo un consiglio prezioso: "La diocesi che stai andando a dirigere è troppo grande. Cerca di dividerla. L' amministrerai meglio" . Ma come poteva un vescovo appena eletto, arrivato da Roma, spezzare l' unità secolare della Curia ambrosiana? Carlo Maria Martini ha preferito rispettare i confini territoriali, lasciando a Milano i suoi primati: diocesi più grande d' Europa per numero di fedeli (4 milioni 791 mila) e più grande del mondo per l' insieme di personale ecclesiastico, strutture pastorali, educative e assistenziali. Una mega azienda. Anzi, una vera holding dalla quale dipende l' amministrazione di 1.142 parrocchie, di cinque seminari diocesani, di 11 collegi arcivescovili, più opere pie, fondazioni, giornali, centri studi... Per mantenere un impero di questa entità, il cardinale Martini aveva bisogno di una struttura organizzativa solida che gli lasciasse il tempo di dedicarsi alla cura delle anime. In pratica una schiera di collaboratori, che lo sostituisse nella gestione quotidiana della diocesi. A cominciare dal vicario generale, monsignor Giovanni Giudici, che divide con lui, al primo piano del palazzo arcivescovile di Piazza Fontana, i cardinalizi appartamenti. I suoi compiti? Tenere i rapporti con tutti i 2.385 preti della diocesi. Nel secentesco palazzo di Piazza Fontana, i 141 impiegati (59 laici e 82 religiosi), sparpagliati per una trentina di uffici, sono tutti dotati di personal computer. Non è una novità, ma il ricordo dell' innovazione portata 12 anni fa proprio da Martini continua a suscitare soddisfazione: "Prima che arrivasse lui non avevamo neanche la fotocopiatrice" . Di certo, il cardinale ha una passione per i computer: ama trascorrere ore davanti allo schermo a riscrivere i suoi discorsi. Lo accudiscono le suore di Santa Maria e gli organizzano la settimana due segretari tuttofare, don Virginio Pontiggia e Don Gianni Cesena. Dicono: "La sua giornata tipo? Di mattina riceve i collaboratori per discutere gli affari della diocesi. Poi esce, per conferenze e incontri ufficiali. La domenica è invece dedicata alle parrocchie" . Sono però i "collaboratori" a gestire materialmente l' immenso territorio diocesano, diviso in sette zone pastorali, dai comuni dell' hinterland milanese alla provincia di Varese fino a Lecco. Per ciascuna zona, c' è un vicario, paragonabile a una sorta di direttore generale, che ogni settimana viene ricevuto in udienza dal cardinale. Carlo Maria Martini si serve anche dei decani, che scherzosamente chiama "i miei senatori" e che sono i responsabili diretti delle parrocchie. Parrocchie che (particolarità della diocesi ambrosiana) hanno tutte un proprio consiglio d' amministrazione. Da autentica holding, la diocesi controlla inoltre una serie di organismi che vanno da una fondazione come la Lambriana, proprietaria al 20 per cento del Credito artigiano, a società per azioni come quella che raggruppa una parte dei Collegi arcivescovili, alla cooperativa che gestisce la catena dei sei settimanali locali di proprietà della Curia. Piccole e grandi roccaforti di potere economico, sui quali vigila il Caed, il consiglio per gli affari economici della diocesi. Retto da monsignor Antonio Barone, provicario generale, il Caed è il vero centro finanziario della holding. La stanza dei bottoni, insomma: da qui passano acquisti e vendite, lasciti e affitti, sovvenzioni e finanziamenti. Ma soprattutto la gestione degli affari parrocchiali.
Su 6 miliardi e 400 milioni di entrate denunciate lo scorso anno, la maggior parte arriva infatti dal cosiddetto "2 per cento" , la quota sulle offerte raccolte che le parrocchie devono versare alla diocesi. Ma ci sono anche gli interessi su capitali, depositi, titoli di Stato: investimenti effettuati centralmente impiegando le entrate di ogni singola parrocchia. "In questo modo" , dice don Luigi Testore, economo della diocesi e braccio destro del provicario, "le risorse vengono ridistribuite secondo il criterio della "perequazione" che aiuta le chiese più povere" . E i beni di proprietà della diocesi? Quanto fruttano i 43 milioni di metri quadri di terreni che un tempo appartenevano alle parrocchie? Quanto gli immobili dati in affitto? "Poco. Appena un miliardo l' anno" , dice Testore. Il bilancio, alla fine, è in pareggio. Alla voce "uscite" sono due i grandi capitoli di spesa: 4 miliardi e 112 milioni per gli stipendi dei dipendenti, 2 miliardi e 350 milioni per i contributi versati agli enti diocesani. Martini delega, ma su tutte le operazioni finanziarie l' ultima parola spetta sempre a lui. E' il cardinale a dare l' assenso definitivo a ogni movimento di cassa. Ma da vero tycoon ama anche prendere l' iniziativa. Come nel caso della quadreria ambrosiana, 450 opere raccolte nel Seicento dal cardinale Monti, da quasi due secoli corteggiate dalla pinacoteca di Brera. "Il cardinale" , racconta il responsabile Don Spirito Colombo, "non solo ci ha aiutato nei restauri, ma anche trovato lo sponsor per una mostra, l' Eni" . Un vernissage pubblico per mettere a tacere quelli di Brera che accusano la diocesi di non aver mai esposto le sue tele. L' intervento di Martini è stato decisivo anche per la realizzazione del "piano Montini" , ovvero il programma per la costruzione delle nuove chiese lanciato dall' arcivescovo di Milano che diventò poi papa Paolo VI: "Negli ultimi cinque anni siamo riusciti a costruire venti chiese" , dice don Arosio, il sacerdote che si occupa dei progetti. "Siamo a metà strada. Ce ne mancano altre venti" . Un impegno che dovrebbe costare alla Curia 60 miliardi. Ma forse anche di più. Compresi gli onorari di architetti come Aldo Rossi e Vittorio Gregotti. Una mega azienda deve badare anche all' immagine.




Testata
Epoca

Data pubbl.
16/09/92

Numero
2188

Pagina
54

Titolo
SONO STATA MISS ITALIA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
LA PAROLA ALLE VINCITRICI DI IERI

Sommario
Una è diventata valletta. Un' altra ha trovato l' amore. La terza. . . Alla vigilia dell' edizione 1992, le ultime quattro reginette raccontano come cambia la vita della più bella del reame. Anzi, come spesso non cambia per niente.

Didascalia
Candidata per Miss Italia davanti alla giuria.
1988
OGGI
Nadia Bengala
Siciliana,
29 anni, spesso sulla stampa rosa, si è iscritta all' Accademia d'
arte drammatica.
1989
OGGI
Eleonora Benfatto
Veneta, 19 anni, figlia di un
autotrasportatore, ha fatto la valletta al "Gioco dei 9" su Canale 5.
1990
OGGI
Rosangela Bessi
Lombarda, 19 anni, ragioniera, lavora come
modella. E' fidanzata con un calciatore.
1991
OGGI
Martina Colombari
Romagnola, 17 anni, figlia di ristoratori di Riccione. La vita da
miss le ha fatto perdere l' anno scolastico.

Testo
Sono partite in 40 mila, ma al round finale della fiera dei sogni sono rimaste in 60. Sabato 12 settembre, al Palazzo dei congressi di Salsomaggiore Terme, una di loro toglierà scettro e coroncina di latta a Martina Colombari, 17 anni, miss Italia 1991. E anche quest' anno, come succede dal 1988, Fabrizio Frizzi annuncerà su RaiUno il nome della ragazza più bella d' Italia. Gioia, applausi, lacrime. . .
E poi? Come cambia la vita della reginetta? Di certo, c' è un ingaggio annuale da parte degli sponsor della manifestazione: la miss farà sfilate, foto, serate in giro per l' Italia in cambio di 50 milioni. "Più che altro è un' occasione per mettersi in mostra", dice Enzo Mirigliani, 73 anni, gran patron della manifestazione, "per sfondare come modella, attrice, star televisiva". O anche, secondo la polverosa filosofia che il concorso di miss Italia si porta dietro sin dalla prima edizione nel 1939, la vetrina ottimale per trovare un marito. Spiega Mirigliani: "Non sono convinto che miss Italia debba per forza finire nel cinema. Può anche diventare una buona madre e una buona moglie". Sarà un concorso anacronistico ma è ancora seguitissimo dal pubblico. Anche grazie a un' attenta strategia che non è eccessivo definire di "marketing". Obiettivo: riuscire ogni anno a far parlare della manifestazione, a creare la "notizia".
Complice un inesauribile bagaglio di piccoli scandali e frivole controversie che di edizione in edizione provocano polemiche o discussioni sul regolamento. Se in passato poteva essere un centimetro in più o in meno del dovuto, un' età falsa, un matrimonio o una maternità nascosta, quest' anno i "peccati" venuti alla luce sono sociologicamente aggiornatissimi. Come quello confessato da Giovanna Fanelli, nota all' anagrafe come Giovanni, ex maschio passato al gentil sesso da solo un anno con un intervento chirurgico.
"La mia era una malformazione ai genitali", si è giustificata la ragazza, "ma sono sempre stata una donna a tutti gli effetti. Posso anche avere bambini". Comunque, per la giuria, deve essere eliminata.
Fuori anche Sylvie Lubamba, primo caso di concorrente di colore.
Diciassette anni, nata a Firenze da genitori zairesi, la ragazza nera sarebbe stata esclusa dalle ultime selezioni a causa di alcune foto nude pubblicate da Eva Express. L' inesorabile regolamento, austero e inflessibile sui capisaldi della morale, una modifica quest' anno l' ha però subita: per la prima volta a presiedere il concorso è stata chiamata una donna, Gina Lollobrigida, storica partecipante, insime a Silvana Mangano, Lucia Bosè, Eleonora Rossi Drago, all' edizione del 1947 di miss Italia. Vinse la Bosè, ma l' apparizione in passerella fu comunque l' occasione decisiva per far conoscere al pubblico la Lollobrigida, sulla cui avventura a miss Italia nel dopoguerra il regista Dino Risi ha deciso proprio in queste settimane di girare un film. Per le aspiranti miss un bel modello: mentre seleziona le più belle d' Italia, la Lollobrigida si espone in Francia con l' adesione al "Comitato nazionale del sì" in vista del referendum sull' integrazione monetaria decisa a Maastricht. Ma quante Lollobrigida sono uscite dalla pedana di Salsomaggiore? Il concorso, che nel 1939, quando cominciò, si chiamava "Cinquemila lire per un sorriso", ha segnato in passato il successo sicuro. "Ma in tempi recenti solo Federica Moro, vincitrice nel 1982, ha raggiunto veramente la notorietà", dice Elenora Polidori, capo ufficio stampa del concorso.
A che serve allora diventare miss Italia? Enzo Mirigliani risponde appunto che è "solo un gioco capace di offrire buone occasioni". Poi dipende da loro, dalle miss. "Spesso sono ragazze sprovvedute", dice Elena Polidori, "vivono ancora nel mondo delle soap opera, con il mito di Carolina di Monaco o Lady Diana. L' anno scorso mi sono finta aspirante miss per scrivere un' inchiesta - verità. Provate a chiedere alle ragazze chi è Eltsin o cosa pensano di Bossi.
Rimarranno ammutolite". Ma dopo, dopo la finale, dopo l' impatto con la vita che provoca il titolo di miss, cosa succede? Epoca lo ha chiesto alle vincitrici degli ultimi quattro anni. Ecco le loro storie.
NADIA BENGALA CHE COSA HO DOVUTO PAGARE PER DIVENTARE FAMOSA Nadia Bengala, 29 anni, miss Italia nel 1988, in qualche modo ha sfondato. A giudicare almeno dal numero di apparizioni, seno in copertina, che le continua a riservare la stampa rosa a quattro anni dal titolo. "E' inutile prendersela con i giornali", dice la Bengala senza imbarazzi, "se sei un personaggio è un prezzo da pagare". E quindi, piuttosto che rischiare le foto "rubate", tanto vale prestarsi di propria spontanea volontà. Anche perché i risultati non mancano: particine al cinema, spazi in tivù. Per esempio in una serie di telefilm che andranno tra poco in onda su RaiDue, Un inviato molto speciale con Lino Banfi. Il giochino delle foto, però, all' epoca in cui fu eletta più bella d' Italia le stava costando il titolo: si parlò di un servizio spinto per il quale avrebbe posato e che, insieme ai dubbi sulla sua vera età e a un presunto contratto con Canale 5, le fece rischiare la squalifica. "Non che io avessi bisogno di miss Italia. Quando ho vinto il titolo avevo 26 anni, lavoravo già come modella, ero conosciuta nei giri giusti. A Salsomaggiore ci sono finita per caso, dopo una prima selezione vinta ad Alghero mentre ero in vacanza. E infatti ho avuto un successo maggiore delle altre, un vero boom. Mi hanno voluta dappertutto. Per intenderci, anche in posti dove miss Italia non aveva mai messo piede". Un esempio? "Beh, feste, serate, programmi televisivi". Origini siciliane e un diploma di ragioniera, la Bengala si è trasferita da Milano a Roma, dove si è iscritta all' Accademia di arte drammatica, seguita e difesa da un fidanzato tuttofare, Luigi de Filippis, di professione agente immobiliare. "Se vuoi aver successo devi costruirti anche una professionalità". Come attrice di teatro? "Anche. Ho debuttato quest' inverno all' Anfitrione di Roma, con una commedia brillante che ricalcava i Sei personaggi in cerca d' autore di Pirandello".
Ricalcava? "Sì, c' erano molte gag. Ma anche un po' di tragedia come piace a me che adoro i ruoli complessi, le situazioni forti, complicate dal punto di vista psicologico. Mi piace Camus, per esempio". E tra le attrici, chi le piace? "Paola Pitagora: l' ho vista recitare in Candida di George Bernard Shaw. Che combinazione! E' il testo che ho portato all' esame per entrare in Accademia. La Pitagora lo recitava proprio come me".
ELEONORA BENFATTO COSI' SONO RIUSCITA A LAVORARE IN TELEVISIONE Parte da una certezza: "Il mondo di oggi è quello dello spettacolo".
E sulle ali di questa non per tutti lapalissiana verità, Eleonora Benfatto ha cominciato a costruire quello che, con apprezzabile modestia, chiama il suo "piccolo personaggio". Incoronata miss Italia nel 1989 a soli 16 anni, Eleonora confessa un' innata predisposizione alla luce dei riflettori. "A 14 anni frequentavo già una scuola per indossatrici. Ho deciso di partecipare al concorso proprio per avvicinarmi a questo mondo da cui sono sempre stata affascinata".
Sicura di vincere non lo era, "troppo magra, troppo mingherlina".
Però disposta a dar battaglia: "Combattiva lo sono sempre stata e quando mi metto in testa di fare una cosa ci riesco sempre". C' è riuscita, appunto: la bella ragazzina bionda, figlia di un autotrasportatore di Vigonza, a pochi chilometri da Padova, costretta a interrompere gli studi per problemi familiari, ha conquistato il titolo di miss. Con tutto ciò che ne segue. Le lettere degli ammiratori, per esempio. "Ne ho ricevute più di 300, ben conservate in un baule. Ho risposto a tutti, a Natale, inviando una mia foto con gli auguri". Non solo. Una volta scaduto l' anno di contratto obbligatorio con gli sponsor del concorso, eccola sugli schermi di Canale 5, al Gioco dei 9: "Come valletta. Certo, non è il massimo, perché in realtà vorrei fare la presentatrice. Ma visto che Alba Parietti ci ha messo dieci anni, io che sono appena maggiorenne, posso ancora aspettare". A tal scopo si è diligentemente iscritta a un corso di recitazione e a uno di dizione, trasferendosi nel frattempo da Vigonza a Milano, in un bilocale senza pretese: "Ma ormai guadagno abbastanza per potermi mantenere. Oltre che in tivù lavoro pure come modella". Milano da bere, come si diceva prima delle tangenti? "Sì, qualche festa, le cene. Ma soprattutto roba di lavoro". E le celebrità? "Ne ho conosciute molte, ma io non sono mai stata una di quelle fissate, con i poster in camera dei cantanti e degli attori. Mi piace Gerry Scotti: ho lavorato con lui sei mesi al Gioco dei 9, è una persona fantastica, gentile con tutti. Ho conosciuto cantanti, presentatori, atleti. E calciatori. Gli eroi degli stadi, chissà perché, sono i più sensibili al fascino delle miss. Ne rimangono letteralmente ammaliati". Eppure gli affari di cuore per ora sono rimandati a data da destinarsi, così come la speranza di finire gli studi: "La vita privata è un guaio. Sono sempre in lotta per riservarmi un piccolo spazio. Ma per la verità questo è il momento della carriera". Una carriera che, deposta la coroncina di miss ormai da due anni, a Eleonora Benfatto non sembra più un miraggio. "Alle finali di Salsomaggiore ho visto sfilare ragazze impaurite, timide, impacciate, magari senza nessuna voglia di partecipare al concorso, spinte solo dalle mamme. Quelle così non arriveranno da nessuna parte. Se vuoi entrare nel mondo dello spettacolo devi esserci tagliata da sempre". Di certezza in certezza.
Compresi il sistema per raggiungere il traguardo: "Ci vuole grinta, aggressività. Devi sempre saper tener vivo il ricordo del tuo "piccolo" personaggio". Piccolo, nella speranza che un giorno diventi "grande".
ROSANGELA BESSI MI HANNO FATTO TANTE PROMESSE, E INVECE. . .
Esaltazione e rabbia: i due estremi di una parabola che racchiude, dall' autunno del 1990 a quello del 1991, i 365 giorni vissuti da prima donna d' Italia. Rosangela Bessi, 19 anni, occhi scuri e capelli castani, proclamata miss due anni fa, li ricorda entrambi perfettamente: "Il momento più fantastico è stato quando ho ceduto il titolo alla nuova eletta. Mi aspettavano al ristorante. Sono arrivata in ritardo. Le concorrenti del concorso erano tutte lì. Ho sentito solo il coro, le ragazze che mi accoglievano cantando a squarciagola: Sei belliiissiiima. . . A Telemike invece è stato uno schifo. Io davanti alle telecamere con solo il body addosso, la fascia di miss Italia e la corona in testa. Mike Bongiorno che si rivolge a Mister Italia, il vincitore del concorso maschile, intrattenendosi in chiacchiere sul futuro del bellone che voleva fare il regista e un mucchio di altre palle. Poi viene da me e mi dice: quanti anni hai? Diciotto. Brava, brava e mi liquida come fossi solo una bambolina".
Tra i due estremi, per Rosangela, diploma di ragioniera e vita in famiglia a Romano di Lombardia (Bergamo), un bilancio è forse impossibile. Un continuo oscillare tra la seduzione del successo e la fatica di reggere il ruolo. "Lo capisci dopo, quando scopri retroscena insospettati. Gli sponsor di miss Italia ti tengono sotto ingaggio per 13 mesi. Un lavoro massacrante, sfilate, servizi fotografici, presenze in tivù, partecipazioni a serate, in cambio di 50 milioni che non sono affatto tanti come sembrano. Per più di un anno ho girato l' Italia da sola, senza nessuno accanto che mi potesse dare un consiglio o anche semplicemente aiutarmi a risolvere i problemi pratici. Mio padre è morto quando avevo due anni e mezzo.
Mia madre ha un negozio da mandare avanti e non poteva certo badare a me che salivo e scendevo dai treni e dagli aerei. Sì, ero al centro dell' attenzione, corteggiata, ammirata, curata. Ma abbandonata a me stessa". Effetti collaterali? La fine di una storia d' amore con un coetaneo. "Mi accorgevo che stavamo procedendo con tempi diversi. Lui restava un ragazzino, si affidava a me. Io crescevo, maturavo, imparavo a difendermi. Dopo infatti mi sono messa con un uomo più adulto. E' durata un po' , ma è stato difficile perché non volevamo finire sui giornali. Ora sono innamorata di un calciatore. Il nome non lo dico, la squadra nemmeno. Si capirebbe subito chi è". "Con gli uomini mi sono sempre trovata meglio che con le donne. Anche se qualche episodio spiacevole c' è stato. Uno che credevo amico l' ho mandato al diavolo quando mi sono accorta che usciva con me solo per il piacere di dire: vi presento miss Italia. E no, io sono prima di tutto Rosangela Bessi". Rosangela Bessi ora è un' ex miss. Finito l' anno di ingaggio, cosa è successo? "Mi hanno fatto tante promesse, e invece. . . Così ho dovuto cercar di mettere a frutto le conoscenze che avevo. Lavoro come modella. E ho finito gli studi: dal 1990 al 1991 sono andata a scuola tre volte, solo quest' anno sono riuscita finalmente a prendere il diploma". Il suo obiettivo è passare attraverso la moda per arrivare al cinema ("C' è riuscita Monica Bellucci, no? "), ma anche riconquistare la serenità perduta: "Tornare a essere quella che ero prima. Ritrovare la tranquillità, un momento di relax. Vorrei una casa al mare, ma non in Costa Smeralda.
In un posto dove non ci sono i paparazzi. Non mi piace l' ambiente dello spettacolo, dove è tutto falso, calcolato, dove non c' è niente di vero".
MARTINA COLOMBARI INSIEME AL TITOLO HO CONQUISTATO ALBERTO TOMBA Salsomaggiore, settembre 1991. Gruppo di famiglia in un esterno: una mamma che piange, un papà che insiste, una ragazzina che fino a ieri giocava con la Barbie e ora vuol far di testa sua. E' Martina Colombari, 16 anni, occhi azzurri e capelli biondi, appena nominata miss Italia. I genitori vogliono che rinunci al titolo, ma lei non ci pensa nemmeno. La spunta. "Così adesso, passato un anno, mi trovo in giuria per eleggere la ragazza che prenderà il mio posto. Voterò una come me, tipo nordico. Il genere mediterraneo non mi piace affatto".
Un anno da miss ha cambiato molte cose. "Ma non ho trovato il mondo incantato che pensavo, la favola dove credevo di essere la principessa. Ho dovuto lavorare tanto. Mi sembra di aver vissuto tre anni in uno, di essere molto più vecchia dei miei coetanei. Però ho fatto e continuerò a fare quello che avevo sempre voluto: la modella". A scuola Martina è stata bocciata, frequentava il secondo anno del liceo scientifico. Non ha avuto più tempo per divertirsi nelle discoteche di Riccione, dove vive con mamma e papà, proprietari di un ristorante. Ha rotto con il fidanzato. In compenso ha viaggiato, ha dormito nei migliori alberghi, ha avuto mille persone che si sono occupate di lei. E si è guadagnata le attenzioni di un campione di sci come Alberto Tomba che, dopo averla votata al concorso, non ha perso occasione per invitarla a uscire. E ancora adesso la esibisce volentieri al suo fianco. "No, su lui non dico niente. Ci provano tutti a farmi parlare. Ma nessuno ci riesce.
Perché io sono rimasta quella che ero. Certo, ho dovuto adeguare il mio comportamento esteriore alle circostanze. Ma interiormente non sono cambiata". Giura che continuerà la scuola: "Perché questo tipo di carriera dura poco. Senza cultura ancor meno".




Testata
Epoca

Data pubbl.
19/08/92

Numero
2184

Pagina
126

Titolo
SCUSI, DOV' E' LA MAFIA?

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI FRANCESCO CITO

Occhiello
Viaggio tra i soldati spediti in Sicilia dopo gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Sommario
Vengono dal Nord. Cuociono al sole nei giubbotti antiproiettile. Hanno armi da guerra, ma non sanno contro chi puntarle. "E' peggio che in Libano. Là almeno sapevi chi era il nemico" . "Un mese di esercitazioni in Francia con la Legione straniera, ed eccoci qui a caccia di mafiosi" "Già ora il caricatore è sempre inserito. Se sarà il caso ordineremo di mettere il colpo in canna"

Didascalia
Una jeep di paracadutisti della
Folgore in perlustrazione sulle strade siciliane.
L' ARRIVO Partiti da Livorno a
bordo di un traghetto civile, 500 soldati della brigata Friuli
approdano a Palermo il 31 luglio.
IL PALAZZO DEI VELENI Il turno di
guardia al Palazzo di giustizia di Palermo, sconvolto dagli ultimi
attentati.
TUTTI DI LEVA Sono 7 mila, del Nord, hanno 18-19 anni o poco più.
TRA LA GENTE Per i soldati un vademecum sugli usi del posto.
CASA GRASSI L' azienda di Libero Grassi: uno dei 35 obiettivi
sensibili.
QUI CASA ORLANDO Ogni macchina che transita mette a dura
prova i nervi dei soldati.
QUI CASA FALCONE Presidiato il palazzo dove ogni giorno la
gente depone fiori e messaggi di speranza.
NEL VENTRE
DELL' AUTOSTRADA Dopo l' attentato di Capaci che ha colpito Falcone,
sua moglie e la scorta, le truppe giunte dal Nord hanno l' ordine di
ispezionare tutti i canali di scolo e gli spazi abbandonati sotto le
grandi arterie stradali.
NELLA PALERMO
BENE Presenza "forte" dello Stato e testimonianze della società
civile in via Notarbartolo.

Testo
Maurizio è perplesso. Guarda l' autostrada davanti a sé, allo svincolo che da Palermo indica direzione Villabate, guarda i mitra dei compagni impegnati in un pattugliamento, e borbotta: "Ci insegnano che dobbiamo stanare il nemico, ma dov' è ' sto nemico? Un mese in Francia a far esercitazione con i soldati della Legione straniera, e adesso eccoci qui in Sicilia a combattere la mafia. Almeno se vedesse ' sta mafia..." . Maurizio viene da Roma, ha vent' anni. Gli mancano tre mesi per finire la leva. Tre mesi che trascorrerà a Palermo, visto che è stato chiamato, insieme a un migliaio di altri paracadutisti della Folgore, a partecipare all' operazione Vespri Siciliani, altrimenti detta Operazione Trinacria, o anche enfaticamente battezzata Mafia Storm. Settemila soldati spediti in Sicilia come supporto a carabinieri e polizia. Come risposta "forte" dello Stato alle stragi di Capaci e di via D' Amelio a Palermo.
Settemila ragazzi, paracadutisti, fanti, bersaglieri, alpini, mandati per la prima volta sulle trincee della mafia. Hanno 18-19 anni o poco più. Vengono in maggior parte dal Nord. Molti di loro non hanno mai messo piede in Sicilia. Sanno poco e nulla di come vanno le cose al Sud. Ma la loro missione è delicata: "controllo del territorio" , è stato detto, riconquista di una regione ormai dominio della criminalità. "Allevieranno il lavoro di poliziotti e carabinieri, che devono invece concentrarsi sulle indagini" , ha spiegato il ministro della Difesa Salvo Andò, "si occuperanno delle perquisizioni, dei pattugliamenti, dei fermi, dei posti di blocco" .
Ma Claudio Martelli, ministro della Giustizia, ha già espresso qualche riserva: "Sì all' esercito, con la prospettiva però di utilizzare in futuro, al posto dei ragazzi di leva, reparti specializzati e battaglioni di carabinieri" . Il suggerimento viene da un tecnico, l' onorevole Antonio Pappalardo, ex tenente colonnello dell' Arma a Palermo, oggi deputato del Psdi e vicepresidente della commissione Difesa alla Camera: "Occorre gente capace di svolgere anche mansioni informative" , dice. "Davvero si vuol far credere al Paese che questi poveri ragazzi possano dar fastidio a Cosa Nostra?" . Vista con gli occhi del paracadutista Maurizio la lotta alla mafia è azione ancora vaga. "Siamo armati come fossimo in guerra, però stiamo qui a far niente" , dice il ragazzo con una punta di delusione, "a controllare l' autostrada, a presidiare notte e giorno i palazzi dove abitano i magistrati" .
Mafia Storm? Ai parà, corpo di guerrieri, sembra solo un lavoro di routine. Qualche pattugliamento, un' incursione (senza esito) a Corleone, il paese di boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Ma, per il resto, tutto il giorno sotto il sole a contare i passi sui marciapiedi, a preoccuparsi che macchine sospette non si fermino vicino ai cosiddetti "obiettivi sensibili" indicati dall' ex prefetto di Palermo, Mario Jovine. Oltre ad aver chiuso lo spazio aereo, caso mai Cosa Nostra tentasse un attacco dal cielo, prima di essere sostituito con Giorgio Musio, arrivato il 10 agosto da Firenze, Jovine ne aveva individuati 35. La tomba di Falcone, per esempio, quella di Borsellino. Ma anche il Palazzo di giustizia, l' Ucciardone, le case dei magistrati antimafia... Stessi compiti toccano ai fanti della brigata Friuli, sguinzagliati tra Agrigento e Catania, agli alpini della Julia, messi di guardia sotto le mura di cinta degli stabilimenti dell' Enichem di Priolo, ai soldati dell' Aosta, sparpagliati un po' dovunque. "Che rottura" , sbuffa Paolo, 20 anni, di Caltanissetta, di guardia alla tomba del giudice Falcone. "Tanto non serviamo a niente" . Eppure sabato 25 luglio, quando i primi parà del battaglione El Alamein sono sbarcati all' aeroporto di Punta Raisi, lo scenario sembrava diverso. "Giù le coppole, siamo arrivati" , è stato il saluto di un giovane guerriero del Nord alla terra di Sicilia. Una battuta pagata cara. "Guai a chi si permetterà in futuro simili sciocchezze" , hanno ammonito gli alti comandi. Ma guai anche a chiunque si azzardi a parlare dell' operazione Vespri Siciliani. Bandite impressioni, sensazioni, pareri. La parola tocca solo ai generali. "Il nostro non è uno show da vetrina" , dice il capo di Stato maggiore, generale Goffredo Canino. "I soldati potrebbero anche essere costretti a sparare. Il caricatore è sempre inserito. E, se è il caso, ordineremo di mettere il colpo in canna" . Convinti o meno, i militari hanno comunque capito che non è il caso di fiatare. Una dimostrazione, davanti al palazzo che ospita, in via Villafranca, la segreteria politica di Leoluca Orlando. Da quando è stato minacciato di morte, il leader della Rete si vede raramente. Ma i suoi uffici rappresentano comunque un obiettivo "sensibile" e ogni macchina che passa sfianca i nervi dei soldati. Un biondino dagli occhi chiari, già alla prima domanda, si fa scuro in volto: "Vengo da Bergamo. Ma non fate domande per favore: ci mettete nei casini" . Più tranquillo Palazzo di giustizia? Macché. Qui il paracadutista di turno chiama in aiuto il tenente, via radio: "Nessuno è autorizzato ad avvicinarsi" . Ma il compagno, pochi metri più in là, sudato fradicio sbotta: "E dire che dovevo partire in licenza, in montagna. Invece qui, con questo caldo..." . Da dove vieni? "No comment" . La gente passa accanto con scarsa curiosità, indifferente alla divise, ma perlomeno parla: "L' altro giorno un metronotte che abita nel palazzo di Carmine Mancuso è stato quasi assalito. Lui era nel cortile e i soldati hanno scavalcato il cancello con il mitra in mano dandogli l' altolà" . Nessuna meraviglia: fa parte delle loro mansioni. "I soldati che sono in Sicilia erano pronti per andare in Iugoslavia" , spiega il generale di corpo d' armata Paolo Cavanenghi, che comanda la missione. "Qui, certo, la situazione è diversa. Ma abbiamo distribuito un vademecum che dice come comportarsi e come adeguarsi agli usi e ai costumi del posto" . Suggerimento numero uno: mai sottovalutare il pericolo, mai dimenticare che Palermo è una trincea. Come Beirut. Giuseppe, sottufficiale dei parà, origini venete e residenza a Livorno, in Libano ha passato più di una stagione e non riesce a evitare il paragone: "Peggio di Beirut.
Molto peggio. Là almeno sapevi da chi dovevi difenderti, dove stava il nemico. A Palermo no. Possono prenderti alle spalle in qualsiasi momento" . Per lui, impegnato nel coordinamento delle pattuglie, l' Operazione Trinacria è tutta un bluff. A cominciare dagli ordini che vengono dai superiori. Confusi, contraddittori, così come i tanto decantati compiti di polizia giudiziaria attribuiti ai soldati. "Sì, io sparo, ma se ammazzo qualcuno cosa mi succede? Vai in galera, mi è stato risposto. E allora perché continuano a dire che possiamo caricare il fucile? E se incontro un latitante? Posso fermarlo, ma non posso arrestarlo. Che almeno ci facciano capire cosa dobbiamo fare esattamente" . Nel dubbio, i soldatini preferiscono stare fermi al loro posto. Com' è successo per esempio il 28 luglio, quando un tossicodipendente è entrato in una farmacia di fianco al Palazzo di giustizia, ha rapinato la cassa ed è uscito con 200 mila lire. I soldati non se ne sono nemmeno accorti. "E del resto che cosa avrebbero potuto fare?" , commenta Alberto, 19 anni, studente di Pavia, al momento paracadutista, di guardia alla casa di Falcone. "Anche qui, stiamo tutto il giorno fermi. Al massimo controlliamo i documenti ai marocchini" . Alberto è il primo che accetta di scambiare quattro chiacchiere, "ma solo perché sono "capo muta" " , precisa, "e questo è un posto tranquillo" . Il tratto di via Notarbartolo dove stazionano quattro militari e una volante della polizia, è, ormai, più che un "obbiettivo sensibile" , un luogo di pellegrinaggio, con un grande albero davanti al portone, pieno di foto, dediche, lettere al magistrato morto, e mazzi di fiori deposti ogni giorno dai passanti. "Beh, spero proprio che nessun latitante venga qui" , dice ancora Alberto. "Oltretutto, non sarei nemmeno in grado di riconoscerlo" . Rosso in viso per il sole, con lo sguardo attento a ogni automobile che si ferma, il ragazzo di Pavia scuote la testa: "Paura? Ce l' ha mia madre. Mi telefona tutte le sere. Io non mi preoccupo, almeno per ora. E poi, se ci avessero mandato a Sarajevo?" . Eppure c' è stato un attimo di panico in caserma, a Siena, quando hanno comunicato che nel giro di poche ore sarebbero dovuti partire per la Sicilia: "Il primo pensiero: e che ci andiamo a fare. Il secondo: se la mafia mette un' autobomba, saremo noi a fermarla?" . Sono le sei del pomeriggio. Che fa la sera il paracadutista di Pavia con i commilitoni del Mafia Storm? Lui è troppo stanco per andare a spasso. A piazza Politeama, invece, altri soldati si avventurano in libera uscita. Ce ne sono tre, in jeans e maglietta, riconoscibili per i capelli rasati ai lati. Stanno leggendo gli slogan di un gruppo di donne che da qualche giorno fa lo sciopero della fame per protesta contro chi amministra Palermo e chi governa da Roma. Due dei ragazzi, napoletani, ridacchiano: "Palermo? Ma chi ha paura di Palermo..." . Il terzo non ride. Si chiama Donato, viene da Cuneo, ma si sente più tedesco che piemontese, per via della madre nata ad Amburgo. E' la prima volta che mette piede in Sicilia: "Vista dal Nord, Palermo sembra una città tremenda. Poi parli con i ragazzi di qui e ti sembrano persone normali. Ma a ricordarti che qui niente è normale c' è la polizia che continua a girare per le strade. E ora ci siamo anche noi" .
Donato è arrivato in Sicilia con entusiasmo, convinto che è sempre meglio star sul campo che chiuso in caserma. "Però" , dice, "a questa storia della mafia non ci credo. Mi sembra una moda. Come se esistesse solo al Sud. Ci mandano qua, ma perché non andiamo invece a Roma?" . Donato è figlio di un esperto informatico, ha girato il mondo. Studi un po' dispersivi, niente diploma. Così ha firmato con l' Esercito per tre anni. E' grande, grosso, biondo e ha gli occhi azzurri. "Sì, tra i paracadutisti ci sono molti che parteggiano per Bossi. Io no. Io sono qui a passeggiare per le strade, non ho paura come certi bergamaschi o bresciani che non escono neanche dalla caserma per timore di chissà cosa" . L' altra sera però si è perso: "Questa Palermo è bella, ma non riesco mai a capire dove sono, è talmente caotica. E poi, chiedi un' informazione, ti rispondono in dialetto e io il siciliano non lo capisco proprio" . E la mafia, Donato, la capisci? Donato risponde vago. "La mafia è solo delinquenza..." . Poi, finendo una birra: "Mah sì, meglio noi a Palermo che niente. Qualcosa di buono alla fine la faremo" . Secondo un magistrato, Giuseppe Barcellona, procuratore aggiunto presso la Pretura di Palermo, qualcosa di buono l' hanno già fatta. "In coincidenza con l' arrivo dell' esercito" , ha detto il giudice, "a Palermo c' è stato un calo del 70 per cento dei reati minori" . I furti in appartamento sono passati da una media quotidiana di 30 a 5, quelli d' auto da 40 a 15, gli scippi da 10 a 3. Forza ragazzi, meglio che niente...




Testata
Epoca

Data pubbl.
05/08/92

Numero
2182

Pagina
48

Titolo
IL CASO FUNARI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
IL DIVORZIO DALLA FININVEST

Sommario
E' successo tutto così repentinamente che si fatica a capire come siano andate davvero le cose. Eppure è successo: tra il popolare conduttore di "Mezzogiorno italiano" e la Fininvest all' improvviso è scoppiato il divorzio. Questione di orgoglio o di soldi? Una storia controversa, con un inizio certo: è domenica sera e a casa Berlusconi il fax comincia a trasmettere un messaggio... Da mesi andava dicendo: "Me ne vado, me ne vado" . Però continuava a programmare e a chiedere spazi e mezzi.

Testo
La redazione? Deserta. Il camerino con i divani rossi, la tenda rossa e la specchiera con su incollati i ritagli dei giornali? Chiuso a chiave e, naturalmente, deserto. Di Gianfranco Funari e dei suoi collaboratori, negli uffici Fininvest di Cologno Monzese, ormai nessuna traccia. Il conduttore ha dato le dimissioni, l' azienda le ha immediatamente accettate e nell' arco di un solo pomeriggio, quello di martedì 21 luglio, Mezzogiorno italiano, la trasmissione da lui condotta dallo scorso settembre, è sparita dai palinsesti di Italia Uno. L' ultima, seguitissima puntata: in mattinata, con i commenti sulla morte del giudice Paolo Borsellino. Motivo della rottura? "Funari ha deciso personalmente e unilateralmente di interrompere i rapporti contrattuali in corso" , ribadisce la Fininvest. L' ha fatto scrivendo personalmente a Silvio Berlusconi: "Recenti fatti, recenti dichiarazioni di personaggi affermati del gruppo, recenti atteggiamenti dirigenziali mi costringono a riflessioni sui tempi e sui modi della nostra collaborazione" . Chiede di essere "risollevato dall' in- carico" .
Eppure il successo non gli non manca. E, stando alle sue parole, in Fininvest, nemmeno libertà d' azione e di pensiero. Insulta i politici, critica i potenti... "Che si sia montato la testa?" , sussurra qualcuno. Forse perché il direttore di RaiTre, Angelo Guglielmi, contro il parere del direttore generale Gianni Pasquarelli, si sta battendo per averlo tra i suoi? Alla Fininvest si dichiarano comunque "meravigliati, sbalorditi, sorpresi" dalla sua richiesta, in un momento per giunta in cui l' azienda ha appena promesso lunga vita alla sua trasmissione. E' vero che da mesi Funari andava ripetendo, e neanche tanto sottovoce: "Me ne vado, me ne vado" . Però continuava anche a programmare, a chiedere spazi, mezzi, soldi. Prolungare la trasmissione fino al 26 settembre? Perché "io so' n giornalaio. E i giornalai ce stanno d' estate e d' nverno" . Riprenderla il 29 per un ciclo invernale? Gestire finalmente, a partire dal 3 ottobre, anche un talk show per il sabato sera? Avere tre nuovi maxi schermi, le regie mobili, altra gente in redazione? Tutto accordato. "L' unica cosa che volevamo in cambio" , dice Carlo Vetrugno, direttore di Italia Uno, "prima di impegnarci con le spese, era che lui firmasse il nuovo contratto, visto che il vecchio è scaduto dal 12 giugno" . Una preoccupazione per i dirigenti di Berlusconi: "Gianfranco continuava infatti a ripetere con il suo solito fare provocatorio che lui questo contratto non l' avrebbe firmato mai" . Ed è proprio di fronte a un' ultima richiesta dell' azienda che "er giornalaio" più famoso d' Italia, invece di firmare, a sopresa decide di spedire un fax a Silvio Berlusconi. Sono le sette di sera di domenica 19 luglio. Il dispaccio con la presentazione delle dimissioni arriva a Villa Sanmartino, ad Arcore, nella residenza privata del presidente della Fininvest. Si lamenta appunto Funari nel suo messaggio di "recenti fatti, affermazioni di personaggi, atteggiamenti dirigenziali" tesi a screditarlo. Allusione, neanche troppo velata, a Maurizio Costanzo che, durante il suo show, gli ha dato del "presuntuoso" e del "mitomane" . L' indomani, lunedì, la star di Mezzogiorno italiano, in ritiro nella sua casa di Loano, al mare, attende una risposta.
"Al telefono" , racconta Adriana Treves, una delle colonne della trasmissione, "non sembrava affatto preoccupato. Abbiamo parlato della puntata dell' indomani. Lui avrebbe voluto in studio Leoluca Orlando, che però era impegnato a Palermo" . Martedì, 21 luglio, sembra una giornata come tutte le altre. A parte la trasmissione che, per via dell' uccisione di Borsellino, si preannuncia ad alta tensione. Gianfranco Funari arriva in redazione verso le 10. Prende il caffè, dà un' occhiata ai filmati e si rimette nelle mani di Giusy, la truccatrice, che è pure la sua compagna. Qualcuno come il regista, Ermanno Corbella, già sa. Ma nessuno parla del fax. Alle 3, Funari va in banca accompagnato dall' autista della Fininvest. Alle 5, lo aspettano per una riunione. L' incontro, a porte chiuse nel suo camerino, è con gli sponsor del mese di agosto, alcuni manager della Mondadori che devono concordare il programma pubblicitario per il Club degli editori. Due versioni sull' incontro. La prima: riunione fondamentale per il futuro di Mezzogiorno italiano. Funari esce sbattendo la porta. La seconda: riunione di routine, con caffè caldo per tutti, quattro chiacchiere e la stesura di un piano di lavoro. "No, nessun problema con gli sponsor" , rassicura Carlo Vetrugno. L' alto indice di gradimento del conduttore frutta bene all' azienda: trenta o quaranta miliardi, secondo Funari. Quindici, ribassano i rappresentanti di Pubblitalia, l' agenzia di Berlusconi.
Nell' un caso o nell' altro, comunque un' ottima copertura. Mentre in camerino si discute, il fax firmato Gianfranco Funari sta per ultimare il suo giro. Dalle mani di Silvio Berlusconi arriva al tavolo di Carlo Vetrugno, direttore di rete. "In quel momento stavo proprio per firmare il contratto di lavoro di nove persone destinate allo staff di Funari. Ci penso un attimo. Poi prendo la mia decisione: non firmo. Gianfranco se ne vuole andare? Dice di essere richiestissimo in Rai? Allora, se ne vada pure. Non siamo più disposti a impegnarci per lui, senza avere in cambio garanzie" .
Alle 8 di sera, il destino di Mezzogiorno italiano è già segnato.
Funari riceve la lettera di "accettate dimissioni" nel suo camerino, poi chiama al telefono Adriana Treves. E con voce impassibile: "Non c' è bisogno che tu vada a Roma per i collegamenti da Montecitorio.
E' tutto sospeso" . Chiude a chiave la camera, lascia tutto dentro, compresi i vestiti nell' armadio, e al volante della sua Bentley si allontana verso Loano. Torna a casa, al mare. Inutilmente, mercoledì, cercherà di telefonare al numero di Arcore di Berlusconi.
Il cavaliere è a Milanello. Si è slogato una caviglia ed è a farsi visitare da Giovan Battista Monti, medico del Milan. Intanto, Italia Uno trasmette al posto della trasmissione di Funari un vecchio telefilm. Al centralino della Fininvest, i telefoni squillano. Le chiamate sono più di trecento: "Perché è stato sospeso Mezzogiorno italiano? E Funari, dov' è finito?" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
29/07/92

Numero
2181

Pagina
32

Titolo
SOLA CONTRO TUTTI

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Michele Gigliotti

Sezione
STORIE

Occhiello
GUERRA ALLA MAFIA

Sommario
Che cosa succede a un cittadino che assiste a un omicidio di mafia e poi trova il coraggio di denunciare gli assassini? Ecco la storia di Rosetta Cerminara, ragazza ventunenne di Lamezia Terme. Ha visto uccidere l' ispettore Salvatore Aversa, ha riconosciuto i colpevoli, si è rivolta alla polizia. Da allora, la sua vita è diventata un incubo. Rinnegata dai parenti, tenuta alla larga in paese, ha una sola speranza: che non la trovino mai.

Didascalia
La testimone
IL COMMISSARIO
Ferdinando Palombi, 43 anni, da quattro mesi
commissario di PS a Lamezia: "I familiari di Rosetta escono di casa
sotto scorta e avvertendoci prima" .
IL CAPUFFICIO
Domenico D' Elia,
50 anni, titolare dell' agenzia Aci dove lavorava la super-teste:
"Ci ha dato una mano per un paio di mesi a far pratiche. Ora è
sparita" .
I due presunti assassini
La vittima
IL MAGISTRATO
Adelchi D' Ippolito, Pubblico
ministero nel processo di Catanzaro: "Rosetta non potrà più tornare
a un' esistenza normale. Vivrà sempre con la paura" .
LA PARTE CIVILE
Walter Aversa, 30 anni, figlio del maresciallo ucciso nel
gennaio scorso (nella foto piccola in alto): "Il problema è stato
convincerla a parlare con la polizia" .
IL CONOSCENTE
Vincenzo Ruberto, 38 anni, funzionario
della Cgil: "La gente ha paura, si chiede dov' è finita Rosetta. Ma
nessuno si sbilancia in suo favore" .
L' AVVOCATO
Armando Veneto,
legale dei presunti killer: "La super-teste è una mitomane, racconta
bugie. Si è messa in un gioco più grande di lei" .
UN AMICO
Antonio
Paoli, gestore di un poligono di tiro dove si esercitava Rosetta.
"Suo padre mi ha confessato: " Ho perso la libertà. Spesso metto la
testa tra le mani e piango" " .
UN CITTADINO
Vincenzo Masi, anziano
tesserato del Pds e abitante del quartiere Bella: "Quando abbiamo
denunciato quello che succedeva qui a Lamezia, nessuno ci ha
ascoltato" .

Testo
Rosetta è sparita. Da sei mesi nessuno sa dov' è. Dicono che sia stata portata a Roma, che viva sotto scorta, che forse ha cambiato nome... Tutti sanno però quello che Rosetta Cerminara ha fatto. Ha accusato due giovani di Lamezia Terme, tra cui il suo ex fidanzato, Renato Molinaro, di essere i killer del maresciallo Salvatore Aversa: il poliziotto ucciso con la moglie Lucia Prescenzano il 4 gennaio scorso e del quale, massimo spregio, la ' ndrangheta ha poi riesumato e bruciato il corpo. Il 13 luglio la ragazza, 21 anni, è riapparsa in Calabria per testimoniare davanti alla Corte d' Assise di Catanzaro: l' accompagnavano 15 uomini di scorta e 3 macchine blindate. Mai nessuno a Lamezia, terra di ' ndrangheta, di 20 omicidi all' anno (gli ultimi due, la notte tra il 19 e il 20 luglio), di collusione tra potere politico e mafioso, aveva osato tanto. Un gesto di coraggio che ha travolto la vita di Rosetta.
L' hanno accusata apertamente di essere una mitomane, di volersi rifare dell' abbandono del fidanzato. E, sottovoce, di aver violato una legge che qui è ferrea: quella dell' omertà. La sua storia è un esempio di quello che purtroppo rischia, in questa Italia, chiunque si schieri con lo Stato contro la malavita organizzata. Una vicenda che deve far riflettere ancor più adesso, dopo l' assassinio del giudice Paolo Borsellino. "Io non ho più una vita..." , ha detto tra i singhiozzi al processo. "I miei sono stati portati via dalla Calabria con la forza. Mi sento in colpa con loro, ma in pace con la mia coscienza" . A "Bella" , la contrada dove la ragazza ha vissuto per oltre vent' anni, un quartiere-paese di 5 mila abitanti ai margini di Lamezia, tutti si chiedono con stupore perché l' ha fatto. La conoscevano come una ragazza vivace, estroversa, senza particolari interessi. Nessun impegno politico, un diploma professionale, l' iscrizione a giurisprudenza e negli ultimi mesi, prima di scomparire, un lavoro part-time alla filiale Aci di Lamezia. Racconta il suo capo ufficio, Domenico d' Elia: "Mi era stata presentata dal fratello Santino, con me da un paio di anni.
Dava una mano: pratiche, compilazione di moduli, assistenza al pubblico..." . Rosetta aveva soltanto un hobby inconsueto: il tiro al bersaglio, praticato con il padre. E un sogno: diventare poliziotta. "Ormai non ci riuscirà più" , dice il pubblico ministero Adelchi d' Ippolito, "e non potrà mai più tornare a una vita normale. Vivrà sempre nella paura di essere ammazzata" . I clan non dimenticano, non perdonano. E i due che Rosetta ha mandato in galera risulterebbero affiliati a una delle cosche vincenti della zona.
Bella ragazza Rosetta, di carattere, forse un po' spregiudicata per i costumi del posto. Quel Renato Molinaro, ad esempio, spacciatore di eroina, ventunenne, al quale era stata legata per alcuni mesi...
L' aveva conosciuto due anni fa. "Poi ho saputo che spacciava, è stato lui stesso a dirmelo" . Non ne ha fatto una tragedia, la ragazza. Ha continuato a star con lui, fino a quando, febbraio 1991, spinta dal padre, si è decisa a lasciarlo. Passa un anno. Il 4 gennaio 1992, Rosetta Cerminara percorre via dei Campioni, diretta dal parrucchiere. Vede e saluta il maresciallo Aversa, che conosceva per averlo incontrato in commissariato. Poi sente gli spari. Si gira. Riconosce Renato Molinaro e un amico di lui, Giuseppe Rizzardi, 33 anni, con una pistola in mano. Capisce tutto. Decide di andare lo stesso dal parrucchiere, dove non le chiederanno niente, dove può nascondere l' angoscia. E quando torna a casa ha la sola forza di infilarsi sotto le coperte nel letto dei genitori. La madre rientra a mezzanotte: "Che cosa ti succede? Perché sei così nervosa?" . "Non ho niente, stai tranquilla" . Renato Molinaro però l' ha vista, sa che la ragazza potrebbe accusarlo. Tenta di intimidirla: "Stai zitta, se ci tieni alla pelle" . Rosetta invece parla. Al telefono, senza dire il proprio nome, con uno dei figli del maresciallo Aversa, Paolo, 28 anni. "Sembrava una delle solite chiamate anonime" , ricorda Walter Aversa, 30 anni, fratello di Paolo. Ma Rosetta insiste. Dà sempre maggiori dettagli. Alla fine la riconoscono. E la convincono a confidarsi con Arturo De Felice, allora commissario a Lamezia. Un uomo che a ottobre, quando il ministro degli Interni Vincenzo Scotti aveva sciolto il Consiglio comunale, non aveva esitato a denunciare in pubblico gli intrecci tra mafia e politica. Probabile bersaglio dei clan egli stesso, De Felice fa in tempo a raccogliere la testimonianza, poi, quattro mesi fa, sparisce da Lamezia. Trasferito a Roma, si dice. Rosetta compare una prima volta davanti ai giudici. E' il 27 gennaio, sono passati 23 giorni dall' omicidio. Da Roma decidono che non può più rimanere in Calabria. Anche la famiglia è costretta ad andarsene. "Quando mio padre ha saputo che avevo testimoniato" , racconta la ragazza al processo, "è scoppiato a piangere disperato. Tutti sono contro di me, mi sento completamente sola" . Nel quartiere Bella non osano neanche più nominarla. Un ragazzino, seduto sui gradini di Piazza Roma, commenta impassibile: "Ognuno fa quello che vuole" , mentre una donna, sulla soglia di casa, sussurra: "Credevamo fosse una brava ragazza, invece..." . Anche i parenti tengono le distanze, vicini al dolore del padre, ma non a quello di Rosetta. Lo zio Vincenzo, ad esempio, proprietario del Milan Club Gianni Rivera, continua a vendere gazose e sorride amaro: "Anni fa mi sono salvato per miracolo da un incidente mortale e non voglio correre altri rischi" . A Bella è questa la regola. "La gente ha paura" , dice Vincenzo Ruberto, 38 anni, funzionario Cgil e ex segretario della sezione del Pds, "si chiedono dove sarà finita Rosetta. Ma nessuno si sbilancerebbe mai in suo favore. La considerano una figlia sciagurata che non si è resa conto del male che ha fatto ai suoi" .
Soltanto un anziano tesserato del Pds, Vincenzo Masi, davanti alla sezione ripete soddisfatto: "Ha fatto bene. Noi siamo stati sempre contro la mafia, abbiamo sempre denunciato quello che succedeva a Lamezia, ma nessuno ci ha dato ascolto" . All' angolo di via Lazio dal 13 luglio c' è una Delta della polizia con 2 agenti in borghese.
Presidiano l' entrata di casa Cerminara, una palazzina bianca a due piani, dove la famiglia della ragazza, padre, madre e tre fratelli, è tornata per qualche giorno in attesa di un nuovo trasferimento.
"Stiamo aspettando ordini dalla Dia, la direzione investigativa antimafia" , dice Teresa, madre di Rosetta, al telefono, "poi ce ne andremo nuovamente" . Dove, non si sa. A gennaio erano già stati costretti ad abbandonare una prima volta il paese, di notte, come profughi. Il padre, Michele, ha dovuto chiudere il suo negozio di elettrodomestici; la madre ha abbassato la saracinesca della merceria sotto casa; il fratello maggiore, Santino, 26 anni, ha lasciato fidanzata e lavoro, e torna soltanto qualche volta, di nascosto, per rivedere la sua ragazza, ma sempre scortato dagli agenti. "Visto come mi sono ridotto?" , ha detto il padre di Rosetta a Antonio Paoli, amico e proprietario del poligono di tiro dove la ragazza ogni sabato si esercitava con la pistola, "ho perso la libertà. Posso soltanto prendermi la testa tra le mani e piangere" .
Conferma il nuovo commissario di polizia, Ferdinando Palombi: "Escono di casa solo dopo avercelo comunicato in anticipo e comunque sempre sotto scorta" . Che cosa li aspetti, a parte una sovvenzione dello Stato, nessuno lo sa. Ma un mistero è soprattutto la sorte di Rosetta, affidata al responsabile del servizio operativo della Criminalpol, Achille Serra, fin quando ricomincerà il processo, il 29 settembre. A rendere più difficile la posizione della ragazza c' è stata anche l' improvvisa sospensione delle udienze, dopo che gli avvocati della difesa, il 14 luglio, hanno aderito allo sciopero contro il decreto antimafia Scotti-Martelli. "Non è stato certo per fermare il processo" , si giustifica il legale di Renato Molinaro, Armando Veneto (difensore, anche, di Nitto Santapaola, superboss della mafia, latitante). Ma il sospetto di una manovra strumentale rimane: "Perché" , si chiede il pubblico ministero d' Ippolito, "gli imputati hanno permesso ai loro legali di scioperare? Se fossero innocenti avrebbero avuto interesse a far procedere speditamente il processo" . "Quella ragazza è una mitomane" , ribatte l' avvocato Armando Veneto, "una che si è messa in un gioco più grande di lei.
Vuole solo vendicarsi di Renato Molinaro, perché è stato lui a lasciarla" . Basterà l' abilità del legale a distruggere la credibilità di Rosetta? In aula, lunedì 13 luglio, l' hanno vista singhiozzare, ma anche difendere con decisione e lucidità la sua tesi: "Sì, lo confermo davanti a Gesù Cristo in croce, io ho veramente visto quello che ho detto. E spero che questa sia l' ultima volta che devo raccontare quello che ho vissuto" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
24/06/92

Numero
2176

Pagina
26

Titolo
I PROSSIMI? LI RESPINGEREMO

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
GRAZIE ITALIA

Sommario
Parla Margherita Boniver, ministro per l' Immigrazione.

Didascalia
Margherita Boniver

Testo
BOX
"L' emergenza continua" . Margherita Boniver, ministro per l' Immigrazione, rilancia l' allarme profughi. Non soltanto per quelli dall' ex Iugoslavia, di cui in questi giorni si sta occupando in modo particolare. Ma anche, ancora una volta, degli albanesi. Con l' arrivo dell' estate, una nuova ondata di fuggiaschi dall' Albania potrebbe infatti tentare, come è già successo l' anno scorso, di riversarsi sulle coste italiane. "Il loro Paese" , dice il ministro, "dal punto di vista produttivo è allo sfascio, l' economia è bloccata, la gente sempre più affamata" . La nave e gli elicotteri della Marina italiana, che pattugliano le coste al di là dell' Adriatico, il 6 giugno hanno avvistato una zattera fatta di bidoni: c' erano sopra cinque persone che tentavano di raggiungere l' Italia. Non è stato un episodio isolato e nemmeno il più grave.
Due giorni prima 2000 persone hanno tentato di salpare dal porto di Durazzo. Migliaia anche nel mese di marzo, prima delle elezioni politiche, durante la "guerra del pane" , quando l' assedio alle navi, respinto dalla polizia, ha procurato cinque morti e centinaia di feriti. C' è un punto sul quale il ministro non transige: "Rimanderemo comunque indietro tutti. Non possiamo accettare ingressi clandestini" . Rischiano insomma di ripetersi i fatti di Bari dell' agosto scorso, quando 24 mila albanesi vennero respinti in patria? "Mi auguro proprio di no. La situazione è diversa: stavolta i profughi non ci coglierebbero di sorpresa. C' è un' azione di pattugliamento continuo sulle coste sia da parte italiana che da parte albanese" . Un margine d' imprevisto viene però dalle frontiere iugoslave, dove premono in direzione dell' Italia altre masse di esuli: "Per i profughi di guerra vale un altro discorso. Infatti stiamo preparando un piano d' accoglienza.
La maggiore preoccupazione viene piuttosto dal Kosovo che è, appunto, di popolazione albanese. Se i serbi dovessero attaccarlo, una fuga generale in Albania sarebbe inevitabile. E da qui verso l' Italia, viste le condizioni del Paese..." Condizioni, quelle dell' Albania, che peggiorano di giorno in giorno. Gli aiuti portati dall' esercito italiano con l' operazione Pellicano (142 mila tonnellate di viveri distribuite finora per una spesa complessiva di 400 miliardi) sono, a detta dello stesso ministro, "solo una goccia nel mare" . Così pure quelli della Cee. Servirà a qualcosa il cambio di guardia avvenuto con le elezioni di marzo, cha hanno portato al governo Sali Berisha, leader dell' opposizione? Il ministro lo spera, ma non tutti ci credono. Gli imprenditori italiani, ad esempio, che l' anno scorso affollavano Tirana nella speranza di nuovi investimenti: loro, la rinascita economica, si sono stancati di aspettarla. In massa, hanno preferito andar via.




Testata
Epoca

Data pubbl.
10/06/92

Numero
2174

Pagina
34

Titolo
LA MIA RABBIA IL MIO DOLORE

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI FRANCO ZECCHIN

Sezione
STORIE

Occhiello
ROSARIA SCHIFANI

Sommario
Stava preparando una nuova casa. E Vito, suo marito, voleva cambiare lavoro... Chi è la donna che abbiamo visto disperarsi in tivù ai funerali di Falcone? E da dove ricomincerà la sua vita? "Il sindaco mi ha offerto un posto, io ho rifiutato. Chiedo solo di vedere Buscetta: lui può dirmi perché hanno ucciso Vito"

Didascalia
Rosaria
Schifani, 22 anni, con il figlio Antonio, 4 mesi. A destra: il
marito Vito, 27 anni, ucciso con il giudice Falcone.
Rosaria Schifani, con i parenti (a
destra, il cognato Roberto Tiralongo), nella casa che avrebbe dovuto
lasciare per trasferirsi in un nuovo appartamento. "Era una vita
felice, la nostra. Non riuscivo a staccarmi da lui neanche un
momento. Poi, me l' hanno ucciso, il mio Vito. Solo Dio sa, solo Dio
può darmi aiuto" .

Testo
Rosaria Schifani, un' altra vedova di mafia a Palermo. Un' altra donna ferita a morte nella storia infinita dei delitti siciliani. Una delle tre colpite dall' ultima strage. Una delle tante. Ventidue anni appena, un figlio di quattro mesi e i ricordi di un uomo che non c' è più: Vito, suo marito, 27 anni, agente di scorta del giudice Giovanni Falcone. E' diventata un' eroina. Per caso. Per il dolore che il giorno dei funerali l' ha spinta davanti alla folla, nella chiesa di San Domenico, a leggere parole di perdono. Parole che sono diventate all' improvviso frasi di rabbia. Rabbia e perdono assieme. E' il 25 maggio. Fuori dalla chiesa, la gente urla rivolta ai politici: "Assassini, assassini" . Rosaria dentro, con i feretri delle vittime davanti all' altare, pronuncia il suo appello agli uomini che hanno fatto di Palermo una "città di sangue" : "Uomini della mafia, perché ci sono qua dentro... Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare" . Una pausa. Poi, l' imprevedibile: "Ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare" . Le poche righe scritte a mano, pensate la notte con un sacerdote, don Cesare Rattoballi, cugino di Vito, vengono stravolte dal dolore.
"Vi chiediamo di operare per la pace, la giustizia, la speranza, l' amore per tutti... No, non c' è amore qui, non ce n' è per niente" . La folla applaude, don Cesare, colto alla sprovvista, continua a indicare il testo concordato, Rosaria singhiozza, poi sviene. Un' immagine che, a due settimane dalla strage in cui sono morti il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, conserva intatta la sua forza drammatica.
Ricorda un' altra immagine, quella di Davide Grassi, figlio dell' imprenditore Libero, che nove mesi fa, sempre a Palermo, con la bara del padre assassinato sulle spalle, alzò le dita in alto in segno di vittoria. Gesti che in Sicilia non passano inosservati.
Atti di resistenza che colpiscono al cuore. Come i lenzuoli appesi per le strade di Palermo con su scritto: "Falcone è vivo" . Come le magliette rosso sangue degli studenti palermitani che, all' indomani dei funerali, tentano un bagno "purificatore" nel mare di Mondello.
La vedova dell' agente Schifani, con il suo volto scarno e diafano, e la sua ribellione gridata in faccia alle autorità, è diventata subito un simbolo. Ha ricevuto promesse d' aiuto dal nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Si è guadagnata la solidarietà dal giudice Paolo Borsellino che all' orecchio le ha sussurrato: "Non fare così. Non gli dare questo "sazio" , questa soddisfazione. Lo vendicheremo il tuo Vito" . E' stata ascoltata da due politici: il segretario del partito socialdemocratico Carlo Vizzini e il neodeputato della Rete Leoluca Orlando, due a cui il marito in passato aveva fatto la scorta. Ma a Rosaria Costa, vedova Schifani, per ora gratificata in concreto solamente di un assegno di 10 milioni da parte dello Stato, tutto questo non è bastato. Ha voluto alzare il tiro: "Voglio parlare con Buscetta" , ha detto.
"Voglio capire, voglio sapere perché il mio Vito è stato ammazzato" . Capire, sapere, in una città dove i detenuti dell' Ucciardone alla notizia della morte del giudice Falcone esplodono in un applauso, non è cosa da poco. Ma è un bisogno che perseguita la giovane vedova anche adesso che siede, esausta, nel salottino dei suoceri con il piccolo Antonio sulle ginocchia. "Non mi fermeranno" , ripete con un lampo negli occhi, "dovranno darmi una risposta" . Un' idea che la ossessiona, che ha sconvolto nell' arco di poche ore la sua vita, come l' onda d' urto di quella carica di tritolo che, a Capaci sull' autostrada per Palermo, ha fatto saltare in aria l' auto del marito. "Era una vita felice, la nostra" , ripete stringendo il bambino. Una vita normale, di una giovane coppia che insieme non parlava mai di mafia. Rosaria, è vero, aveva votato per la Rete, ma non sapeva niente del lavoro di Vito. Per lei il giudice Falcone era solo "uno in gamba" , un uomo che suo marito ammirava, uno che lei non credeva "fosse così esposto" . Rosaria è sfinita. Le stanno attorno i parenti, i genitori di Vito, gli zii, i cugini, dieci, forse quindici persone, stretti in un appartamento del quartiere Noce. Un quartiere operaio, che i due sposi avrebbero lasciato il giorno in cui sarebbe stata pronta la casa nuova comprata al Cep, una casa dove Rosaria probabilmente non andrà mai. C' è invece il salottino dei suoceri, zeppo di soprammobili, foto e souvenir, portaceneri in madreperla e statuette, a far da teatro al suo lutto.
I parenti, nervosi, divisi tra rabbia e paura, tentano di frenarla.
Il cognato Roberto la zittisce quando sta per prendersela con la mafia che "è in alto" . "Rosaria non sa niente" , dice scuro in volto e minaccioso. "Ma io chiederò giustizia" . L' eroina-bambina è stanca, ma ha ancora un moto di rabbia. "La gente pulita si vede dalla faccia. I politici no, non incrociavano il mio sguardo mentre parlavo in chiesa, non soffrivano. Non credo a loro, non credo allo Stato. Per questo ho parlato in quel modo..." . Un amico entra in casa portandole una rosa. Lei la prende e dice: "La offrirò a Vito" . Poi, rivolta all' amico: "Ma tu, che sei avvocato, vai in Tribunale a far giustizia" . L' amico esce mortificato, mentre la rabbia di Rosaria si mescola ai ricordi, una vita a due che scorre pagina su pagina in un album di foto. Rosaria e Vito il giorno delle nozze, a settembre del 1991, abito bianco e un diadema in testa, come vuole la tradizione. Poi, la luna di miele alle Maldive, "perché a me piace viaggiare" , e le corse in moto a 260 l' ora, "perché Vito amava il rischio, amava correre. Ed io lo adoravo per questo" . Anche Rosaria, prima di incontrare il marito, all' epoca in cui aveva preso il diploma magistrale, aveva pensato di entrare in polizia. "Poi mi è sembrato troppo pericoloso, ho preferito aspettare prima o poi un posto da insegnante. Vito no, non ha mai temuto per la sua vita. E nemmeno io credevo..." . Un presentimento però la giovane vedova l' ha avuto, l' ultimo giorno, sabato 23 maggio: "Volevo seguirlo in caserma, ma lui mi ha detto che non era possibile" . L' ha ritrovato la notte, dilaniato, chiuso nel feretro. "E pensare che Vito stava per lasciare quel mestiere" .
Avrebbe fatto l' elicotterista, come desiderava. C' era già pronto il brevetto: "Voleva migliorare la sua posizione, per me, per suo figlio" . L' intimità, l' affetto che li univa è qualcosa di cui Rosaria fatica a parlare: "Era come se ci conoscessimo da sempre.
Noi donne, si sa, siamo un po' appiccicose. Ed io ero così, non riuscivo a staccarmi da lui nemmeno un momento" . Cambia tono. C' è qualcosa di profetico nella voce, quasi un' enfasi mistica: "Sono stata dove l' hanno ammazzato, sull' autostrada. E ho visto la terra piangere Vito. Gli alberi, il cielo piangevano Vito. Solo Dio sa, solo Dio può darmi aiuto" . Il Dio di Rosaria, quello dei Mormoni ai quali si è unita qualche anno fa, mettendosi contro tutta la famiglia, o quello dei cattolici che l' ha spinta in chiesa a parlare di perdono? "Sono cattolica" , sussurra imbarazzata sotto lo sguardo dei parenti. "I mormoni sono solo amici miei" . Ed è con un prete cattolico, don Cesare, cugino di Vito, che Rosaria ha scritto le parole di perdono. Con lui si è esposta in chiesa. Insieme a lui ha deciso di non partecipare all' ultima puntata di "Samarcanda" , preferendo il silenzio a un nuovo clamore. "Abbiamo bisogno di riflettere" , dice il sacerdote, 37 anni, parroco nella contrada di Pagliarelli. "Ma presto andremo in piazza. E dovranno ascoltarci.
Sono segretario regionale dell' Agesci, guido cioè 2 mila scout a Palermo, 16 mila in Sicilia, più i 6 mila fedeli della mia parrocchia" . Un popolo pronto a chiedere giustizia per Vito Schifani, Giovanni Falcone, sua moglie, gli altri due uomini della scorta? Don Cesare ne è sicuro. Hanno avuto lui e Rosaria l' appoggio del cardinale Pappalardo. Sanno che la gente di Palermo è dalla loro parte. Anche padre Ennio Pintacuda, il gesuita in prima fila ai tempi della "primavera di Palermo" , quand' era sindaco Leoluca Orlando, ha apprezzato il loro intervento nella chiesa di san Domenico: "Don Cesare fa parte di un gruppo di preti giovani, seri e impegnati" , dice Pintacuda. "Rosaria è l' espressione della nuova gioventù vicina alla Rete, una gioventù che si oppone alla mafia" . E i politici, quelli che ai funerali sono entrati ed usciti da una porta di servizio per sfuggire alla folla inferocita? Padre Pintacuda giura di aver visto Rosaria guardare in faccia Giovanni Spadolini e dire: "Venga presidente, venga. Lo spiega lei a mio figlio che ha 4 mesi come è morto il suo papà" . A Carlo Vizzini, che è andato a trovarla, la vedova si è rivolta con altrettanta durezza: "Politici a casa mia non ne salgono. La porta per lei è aperta perché è una persona per bene, perché è un palermitano e può aiutare questa città. Ma non faccia mediazioni o compromessi, sennò questa porta si chiude anche per lei" . Le ha offerto, il segretario del Psdi, un impiego alle Poste, così come il sindaco di Palermo, Domenico Lo Vasco, una possibilità di impiego al Comune per lei e le altre due vedove. Ma Rosaria non vuole accettare: "Non sono lavori che mi piacciono" , taglia corto, "voglio occuparmi di altro" .
Confida in Leoluca Orlando, perché non ha fatto passerella durante i funerali, perché suo marito lo stimava. E poi nel giudice Borsellino, che l' ha già ascoltata diverse volte e che "non è un politico" . Niente Poste, niente Comune: per il suo futuro, Rosaria Schifani ha altri e più battaglieri progetti. Ha anche davanti esempi tutt' altro che incoraggianti, altre vittime dimenticate, vedove, madri, figli di uomini uccisi dalla mafia che ancora attendono giustizia. Davide Grassi, ad esempio, con le dita in alto in segno di vittoria. Saveria Antiochia, madre di Roberto, il poliziotto morto nel 1985 accanto a Ninni Cassarà, che ha appena ricordato a "Samarcanda" in faccia al ministro della Giustizia, Claudio Martelli, come da sette anni aspetta un processo non ancora cominciato. Rita Bartoli, vedova del magistrato Gaetano Costa, assassinato dalla mafia nel 1980: dodici anni per ascoltare, proprio in questi giorni, la sentenza del tribunale di Catania che assolve Salvatore Inzerillo, il "molto presunto" killer del marito. Otterrà Rosaria Schifani qualcosa di più? Riuscirà "a capire, a sapere" ? Tina Martinez, 27 anni, moglie dell' agente Antonio Montinari, anch' egli ucciso con Falcone, scuote la testa: "Non c' è niente da dire, niente da fare" . Lei infatti ha scelto il silenzio. Quel silenzio che per Rosaria Schifani è invece un torto verso chi è morto: "Parlerò ancora" , dice infatti, "continuerò a ricordare Vito. E' forse l' unico modo per tenerlo in vita" .

BOX
IL PRETE - CENSORE: "VOLEVO SOLO AIUTARLA" Giovane, don Cesare Rattoballi, "ma già prete padrone" , hanno scritto i giornali...
"Sì, mi hanno accusato di voler costringere una povera vedova a recitare frasi preparate in sagrestia. Ma non è così" . Don Cesare, 37 anni, parroco di San Carlo Borromeo, si difende dalle accuse che gli sono piovute addosso dopo che la tivù lo ha ripreso nella chiesa di San Domenico accanto a Rosaria Schifani, mentre le toglieva il microfono di bocca, le indicava il testo scritto. "Che bisognasse scuotere la coscienza dei mafiosi, l' avevamo deciso assieme.
Volevamo parlare di perdono, di redenzione. Certo, non mi aspettavo la reazione di Rosaria, ma non mi sono certo sognato di fermarla.
E' stato un momento di confusione totale. La gente ci pressava, lei piangeva, rischiava di svenire da un momento all' altro. Io ho cercato solo di farle coraggio. So che, nonostante tutto, Rosaria crede ancora nel perdono" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
03/06/92

Numero
2173

Pagina
48

Titolo
LA LEGGE DEL PIU' FORTE

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
IL DRAMMA DEI FIGLI CONTESI

Sommario
Il tribunale dispone, ma poi... Ecco le contese sui figli segnalate a "Chiama Epoca" .

Testo
BOX
In gergo si chiama "legal kidnapping" , rapimento legale: è la sottrazione di un minore attuata da un genitore ai danni dell' altro. Un caso molto frequente tra coniugi in crisi di nazionalità diverse. Ma non solo. Ricordate, qualche mese fa, il caso di Fabio Mangano, il bambino messinese di 11 anni che voleva a tutti i costi rimanere con il padre, malgrado la legge lo avesse affidato alla madre? E' dovuto intervenire il ministro della Giustizia Claudio Martelli per chiarire la questione.
E non è stato facile: alla fine il pretore ha preferito rimandare la soluzione del caso a giugno, in attesa che Fabio, per il momento rimasto con il papà, finisca l' anno scolastico. Se per i figli contesi tra coppie italiane prevale l' affidamento alla madre (93,4 per cento dei casi, secondo gli ultimi dati Istat) per quelle di nazionalità diversa la faccenda si complica. Il tribunale del Paese in cui avviene la separazione legale può decidere infatti di affidare i figli all' uno o all' altro, ma non può far niente se il genitore escluso li porta via con la forza o con l' inganno. In questo caso hanno priorità le leggi del Paese che ospita il "rapitore" , come dimostra la vicenda di Carla Rosa Rosso (Epoca 2172). Separata legalmente da un ragazzo tunisino morto tre mesi fa, Carla, 33 anni, di Susa, non riesce più a riavere i due figli, spariti con i suoceri a Tunisi. Unica speranza: che intervenga il nostro ministero degli Esteri. Storie analoghe, quella di Sandra Fei in Colombia (riquadro a pagina 47) e di Bruno Poli, un imprenditore di Ravenna, che dal 1987 lotta per rivedere la figlia Stella Marlene, portata in Danimarca dall' ex convivente. Ma quanto conta il diritto internazionale in casi come questi? Generalmente poco.
Esistono sì una serie di convenzioni in materia di affidamento dei minori, ma non tutti gli Stati si sono ancora impegnati ad accettarle. In Italia, abbiamo una ventina di casi ufficialmente aperti con Paesi stranieri, più un sommerso incalcolabile: centinaia, migliaia di vicende e drammi privati. Eccone alcuni, denunciati a "Chiama Epoca" .
Se i genitori sono entrambi italiani Vito Turdo, San Giuseppe Jato (Palermo). "Anni fa mia moglie andò via da casa lasciandomi solo con i figli. Nonostante l' abbandono del tetto coniugale, nel 1987 il Tribunale di Palermo ha concesso a lei l' affidamento dei ragazzi. E' giusto che i bambini restino con una madre che li ha fatti tanto soffrire?" . Olimpia Di Paolo, Torino. "Nel 1989 mio marito ha buttato fuori di casa me e i nostri due bambini. Ha convinto il grande a testimoniare contro di me. Il giudice ha concesso l' affidamento provvisorio al padre. Da tre anni non riesco più a incontrare il maggiore che adesso ha 16 anni. Ho visto qualche volta la piccola, grazie ai carabinieri e agli assistenti sociali" . Michele Perretta, San Severo (Foggia). "Per decisione del Tribunale il più piccolo dei miei figli, ancora minorenne, dovrebbe stare con la madre, da cui mi sono separato un anno e mezzo fa. Il ragazzo non vuole saperne e vorrebbe tornare con me. La legge mi ha dato il diritto di incontrarlo a sabati alterni, ma la mia ex moglie mi nega anche questo" . Maria Pia Correnti, Trieste. "Ho avuto un figlio da un uomo con il quale ho vissuto tre anni. Adesso il mio ex compagno, con l' aiuto di un assistente sociale, sta facendo di tutto per togliermi il bambino. Sapendo di non avere molte chance, per via di problemi avuti con la giustizia in passato, vuole chiedere l' affidamento a un' altra famiglia" .
Se i genitori sono di nazionalità diversa Alfonso Jannotta, San Pietro Infine (Cesena). "Ero sposato con una donna tedesca. Dopo il divorzio, sono riuscito a ottenere la custodia di un solo figlio.
Gli altri due sono rimasti in Germania con la madre. Uno di questi, che adesso ha 11 anni, avrebbe voluto vivere con me. La madre è riuscita a trattenerlo, e a farlo rinchiudere in un istituto denunciandolo come malato di mente. Siamo finiti in Tribunale. Il bambino è ancora in istituto" . Silvio Ricci, Quarata (Arezzo). "Per un periodo ho vissuto in Venezuela con una ragazza francese dalla quale ho avuto un figlio. Poi lei ha deciso di tornare in Francia dai suoi, portandosi dietro il bambino che, secondo il giudice, potrei vedere quattro volte l' anno. Ma da tre anni entrambi sono praticamente spariti" . Giustiniano Incarnati, Rapallo (Genova).
"Mio figlio è stato sequestrato dalla madre, che se l' è portato in Croazia. Secondo i giudici italiani sarebbe dovuto rimanere quattro mesi con me e quattro mesi con lei. Ho tentato di far valere il mio diritto in Iugoslavia, ma inutilmente. Non posso neanche incontrare il bambino in territorio neutro, a Istria. Vorrei che intervenisse De Michelis" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
27/05/92

Numero
2172

Pagina
54

Titolo
MATRIMONI IN BIANCO E NERO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI hanno collaborato Mario Caprara, Giancarlo Licata e Giuseppe Pirrello

Sezione
STORIE

Occhiello
L' ITALIA DEI VU' SPUSA'

Sommario
Due anni fa erano trecento all' anno, quasi uno al giorno. Oggi sono così numerosi che il governo ha creato un ufficio "nozze miste" . E i vescovi veneti sono scesi in campo sconsigliandoli. Ma come vivono i pionieri della società multirazziale? Da Brescia alla Sicilia, ecco quattro storie d' amore. Davvero straordinarie.

Didascalia
QUANDO NON VA BENE
Laura Ferrari, 20 anni, di Iseo (Brescia), con
Miled M' Barki, 22 anni, tunisino. Avrebbero dovuto sposarsi il 18
gennaio, ma i genitori di lei si sono opposti e sono ricorsi in
tribunale. Sospettano Miled di bigamia. Anche il sindaco si è
schierato contro il matrimonio "misto" .
QUANDO VA BENE
Franzina, 33 anni,
di Mazara del Vallo (Trapani) e Karim Akarim Hannachi, 39 anni,
tunisino, con la figlia Leila, 3 anni. Lui, arrivato in Sicilia per
insegnare arabo, lavora adesso come collaboratore di RaiDue per il
programma Nonsolonero. Lei fa l' assistente sociale. Il loro è un
matrimonio senza problemi. La bambina? "Italiana al 90 per cento, a
parte un po' di sangue arabo" .
QUANDO MANCA IL LAVORO.
Makram Shnouda, 37 anni, egiziano, con la moglie
Filomena, 27 anni, di Salerno, e le due figlie, Roberta e Monira. I
genitori di lei hanno sempre ostacolato il matrimonio. E Makram non
trova lavoro.
QUANDO L' IMAM DICE NO.
Mario Buffa, di Mazara del Vallo,
e Saidi Najira, tunisina. Aspettano un figlio, ma non possono
sposarsi perché il governo africano non concede il nullaosta. Lui
dovrebbe convertirsi al Corano.

Testo
Laura Ferrari, una ventenne di Iseo, provincia di Brescia, vuol sposare Miled M' Barki, tunisino: i genitori si oppongono e arrivano al punto di appellarsi al tribunale pur di impedire l' unione. Una storia dolorosa, una delle tante. Perché l' amore contrastato, per pregiudizio, razzismo o chissà, è già diventato un caso nazionale, spia clamorosa di un fenomeno in espansione. Come dimostra anche la quantità di appelli in questo senso giunti al numero verde di Chiama Epoca (vedere riquadro pagina 58). Ma quanti sono i matrimoni "misti" che si celebrano in Italia? L' ufficio del registro di Milano un paio di anni fa riportava la media di uno al giorno. Dati vecchi. Oggi, con 700 mila extracomunitari regolarmente registrati (senza contare i clandestini) sono molti di più. "Il numero esatto è difficile da stabilire" , dicono al ministero degli Esteri, dove è stato addirittura creato un ufficio, il IX, riservato ai rapporti familiari tra italiani e stranieri, "di certo siamo di fronte a un autentico exploit" . Il fenomeno, naturale in un momento di forte immigrazione e mescolanza di culture come questo, preoccupa anche la Chiesa. I vescovi del Triveneto, in particolare, hanno appena approvato un documento ufficiale in cui invitano i fedeli a fare molta attenzione alle nozze con gli stranieri. Anzi, meglio ancora, ad astenersene. Ma già nel 1989 la Conferenza Episcopale aveva sentito la necessità di intervenire in materia con una formula da leggere obbligatoriamente durante i matrimoni per impegnare alla monogamia i seguaci di fedi diverse, come per esempio quella musulmana. Ma, religione a parte, quali sono i problemi più diffusi per chi decide di unire la propria vita a quella di un immigrato? Come agiscono le differenze di razza, cultura, abitudini sociali? Epoca ha girato l' Italia e raccolto storie di matrimoni in bianco e nero.
Nella tana della Lega. Iseo, provincia di Brescia, terra di Lega e d' immigrazione. Centocinquanta extracomunitari vivono in questo paesino sul lago di 1.800 abitanti, spesso vendendo orologi ed accendini. Tra loro un tunisino, Miled M' Barki, 22 anni, che doveva sposarsi a gennaio con una ragazza del paese, Laura Ferrari, 20 anni, operaia. Ma i genitori di lei hanno detto no. Non solo. Li hanno portati in tribunale: sospettando un caso di bigamia, hanno infatti denunciato Miled per plagio. Il giudice ha sospeso le nozze, chiedendo nel frattempo all' ambasciata italiana informazioni sullo stato civile del promesso sposo. Un pretesto? In effetti, i commenti tutt' altro che favorevoli sono cominciati subito, non appena Laura è stata vista con Miled ai primi appuntamenti clandestini. Di bocca in bocca, la notizia è arrivata ai genitori. "E la mia vita" , dice la ragazza, "è diventata un inferno. I miei da sempre hanno in testa che devo sposare un lombardo, uno come loro. Figurarsi, un muratore tunisino... Anche il datore di lavoro ha cominciato a rendermi le giornate insopportabili. Un' umiliazione continua, tutti a farmi pesare la colpa di amare un immigrato" . I due però non si arrendono. Convinti che le differenze di razza e cultura non siano affatto un ostacolo, intanto hanno deciso di vivere assieme dividendosi i compiti. Lui cucina, lei fa i lavori di casa. La spesa, una volta per uno. Nessuna traccia di prevaricazione maschile.
Una fortuna chiamata Rai. Adesso Karim Akarim Hannachi, 39 anni, ha la cittadinanza italiana, una moglie italiana e una figlia che, scherza lui, "è italiana al 90 per cento, ad eccezione di un po' di sangue tunisino" . Dalla Tunisia, infatti, è iniziata dieci anni fa l' avventura di un immigrato che adesso fa il giornalista per RaiDue, dove collabora a Nonsolonero. Quando è arrivato a Mazara del Vallo, anche se era un professore (Mazara è l' unica città d' Europa con un circolo didattico dove si insegna arabo) gli hanno persino rifiutato l' affitto. "E io dovrei dare la casa a chiddu?, ha detto la padrona appena mi ha visto. Non ho avuto la casa, ma in realtà grazie alla mia posizione non ho faticato a inserirmi" . Due anni a scuola, e in paese era già amico di tutti. Anche di Franzina, 33 anni, che poi è diventata sua moglie. "Il nostro è stato il primo matrimonio "misto" celebrato a Mazara" . Difficoltà? "All' inizio i genitori di lei hanno fatto un po' di resistenza. Ma è finita presto. L' unico vero momento di crisi è stata la fine del mio contratto di insegnamento dopo quattro anni in Italia. Secondo gli accordi sarei dovuto rientrare in Tunisia, e io e mia moglie eravamo anche disposti a farlo. Poi però lei ha vinto un concorso di assistente sociale in Italia e così anch' io sono rimasto" . A quel punto il problema era trovare un nuovo lavoro. E la fortuna non gli ha girato le spalle. Prima un corso di civiltà e lingua araba alla Libera Università di Trapani, poi un nuovo impegno al liceo classico di Mazara, qualche ora all' ufficio immigrazione della Cgil e, infine, il contratto con Nonsolonero, dove Karim si occupa di integrazione fra cultura occidentale e cultura islamica. Ottimo anche il rapporto di coppia. "Due culture diverse? Basta prendere il meglio dell' una e dell' altra. E poi nessuno di noi due è credente e praticante" . Né Dio né Allah li dividono.
Quando dice no il Paese d' origine. Si sono conosciuti a Mazara del Vallo, dove lei, tunisina, lavorava come infermiera ausiliaria. Adesso aspettano un bambino e vorrebbero sposarsi. Ma lei, Saidi Najira, è musulmana.
Lui, Mario Buffa, cattolico. Le regole del Corano in questo caso sono perentorie: per avere da Tunisi il nullaosta alle nozze, è il marito "miscredente" a doversi convertire ad Allah. "Amo Saidi e sono disposto a farlo" , dice Buffa, "ma le autorità tunisine continuano a creare difficoltà" . Per tre volte la coppia si è recata a Zahrouni, il quartiere alla periferia di Tunisi dove vive la madre di Saidi, per ottenere il permesso alle nozze. Per tre volte hanno girato uffici, parlato con funzionari, firmato montagne di carte, ma la risposta è sempre stata negativa. La conversione di Mario dev' essere provata. "Siamo andati dall' Imam. Abbiamo cominciato a frequentare la Moschea, io mi son messo a studiare il Corano. Ma al momento di ufficializzare il passaggio al nuovo credo le autorità religiose non mi hanno ritenuto idoneo. Che fare?" . Non resta che convivere. Saidi però, all' ottavo mese di gravidanza, non è più in grado di lavorare. Secondo la legge Martelli, senza un impiego e senza certificato di matrimonio rischia il rimpatrio.
Con i suoceri contro. Sul tavolo da pranzo, bistecche di maiale e una bottiglia di birra, segno evidente che Makram Aziz Gazawi Shounuda, 37 anni, originario di Alesssandria d' Egitto, con il Corano non ha molto da spartire: "Non sono fanatico" , dice, "e neanche musulmano.
La mia famiglia segue il rito cristiano ortodosso" . Arabo, ma solo di nascita. Ha sposato otto anni fa Filomena, una ragazza salernitana con la quale vive in una casa popolare a Carmagnola, vicino a Torino. Hanno due bambine, entrambe bionde, con la pelle chiarissima e gli occhi azzurri. Dal 1987, Makram è cittadino italiano. Eppure ha un cruccio: i genitori della moglie. Ancora oggi non si sono rassegnati all' idea del genero arabo. "Ci hanno sempre ostacolato. A cominciare dal momento delle nozze. Meglio sposarsi al municipio, hanno detto, anziché in chiesa. Così, secondo i loro piani, separarsi sarebbe stato più facile" . Perché un' avversione del genere da parte di una famiglia a sua volta immigrata dal Sud? "I miei non ammettono di essere razzisti" , spiega la ragazza, 27 anni, infermiera ausiliaria, "però ogni volta che si parla di mio marito, tornano sempre in ballo i discorsi sul terrorismo, gli attentati, come se Makram si portasse addosso le colpe della razza araba" . Pregiudizi, incomprensioni, un crescendo di attriti e maldicenze che, in un piccolo centro come Carmagnola, hanno fatto il vuoto attorno alla coppia. "Il risultato è che da due anni sono senza lavoro" , dice Makram, scosso al punto da essere convinto che i suoceri siano la causa di ogni male. "Ho girato decine d' aziende.
Ogni volta la stessa storia. Vengo assunto, ma poi dopo due, tre mesi, non so per quale motivo, mi mettono alla porta" . Ma che cosa c' entrano i suoceri con le lettere di licenziamento della Fiat, della Icos, della Cibor, dell' Abrate, tutte aziende presso le quali Makram ha lavorato? "Il rapporto di lavoro con noi" , spiegano all' Abrate, una ditta di Carmagnola, "si è interrotto come da accordi: si trattava di un contratto a termine" . Makram però non sente ragioni: "Se mio suocero mi avesse aiutato..." . Filomena a questo punto ha un' idea: trasferirsi in Egitto. Durante le vacanze laggiù ha trovato una famiglia, quella di lui, pronta ad accoglierla. Ma Makram non ci pensa nemmeno: "Tornare indietro? Mai".

BOX
SE CI SI METTE ANCHE LO STREGONE Difficoltà burocratiche, scontri di religione, bambini contesi... Tra le 10 mila telefonate arrivate in questi mesi al numero verde ChiamaEpoca, moltissime riguardano proprio problemi nati da rapporti sentimentali interrazziali. Ecco gli ultimi casi segnalati. Accusata dallo stregone. "Sono un' italiana fuggita dalla Costa d' Avorio, dove ho vissuto quattro anni sposata con un ragazzo locale. Il nostro rapporto è naufragato a causa di uno stregone: ha convinto mio marito che io portavo sfortuna. Ora vorrei separarmi, ma non riesco a ottenere i documenti necessari. Mi sono rivolta al console ivoriano, ma non esistono convenzioni tra l' Italia e la Costa d' Avorio. Nostra figlia vive con me, ma ho paura che se non riesco a ottenere la separazione legale mi sia portata via" . Cristina C. (Pordenone) Espulso dall' Italia. "Sono un tunisino sposato con un' italiana. Abbiamo già una bambina e siamo in attesa di un secondo figlio. Per problemi avuti con la giustizia sono stato espulso dal Paese. Ho chiesto, tramite un avvocato, di poter vivere legalmente in Italia per motivi di famiglia, ma il ministero degli Interni ha negato la richiesta e passato la pratica a quello degli Esteri. Non so come fare per poter stare con la mia famiglia" . Massaoud Othmani (Rivalta, Torino) Guerre di religione. "Sono tunisina di religione musulmana e vivo con un italiano. Da tre anni vorrei sposarmi, ma il mio governo non rilascia il nullaosta: il consolato chiede che lui si converta, ma non dà indicazioni sulla prassi da seguire. Ho una bimba di un anno e vorrei farla vivere in una famiglia legale" . Gouidria Samira (Arzano, Napoli) Un visto per l' Iran. "Sono sposata con un ragazzo iraniano che non riesce a incontrare i genitori da 10 anni. I miei suoceri non possono venire in Italia, perchè il consolato, senza motivi apparenti, si rifiuta di rilasciare il visto necessario. Per un intoppo burocratico i miei figli non conoscono ancora i nonni" .
Vera Lotfie (Torino) Figlia contesa. "Sono colombiana. Un anno fa ho avuto una bambina da un italiano che vive in Svizzera. La nostra convivenza è fallita, così ho deciso di rifugiarmi in Italia con mia figlia. Ma una sera, sei mesi fa, tre uomini mandati dal mio ex convivente hanno portato via la bambina. La polizia li ha ritrovati subito, ma non ho avuto il coraggio di denunciarli perché questo avrebbe fatto rischiare il carcere al mio ex. Siamo invece arrivati ad un accordo: lui avrebbe visto la piccola una volta al mese.
L' ultima volta, però, non ha voluto restituirla. Sono ricorsa al tribunale dei Minori. Ma il giudice ha affidato la bimba al padre, senza darmi nessuna spiegazione" . Licia Giraldo (Gualtieri Sicaminò, Messina)



Testata
Epoca

Data pubbl.
29/04/92

Numero
2168

Pagina
20

Titolo
ALLA FIERA DELL' ETNA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI - FOTO DI GIORGIO LOTTI

Sezione
STORIE

Sommario
Tanta paura, certo. E poi: torpedoni di turisti in cerca di brividi, Sgarbi e i marines, risse tra vulcanologi, direttissime tivù. Ma la cosa più sorprendente che Epoca ha scoperto a Zafferana sono i siciliani che difendono la lava. Provocazione? Niente affatto. "Peccato per la neve. Quest' anno il vulcano ha eruttato tanta sabbia da renderla impraticabile" . Il presidente dello sci club locale.

Didascalia
La colata lavica nella valle del Bove, sopra
Zafferana. In alto, accanto al titolo: un cartello sulle pendici
dell' Etna.
Ciò che resta della casa di Giuseppe Fichera, travolta
dalla lava sopra Zafferana. A fianco: Gemma Gasperini, un' abitante
del paese etneo durante una delle tante proteste di questi giorni.
PER I POTENTI DI ZAFFERANA UNA SETTIMANA DI FUOCO
Il sindaco
Alfio Leonardi, democristiano. "Noi
possidenti gli abbiamo detto: se cambi il corso della lava ti ci
buttiamo dentro" .
Il parroco
Don Luigi Licciardello. La sua processione ha
riunito 2 mila persone dietro la statua della Madonna. "Se la lava
ha rallentato è anche merito suo" .
Il ministro
Nicola Capria,
socialista, ministro della Protezione civile. Il suo dicastero è
impegnato sull' Etna con 50 uomini, dieci automezzi e un elicottero.
L' esperto
Franco Barberi. Il vulcanologo ha coordinato le
operazioni d' emergenza. Il suo piano di sbarramento lavico è stato
contestato dal collega Letterio Villari.
SOTTO IL VULCANO, UOMINI IN PIAZZA E DONNE IN CHIESA
Arriverà anche qui?
A destra: proprietari
terrieri di Zafferana discutono il percorso della colata lavica.
La forza della parola
A sinistra: la chiesa-tenda di Santa Maria della
Provvidenza. Sopra: fedeli in preghiera. A destra: assemblea in
piazza Umberto I.
Il poeta e i contadini
A fianco: i fratelli
Giuseppe e Ignazio Coco, apicoltori. A sinistra: Mauro Bonanno. Ha
scritto odi al vulcano.

Testo
"Signor sindaco, dovremmo bandire il concorso. Sa, ci sono quelle tre persone da assumere..." . "Ma che concorso e concorso, io ho bisogno di gente che lavora. E poi, le sembra il momento, con quello che sta succedendo?" . Alfio Leonardi, sindaco democristiano di Zafferana, sbotta furioso contro il funzionario del Comune, quindi si sistema il nodo della cravatta, esce di corsa dalla sua stanza e si precipita all' hotel Airone, dove lo aspetta il ministro della Protezione civile, Nicola Capria. E' la vigilia di Pasqua. I Sea Stallion, gli elicotteri della base Nato di Sigonella, continuano a volteggiare su in alto, impegnati in operazioni "di guerra" contro le bocche eruttive dell' Etna, ma le ultimissime notizie dal fronte lavico sembrano finalmente confortanti: "Una tregua" , titolano i giornali. Un attimo di respiro per gli abitanti di Zafferana, che nel frattempo, sulla piazza centrale, spiano la breccia sotto la Val Calanna, i segnali di fumo della colata alle spalle del paese. "No, la lava non ci distruggerà" , dice un vecchio. "Al massimo, se arriva, che danno può fare? Una ventina di case" . Anche il sindaco si rilassa. "Forse stavolta potremo brindare" , si lascia scappare, ma sa benissimo che con l' Etna non è mai detto. Il braccio di fuoco che si dirige verso Zafferana sembra quasi spento. L' emergenza annunciata la scorsa settimana non è però finita. Le bocche a quota 2450 metri eruttano ancora lava, mentre in alto sulla spianata del rifugio Sapienza, i Seabees, le "api del mare" della Us Navy, stretti nelle loro mimetiche, lottano contro le folate di vento gelido per agganciare agli elicotteri i lastroni di cemento che dovrebbero bloccare la colata a metà del suo corso. Uno sbarramento artificiale, per strozzare a monte il flusso di magma che ha riempito la Val Calanna, oltre la quale, in basso, dietro le prime case di Zafferana, la lava tracima lenta. "Lasciatele seguire la strada che vuole" , urla una donna, tra la folla di gente che ogni giorno, aggirando controlli e posti di blocco, si inerpica fino al fronte lavico. Gente del paese, armata di bastone, pronta a difendere la "Montagna" dagli assalti degli esperti. "Vogliamo essere sicuri di quello che fanno politici e vulcanologi" , spiega la donna, Rosaria Castro. "La lava non si deve deviare. Se perdo casa mia, pazienza" . Ce l' hanno con il coordinatore dell' operazione, Franco Barberi, vulcanologo della commissione Grandi rischi, ma peggio ancora col sindaco Leonardi: "Stava andando a controllare i margini della colata. Gliel' abbiamo detto chiaro e tondo: se fai qualcosa per cambiare il corso della lava, ti ci buttiamo dentro" , dice ancora infuriato un piccolo possidente della zona, agitando in aria un bastone. L' ira della gente ha una causa precisa, una frase pronunciata dagli esperti all' inizio dell' emergenza: "Bisogna sceglier il percorso di minor danno" . In altre parole si era pensato di costruire un incanalamento artificiale della lava per salvare la contrada di Sciara Ballo, molto popolata, a discapito del centro di Zafferana. Era solo un' ipotesi, accantonata subito a vantaggio di altri interventi anti-magma, come lo sbarramento artificiale a quota 2000. Ma ugualmente il popolo di Zafferana è rimasto in allarme. Ogni ruspa che si avvicina alla colata, ogni mina che brilla, riaccende i sospetti. "Megghiu arricumannarisi a la manu divina" , meglio rimettersi nelle mani di Dio, commenta Mauro Bonanno, poeta non ufficiale del paese, che ha con tempestività dedicato la sua ultima lirica all' Etna in eruzione. Tesi: "Meglio non fidarsi degli "scienziati" . Se la lava arriva, arriva..." E' arrivata altre volte, vicino a Zafferana. Duecento anni fa, nel 1792, si fermò, dopo aver distrutto frutteti e vigneti, ai piedi della statua della Madonna della Provvidenza. Anche nel 1951 fece paura. Eppure, in questo paese di 7 mila abitanti, cresciuto nel Settecento attorno al feudo dominato dal monastero benedettino di San Giacomo, il fatalismo è più forte della paura. Nessuno è mai fuggito per timore del vulcano. "L' Etna ci dà benessere" , dice il sindaco Leonardi, "ha fatto di Zafferana un' isola nell' isola, senza delinquenza, senza mafia, con una terra fertile e un reddito pro capite tra i più alti della Sicilia" . Un paradiso, insomma. Non fosse per le periodiche minacce dell' Etna. E per i terremoti. Zafferana deve ancora fare i conti con la scia di detriti e macerie che il sisma del 1984 si è lasciato dietro. Se le abitazioni sono state rimesse a posto con una certa rapidità, la chiesa principale, Santa Maria della Provvidenza, è ancora ospitata in un tendone montato all' ingresso del paese. E solo ora, per ironia della sorte con la lava alle spalle, sono arrivati i fondi e cominciati i primi lavori di ristrutturazione. Il municipio invece è ancora "momentaneamente" alloggiato in quella che sarebbe dovuta essere una casa di riposo per anziani. Sintesi dei vecchi sulla piazza del paese: "L' Etna non ammazza nessuno, i terremoti sì" . L' Etna non ammazza, però distrugge. La colata che scende dalla Val Calanna ha inghiottito terreni, ettari su ettari, i frutteti che contribuiscono al benessere di Zafferana. Ha poi divorato il casolare di Giuseppe Fichera, l' impiegato dell' Enel che aveva polemicamente scritto sul muro: "Grazie governo" . Non un danno ingente: quello di Fichera era solo un deposito. Ma lui si sente il primo martire di guerra.
Inveisce contro i cameramen di una televisione privata che hanno lasciato fuori campo la scritta contro il governo, poi minaccia di convocare una conferenza stampa, mentre la signora Gemma Gasparini, veneta di nascita, zafferanese d' adozione, la convoca davvero.
Assediata da flash e telecamere, imbastisce una filippica filomeridione contro Vittorio Sgarbi, che la scorsa settimana si è presentato al "fronte" augurandosi la distruzione delle "brutte case" di Zafferana. Più rassegnato Alfio Russo, pensionato. Casa sua è lì, sulla traiettoria del fuoco. Ma lui, impassibile, prende una sporta di plastica con poca roba, chiude a chiave e se ne va, lasciandosi alle spalle il disastro annunciato: "E che ci posso fare? Per fortuna ho un' altra abitazione a San Giovanni La Punta" .
Intorno ai calmi di cuore come il signor Russo, c' è però un paese in subbuglio. I militari lo attraversano notte e giorno, i cronisti e i reporter lo setacciano in ogni angolo, gli elicotteri ne fanno a pezzi la quiete. Mentre gli echi delle polemiche che arrivano dal quartier generale dell' Hotel Airone, dove è ospitato il Com (Centro operativo misto, già ribattezzato Caos operativo misto), lo dividono in fazioni. Chi sta con Franco Barberi, il vulcanologo che sostiene gli interventi di sbarramento del fronte lavico, chi invece con Letterio Villari, direttore dell' istituto di Vulcanologia di Catania, particolarmente scettico sulla riuscita dell' operazione.
Chi critica il Comune, chi se la prende con gli ambientalisti dell' Ente Parco dell' Etna, che a loro volta mandano fax e telegrammi di diffida agli amministratori locali: sopra i 700 metri il vulcano è di loro dominio. Ed è merito dell' Ente, adesso preoccupato per l' assetto ecologico della zona, se sopra Zafferana è stato frenato qualsiasi tentativo di speculazione edilizia. Non manca un intervento più strettamente politico: una delegazione del Pds, con in testa il neo-onorevole Gaetano Grasso, leader dei commercianti di Capo d' Orlando, arriva a Zafferana e propone una legge per facilitare i rimborsi alle vittime dell' eruzione. Vittime al momento più orientate a salvare il salvabile. "Come facciamo a portar via la roba, se la la lava entra davvero in paese?" , si chiede Sebastiano Cavallaro, impiegato. "Io dei camion dell' esercito non mi fido" . Non si fidano nemmeno i produttori di miele, discendenti dagli antichi pastori di Zafferana. E gli apicoltori, qui, sono una forza, numerica e economica. All' affare miele si dedica quasi una famiglia su due, col risultato che a Zafferana viene prodotto il 15 per cento del nettare nazionale. Che cosa dice la lobby delle api? "Abbiamo già portato via quattrocento fusti di miele" , racconta Ignazio Coco, proprietario insieme al fratello Giuseppe, consigliere comunale, della Sicilmiele, un' azienda capace di sfornare 14 mila barattoli al giorno. "Ogni fusto vale un milione" . Mostra gli impianti, i laboratori, l' appartamento suo e della moglie al primo piano, duecentocinquanta metri quadri con Jacuzzi in bagno, nascosti sotto un' architettura anonima, con la facciata nemmeno imbiancata. Poi con la mano indica il fumo che si alza dalla Val Calanna. "Non c' è il rischio solo di perdere la casa. Qua va a rotoli veramente tutto" . Un rischio che per molti si misura in cifre. Oltre alla casa, le attività commerciali. I proprietari dell' Hotel Primavera, per esempio, pensano già alla stagione turistica: "Era tutto prenotato fino all' estate, ma da quando si parla dell' eruzione sono arrivate valanghe di disdette" . Eppure, anche in mezzo al caos, i turisti non mancano. Arrivano in pullman chiedendo la strada "per la lava" , si perdono sui sentieri che portano alla colata, poi a sera, consumato un panino e una bibita, se ne vanno. In tempi normali per Zafferana rappresentano un discreto introito, non ricco come quello della vicina Taormina, ma sufficiente a riempire in periodo di festa o vacanza i tre alberghi della zona. Un turismo comunque discreto.
Le sere d' estate si passeggia in piazza mangiando i biscotti al cioccolato, detti gli "sciatori" , del bar Donna Peppina, e pizze fritte "alla siciliana" . E c' è ancora chi è in grado di indicare la casa che fu luogo di villeggiatura di Vitaliano Brancati, un palazzotto a due piani sulla via principale. O chi ricorda l' aggressione subita da Pier Paolo Pasolini quando alla fine degli anni Sessanta arrivò in paese, con Alberto Moravia ed Ezra Pound, per l' edizione annuale del premio intestato a Brancati. "Erano venuti i fascisti a picchiarlo da Catania" , racconta Mauro Nicolosi, ex vigile urbano, "sono stato io a salvarlo, accompagnandolo all' Airone" . E L' Etna? L' Etna con la sua traccia rossa sullo sfondo dà da pensare anche agli sciatori, che d' inverno invadono le piste di Nicolosi e Linguaglossa. "Quest' anno ha eruttato tanta sabbia da rendere la neve impraticabile" , dice Giuseppe Coco, 31 anni, presidente del club "Valle del Bove" . Ma non è solo questo che preoccupa gli amanti della montagna: "La lava ci toglie tutto, un pezzo della nostra storia, delle nostre tradizioni. Val Calanna era il nostro rifugio da bambini, quando andavamo a passeggiare nei boschi. I casolari distrutti appartenevano ai nostri avi" . Giuseppe Coco ha visto in questi giorni ragazzi sgomberare vecchie case rurali, portare via una zappa arrugginita, la vite di un torchio... "Perché? Chiedevo. Cosa ve ne fate. Erano di mio nonno, mi rispondevano" . Tristezze. E se qualcuno come Salvatore Barbagallo, consigliere comunale del Psdi, si rincuora dicendo che "tanto a Zafferana abbiamo tutti una doppia o una tripla casa" , altri si chiedono angosciati: "Dove porteremo la roba? E i bambini?" . Sono le donne, le stesse che affollano la chiesa-tenda all' entrata del paese, in ginocchio davanti alla copia della statua della Madonna della Provvidenza. Il parroco don Luigi l' ha esposta facendo uno strappo alle regole liturgiche: "E' vietato mettere in chiesa immagini di santi durante la settimana di Pasqua, ma questa è una situazione eccezionale" , si giustifica.
"E del resto fuori norma era anche la processione che abbiamo fatto la scorsa settimana" . Fuori norma, ma indispensabile. Metà paese l' aveva richiesta. E poi era d' accordo anche l' arcivescovo di Catania, Luigi Bommarito, che vi ha partecipato, accompagnando una folla di duemila persone. "Non è detto che non abbia fatto effetto" , sostiene il parroco. "Sì, qui c' è l' esercito italiano, gli elicotteri della Nato, ma se la lava ha rallentato" , sorride don Luigi, "forse il merito è anche della Madonna" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
22/04/92

Numero
2167

Pagina
38

Titolo
SOTTO IL VULCANO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI E ALFIO SCIACCA

Sezione
STORIE

Sommario
Soldati dappertutto, abitanti armati che si minacciano tra loro, un sindaco disperato che può soltanto pregare la Madonna. Ecco come l' eruzione dell' Etna ha trasformato Zafferana, il più ricco paese della Sicilia, in una zona di guerra.

Didascalia
Il magma si fa strada verso
Zafferana. L' eruzione dell' Etna è cominciata il 15 dicembre.
La lava corre a cento metri all' ora verso la valle
I bagliori del magma illuminano la notte. Il
materiale in fusione ha già travolto quattro barriere.
Urla il sindaco: "Oramai mi fido solo della Madonna"
A fianco: nel tendone che sostituisce la chiesa
parrocchiale distrutta dal terremoto nel 1984, gli abitanti di
Zafferana, presente il sindaco Alfio Leonardi (Dc), implorano la
Madonna della Provvidenza affinché, come in passato, fermi
l' eruzione dell' Etna. Nelle foto piccole, da sinistra: una
riunione del Centro operativo mobile, nella sede provvisoria
dell' Hotel Airone. Marines americani con i blocchi di cemento con
cui si è cercato inutilmente di fermare la lava. Le ruspe al lavoro
alle porte di Zafferana.

Testo
Zafferana Etnea: come vive un paese sotto il vulcano. Anzi, come muore. Aveva il reddito più alto della Sicilia, era notissimo per la sua produzione di miele (il 15 per cento del prodotto italiano), e ancor più per il turismo. In questo secolo ha avuto ospiti famosi: gli scrittori Giovanni Verga e Federico De Roberto vi trascorrevano l' estate. Vitaliano Brancati l' ha addirittura celebrato in Paolo il caldo. Ma sono bastati tre mesi e una colata di lava apparentemente inarrestabile per trasformare in zona di guerra questo centro di 5 mila abitanti posto a 800 metri sull' Etna, a una trentina di chilometri da Catania. L' incubo è cominciato il 15 dicembre, quando da quota 2450 ha cominciato a fluire il magma. Che ha travolto, nell' ordine, le barriere sistemate sulla sua strada, l' organizzazione della Protezione civile, l' immagine dello Stato e la pace sociale di Zafferana Etnea. "Pace sociale" ? A Zafferana non esiste più. Infatti i suoi abitanti, assediati dal vulcano, ormai sono disposti a tutto: anche a imbracciare il fucile e a sparare, specie quando tra gli scienziati si è fatta strada l' ipotesi di incanalare la colata verso "il percorso di minor danno" . Il che significa soltanto salvare alcuni a prezzo di altri. Ecco una reazione esemplare a queste proposte: "Deviare la lava? Non se ne parla proprio, sennò parte il grilletto" , minaccia Giuseppe Coco, 64 anni, proprietario del bar "Donna Peppina" , la più antica pasticceria del paese.
L' uomo faceva un mestiere pacifico, ora mostra il calcio della pistola. E come lui altri, mentre in cielo ronzano gli elicotteri che scaricano macigni sul torrente infuocato, mentre settecento uomini dell' Esercito e un pugno di incursori della Marina, e perfino i marine Usa (per non parlare degli uomini della Protezione civile e dei volontari del Paese) si affannano a contrastare l' eruzione.
"Zafferana è un paese con poche decine di abitanti, con una piazza intonacata di bianco, dalla quale si aprono file di case nere fabbricate con pietra lavica" , scriveva Vitaliano Brancati in Paolo il caldo. La piazza è ancora intonacata di bianco, le case nere come al tempo dello scrittore. Ma l' Etna si è risvegliato. In quasi 4 mesi la lava ha inghiottito ettari di terreno, distrutto casolari, superato le quattro barriere artificiali costruite per rallentare il suo corso. Palliativi. Come le mine fatte esplodere ai bordi della colata. Come i lastroni di calcestruzzo, forniti dagli americani, ma che, troppo leggeri, sono rimasti a galleggiare sulla lava. Questi espedienti, alla fine, sono serviti soltanto a fomentare polemiche. Hanno messo autorità contro autorità, abitanti contro abitanti e soprattutto, gli abitanti contro lo Stato. Il primo rimprovero è al governo: che cosa ha fatto durante gli ultimi quattro mesi? Le barriere hanno avuto il solo effetto di creare "ingrottamenti" , fiumi di magma fluidissimo e sotterraneo fino alle prime case del paese. E infatti. "Ci hanno abbandonati. Prima si sono fatti le elezioni, poi hanno pensato a Zafferana" , protesta Angela Finocchiaro, 52 anni, impietrita davanti alla colata. Il suo terreno sta per essere distrutto. Per lei, come per altri, è tardi. Ora, qualsiasi cosa si faccia, qualcuno finirà col pagare il conto. Ma chi? Chi sarà colpito dalla lava, chi ne sarà risparmiato? Franco Barberi, vulcanologo della Commissione grandi rischi e coordinatore degli interventi di questi giorni sull' Etna, ha proposto per esempio di incanalare la colata nel canalone di San Giacomo. Un intervento che metterebbe a repentaglio la sicurezza della contrada "Centro" , per salvare invece "Sciara Ballo" , quartiere a più alta densità d' abitanti. Ma non soltanto di abitanti: "A Sciara Ballo risiedono grossi proprietari terrieri, personaggi legati alla Dc. Apicoltori, produttori di miele" , si ripete in paese. "Ma è anche il miele che ha fatto di Zafferana il paese siciliano a più alto reddito" , ribatte il sindaco Alfio Leonardi, democristiano. Al centro della rissa c' è anche lui, il primo cittadino di Zafferana, di professione impiegato alla Sip. La sua intraprendenza è costantemente punita: il prefetto ha chiesto la sua testa per aver osato mandare le ruspe in Val Calanna e, qualche mese fa, il Wwf l' ha denunciato per un intervento giudicato intempestivo. "Vorrei vederli adesso, gli ambientalisti" , replica, "Che si mettano loro a far da barriera alla lava..." . Davanti alle polemiche sorte tra gli abitanti, si arrende alla fine anche il ministro socialista della Protezione civile, Nicola Capria: "Non ci sarà nessuna deviazione" , ha annunciato all' inizio della settimana. Polemiche e paura.
L' incubo della distruzione di quello che fino a ieri era un tranquillo centro di montagna, Zafferana: d' inverno meta degli appassionati di sci, di passaggio verso le piste dell' Etna; d' estate luogo di villeggiatura di professionisti e media borghesia catanese. Un discreto movimento turistico che ogni estate fa levitare i residenti da 5 mila a 7 mila. Turisti che anche con l' eruzione affollano i bar e le strade del paese. Col risultato di dividere ancora una volta la popolazione. C' è chi i visitatori li vuole, come Agata Russo, proprietaria di una grande trattoria, chi invece li considera quasi degli sciacalli. La gente litiga, e prega.
Dal pulpito, il parroco del paese Luigi Licciardello pronuncia valutazioni bibliche: "Maledetto l' uomo che si fida di un altro uomo" , e se la prende con il governo, mentre arriva l' arcivescovo di Catania, Vincenzo Bommarito, che piange e decide di portare in processione la Madonna della Provvidenza, la stessa che 200 anni fa salvò il paese dalla lava. Commenta il sindaco: "Meglio fidarsi di lei che delle istituzioni" . Fatalismo, e rabbia. Giuseppe Fichera, impiegato dell' Enel, ha la casa proprio a ridosso del fronte lavico. "Grazie governo" , ha scritto a lettere cubitali sulla porta, e ha innalzato una bandiera bianca. "L' ho fatto" , spiega, "perché se la lava è giunta fin qui lo si deve al menefreghismo di chi governa" . Seduto sul terrazzino con una bottiglia di vino e una di acqua, spiega: "Agli ospiti offro l' acqua. Il vino è per l' Etna. Quando verrà la lava lo berrà, alla salute della gente di Zafferana" . Secondo il vulcanologo Paolo Gasparini, l' Etna potrebbe brindare anche e soprattutto alla salute degli amministratori locali: "Per decenni si è costruito ai piedi di un vulcano: una politica territoriale sbagliata e pericolosa" . Il critico Vittorio Sgarbi, neodeputato liberale, è andato ben più in là. Arrivato a Zafferana lunedì 13 aprile ha esclamato "Che brutte case! La lava dovrebbe buttarle giù tutte" . Quando lo hanno sentito, gli abitanti hanno tentato di linciarlo. Novant' anni fa ricevevano Verga e De Roberto. Oggi hanno la lava dell' Etna e Vittorio Sgarbi. Segni dei tempi.

BOX
ANATOMIA DI UN GIGANTE Fortuna che l' Etna è un gigante buono...
cioè un vulcano che emette lente colate di lava e non esplode in modo incontrollabile. Come invece ha fatto, e potrebbe rifare, per esempio il Vesuvio. Magrissima consolazione per gli abitanti di Zafferana Etnea, alle prese non soltanto con il magma, ma anche con i ritardi e le incoerenze degli interventi pubblici. Resta il fatto che gli studiosi considerano l' Etna un vulcano relativamente pacifico. Non per questo innocuo. Anzi. A riprova, basta scorrere gli avvenimenti degli ultimi sessant' anni. Nel 1928 un intero paese etneo, Mascali, fu distrutto; nel 1979 altri due, Milio e Fornazzo, furono danneggiati; nel 1981 un quarto paese, Randazzo, provò la sua parte di terrore. E poi va ricordata l' esplosione che uccise un uomo e ferì altre 14 persone a Piano Provenzana nel dicembre 1985.
L' Etna, dunque: il più alto vulcano attivo d' Europa, 3.340 metri di altezza, 145 chilometri di base, con il cratere più antico a quota 2.900. Da lì si eleva il cono superiore, con il nuovo cratere centrale circondato da oltre 200 coni avventizi e da un gran numero di altri crateri. Un sistema impressionante che nel nostro secolo ha prodotto una decina di eruzioni, mentre un centinaio sono quelle registrate in precedenza: la più disastrosa nel 1669, quando la colata durò 122 giorni e si fermò soltanto dopo aver raggiunto Catania. Ma già al tempo dei romani, attorno al 90 a.C., si trovano riferimenti storici all' attività dell' Etna; Diodoro Siculo ci parla addirittura di una migrazione degli antichi abitanti della Sicilia, i Sicani, avvenuta nel 1500 avanti Cristo a causa delle eruzioni del vulcano e delle successive carestie. La nascita dell' Etna, in realtà, è molto precedente: è avvenuta attorno a 500 mila anni fa sul fondo del mare che, all' epoca, sommergeva l' intera zona. Nei millenni seguenti, prima il sollevarsi del fondale, poi l' accumularsi delle lave hanno spinto la vetta all' altezza attuale. Il vulcano affonda le radici in una zona instabile della crosta terrestre al confine tra la zolla europea e quella africana, ed è alimentato da un grosso serbatoio che si trova alla profondità di 20 chilometri. Il magma dell' Etna è, fortunatamente per i siciliani, molto fluido: perciò i gas disciolti si liberano, in genere, senza esplosioni catastrofiche. Ma la medaglia ha un rovescio: prima di solidificarsi, le colate (che escono dalla bocca alla velocità di 15 chilometri orari e poi via via rallentano) possono correre a lungo e provocare molti danni.
Proprio come sta accadendo in questi giorni. Cominciata il 15 dicembre scorso a quota 2.450 sul fianco Ovest della Valle del Bove, quest' ultima eruzione si dimostra particolarmente insidiosa. Le ragioni? Intanto, l' enorme quantità di materiale emesso dal vulcano: 120 milioni di metri cubi in tre mesi. Poi, il fatto che la lava fusa si è scavata quasi subito canali sotterranei all' interno delle vecchie lave già consolidate. Isolato in questo modo, il magma è rimasto caldo e fluido e ha percorso distanze altrimenti impossibili. A poco sono serviti i primi quattro sbarramenti costruiti in questi mesi: la lava si inabissava per riemergere più a valle. Del resto, imbrigliare la forza di un vulcano è sempre difficilissimo e i risultati scarsi: nel 1935 e nel 1942, sull' isola di Hawaii, si provò con un bombardamento aereo a fermare il magma che minacciava una città, ma senza esiti di rilievo. Più recentemente, ad Hemay, in Islanda, si è tentato di spegnere le lave pompando un' enorme quantità di acqua di mare. Anche quella volta non andò bene. Sull' Etna, nel 1983, un' équipe di scienziati guidata dal professor Franco Barberi deviò una colata servendosi di cariche esplosive. Dapprima sembrò un fallimento, poi si scoprì che il sistema in parte aveva funzionato. Ma il tentativo più vicino al successo risale al 1669, proprio sull' Etna. Cinquanta uomini del paese di Pedara muniti di mazze e picconi erano quasi riusciti a frenare il corso della lava quando furono interrotti a bastonate da cinquecento abitanti di Paternò, un altro villaggio, che temevano di vedere il magma deviato sui propri terreni. Allora, come oggi a Zafferana Etnea.




Testata
Epoca

Data pubbl.
15/04/92

Numero
2166

Pagina
20

Titolo
STRESS COSI' STANCHI DA NON FARCELA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI MICHELE BEGALI

Sezione
STORIE

Occhiello
IL MORBO DEL 1992

Sommario
Non si riesce più a lavorare, a dormire, neanche a passare una sera fuori con gli amici. Esaurimento nervoso? Molto peggio. Ecco la discesa all' inferno di una funzionaria italiana dell' Onu, colpita dalla "sindrome da stanchezza cronica" o morbo dello yuppie. La malattia è cominciata come una banale influenza, accompagnata da un forte mal di testa La stanchezza cronica è più frequente in soggetti tra i 20 e i 30 anni. Molto colpite le donne

Didascalia
Elena Podestà, 38 anni, da 5 affetta da Cfs.
Elena Podestà nella casa dei suoi genitori, a Parma, dove si è
ritirata dal febbraio 1991.
Umberto Tirelli, primario della divisione di Oncologia medica e
Aids di Aviano, in Friuli.

Testo
Ha le occhiaie scure e profonde. Il viso giallastro. Il corpo smagrito. "No, non sono depressa. Non ho bisogno dell' analista.
Sono solo stanca, stanca da morire. Apatica, affannata, costretta a passare a letto gran parte della giornata. E' una malattia, la mia, un virus che mi ha colpito, non la somatizzazione di chissà quale malessere interiore".
Il tono è deciso, leggermente aggressivo. Lo sguardo appena appannato dallo sforzo fisico. Uno sforzo che accompagna ormai ogni gesto quotidiano, anche il più semplice, di Elena Podestà, 38 anni, da cinque affetta da "Cfs", ovvero Chronic Fatigue Syndrome, sindrome da stanchezza cronica.
Non è un caso raro, il suo, tutt' altro. Negli Stati Uniti gli ultimi dati parlano addirittura di cinque milioni di persone contagiate da questa sindrome. In Italia, gli "stanchi cronici" accertati sono 205, ma il loro numero è destinato a crescere in maniera esponenziale. Un' epidemia, la Cfs? A Elena Podestà ha stravolto l' esistenza, fino a costringerla a lasciare tutto, amici, sport, lavoro. Alla vita intensa e affannata di un tempo, si è sostituita un' immobilità quasi totale, un lento trascinarsi tra il letto e il divano, in casa dei genitori, a Parma.
"Sindrome da stanchezza cronica", l' hanno battezzata negli Stati Uniti, dove è stata scoperta nel 1984 esaminando un gruppo di professionisti di Incline Village, cittadina sul lago Tahoe, nel Nevada. "Sindrome da yuppie", si disse subito, perché sembrava colpire soprattutto soggetti iperattivi, pieni di energia, in carriera. Gente, come Elena Podestà, afflitta da identici sintomi, prodotti da un virus misterioso che si insinua nel sistema immunitario, riducendo al minimo i ritmi vitali. "Senso di spossatezza, febbre, disturbi visivi, dolori ai muscoli, alle articolazioni. Troppo per un esaurimento nervoso".
Cinque anni di stanchezza. Elena Podestà li racconta, sul filo di una memoria resa traballante dalla malattia. Tutto, dice, è cominciato all' improvviso nel 1987, mentre si trovava, strana coincidenza, in un momento determinante per la sua carriera: in Cile, come esperta dell' Onu. "La malattia si è manifestata come una banalissima influenza di fine estate, accompagnata da un mal di testa lancinante". Prima diagnosi: attacco di sinusite. "Dalla radiografia non era risultato niente, ma ugualmente il medico mi aveva messa sotto antibiotico. Dopo una settimana sembrava che tutto fosse passato. Invece...". Invece un senso di spossatezza crescente, il ritorno al lavoro più faticoso che mai, serate in casa convinta di dover ancora smaltire l' effetto debilitante degli antibiotici.
"No, il malessere non diminuiva. Anzi. Nelle settimane seguenti sono comparsi tutti i sintomi che mi hanno accompagnata durante questi cinque anni. Depressione, però, mai. Anzi, la voglia di trovare una ragione, una spiegazione".
Il medico prescrive i primi accertamenti: tifo, paratifo... Il Cile può essere un Paese a rischio. Ma Elena Podestà non risulta "infetta", solo una piccola crescita dei globuli bianchi. Rimane però lo stato di prostrazione, una debolezza fisica che si trasforma presto in vuoto mentale: difficoltà di concentrazione, cali di memoria, disturbi alla vista. Le prime tappe di una via crucis che cambierà radicalmente la vita della giovane e brillante esperta dell' Onu. "Presto ho dovuto smettere di usare il computer, di guidare, persino di guardare la tivù. I primi tempi riuscivo ancora a lavorare bene, ma solo lavorare". Senza saperlo Elena Podestà ha messo in atto quello che, secondo i medici, è l' unico sistema per sconfiggere, o almeno frenare, la Cfs: ridurre al massimo gli sforzi, risparmiare energia per le attività indispensabili, fermarsi, insomma, prima del crollo finale. "Andavo avanti tra alti e bassi, periodi in cui mi sembrava di recuperare le forze e periodi di crisi acuta, in cui ero costretta ad assentarmi dall' ufficio, tagliare ogni contatto con la gente, passare le giornate a letto. Senza però mai rassegnarmi. Per un anno ho continuato a pensare che il mio fosse solo un accumulo di stress".
Uno stress che infrange il limite della normalità cercando una via di fuga nel patologico? Le risposte per una persona che conduceva una vita come quella di Elena Podestà possono essere tante: "Gli amici, i parenti, tutti mi hanno accusata di aver scelto un lavoro troppo duro. Ma io non ci ho mai creduto: non c' era nulla nella mia vita in quel periodo che potesse giustificare una somatizzazione così violenta. La decisione più logica è stata comunque quella di prendermi un periodo di vacanza". Tre mesi in montagna, allo scadere del contratto in Cile, trascorsi in completo ozio. Un benessere precario, sufficiente però a riprendere fiato.
A novembre Elena è in pista con un nuovo contratto Onu. Stavolta in Svizzera, a Ginevra. Sei mesi di lavoro intenso, ogni tanto un attimo di affanno, ma lei lo attribuisce al cambio di ambiente. Solo in primavera capisce che l' antico male è sempre lì, che non l' ha ancora lasciata: "Nuovamente i sintomi che avevo in Cile: febbre, sudori notturni, difficoltà di concentrazione. Cinque giorni a letto, poi nuovamente in ufficio. Non potevo assentarmi, non potevo mollar tutto. Il lavoro mi interessava ancora e continuavo a ripetermi: devo farcela, devo andare avanti". La mattina sembra quasi possibile uscire di casa, raggiungere l' ufficio, sbrigare le pratiche. Ma la sera, no. La stanchezza diventa insostenibile. I muscoli fiacchi, la testa in tilt.
Ancora medici, ancora laboratori d' analisi. Un nuovo mazzo di accertamenti e cartelle cliniche. Ed ecco, a febbraio del 1989, una prima diagnosi: insufficienza surrenale, curata con dosi massicce di corticosteroidi. Nel frattempo, ed è già estate, un nuovo trasferimento, a Roma, ministero degli Esteri: "Dopo una fase buona, in autunno i disturbi sono ricominciati, ma ero convinta che le cure mi avrebbero fatto bene".
I corticosteroidi però non bastano. "Mi davano la falsa energia di cento caffè, ma non mi guarivano dalla stanchezza". In ufficio i colleghi mormorano, la prendono per matta o, peggio, per furba.
Elena è costretta ad assentarsi. La febbre compare sempre più spesso, la bilancia segna meno 7, le occhiaie si fanno più profonde: "Assisto a una vera e propria trasformazione fisica. Vedo la mia pelle rinsecchirsi, i muscoli svuotarsi. Continuo a lavorare, ma sento che sono agli sgoccioli. La fatica è insostenibile". A febbraio del 1991 Elena è costretta a mettersi definitivamente in malattia e lasciare il ministero. Non è più in grado di andare in ufficio, ma neanche di cucinarsi una minestra. Torna a Parma dai suoi, mentre i medici azzardano le ipotesi più svariate: malaria, disfunzioni alla tiroide, sindrome di Addison, una calcificazione della ghiandola surrenale che, si scoprirà dopo, si manifesta con sintomi molto simili a quelli della Cfs.
Niente di sicuro. Fino a quando dall' America arriva una voce diversa: e se fosse Cfs? Il sospetto viene a un amico medico di Houston, ma non trova risposta immediata in Italia, dove la "sindrome da stanchezza cronica" sembra ancora fantascienza. Non è contemplata tra le malattie "ufficiali". La ignorano i medici di base, ma anche la maggior parte degli specialisti. Solo al Centro di riferimento oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone, un giovane infettivologo, Umberto Tirelli, ha cominciato a studiare alcuni casi.
Dopo l' ennesima cura, stavolta per un presunto microadenoma ipofisario (la sua Tac aveva registrato una piccola differenza d' irrorazione in una zona del cervello), Elena Podestà comincia a sospettare che il suo male abbia una relazione con la Cfs. Sospetto che le viene confermato, nell' ottobre scorso, da due specialisti, Maurizio Monaco, endocrinologo di Chieti, e Vittorio Laghi, epidemiologo dell' Università La Sapienza di Roma: la loro diagnosi parla appunto di sindrome da stanchezza cronica. "Vengo a sapere che in Italia è già nata un' associazione. Mi rivolgo al presidente, Loretta Castellano, anche lei afflitta da Cfs e ora guarita, che mi mette in contatto con il centro di Aviano. A gennaio, le prime cure".
Una miscela di magnesio e vitamina B12, un rimedio certamente sperimentale, forse un palliativo. "Miglioramenti? Direi di sì. Sono scomparsi i dolori muscolari, la sudorazione notturna, il mal di testa è diminuito. Ma mi rimane ancora la difficoltà di concentrazione e il calo di memoria". La vita di Elena Podestà, insomma, è ancora lì, tra il letto e il divano di casa dei suoi, a Parma. Né la medicina è in grado di garantire qualcosa contro la stanchezza cronica, il "mal du vivre" degli anni Novanta. L' unica speranza? Un gioco del caso: "Molti sono guariti dopo cinque anni. E io, appunto, sono al quinto anno".
RIPRENDETE IN MANO LA VITA Cinque milioni di malati in America. Più di 200 casi accertati in Italia. Come difendersi dalla "grande stanchezza"? Ecco i consigli di un esperto.
Cinque milioni di casi ipotizzati negli Stati Uniti. Cinquantamila in Gran Bretagna. Più di duecento accertati in Italia. Tutti legati da una stessa combinazione di sintomi, sui quali prevale una spossatezza perenne.
Non è una malattia letale la Cfs, Chronic Fatigue Syndrome, sindrome da stancheza cronica, ma sicuramente una forma patologica che pone nuovi interrogativi. Primo, perché a esserne colpiti sembrano soprattutto soggetti iperattivi che vivono sotto stress. Secondo, per la sua somiglianza a malattie nervose e psicosomatiche. Terzo, per gli effetti che produce. Si manifesta spesso dopo un' influenza, portando dolori ai muscoli, alle articolazioni, disturbi alla vista, infiammazione delle ghiandole linfatiche, fino a colpire l' efficienza mentale dell' individuo.
L' origine? Secondo i medici americani che per primi, nel 1987, hanno osservato la sindrome scoppiata nel Nevada, tutto dipenderebbe da un virus. Quale, non è ancora stato accertato, ma ci si arriverà.
In Francia è nato il Graf, Gruppo di ricerca sull' astenia e la fatica; in Gran Bretagna sta facendo ricerca uno dei massimi esperti, Charles Sheperd, egli stesso afflitto dal morbo.
E in Italia? Il 20 marzo, a Udine, si è tenuta una conferenza nazionale che ha sancito l' "ufficializzazione" definitiva della malattia. Anche se già prima l' Istituto superiore di Sanità aveva allestito un Centro di sorveglianza cui fanno capo i centri di Chieti, Roma, Aviano, Verona, Bari, Milano. Quello di Aviano, in particolare, nato nel 1991 all' interno del Centro di riferimento oncologico, ha seguito e diagnosticato 205 casi.
"Per essere sicuri che si tratti di Cfs devono essere presenti almeno otto tra i sintomi caratteristici della malattia (vedere riquadro a pagina 24) per un periodo non inferiore ai sei mesi", spiega Umberto Tirelli, primario ad Aviano della divisione di Oncologia medica e Aids. "Certo, c' è il rischio di confondere la Cfs con altre forme patologiche, compresa la depressione o malattie di origine nervosa". C' è però, secondo Tirelli, una linea di demarcazione netta tra la stanchezza cronica e la depressione: "Il depresso generalmente non vuol superare il suo stato. Il malato di Cfs invece sì, si adopera in tutti i modi per uscire dall' astenia.
Il suo limite è l' handicap fisico. Altra differenza: il pessimismo, la vocazione al suicidio, i pianti frequenti che caratterizzano i depressi sono sintomi estranei alla Cfs. O tutt' al più fenomeni che compaiono in una fase successiva della malattia".
EPOCA: Professor Tirelli, come si arriva alla diagnosi di Cfs? TIRELLI: Per esclusione. Oltre la depressione, ci sono almeno cinque gruppi di malattie con sintomi molto simili: i tumori, l' Aids, le malattie reumatologiche, quelle tiroidee, quelle di carattere autoimmunitario.
EPOCA: Non esiste dunque un' analisi specifica? TIRELLI: No, perché non è ancora stato scoperto il virus responsabile della malattia della stanchezza. Si è parlato dell' Hhv6, scoperto da Robert Gallo, attivo nel 70 per cento dei casi. Ma secondo gli ultimi studi potrebbe dipendere tutto dalla reazione del soggetto a più virus.
EPOCA: Una debolezza quindi del sistema immunitario? TIRELLI: Più che di debolezza, parlerei di reazione abnorme del sistema immunitario che entrerebbe in uno stato di attivazione cronica.
EPOCA: Esistono soggetti a rischio? TIRELLI: Non è come l' Aids, ma si è riscontrato che la stanchezza cronica è più frequente in soggetti tra i 20 e i 30 anni, in particolare tra le donne. A scatenare la Cfs potrebbero intervenire dei "cofattori", come la predisposizione genetica, ma soprattutto lo stress.
EPOCA: Quale ruolo gioca esattamente lo stress? TIRELLI: Un ruolo determinante. Negare al proprio organismo i tempi necessari di recupero dalla stanchezza, dalla fatica, dalle malattie, anche le più banali, come l' influenza, può provocare una sindrome di questo tipo. Viviamo in maniera affannata, sottoposti spesso a ritmi che non danno tregua, oberati da responsabilità dalle quali è difficile sgravarsi. La gestione della vita in queste condizioni diventa davvero un rischio.
EPOCA: Malattia dello yuppie, dunque? TIRELLI: Beh, non esattamente. Quando si è manifestata sul lago Tahoe, nel Nevada, forse. Oggi comincia a colpire categorie più ampie: gli studenti, per esempio. Continuo a vederne tanti crollare proprio nel momento in cui l' impegno è più forte e i risultati più brillanti.
EPOCA: Che evoluzione può avere la Cfs? TIRELLI: Generalmente si alternano periodi di crisi acuta con periodi di relativo benessere. Non si sa esattamente quanto può durare. Anni.
EPOCA: Quali rimedi adottare? TIRELLI: Importantissimo risparmiare le energie, adattare la propria vita ai ritmi che impone la malattia. Non serve sicuramente, anzi fa male, ricorrere ad ansiolitici, antidepressivi, psicofarmaci. L' unica cura possibile sembra finora il magnesio e la vitamina B12.
EPOCA: Previsioni sulla diffusione della sindrome da affaticamento? TIRELLI: Per ora è difficile dirlo. Continuo a ricevere centinaia di lettere e telefonate da tutta Italia. Bisogna però fare attenzione che non si crei una sindrome della sindrome. Soffrire di stanchezza, o avere qualcuno dei sintomi che denunciano la Cfs, non significa automaticamente essere vittime della malattia.
(per la fotografia grande a pagina 20, abito Gianni Versace e chaise - longue Poltrona Frau)
BOX
STRESS QUANDO DIVENTA UNA MALATTIA Qualche volta è solo stress. Qualche altra volta, invece, la stanchezza diventa una vera e propria malattia, chiamata appunto "sindrome da stanchezza cronica" (in sigla Cfs, Chronic Fatigue Syndrome). A causarla, anche se la scienza non ha ancora detto la parola definitiva, potrebbe essere un virus. Come riconoscere la Cfs? Sottoponendosi per prima cosa a una serie di accertamenti che permettano di escludere altri mali; poi, esaminando bene i sintomi, che devono comunque essere presenti da almeno sei mesi. Esistono, infatti, secondo i medici almeno una decina di segnali comuni e ricorrenti nella "sindrome da stanchezza cronica". Eccoli, in questa pagina.
1.
Febbricola Compare ciclicamente, a periodi variabili da persona a persona. Dura in genere non più di qualche giorno, mantenendosi sui 37 gradi, 37 e mezzo.
2.
Dolori muscolari Un senso di "svuotamento" del tono dei muscoli che si accompagna ad articolazioni dolenti e a una certa difficoltà nel compiere qualsiasi movimento, anche il più banale.
3.
Mal di gola E' una costante di tutti i malati di sindrome da stanchezza cronica.
Un' infiammazione interna che può accompagnarsi a un ingrossamento delle ghiandole linfatiche.
4.
Mal di testa Decisamente più forte delle solite emicranie. Può cominciare già la mattina, appena svegli, ma anche presentarsi durante il corso della giornata.
5.
Disturbi del sonno Si dorme tanto, continuamente. Oppure, al contrario, non si riesce a chiudere occhio, soprattutto durante la notte. Mai, però, il sonno è regolare.
6.
Poca concentrazione Svolgere il proprio lavoro, concentrarsi su un argomento, portare avanti una conversazione, tutte attività che provocano enorme fatica.
7.
Calo della memoria Si dimenticano nomi, date, eventi, anche quelli non troppo distanti nel tempo. Si arriva spesso a confondere il passato con il presente.
8.
Confusione mentale Un senso di pesantezza paragonabile allo stato di ubriachezza. Si alterna a momenti di vuoto totale, di assenza assoluta di connessione logica.
9.
Irritabilità A una malattia prolungata si associano spesso disturbi nervosi. Il carattere ne risente, con effetti variabili, dalla depressione alla tristezza, alla suscettibilità.
10.
Disturbi alla vista "Mosche", ragnatele, ma anche cali improvvisi, momenti di offuscamento o di cecità rendono impossibile leggere, guardare la televisione, lavorare al computer.




Testata
Epoca

Data pubbl.
01/04/92

Numero
2164

Pagina
138

Titolo
PROFUMATAMENTE VOSTRA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Sommario
Si chiama Claudia Schiffer, ha 21 anni, e grazie a una casa di cosmetici è diventata la modella più pagata del mondo. Ma l' industria della bellezza punta forte anche su altre primedonne. Per esempio...

Didascalia
12 miliardi
Sotto: Claudia Schiffer, 21 anni. Il contratto che ha appena
stipulato con la Revlon fa di lei la modella più pagata del mondo.
7 miliardi
Sotto: Paulina Poritzkova, 26 anni,
cecoslovacca, dal 1988 donna immagine della Estée Lauder. La cifra è
per 60 giorni di lavoro l' anno.
6 miliardi
Christy Turlington,
24 anni, ingaggiata dalla linea cosmetica americana Maybelline.
5 miliardi
Sopra: Cindy Crawford, 25 anni, top model e moglie
di Richard Gere. Ha un' esclusiva per la Revlon.
650 milioni
Sotto: Vanessa Paradis, 18 anni, cantante e attrice francese
"ingabbiata" da Chanel per il profumo Cocò.
2,5 miliardi
Isabella
Rossellini, 40 anni, dal 1983 volto ufficiale dei cosmetici
Lancome.

Testo
Discreti, ma inesorabili, i signori de L' Oréal non sono certo rimasti indietro. Se l' americana Revlon si è appena accaparrata, al "modico" prezzo di 12 miliardi l' anno, Claudia Schiffer, "la donna più bella del mondo" , i patron dell' industria francese hanno ingaggiato addirittura tre top model per la campagna pubblicitaria estiva: Stephanie Seymour, Linda Evangelista e Monica Bellucci, reclutate in gran segreto (solo a Parigi ne sanno qualcosa) e a condizioni ancora misteriose. Che le due case siano in concorrenza? Apparentemente no, visto che la Revlon produce cosmetici, e L' Oréal dovrebbe pubblicizzare shampoo e creme per capelli. Di fatto, però, le due multinazionali della bellezza adottano la stessa strategia di assalto al mercato mondiale, dove un sorriso può fruttare miliardi, un nome di grido giustificare investimenti colossali. Come appunto i 12 miliardi concessi in cambio dell' esclusiva a Claudia Schiffer, 21 anni, un metro e 81 d' altezza per 90-62-90 di seno-vita-fianchi. Un contratto che ha fatto scalpore. Mai nessuna modella era stata pagata tanto per una campagna pubblicitaria. Nemmeno la grande rivale di Claudia, l' americana Cindy Crawford, 25 anni, (segni particolari: un sensualissimo neo sul labbro sinistro e Richard Gere per marito), divisa dal 1989 tra Revlon e L' Oréal, oggi definitivamente in mano alla Revlon per cinque miliardi. Nemmeno Paulina Poritzkova, 26 anni, bellezza bionda venuta dall' Est (Cecoslovacchia), ingaggiata nel 1988 dalla Estée Lauder a 7 miliardi netti, in cambio di 60 giorni di lavoro l' anno. Nemmeno Isabella Rossellini che nel 1983, a 31 anni suonati, lasciò tutti di stucco quando la Lanco' me (stesso gruppo che fa capo a L' Oréal) la propose come testimonial unico della propria linea cosmetica. Per un miliardo l' anno, all' inizio. Oggi, l' ingaggio della Rossellini si aggira tra i due miliardi e i due miliardi e mezzo. Una vera borsa valori, che vede al top tra le top anche Christy Turlington, 24 anni, bellezza mista, metà statunitense (di padre), metà salvadoregna (di madre), "assunta" dalla linea cosmetica americana Maybelline per sei miliardi l' anno. O la giovanissima Vanessa Paradis, 18 anni, discreto successo in Francia come cantante e attrice, voluta dalla più celebre "maison" di moda, la Chanel, che l' ha messa in gabbia, trasformata in un malizioso canarino, il tutto per affidarle l' immagine del profumo "Cocò" . Top secret la cifra, come si addice allo stile della casa, anche se il settimanale Paris Match azzarda: "Tre milioni di franchi" , che in lire fanno più o meno 650 milioni.
Spiccioli, insomma. Ma nel suo caso basta la gloria, il marchio Chanel. Per Claudia Schiffer, la gloria, e qualcos' altro: l' offerta della Revlon le permette un salto di budget che gioverà senz' altro anche alla sua carriera di modella. Carriera di tutto rispetto. Grazie forse alla fortunata definizione di Brigitte Bardot degli anni Novanta, il "tesoro biondo" , scoperto nel 1988 da un talent scout dell' agenzia Metropolitan in una discoteca di Du' sseldorf, in questi anni ha tenuto tariffe da diva hollywoodiana. "Non erano neanche sei mesi che lavorava" , racconta a Paris Match Aline Soulier, direttrice della Metropolitan, "che riuscivo già a venderla a 5 mila dollari al giorno (quasi 6 milioni e mezzo di lire, ndr)" . I 5 mila dollari sono poi diventati 10 mila, 12 mila... D' accordo, ma perché la Revlon è arrivata a offrirle 12 miliardi? "Perché sa infondere vivacità e gioia a tutto il suo lavoro. E questa, per noi, è la chiave della bellezza" , dichiara diplomaticamente da New York Robert Fox, presidente della Revlon International, gruppo che fattura 3 mila e 200 miliardi di lire l' anno. Basteranno "vivacità e gioia" della Schiffer a far recuperare in termini di vendite l' investimento? Quelli della multinazionale ne sono sicuri: hanno già avuto una prova del successo della prescelta con la distribuzione sul mercato statunitense di un profumo, "Guess" , prodotto dal re dei jeans marsigliese Paul Marciano, e pubblicizzato da lei. Una scommessa, insomma, che tiene in allarme la concorrenza e la costringe a correre ai ripari. Così L' Oréal, 6800 miliardi di fatturato nel 1990, sostituisce la Crawford con due modelle superstar come Linda Evangelista e Stephanie Seymour, più una giovane promessa, Monica Bellucci che, secondo i piani, dovrebbe far furore sulla "piazza" giapponese e su quella italiana con un nuovo profumo "Naf naf" destinato alle adolescenti. La Lanco' me, sempre dello stesso gruppo, 1100 miliardi annui di giro d' affari, continua invece a rinnovare il contratto (altri 7 anni) alla sua donna di sempre, Isabella Rossellini. Motivo? "La Rossellini funziona perché è una donna apparentemente banale, un modello alla portata di tutti" , dicono alla filiale italiana. Funzionerebbe più della Schiffer? Per ora parlano i dati: "Trésor" , il profumo lanciato da Isabella nel settembre del 1990, in un anno e mezzo ha fruttato alla Lanco' me oltre 20 miliardi. "In Estremo Oriente sono letteralmente impazziti per lei" , racconta Daniel Vacher, l' uomo che cura le pubbliche relazioni da Milano. "A Taiwan, nonostante un servizio d' ordine di 80 guardie del corpo, siamo stati costretti a farla scappare per il sotterraneo del grande magazzino dove presentavamo il profumo" .
Scena simile anche a Milano, allo stand della Rinascente, dove la Rossellini è apparsa davanti a centinaia di clienti che la aspettavano da ore: "Alla fine della giornata abbiamo riportato danni alle nostre attrezzature per 60 milioni" . Rivali di Isabella, Claudia, Linda? Un esercito. Carol Alt, ad esempio, anche lei con un passaggio per Lanco' me, adesso donna-Chanel per il famosissimo "parfum" n.5; Rosemary MacGrotha, che a dispetto dei suoi 30 e passa anni, e del suo 46 di taglia, continua a rappresentare per la Helena Rubinstein un modello di donna irraggiungibile; Paulina Porizkowa, dal 1988 prima donna della Estée Lauder. Talmente perfetta da lasciare esterrefatta, per la marea di richieste piovute sul gruppo al suo debutto, la stessa vicepresidente Evelyne Lauder: "Calma, calma, cerchiamo di arginare. Non siamo mica l' agenzia di Pauline" . In compenso, se la son tenuta stretta, altra portabandiera di questa guerra commercicale dove la bellezza si misura in dati di vendita e miliardi. Sette quelli di Paulina contro i dodici della Schiffer: "Sì ma la logica è la stessa" , dice Memo Mormina, account director a Milano della McCann Erickson, l' agenzia di pubblicità che di recente ha curato la campagna per L' Oréal. "Il contratto stipulato dalla Revlon testimonia solo che lo scontro si fa più duro, che l' industria cosmetica è ormai su un mercato mondiale, dove ci si combatte appunto con questi sistemi. Dodici miliardi per accaparrarsi una modella, per la Revlon sono un investimento, non certo un costo" . Eppure questa filosofia del testimonial di grido potrebbe comportare dei rischi. "Sì, un' identificazione del marchio con il personaggio" , dice Anna Maria Testa, pubblicitaria a Milano.
"Cosa succederebbe alla Revlon se, dopo anni di campagna, la Schiffer decidesse di rompere il contratto?" . Un rischio che non tutti, infatti, sono disposti a correre. Mentre in Italia il visagista Diego della Palma lancia per i suoi cosmetici un' "anti-campagna" (una ragazzina del tutto anonima che dice: "Non curatevi della gente, ma curatevi la pelle" ), due case "storiche" come Christian Dior e Guerlaine continuano ad affidare i loro prodotti a volti sconosciuti. Con ottimi risultati: 51 miliardi in tre mesi per "Dune" , l' ultimo profumo della Dior; quasi 20 miliardi per "Samsara" , quello della Guerlaine. E "Guess" , che arriverà in Italia accompagnato dal sorriso di Claudia Schiffer, venderà altrettanto bene?



Testata
Epoca

Data pubbl.
25/03/92

Numero
2163

Pagina
57

Titolo
L' INFERNO DELL' AUTOMOBILISTA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Mario Caprara

Sezione
STORIE

Occhiello
L' ITALIA CHE NON FUNZIONA

Sommario
Bolli da pagare per veicoli venduti da anni. Risarcimenti per sinistri che non arrivano mai. Patenti da rinnovare non si sa bene perché. Centinaia di lettori motorizzati hanno telefonato a "Epoca" per protestare. Ecco le loro storie. Ed ecco come, forse, potranno salvarsi.

Testo
Vita difficile quella dell' automobilista. Assicurazioni che non pagano, patenti bloccate tra le scartoffie delle prefetture, multe e verbali che perseguitano cittadini innocenti. E il bollo: un' imposta che continua spesso a tartassare anche chi la macchina l' ha già venduta, demolita, persa in un furto. Decreti, ingiunzioni, certificati, un mare di carte e di guai in cui periodicamente rischia di annegare chiunque usa l' automobile. Ma cosa succede nella burocrazia italiana? Al numero verde Chiama Epoca 03001 sono arrivate centinaia di telefonate di automobilisti esasperati, che non riescono nemmeno a far valere la legge. Lo dimostrano le loro storie, ma anche i dati. Come quelli, per esempio, rilevati nel settore delle assicurazioni: da tre anni giacciono nei tribunali italiani 290 mila cause di risarcimento, per un ammontare di 3 mila e 500 miliardi, il 26 per cento della somma riservata alla Rc-auto, l' assicurazione obbligatoria. Ma non c' è da stupirsi, se si pensa che al tribunale di Roma, dove due sezioni su sette si occupano esclusivamente di cause di questo tipo, per la soluzione di un caso si attende anche 5 anni. Una situazione esplosiva che si riscontra anche quando non si deve necessariamente ricorrere al tribunale. "Ci sono compagnie assicurative, come l' Assitalia, che solo per aprire una pratica impiegano quattro o cinque mesi" , denuncia Piero Litta, avvocato dell' Assoutenti. Per non parlar degli Ispettorati sinistri, dove le pratiche di liquidazione dei danni subiscono ritmi alterni a seconda degli orari degli sportelli (aperti al pubblico spesso pochi giorni e poche ore la settimana), delle code, della disponibilità degli impiegati. "Del resto" , commenta ancora Litta, "le compagnie non hanno nessun interesse a definire immediatamente il danno: meglio andare in causa, nel frattempo maturano investimenti di capitale" . Se dai guai con l' Rc-auto, si passa poi a quelli con il Fisco, le cose non vanno certamente meglio: errori nell' accertamento dei pagamenti del bollo, mancati rimborsi, tasse e soprattasse che colpiscono gli utenti ad anni e anni di distanza.
"Sono solo 38 mila gli errori imputabili al nostro sistema elettronico, l' 1,19 per mille" , si difende Rosario Alessi, presidente dell' Automobil club, che lo Stato ha autorizzato a riscuotere la tassa di circolazione, "mentre gli errori commessi dai contribuenti salgono a 217 mila, il 6,7 per mille" . Un dato confortante, quello offerto da Alessi? A sentir Luciano Garibaldi, del mensile Quattroruote, da sempre attento a denunciare inefficienze e truffe ai danni degli automobilisti, sicuramente no.
"L' Aci non ha mai difeso chi va in macchina. E' un carrozzone la cui unica funzione è quella di far da delatore al Fisco, senza dare agli utenti nessuna possibilità di rivalsa" . Che l' istituto sia mastodontico non ci sono dubbi: nato come Club esclusivo nel 1905, trasformato 22 anni dopo in Ente morale e quindi in ente pubblico nel 1975, l' Aci vanta 2 mila dipendenti, 900 uffici di esattoria, 95 uffici provinciali che gestiscono il Pra, il Pubblico registro automobilistico. Ultimamente si fa forte anche di un servizio di informatizzazione che da Roma alle periferie è in grado di controllare 30 milioni di utenti: "Grazie a noi" , dice il presidente Alessi, "lo Stato ha recuperato una larga fascia di evasori, passando da un gettito di quasi 1800 miliardi nel 1983 a 6 mila e 600 miliardi nel 1991" . Non è in grado, però, il sistema di informatizzazione di garantire i cittadini da eventuali sbagli del "cervellone" e soprattutto dalle lentezze delle procedure burocratiche a cui ancora sono sottoposti gli uffici del Pubblico registro. In questi uffici il sistema di informatizzazione è infatti ancora tutto da sperimentare: "Scartoffie polverose, pratiche trascritte a mano, impiegati lavativi, un meccanismo di sportelli che sembra fatto apposta per ingarbugliare le procedure" , denunciano i rappresentanti dell' Unasca, l' Unione nazionale delle autoscuole. "A Milano, per esempio, esistono due uffici. Il primo funziona con doppio sportello, uno per le auto a targa pari, l' altro per quelle a targa dispari. Nel secondo ce ne sono tre. Il primo per le targhe che finiscono in 1, 2 e 3, il secondo per quelle in 4, 5 e 6, il terzo infine per 7, 8, e 9. Ma che cosa significa tutto ciò? Se si sbaglia sportello, i computer rigettano la pratica che torna al mittente.
Tutto da rifare" . Una vera trappola, il Pubblico registro, un imbuto che inghiotte immatricolazioni, cambi di proprietà, trascrizioni, radiazioni, perdite di possesso. Causa spesso degli stessi sbagli di rilevamento dell' Aci, cui le pratiche vengono trasmesse con mesi e, a volte, anni di ritardo. "A Roma" , racconta Giorgio Schiavo, candidato alle prossime elezioni per il Movimento politico difesa automobilisti, "siamo arrivati a due anni di ritardo per la registrazione di un semplice passaggio di pro- prietà" . E le Prefetture, dove lo sventurato automobilista consuma un' altra tappa della sua via crucis per rilascio patente, rinnovi, richieste di duplicati? Qui può davvero succedere di tutto. Contro il milione e 400 mila permessi di guida rilasciati nel 1990, si contano infinità di pratiche sottoposte a cavilli dai quali è impossibile uscire: controlli incrociati, obblighi di visite mediche, rifacimento di esami. In periodi normali i tempi burocratici di rilascio vanno dai due ai sei mesi. A Torino si è arrivati a un anno. A Roma, il prefetto Carmelo Caruso addossa la colpa alla Motorizzazione: "Dipende da quando ci spediscono i documenti. A noi bastano 4 giorni per consegnare una patente" . E ammette: "Certamente il castello di norme esistenti ci obbliga a procedure complesse... ma stiamo appunto cercando di snellire i tempi" . L' obiettivo è realizzare un servizio-efficienza: "Almeno per il rilascio della prima patente: arrivare alla consegna immediata, venti minuti dopo l' esame" . Una piccola soluzione in mezzo al Grande Caos? Non solo nelle Prefetture. Se l' Aci cerca di risolvere gli "scontri" sul bollo, dando tempo fino al 31 marzo con un condono per tutti coloro che hanno commesso iregolarità nel 1991, le assicurazioni confidano nella futura riforma della Rc auto: "L' aspettiamo da anni per snellire le procedure, garantire trasparenza e tempi di rimborso più celeri" , dice Gabriella Carmagnola, portavoce dell' Ania, l' associazione delle imprese assicurative. C' è un' incognita, però: della riforma approvata dal Senato alla fine di gennaio, respinta da Cossiga a febbraio, riapprovata dal Senato a marzo, si riparlerà nella nuova legislatura. E, comunque, servirà a tutelare gli interessi degli automobilisti? Soprattutto se verranno introdotte quelle tabelle ministerali tanto contestate da Cossiga, secondo le quali ad ogni punto di invalidità corrisponderebbe una somma di denaro prefissata? Nel dubbio, gli automobilisti provvedono da soli a tutelarsi. Come? Con ben cinque liste presentate in Parlamento alle prossime elezioni. Cinque partiti diversi, con un intento comune: difendere la categoria, 30 milioni di italiani, dallo strapotere dello Stato e della burocrazia.

BOX
CARA "EPOCA" , COME POSSIAMO SALVARCI? BOLLO Vittorio Lupicuti, Cave (Roma): "Per anni ho continuato a ricevere ingiunzioni di pagamento per il bollo di una vecchia macchina che avevo venduto. Ho tentato un ricorso. E il giudice conciliare del mio paese mi ha dato ragione. All' improvviso però mi è stato annunciato un pignoramento, evitabile solo presentando un documento liberatorio del ministero delle Finanze, che io però non sono mai riuscito ad avere. Da diversi mesi cerco il funzionario addetto, ma è sempre a prendere il caffè" . Felice Pugliese, Cagliari: "La persona a cui ho venduto la mia auto nel 1979, tramite concessionaria, non ha fatto la trascrizione al Pra. Nel 1986 mi sono arrivati i bollettini di pagamento del bollo. Il nuovo proprietario è un pregiudicato latitante. Mi negano il condono perché mancano targa e libretto di circolazione" . Vincenzo Roberto, Reggio Calabria: "Il 27 dicembre del 1987 mi è stata rubata la macchina. Appena aperti gli uffici, a gennaio, mi sono precipitato all' Aci per denunciare la perdita di possesso. Dopo mesi, però, sempre dall' Aci mi è arrivata una richiesta di pagamento del bollo per il primo quadrimestre del 1988" . Gian Mario Traverso, Genova: "Quando ho pagato il bollo, quest' anno, l' impiegato dell' Aci ha sbagliato a trascrivere il numero di targa. Me ne sono accorto il giorno dopo, ma era troppo tardi. Unica via d' uscita: pagare nuovamente il bollo e richiedere eventualmente il rimborso" .
Guglielmo Bell' Astri, Bologna: "A gennaio ho pagato il bollo di mia figlia scaduto ad agosto e pertanto gravato da una forte penale.
Pochi giorni fa ho saputo della sanatoria. Ho chiesto all' Aci se potevo avere un rinmborso. Niente da fare" . Giorgio Iotti, Mantova: "La mia ditta è andata in fallimento. Tutte le auto intestate all' azienda sono state sequestrate, ma per anni ho continuato a ricevere ingiunzioni di pagamento dei bolli. Poi, grazie a un avvocato, la storia è finita. Giorni fa, però, sono stato chiamato dai carabinieri: le mie ex macchine sembra siano state usate per fini illeciti. E il proprietario, evidentemente, risulto ancora io" . Amelia Martini, Prato (Firenze): "Mio figlio è morto nel 1980 e dal 1984 mi arrivano i solleciti di pagamento del suo bollo auto. Ma non so neanche che fine ha fatto quest' auto" .
MULTE Anna Ferrara, San Giorgio a Cremano (Napoli): "Ho ricevuto una multa dal comune di Afragola, dove io non sono mai stata (non conosco nemmeno la strada per arrivarci). Hanno dichiarato che a dicembre la mia macchina andava in senso vietato, ma non hanno neanche specificato che tipo di macchina. Non si può rendere obbligatoria la compilazione un po' più esatta dei verbali?" . Rita D' Arco, Napoli: "Vent' anni fa ho venduto un' auto. A distanza di tempo ho ricevuto due contravvenzioni. Alla prima ho reagito presentando in Prefettura l' atto di vendita. La seconda, invece, l' ho strappata. Mi è arrivata un' ingiunzione di pagamento a cui seguirà un pignoramento.
Mi dicono che devo pagare visto che non mi sono curata di riportare in Prefettura l' atto di vendita. Perché dovrei farlo dato che l' auto non mi appartiene più?" . Vittorio Armento, Rocca Grimaldi (Alessandria): "Da nove anni mi perseguitano con una multa per una macchina che non è più mia. L' ufficiale giudiziario insiste nel volerla riscuotere. Avrei un solo sistema per bloccare la multa: andare a discutere la cosa a Torino. Ma per me sarebbe un' enorme complicazione" . Giuseppe Celano, Catanzaro: "Dalla Prefettura di Roma mi arriva una multa di 150 mila lire, datata 1987. Quell' anno non sono mai stato a Roma e posso dimostrarlo" . Sergio Podetti, Parma: "Mi è capitato diverse volte di essere multato per la stessa infrazione da due vigili diversi a distanza di pochi minuti l' uno dall' altro. E' concepibile una cosa del genere?" PATENTE Roberta Lucchi, Nogara (Verona): "L' anno scorso mio fratello ha avuto un incidente molto grave. I carabinieri sostenevano che era ubriaco e il prefetto ha quindi provveduto al ritiro della patente per due mesi. Con un decreto successivo la revoca è stata estesa a due anni, pur non avendo la controparte presentato denuncia. A dicembre, mio fratello è stato assolto dal tribunale. Il prefetto ha annullato la sospensione della patente, obbligando però mio fratello a rifare gli esami" . D.G., Pistoia: "Mi piacerebbe tanto sapere come mai, dopo aver dato un esame di guida, la Prefettura ritarda la consegna della patente, quando invece le scuole pretendono il pagamento in anticipo" . Vera Montanari, Milano: "Due anni fa mi hanno rubato la patente. Per ritirare il duplicato, avrei dovuto consegnare una serie di documenti, tra cui un certificato medico di idoneità. L' ho fatto fare al mio medico curante, ma non andava bene perché non era stato rilasciato dall' Usl. Sono andata all' Usl, ed ecco che dopo ore di coda mi si dice che devo fare una visita medica. Porto le lenti a contatto, ma per quelli dell' Usl non bastano. Devo presentarmi con gli occhiali. Torno a casa a prenderli. Dopo la visita e altre quattro ore di coda, mi dicono che non possono firmare il certificato perché l' incaricato è andato via" Carla Vanitelli, Milano: "Mi hanno rubato la patente. Ho fatto denuncia e tentato di chiedere un duplicato in Prefettura. Ma non me l' hanno concesso, perché risulta loro che la mia patente era già stata rubata in passato. Il che è vero, però l' avevo riavuta dagli stessi ladri in poco tempo. Non mi ero quindi preoccupata di ritirarne un' altra. Risultato? Non posso adesso chiedere il duplicato di un documento che risulta rubato. Secondo il funzionario, la dottoressa Lanteri, dovrei fare denuncia di smarrimento di quel primo duplicato che non ho mai avuto. Sono da un anno senza patente" . Rosario Cavallaro, Giarre (Catania): "Avevo una patente categoria A e B.
Emigrato in Germania, me l' hanno tradotta in tedesco. Quando sono tornata in Sicilia ho chiesto la riconversione in italiano, ma chi ha curato la pratica ha dimenticato di trascrivere la categoria A.
Risposta della Motorizzazione? Rifare gli esami. Vale a dire spendere 600 mila lire" . Bruno Rossi, Torino: "Ho un' agenzia di pratiche auto e aspetto duplicati di patenti richiesti nel 1989" .
ASSICURAZIONI Nunzia Radaelli, Caravaggio (Bergamo): "Due anni fa mia figlia è stata investita da una moto. L' assicurazione ha valutato i danni per 400 mila lire, ma non ci ha ancora pagato. Mio marito ha reclamato, gli hanno risposto che non pagheranno perché non c' erano testimoni" . Vincenzo Lupo, Messina: "Nel 1982 mi è stata rubata una macchina comprata da appena sei mesi. Mi sono rivolto alla mia assicurazione, la San Giorgio di Roma, ma dopo 10 anni aspetto ancora il rimborso. Mi sono rivolto al tribunale della sezione fallimentare di Roma. Anche lì silenzio assoluto" . Italio Cherli, Roma: "Nel 1979 ho avuto un incidente con la mia macchina, durante il quale è morta una persona che era a bordo. Mi è stata addossata la colpa. Ero assicurato all' Assitalia per un massimale di 15 milioni. L' ammontare dei danni è stato calcolato per 13 milioni, ma la mia assicurazione non ha mai pagato. Adesso la controparte vuole rivalersi su di me e pretende un risarcimento danni superiore ai 100 milioni. Sono un maresciallo in pensione e non so come fare" . Tullio Re, Genova: "Un tamponamento, due anni fa, mi ha procurato problemi alla schiena e alla cervicale. Ho chiesto l' applicazione della legge che costringe l' assicurazione, previa visita medica, a pagare i quattro quinti del danno. Finora non ho ricevuto alcun tipo di rimborso. La fisioterapia è molto cara" . Carmela Recchia, Ponte in Valtellina (Sondrio): "Dieci anni fa mio figlio, investito da una macchina, ha subìto uno schiacciamento del cranio che gli ha poi causato una grave forma di epilessia. Dieci anni di cause non hanno portato a niente" . Carmen Moltani, Milano: "Nel 1981 mio marito perse una gamba in un incidente stradale. Il tribunale di Milano ci ha riconosciuto un indennizzo di 100 milioni, che è stato liquidato però per soli 20 milioni. Nel frattempo l' assicurazione è fallita e non ha pagato altro" . Vincenzo Scofano, San Donato (Milano): "Io e mia figlia siamo rimasti feriti in un incidente stradale di cui non avevamo alcuna colpa. Abbiamo chiesto i danni alla Real Mutua. Non ci hanno nemmeno risposto. L' avvocato dice che bisogna citare l' assicurazione e per far questo vuole 500 mila lire d' anticipo" .
OTTO CONSIGLI ANTI - BUROCRAZIA Come sopravvivere ai guai da bollo, multe e patente.
Bollo 1) Chi vende l' auto deve preoccuparsi di far registrare immediatamente il passaggio di proprietà al Pubblico registro automobilistico (Pra), conservando gelosamente la ricevuta che gli sarà consegnata. Così se l' Aci dovesse continuare a chiedere il pagamento del bollo, ci si potrà difendere facendosi rilasciare dal Pra l' "estratto cronologico" . 2) Se l' auto è stata rubata, l' automobilista oltre a premurarsi di denunciare il fatto ai carabinieri, deve anche rivolgersi al Pra per far registrare la "perdita possesso" . Automaticamente il Pra dovrebbe poi comunicare il furto all' Aci, preservando l' automobilista da un eventuale richiesta di pagamento bollo. 3) Se l' auto è destinata allo sfascio, il proprietario deve ricordarsi di salvare le targhe, portarle al Pra e conservare la ricevuta della cosiddetta "pratica di radiazione" . Serve nel caso in cui l' Aci continui a chiedergli di pagare il bollo.
Multe 1) Se riceve contravvenzioni per un' auto venduta a qualcun altro, l' ex proprietario può far valere le proprie ragioni esibendo l' atto di vendita a chi ha fatto la multa (polizia, vigili o carabinieri). Se questo non dovesse bastare, bisognerà ricorrere al prefetto o al pretore. 2) Se viene multata un' auto rubata, il proprietario per evitare di pagare la contravvenzione può esibire a chi ha fatto la multa (polizia, vigili o carabinieri) la denuncia di furto. 3) L' automobilista, vittima di uno sbaglio nel rilevamento della targa, può dimostrare la sua innocenza inviando una raccomandata a chi ha fatto la multa in cui allega le prove della sua estraneità al fatto. Spesso però questo non basta. Il passo successivo? Un ricorso al prefetto della provincia nella quale è stata registrata la multa.
Patente 1) In caso di smarrimento (o furto) per continuare a circolare bisogna avere con sé la relativa denuncia fatta a polizia o carabinieri e un permesso di guida temporanea che, denuncia alla mano, viene rilasciato dalla Prefettura. 2) L' automobilista deve ricordarsi sempre di incollare il bollo annuo sulla patente. Altrimenti rischia, oltre alla multa, di dover ripetere l' esame di guida.




Testata
Epoca

Data pubbl.
18/03/92

Numero
2162

Pagina
48

Titolo
SE LE MADRI DI CALABRIA MI AIUTANO...

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
ANGELA CASELLA CANDIDATA

Sommario
Si è rigettata nella mischia, come ai tempi del sequestro di suo figlio Cesare. Ma ce la farà Madre Coraggio ad arrivare in Senato? Lei ha un piano di battaglia. Ma anche molti nemici. Eccoli, uno per uno. Risponde ai lettori di un giornale: metà delle lettere sono per lei. "Con Andreotti durante il sequestro mi sentivo ogni domenica"

Didascalia
Sopra e in alto: la protesta di Angela Casella, nel 1989.
Angela Casella: "Da quando Cesare è stato liberato, non mi sono
fermata un attimo. Ho persino smesso di lavorare" .
Angela Casella accolta dalla popolazione di Cimina, in Calabria, tre
anni fa.

Testo
Piange Angela Casella.
Interrompe a metà il suo discorso, proprio mentre parla della prigionia del figlio Cesare in Aspromonte, della sua lotta in Calabria, tre anni fa, per riaverlo. Un applauso. Le donne del pubblico le tengono gli occhi inchiodati addosso, anziane ammantate di nero, di lunghi veli scuri, donne più giovani con le mimose sul petto. Si commuovono: "Viva Mamma Casella" . Lei ricomincia a leggere, circondata dalle delegate femminili della Dc, seduta tra il ministro Scotti e gli onorevoli democristiani arrivati l' 8 marzo ad Amaroni, 30 chilometri da Catanzaro, per dare l' avvio alla campagna elettorale. Ma la solidarietà della gente di questo paesino dell' entroterra calabrese, fuori per giunta dal collegio di Lamezia Terme, dove la Dc ha candidato per un seggio al Senato la Casella, è poca cosa. Un segnale debole, che potrebbe non bastare a smaltire i veleni, a spegnere i risentimenti che si sono riversati addosso a Mamma Coraggio, "donna del Nord" , non appena è arrivata notizia della sua candidatura in Calabria. Le simpatie che aveva suscitato, tre anni fa quando si era incatenata sulla piazza di Locri per riavere Cesare, il figlio rapito, sembrano sfumate. Non basta neanche l' ordine arrivato dalla direzione nazionale del partito, "tutti stretti attorno a mamma Casella" , per riconciliare gli animi, il via libera di Riccardo Misasi, grande patron della Dc calabrese, del segretario Forlani, del suo vice Sergio Mattarella, a far tacere i malumori. A Lamezia Terme, questa che nelle intenzioni della Dc deve essere la candidatura-simbolo della lotta alla mafia, è vissuta come il secondo scacco organizzato dallo Stato, nella persona del ministro degli Interni Vincenzo Scotti dopo che ad ottobre ha ordinato lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. "Una scelta criminalizzante" , ha detto per prima Isa Cerminara, delegata del movimento femminile. E ha dato subito l' avvio al coro di proteste degli aspiranti candidati a quel seggio in Senato (se ne contano almeno dieci) e dei loro sostenitori, tutti spiazzati dalla decisione presa da Roma. Anzi, da Milano. L' idea infatti di candidare in Calabria la Casella è partita da Luigi Baruffi, capo degli andreottiani in Lombardia, che si è occupato personalmente delle liste elettorali. "La conosco dai tempi della vicenda del figlio" , spiega. "Ci diamo del tu. La sua mi sembra una candidatura credibile, spendibile, la testimonianza politica di una donna che si è battuta contro la criminalità" . La Dc la stima e lei stima i dc. "Andreotti, in particolare, c' era stato molto vicino durante il rapimento di Cesare. Lo chiamavamo ogni domenica mattina, alle otto, nel suo ufficio. Una volta mi ha anche ricevuta" , ricorda Angela Casella, adesso di fronte alle contestazioni della Dc in Calabria. Non immaginava mamma Casella a quale fuoco incrociato stesse andando incontro. L' hanno stupita gli attacchi, le accuse di razzismo che le sono piovute addosso, lei che ha trascorso gli ultimi due anni, sostiene, con grande impegno civile. "Da quando mio figlio è stato liberato non mi sono fermata un attimo. Mi chiamano da tutte le parti. Ho persino dovuto smettere di lavorare" . Ha lasciato la concessionaria Citroe' n del marito per concentrarsi su una rubrica che le ha affidato il settimanale Visto: fa da testimonial, risponde ai casi segnalati dai lettori.
Che sono tanti. Si calcola che il 40 per cento delle lettere spedite al giornale, sono indirizzate a lei. Di recente ha pure curato una sottoscrizione per papà Eldebrando, un missionario che si è occupato della costruzione di un ospedale in India. "E sono andata di persona" , aggiunge, "sì, in India, per dare un occhio ai lavori" .
Un impegno sostenuto tutto da sola. Il figlio Cesare, infatti, dopo un primo periodo di notorietà ha preferito dedicarsi completamente agli studi di economia e commercio. Lei, invece, sempre al centro dell' attenzione. Al punto che in queste elezioni a contendersela sono stati quattro partiti. "La prima offerta è arrivata dalla Lega Lombarda. Rifiutata. Poi dai liberali e, quindi, dai repubblicani.
Ma solo con la Dc ho accettato, perché credo che se si vuol cambiare qualcosa lo si può fare solo all' interno di un grande partito. Da sempre in famiglia siamo vicini alla Democrazia cristiana" . Eppure tre anni fa, quando mamma Casella si mostrava in catene sulla piazza di Locri, era proprio la Dc, responsabile di non far nulla per la liberazione del figlio, l' obiettivo della sua protesta. "E' vero" , ammette adesso, "ma poi sono stati loro a riportare a casa Cesare" .
Come dire, acqua passata. Con il senno di poi, i coniugi Casella riconoscono che i rimproveri di De Mita alle azioni un po' troppo plateali di mamma Angela forse potevano anche essere giustificati.
"Il problema è battersi per un maggior controllo del territorio.
E' questo che intendo dire in campagna elettorale: un impiego migliore delle forze di polizia, nessuno sconto di pena per i detenuti, un pool di magistrati contro i sequestri" . La famiglia è d' accordo. Conferma Cesare, chiamato al suo cellulare: "Sono felice della scelta di mia madre, ma non me ne interesso. Può farcela benissimo da sola" . E' quello che ha pensato anche Luigi Baruffi, destinandola a un collegio difficile come quello di Lamezia, da 15 anni controllato dal Psi. All' inizio, per la verità, le aveva proposto Milano. "La sua testimonianza di donna contro le cosche avrebbe avuto certamente senso anche al Nord. Non le assicuravamo l' elezione, ma questo non sembrava preoccuparla" . Poi, invece, da un giorno all' altro, il 29 febbraio, a piazza del Gesù, sempre sotto indicazione di Baruffi, è stato deciso per la Calabria. A Lamezia: 70 mila abitanti sotto il giogo di nove cosche legate alla ' ndrangheta, un maresciallo, Salvatore Aversa, trucidato a gennaio con la moglie, un consiglio comunale inquinato da elementi mafiosi (quattro socialisti e un democristiano, dice il decreto di scioglimento firmato dal ministro Scotti). E una trama di clientele che dai partiti si allarga sui tre comuni, Sambiase, Nicastro e Sant' Eufemia, uniti insieme negli anni Settanta sotto il nome, appunto, di Lamezia Terme. Ma se i leader nazionali credono nell' impatto emotivo di mamma Coraggio, i dirigenti della Dc locale la pensano diversamente. "Certo, mamma Casella non può che riscuotere simpatia" , dice diplomaticamente il deputato Vito Napoli, capo di Forze Nuove in Calabria, la corrente da cui è partita la protesta. "Ma non si tiene conto che qui la politica segue logiche municipalistiche. La Casella è debole perché ha di fronte avversari dello spessore di Luciano Violante, candidato nel Pds, o come il senatore socialista Giuseppe Petronio. Alla fine potrebbe essere quest' ultimo, lametino da sempre, a vincere un' altra volta" .
Le fortune del senatore Petronio, sottosegretario ai Trasporti, secondo i sondaggi, dovrebbero però essere in ribasso, a vantaggio appunto di un candidato della Dc. Si è esposto troppo, si dice in città, quando si è messo contro la decisione di Scotti di sciogliere il consiglio comunale, all' interno del quale risultavano incriminati quattro esponenti socialisti. Questo il senatore lo sa.
Infatti commenta con sarcasmo la candidatura della Casella: "Hanno addirittura pensato che fossi stato io a volerla. Come se non conoscessi il pericolo: se vince lei, è l' Antimafia che trionfa. Se vinco io, sono le forze retrive e reazionarie che hanno la meglio..." Ma di fronte ad Angela Casella che fa da portabandiera all' Antimafia nella Dc, c' è qualcun altro che storce il naso. Le donne della sinistra, soprattutto, quelle che l' avevano appoggiata durante il sequestro del figlio. "Se voleva battersi per un impegno civile sarebbe potuta tornare a Locri" , sbotta Liliana Frascà, segretaria della Cgil di Reggio Calabria, "e parlare con la gente, suggerendo di dare il voto a personaggi che non sono compromessi con la mafia" . Sarebbe stata ascoltata, avrebbe ritrovato la credibilità di un tempo, quando in Aspromonte, accampata in una tenda, chiedeva e otteneva conforto per Cesare. "Sì, a Locri, eventualmente, una sua candidatura sarebbe stata più opportuna" , si lascia scappare Luciano Violante, arrivato anche lui a Lamezia per aprire la campagna elettorale del Pds. "Ma è un problema che riguarda la Dc" . Scotti, Baruffi, Forlani. Gli ordini della direzione nazionale sono perentori. Che piaccia o no, la candidatura di Angela Casella deve adesso essere appoggiata da tutti in Calabria. Piega il capo la delegata femminile Isa Cerminara: "Mi è arrivato un telegramma da Roma che parla chiaro. Sono stata invitata ad aiutarla nella campagna elettorale. Lo farò. Non ho nulla personalmente contro di lei" . Garantisce Agazio Loiero, luogotenente di Scotti a Lamezia: "La affideremo al movimento femminile" . E il vescovo, monsignor Rimedio, si dice certo che, nonostante le riserve, "il mondo cattolico, le parrocchie, le comunità di base, saranno con Angela Casella" . Con l' 8 marzo, giorno in cui mamma Coraggio ha debuttato in lacrime, con il corteo ministeriale ad Amaroni, in qualche modo qualcosa è cambiato nella Dc calabrese. Soffocando i borbottii, i dirigenti dc si sono fatti in quattro ad organizzarle all' ultimo momento un incontro non previsto nella sede di Lamezia. L' hanno portata in mezzo alla gente, commossa ed emozionata nel suo impeccabile tailleur blu.
L' hanno anche accompagnata, alla fine della giornata, da Enzo, ristorante "in" della città, dove una cinquantina di signore "apolitiche" battezzava con scambi di mimosa la nascita di una neoassociazione femminile, Donne e futuro. Il primo mazzo di fiori ovviamente è andato a lei, a mamma Coraggio.




Testata
Epoca

Data pubbl.
26/02/92

Numero
2159

Pagina
30

Titolo
E VISSE INFELICE E SCONTENTA

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI

Sezione
STORIE

Occhiello
CAROLINA DI MONACO

Sommario
Una donna spezzata. Obbedirà al padre, che la vuole simbolo di Montecarlo? Oppure se ne andrà? E in questo caso: davvero solo per coronare un amore osteggiato? "Epoca" ha cercato le risposte a Saint Remy, il rifugio segreto della principessa...

Didascalia
LA RAGION DI STATO
Il principe Ranieri III, 69 anni. E' pronto a tutto pur di trattenere
la figlia Carolina a Montecarlo.
LE RAGIONI DEL CUORE
L' attore francese Vincent Lindon, 33 anni, nuovo amore di
Carolina (nella foto grande, con la secondogenita Charlotte).
LA GENTE DI SAINT REMY DICE DI LEI...
Il sindaco
Serge Pampaloni, primo cittadino di Saint Rémy: "Da trenta anni
riceviamo ospiti famosi: contano sulla nostra discrezione. Carolina
è come tutti gli altri" .
Il giornalaio
Racconta Georges Romelli:
"Triste, magra, va in giro senza trucco, vestita in modo semplice.
Ben diversa dai tempi in cui la vedevamo qui con il marito" .
I negozianti
Francis Ostanel (nella foto): "Compra sempre cosmetici" .
Janic Arnoud: "Gentile con tutti, ma sempre a distanza" . Madame
Francoise: "Lasciatela in pace" .
I gendarmi
"E' un privato
cittadino" , racconta un ufficiale. "E poi, alla sua sicurezza
pensano le guardie del corpo. Non ha certo bisogno di noi" .
Carolina in bicicletta per una strada di
Saint Rémy. Appare quasi irriconoscibile. Unico segno evidente del
suo blasone: è sempre seguita dalle guardie del corpo.
Questa è la villa di Carolina a Saint Rémy

Testo
La scritta sul muro, nel sottopassaggio del Loew' s, è rimasta solo pochi giorni: "Carolina ritorna" , diceva, "Montecarlo senza di te è finita" . Poi, come si conviene alle regole ufficiali del principato, qualcuno l' ha cancellata. Una macchia, e niente più, sullo sfondo asettico e scintillante di sempre: il regno dei Grimaldi, con il suo porto dalle barche miliardarie, le Rolls Royce che sfilano sul boulevard Albert I, il decor liberty dell' hotel Hermitage che domina il lungomare. Eppure l' ombra del disfacimento che si è proiettata su Montecarlo, quando i rotocalchi rosa di tutto il mondo hanno annunciato la probabilità di un trasferimento di Carolina a Filadelfia, città che diede i natali alla madre Grace, non si è del tutto dileguata. Il principe Ranieri, è vero, si è opposto ai progetti della figlia. Ha anche pianto, riferisce il settimanale americano National Enquirer. L' ha invocata a rimanere, offrendole come contropartita il suo consenso alle nozze con l' attore Vincent Lindon, che sarebbe il suo nuovo fidanzato semisegreto, nonché l' uomo che avrebbe posto fine al lutto per il marito Stefano Casiraghi. Ma ciò non è bastato a riaccendere le luci della ribalta sul palcoscenico monegasco.
Montecarlo rischia comunque di perdere la sua prima donna: la principessa Carolina, infatti, affaticata da lutti e disgrazie che hanno segnato come una via crucis i suoi 35 anni, negli ultimi tempi sembra preferire ai clamori mondani del regno monegasco il silenzio discreto della campagna di Provenza. Una specie di crisi esistenziale? Non tutti concordano. In certi ambienti della Milano bene circola la versione di una principessa defilata onde non venir coinvolta in un prossimo clamoroso scandalo finanziario che starebbe per squassare il paradiso di Monaco: ipotesi senza prove e con molti condizionali. Fatto sta che Carolina, orfana di madre, moglie tradita di Philippe Junot, vedova di Stefano Casiraghi, ha preferito scomparire. Luogo del rifugio: Saint Rémy, venti chilometri da Arles, all' ombra di antiche memorie dell' epoca romana. Per i principi di Monaco, anche santuario di memorie araldiche. Su questo territorio infatti, i Grimaldi, che nel 1500 vantavano il titolo di lord, hanno ancora un proprio marchesato. Comprende Les Baux, minuscolo borgo medievale, nelle cui vicinanze si nasconde appunto la Maison de Sources, la "casa della sorgente" , il rustico che Carolina comprò tre anni fa da Jacques de Senard, amico di famiglia e ambasciatore onorario di Francia. A quel tempo, quando Casiraghi era vivo, solo dimora per le vacanze estive. Oggi, invece, nuova residenza della principessa in ritiro, che vi ha trascorso l' estate, l' autunno, le feste di Natale e buona parte di gennaio.
Versione ufficiale: "Per riposarsi" . Versione ufficiosa di chi spia le segrete faccende del cuore: "Per incontrare indisturbata il suo "petit cher ami" " , Vincent Lindon, 33 anni, protagonista del Tempo delle mele 3, rampollo di illustre famiglia parigina ed ex fidanzato della figlia di Jacques Chirac. "Cher ami" o promesso sposo? Il National Enquirer accredita la seconda versione, aggiungendo un particolare decisivo per i giochi di vetrina del principato. E cioè che Lindon, in un primo momento mal visto da Ranieri per la fede ebraica, sarebbe disposto a convertirsi al cattolicesimo pur di diventare Terzo Marito della principessa. Sarebbe successo appunto a Saint Rémy, lontano dalla folla. Lì Carolina ha deposto la corona di inflazionata protagonista delle cronache mondane. "Triste, magra, va in giro senza trucco, vestita in modo semplice. Ben diversa dai tempi in cui la vedevamo con il marito" , è il primo commento di Georges Romelli, proprietario della Maison de presse, l' edicola sul boulevard Victor Hugo, che registra ogni giorno il passaggio della principessa. "Quando è a Saint Rémy, viene da noi a prendere giornali: Paris Match, i quotidiani stranieri, le riviste d' arredamento" . Carolina compra all' edicola, compra al mercato del pesce il mercoledì, compra in bottegucce e negozi. Quasi irriconoscibile agli occhi di chi la vede passare con un fare dimesso che a Montecarlo non potrebbe permettersi mai. Unica spia della sua blasonata notorietà, le guardie del corpo, le giovani e nerborute amiche, esperte di arti marziali, che papà Ranieri le tiene sempre alle costole: "Si notano sì, ma non entrano mai" , spiega Romelli, "rimangono ad aspettare fuori" . La seguono per strada, quando a piedi o in bicicletta percorre il paese, a volte con un' amica, a volte con i figli, Charlotte, Pierre e Andrea: "Bellissimi, bien sur, educatissimi" , taglia corto Madame Françoise, aria snob e occhiali maculati, responsabile della vendite di Ebene, negozio d' arredamento in stile provenzale. Di più non vuole dire: "Perché la principessa viene per riposarsi, per stare un po' tranquilla" . Protezione della privacy. Con qualche eccezione.
Janic Arnoud, per esempio, proprietaria di un negozio di tessuti che pure non ha mai avuto l' onore di una visita, definisce la first lady di Montecarlo: "Gentile con tutti, ma a debita distanza" .
Mentre Francis Ostanel, dal bancone di una profumeria, si lascia scappare: "Compra sempre i cosmetici dell' Occitane" . Aggiunge l' imbarazzato proprietario di Erbell, tutto in saldo a 140 franchi (trentamila lire circa): "Acquista scarpe. Le piacciono i modelli un po' originali" . L' unico che si sottrae all' addebito di una presunta amicizia con Carolina è don Pierre, reverendo della chiesa di Saint Martin: "Menzogne, tutte menzogne. Non la conosco affatto.
Sì, è stata a messa qualche volta. Ma l' ho vista solo da lontano" .
E così pure i gendarmi di Saint Rémy, che secondo le cronache avrebbero avuto un gran da fare per tenere a bada giornalisti e paparazzi a caccia di scoop: "La principessa qui da noi è in veste di privato cittadino" , dice un ufficiale. "E poi ha le guardie del corpo che pensano alla sua sicurezza" . Privato cittadino. Nessuna nota ufficiale per avvertire, di volta in volta, del suo arrivo o della sua partenza. "Solo una visita di cortesia del fratello, il principe Albert, qualche tempo fa" , racconta il sindaco di Saint Rémy, Serge Pampaloni, "per comunicarmi che Carolina aveva intenzione di trasferirsi qui" . Non ha accettato nemmeno, lo scorso ottobre, di presenziare il Jumping international, concorso ippico organizzato dal Comune provenzale: "Ricordiamoci che è ancora in lutto per Casiraghi" , la scusa il sindaco. Una voglia di anonimato, quella della principessa, che Saint Rémy, apparentemente indifferente al suo passaggio, in qualche modo garantisce: "Da trent' anni a questa parte, siamo abituati a ricevere ospiti d' eccezione. Politici di spicco, star del cinema e dello spettacolo" , spiega Serge Pampaloni. "Vengono qui proprio perché sanno di poter contare sulla nostra discrezione. Carolina è come gli altri" . Come l' amica Inès de la Fressange, l' ex mannequin di Chanel, che ha pure lei casa in zona. Come Francois Mitterrand, che trascorre volentieri le sue vacanze in Provenza. Come Amanda Lear o Jacqueline Bisset, viste spesso allo Sholmes, club rigorosamente privé sulla strada per Avignone. Con una differenza, però, che gli abitanti di Saint Rémy non ignorano di certo: nessuno di questi personaggi ha mai portato tanti paparazzi in zona quanto madame la Princesse. Nei vicoli, nei bar, sul sacrato della chiesa, nei negozi, "dove fotografi e giornalisti arrivano a tutto" , racconta scandalizzata la proprietaria di Les Olivades, "persino a comprare metri di tessuto pur di carpire qualche informazione" . Ma soprattutto attorno alla villa, un rustico in pietra grezza, circondato da un giardino fitto fitto e da ettari di terreno completamente vuoti, dove la Principessa atterrerebbe con un suo velivolo privato, per consumare nelle ore serali i suoi rendez-vous con l' amato Vincent. Non bastano i chilometri da percorrere in mezzo alla campagna, tra strade sterrate e mute di cani, a scoraggiare gli indesiderati visitatori. Persino i gorilla e le terribili guardie importate da Montecarlo faticano a frenare gli assalti, che arrivano pure dal cielo (due fotoreporter di Paris Match hanno pensato bene di sorvolare la casa a bordo di un elicottero). Anonimato? Saint Rémy, durante l' ultimo soggiorno di Carolina a gennaio, sembrava quasi Montecarlo, la fortezza dorata che concede sì alla sua Principessa le brevi trasferte in terra francese, ma le nega il beneplacito per gli Stati Uniti. Perché Montecarlo, e non solo papà Ranieri, reclama il ritorno di Carolina alla vita di sempre. Gli scandali, gli amori, la fine di un lutto...




Testata
Epoca

Data pubbl.
19/02/92

Numero
2158

Pagina
57

Titolo
LA VIOLENZA DELLA PORTA ACCANTO

Autore
DI MARIA GRAZIA CUTULI E ROBERTO DELERA ha collaborato Milena Moneta

Sezione
STORIE

Occhiello
PICCOLI OMICIDI

Sommario
E se capitasse anche a voi? E' l' altra faccia della cronaca nera, forse la più tremenda. Ogni giorno tre italiani vengono uccisi da un vicino di casa, un parente, dalla persona amata. Ecco come può accadere. "Lei continuava a chiedergli soldi" . LA MADRE DI GIULIANO FRISON

Didascalia
Giuliano
Frison e Margherita De Nardo il giorno del loro matrimonio, 3 marzo
1990.
Laura Savoldi, 24 anni. Sopra: Nicola Alghisi, il fidanzato
che l' ha uccisa e poi si è sparato.
Patrizio Micheli, 27 anni. Ha ucciso
il nipote e il cognato.
Mario Emanuele Pizzuto, l' omicida. Sotto:
Francesco De Lillo, la vittima.
Katia Razio. Sotto: Davide Cella, il fidanzato. L' ha
uccisa e poi le ha dato fuoco.

Testo
Non aprite quella porta: dietro potrebbe esserci il vostro assassino. E potrebbe avere un volto conosciuto, addirittura amato.
Ogni giorno tre italiani muoiono ammazzati da un vicino di casa, un parente, un collega di lavoro. E quasi tutti per motivi "futili" .
Incredibile? "Assolutamente no" , sostiene Isabella Merzagora, docente della Scuola di specializzazione in criminologia clinica dell' Università di Milano, "è la normalità della statistica criminologica. La verità è che, escludendo gli omicidi mafiosi e quelli per rapina, si ammazza chi si ha a portata di mano" . I dati Istat confermano: in Italia, dal gennaio al giugno 1991, su 1038 omicidi, 392 erano mafiosi, 64 per furto o rapina, 4 a scopo terroristico e 578 per altri motivi. Cioè per un furgone posteggiato male, per il volume troppo alto della televisione o per una moto "che dava fastidio" in cortile. Un fenomeno testimoniato anche da un classico della criminologia: uno studio della Scuola di Genova (firmato nel 1975 da Bandini, Gatti e Traverso) secondo il quale il 37,4 per cento degli omicidi (escludendo sempre quelli mafiosi e per rapina) maturano all' interno della famiglia, il 41,9 tra conoscenti, il 20,3 per cento tra sconosciuti. Il movente? Non si pensi che gli "omicidi della porta accanto" siano largamente dettati da motivi d' onore. I delitti per gelosia o per un tradimento d' amore sono in realtà una quota minima: 63 sui 578 rilevati dall' Istat. Nemmeno la malattia mentale può essere invocata per giustificare un fenomeno di simili proporzioni: la percentuale di assassini per follia è molto bassa. Che cosa sta dietro, allora, a questa cronaca nerissima e all' apparenza inspiegabile? Due le grandi molle, secondo la statistica criminologica: quella "passionale in senso lato" che prevede un rancore che cova per molto tempo prima di esplodere, e quella "emotiva" che si manifesta all' opposto in un gesto repentino da perdita dell' autocontrollo.
"A tutti noi" , dice Isabella Merzagora, "piace pensare all' assassino come a un diverso, un malato. Perché abbiamo paura del male che è in noi" . Una rimozione collettiva che dura fatica reggere al cospetto dei molti fatti di sangue "anomali" dell' ultimo periodo. Fatti di sangue senza il bandito, il mafioso, l' assassino tradizionale, ma con al centro, protagonisti e vittime, persone assolutamente qualunque. La violenza può irrompere nella nostra vita in ogni momento e può avere il volto di chiunque. Anche il più amato. Come dimostrano le storie che abbiamo raccolto.
"Lo minacciava, diceva che si sarebbe tenuta la figlia" Lei si bucava.
"Forse è stata l' esasperazione, o forse un colpo di follia.
Giuliano aveva paura che Margherita gli portasse via la bambina" .
Maria Zocchi, 58 anni, la nipotina in braccio, continua a ubriacarsi di parole e di ricordi. Ma non riesce ancora a capire: suo figlio, Giuliano Frison, 25 anni e un lavoro di operario alla Whilelpool di Biandronno, nel varesotto, è diventato un assassino. Ha ammazzato la moglie. Strangolata, poi bruciata. Maria Zocchi lo sapeva che tra suo figlio e Margherita De Nardo, 31 anni, ausiliaria all' ospedale di Torino, il matrimonio non andava: "Tua moglie si buca, gli ripetevo sempre, ma lui non una parola" . Taciturno, tutto casa e lavoro. Pochi spassi e un sogno: andare a Londra a studiare l' inglese. "Invece, quella vacanza a Rimini, dove ha conosciuto Margherita. Al telefono: "Mamma mi sposo" . Nozze il 3 marzo di due anni fa. A novembre arriva Lisa, nata con la sindrome d' astinenza.
"Che sua moglie fosse eroinomane, Giuliano l' aveva scoperto in viaggio di nozze. Per mesi lei gli aveva fatto credere di usare le siringhe per curarsi una malattia ai reni" . I due erano andati ad abitare in una villetta a Biandronno, dietro quella dei genitori di Giuliano: "Litigavano. Lei continuava a chiedergli soldi, lui a lavorare come un matto, prima in fabbrica, finito il turno come muratore. Lei sempre per strada, a fare autostop, aggressiva, rabbiosa. Lui con noi non parlava più. Solo nell' ultimo mese, da quando aveva chiesto la separazione, sembrava finalmente tranquillo: "Sto tornando a vivere" , mi aveva detto" . Ma Margherita non voleva saperne. "Minacciava Giuliano che si sarebbe tenuta la bambina" .
Sabato primo febbraio, l' ultima lite. Lui perde il controllo, la strangola. Poi, come se nulla fosse, lascia il corpo sul letto e va a cena dai genitori. Domenica, telefona a Torino, dalla suocera, per crearsi un alibi: "Margherita è per caso da voi?" . Aspetta la notte e completa l' opera in salotto. Denuda il cadavere, per far credere a uno stupro. Gli dà fuoco, per renderlo irriconoscibile. Ma il rogo casalingo non riesce. L' indomani, i carabinieri di Luino troveranno il corpo di Margherita sulla strada della Valcuvia. Giuliano, prelevato in fabbrica da una pattuglia, crolla: "Lo sapeva che finiva così" , dice senza troppa emozione.
"Non riusciva proprio a togliersela dalla testa" Alla festa di compleanno. Laura Savoldi è operaia in un' azienda tessile: 24 anni, bella, sportiva. Viene da una famiglia "per bene" , di Montirone, nel bresciano. Due anni fa, incontra Nicky Alghisi, 26 anni, tipo gentile. E' di Ghedi, ben vestito, gira con una Golf nera. Alle spalle, una famiglia disastrata e parecchi guai con la giustizia. Furti, rapine, un soggiorno in carcere. Lui si innamora di Laura sperando di trovare con lei il riscatto sociale. La ragazza ricambia, ma non accetta che lui continui "quella vita" . Dopo un bel po' di tiramolla, decide di lasciarlo. Nicky glielo impedisce, il 9 gennaio: un colpo di pistola alla nuca per lei, poi gira l' arma su se stesso. E' il giorno del compleanno di Laura, c' era una festa in suo onore organizzata a casa di un' amica. "I suoi genitori la tenevano sotto controllo per via della storia con Nicky" , racconta Simonetta Belletti, 24 anni.
"Ma Laura era abituata a far di testa sua" . Così nessuno si è stupito quando, durante la festa, con i regali ancora da scartare, Laura è scesa giù. Era arrivato Nicky. "Solo un attimo, mi ha detto.
C' è il "mongolo" che mi vuol parlare. L' abbiamo aspettata tutta la sera, scherzando sul prolungarsi dell' assenza. Solo sua sorella Grazia ad un certo punto ha buttato lì: "Magari quello l' ammazza" " . L' ha ammazzata davvero e poi si è sparato. "Da più di un mese Laura aveva deciso di lasciarlo" , continua Simonetta. "Si era convinta che la storia non aveva futuro" . Nicky Alghisi da parte sua, cresciuto con la filosofia del facile guadagno ( "i soldi non danno la felicità, ma danno un' infelicità molto comoda" , aveva scritto qualche tempo prima, ad un amico), non riusciva proprio a cambiar vita. L' ultimo abbandono di Laura, però, era stato uno choc. Racconta la madre, Teresa, 46 anni, inserviente in un autogrill: "Non mangiava, non dormiva. Lo vedevo in casa fermo, guardare il soffitto per delle ore. Mi diceva: "Non riesco a togliermela dalla testa" . Continuava a frequentare Montirone, a cercare "quella lì" . Ma ogni volta tornava come uno straccio.
Perché non l' ho fermato quella sera?" . Un rimorso: "Forse è colpa mia. Non l' ho aiutato abbastanza" .
"Sono una guardia giurata, ho sparato a due miei parenti" Una motocicletta di troppo. "Mi chiamo Patrizio Micheli. Sono una guardia giurata e ho appena ucciso mio nipote e mio cognato" . A raccogliere la confessione, un incredulo piantone della stazione dei Carabinieri di San Giuliano Milanese, nella Bassa Padana. Domenica 29 dicembre 1991, ore sedici. Al piano terra di una villetta di via Cavour 5, nella cucina dell' appartamento di Patrizio Micheli, 27 anni, due cadaveri: Nicola Carosella, 47 anni, tecnico dell' Italtel, e suo figlio Emanuele, 20 anni, pasticciere, entrambi uccisi a colpi di Beretta 7,65. Nel giardinetto della villa, buttata a terra, la causa scatenante del delitto: una Yamaha 250 rossa, da cross. "Patrizio non ha mai capito che mio fratello Nicola lo amava come un figlio" , dice Enrico Carosella. "Quello che è sicuro è che era un ragazzo troppo solo" , testimonia Elvira Zago, una vicina di casa. "Mai una ragazza, un amico. Non cattivo... Sfortunato" . Sfortunato, sì: a 9 anni, praticamente perde la madre, ricoverata in manicomio. Cresce con la famiglia della sorella Giovanna, 41 anni, impiegata e moglie di Nicola Carosella. Vivono tutti insieme nella villetta di via Cavour. Al piano terra, Patrizio e il vecchio padre, Arturo Micheli; al primo, Giovanna col marito e i figli Emanuele e Ivan. Nel 1985, con la morte del padre, i rapporti tra la guardia giurata e i Carosella si complicano. "Mio cognato mi voleva cacciare da casa" , racconterà Micheli al giudice Edoardo Monti, "era una specie di guerra dei nervi, continuavano a farmi piccoli dispetti" . A far precipitare le cose, l' arrivo della Yamaha 250. Emanuele Carosella comincia a posteggiarla a pianterreno, nella cucina dello zio, che prende la cosa come l' affronto finale. L' ultima domenica del 1991, la tragedia. Patrizio Micheli butta la moto fuori di casa. Il giovane pasticciere lo aggredisce urlando. Dal primo piano scende anche il padre. Dalla pistola della guardia giurata partono sei colpi. Poi Patrizio Micheli va a costituirsi. "Non mi è sembrato affatto uno squilibrato" , dice il maresciallo Giorgio Gala. "E poi, per diventare guardia giurata, bisogna superare test psicologici severi: lui era stato giudicato idoneo" .
"Stavano litigando. Poi lui ha tirato fuori la pistola" L' esecuzione del passo carraio. Tre colpi di pistola. E il corpo di Francesco De Lillo, 41 anni, avellinese, sposato, una figlia, cade davanti al suo negozio di riparazioni per macchine di pulitura, in via Adige 5, a Milano.
Mancano pochi minuti alle 14 del 29 novembre 1991. A premere il grilletto, Mario Emanuele Pizzuto, 51 anni, pellicciaio, originario di Campobasso, moglie e tre figli. "Stavamo mangiando" , racconta Antonio Cozzi, 25 anni, aiutante della vittima. "Squilla il telefono. E' la proprietaria dello stabile che ci chiede di spostare il furgone dal passo carraio perché il pellicciaio deve entrare nel cortile" . Quello del passo carraio è un annoso problema. Via Adige è trafficatissima, spesso non c' è posto neanche in seconda fila.
Così tra gli artigiani che hanno lì bottega vige una sorta di tacito accordo: il primo che arriva posteggia davanti al portone. E Francesco De Lillo arrivava quasi sempre per primo, da anni. Ma nel 1989 entra in scena Mario Emanuele Pizzuto, che comincia subito a protestare. "Quello del passo carraio era il suo cruccio principale" , raccontano i vicini, "ma ne aveva anche altri. Per esempio protestava sempre con la donna delle pulizie per il baccano quando svuotava i bidoni" . La situazione precipita un pomeriggio, all' improvviso. L' accesso al cortile interno è al solito occupato.
Cappello a larghe falde, barba folta, il pellicciaio scende dalla sua Citroe' n e se la prende con Antonio Cozzi, l' aiutante di De Lillo. "Poi è uscito il mio principale" , racconta Cozzi. "Parole grosse, si sono afferrati per il bavero, insultandosi.
All' improvviso l' altro tira fuori la pistola, spara tre volte. Poi si gira verso di me e mi punta contro l' arma. Io ho cominciato a gridare e a correre. E lui dietro. Mi ha inseguito fino a piazza Buozzi, lì mi sono infilato in un bar" . Il pellicciaio, allora, ha rimesso la pistola nella fodera ed è tornato sui suoi passi. Gli agenti di polizia lo hanno arrestato sulla porta del suo laboratorio. Era tranquillo.
"Davide era gentile. Come ha potuto?" Pazzo d' amore. Doveva essere una festa, la sera del 27 dicembre, a Calcinato, una ventina di chilometri da Brescia: tutte insieme madri e figlie, in pizzeria, per chiudere in bellezza la fine di un corso di aerobica. Da lì a qualche ora, una di loro, Katia Razio, studentessa di 16 anni, sarebbe morta ammazzata. Presa a sprangate, poi bruciata dal suo fidanzato, Davide Cella, 19 anni, elettricista.
Un delitto senza movente. "Davide era gentile, cortese, beneducato.
Frequentava casa nostra tutte le sere. Perché l' ha fatto?" A un mese e mezzo dalla scomparsa della ragazza, la madre, Agnese Podavini, 35 anni, minuta, una massa di capelli rossi, non versa una lacrima. Non cerca uno sfogo. La tradisce solo una smorfia di rabbia che le serra le labbra: "Sedici anni" , ripete, "Katia aveva voglia di frequentare le amiche, di andare in discoteca" . Poi, dura: "Lui glielo proibiva" . Silenzio. "Lei accettava, ma negli ultimi tempi non ce la faceva più. Aveva deciso di allontanarlo. Non poteva certo immaginare" . Una miscela esplosiva di paura e gelosia. Un attaccamento ossessivo, un amore morboso. Gesto meditato, quello di Davide, o solo un impeto di follia? "Un ragazzo a posto" , sibila Agnese Podavini. "Sì, una volta, dopo un litigio con mia figlia, aveva preso delle pasticche. Ma nessuno aveva dato importanza a quel gesto" . Un ragazzo di provincia, come tanti: famiglia piccolo borghese (il padre è geometra), un lavoro da elettricista, simpatie per la Lega Lombarda. "Diceva che non poteva stare senza Katia. Ma che fosse pazzo, no. Un pazzo non ammazza in quella maniera" .
Eppure nel delitto di Calcinato si nasconde qualcosa di maniacale, un rituale sospetto per i magistrati che hanno subito ordinato la perizia psichiatrica. Perché se l' incontro tra Davide e Katia, la sera del 27 dicembre, dopo la pizzeria, alla discoteca El Kubra di Bedizzole, sembra casuale, tutto il resto non lo è. Davide porta Katia fuori con la scusa di accompagnare un amico. Poi, rimasto solo con lei, sulla Golf nera, la colpisce con una spranga di ferro.
Nasconde il corpo nel bagagliaio, va a casa a prendere due taniche, le riempe di benzina a un self service e corre via. Venti chilometri fino al parco degli alpini, un posto dove la natura d' inverno diventa orrida, rocce gelate, dirupi visitati dalle aquile. Un posto da cui non si passa "per caso" . Scarica là la sua Katia, le dà a fuoco e torna a casa, mentre Agnese Podavini si sveglia di soprassalto sul divano e si accorge che la figlia non è ancora rientrata. "Le amiche l' avevano vista uscire dalla discoteca con Davide. Ma quando chiamo lui, mi risponde tranquillo di averla riaccompagnata a mezzanotte. La sua indifferenza mi fa paura. Ha combinato qualcosa, dico tra me e me" . Il presentimento si rivelerà esatto. Ma l' indifferenza di Davide rimane, anche il giorno dopo, quando i carabinieri di Calcinato ritrovano il cadavere. Il ragazzo confessa, imperturbabile. Solo alla madre, in un momento di lucidità, chiederà angosciato: "Ma sono stato veramente io ad ammazzare Katia?" "Nessuno nel bar ha mosso un dito per aiutarmi" Arancia meccanica a mezzanotte. Stavolta non muore nessuno. Ma quando si parla di violenza della porta accanto, ci sta anche un caso come questo, capitato a uno studente milanese, Maso Notarianni, 25 anni. Un caso emblematico di un' infinità di violenze che le cronache dei giornali nemmeno registrano. E' successo a settembre, ma Maso lo ricorda ancora come fosse ieri. "Ero appena stato al cinema, stavo tornando a casa in moto. C' è una coda di macchine, io supero, un' Audi 80 supera me e mi stringe. Urlo qualcosa. Al semaforo di via Carducci, la macchina mi chiude la strada. Il guidatore scende, mi sfila il casco, e giù botte. Arrivano i suoi compari, quattro, robusti, età, non so, dai 25 ai 30, ben vestiti.
Anziché reagire, mentre mi picchiano, penso stupidamente a tener in piedi la moto. Poi finalmente scappo, mi butto nel bar Magenta: è affollato. Ma loro mi seguono. Una craniata sotto l' occhio. Un cameriere tenta di difendermi, viene preso a spintoni. La gente rimane immobile. Finisco sotto il bancone, mentre loro, urlando un' ultima minaccia, vanno via. Denunciarli? E come? Il numero di targa non sono riuscito a prenderlo. E poi ero come in uno stato di straniamento... Se l' è presa di più la mia fidanzata, che l' indomani è corsa a fare un appello a Radio Popolare, sperando che qualcuno avesse annotato il numero di targa. Nessuno si è fatto vivo" .

BOX
PERCHE' SUCCEDE Sette autorevoli risposte.
Sergio Zavoli, giornalista e scrittore: "Non si fa che parlare di un' epoca segnata dalla rassegnazione. Non è vero. La scomparsa di idee guide sta al contrario generando un' esplosione di irrazionalità e ferocia.
Viviamo in una società economicamente soddisfatta, ma sempre più infelice, in cui si confondono troppo facilmente i mezzi per i fini.
I più deboli, i meno appagati, risentono di questo vuoto. E ne traggono spesso una loro solitaria e disperata rivalsa" . Ersilio Tonini, arcivescovo emerito di Ravenna: "Fenomeni abnormi, dovuti a scompensi neurologici, la cui molla è quasi sempre una vita affettiva insufficiente. E' come il suicidio: c' è una tale violenza interiore dietro questi atti da escludere la responsabilità di chi li compie" . Gianna Schelotto, psicoterapeuta: "C' è in giro una profonda e generale insoddisfazione, una disparità tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. La soglia di tolleranza alla frustrazione si è molto abbassata e questo genera facilmente la violenza" . Enzo Forcella, giornalista e storico: "Non mi stupisce che le tensioni che sfociano poi nell' assassinio maturino tra individui che si conoscono bene. Non è un caso infatti che la psicanalisi moderna si occupi dei gruppi e non più degli individui.
O meglio del gruppo inteso come humus nel quale si manifesta l' individuo" . Gianni Vattimo, filosofo: "Si potrebbe fare la considerazione che la famiglia o altri microcosmi simili siano rappresentazione delle contraddizioni sociali. Ma mi sembra molto ideologico. Forse qualche anno fa avrei risposto così. Quello che mi sento di dire oggi è molto più semplice: tra estranei non ci sono ragioni di contendere e quindi si ammazza chi si conosce" . Rocco Buttiglione, filosofo: "Freud ha scritto che se i nostri desideri fossero cavalli sarebbero attaccati ai carri funebri dei nostri migliori amici. Da un punto di vista religioso, solo chi accetta Gesù come salvatore non ammazza, perché è capace di perdonare.
Perdonare è difficilissimo. Perdonare agli amici, poi, è impossibile" . Ferdinando Camon, scrittore: "Ammazzando un vicino, un amico, un parente, si ammazza una parte di sé che non si ama.
L' omicidio può essere scambiato per un tentativo di purgare la propria vita. In realtà la si distrugge entrando nell' anticamera del suicidio" .




Testata
Epoca

Data pubbl.
22/01/92

Numero
2153

Pagina
86

Titolo
ATTENTI, IL TRUCCO C' E'

Autore
Maria Grazia Cutuli

Sezione
STORIE

Occhiello
Viaggio nell' occulto d' Oltreoceano

Sommario
Colloquio con Steno Ferluga, presidente degli scienziati che hanno dichiarato guerra a maghi, veggenti e guaritori.

Didascalia
Steno Ferluga, presidente del Cicap.

Testo
BOX
Dodici milioni di italiani credono a maghi, cartomanti, veggenti e guaritori. Così dicono le statistiche. Ebbene, c' è chi ritiene che questi milioni di italiani, potenziali vittime, anche se consenzienti, di burle, imbrogli e pie illusioni, vadano in qualche modo protetti. Da chi? "Da prestigiatori e ciarlatani, ma anche dai giornali. Persino un settimanale come il vostro mette i maghi in copertina. Ma siamo diventati matti?" . A indignarsi contro l' occulto è l' astronomo Steno Ferluga, presidente del Cicap, il Comitato per il controllo delle affermazioni sul paranormale. A capo di un gruppo di scienziati e intellettuali, che da tre anni lavora a Trieste con l' intento di sfatare credenze e smascherare fantasmi, Ferluga sa di passare per una sorta di "ghostbuster" , ma non si scoraggia: "Noi del Cicap ci siamo guadagnati anche l' appellativo di "Nuovi Inquisitori" . E non solo dalla parte lesa, maghi, veggenti e affini. Ci sono uomini di cultura, colleghi, professori che continuano a vederci come gli "acchiappafantasmi" . Perché perdiamo tempo, dicono i più pragmatici, con queste stupidaggini" . Eppure, a sostenere il Cicap, ci sono personalità più che illustri: il farmacologo Silvio Garattini, direttore dell' istituto Negri di Milano, il giornalista-scrittore Piero Angela, i Nobel Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia. "Il nostro scopo" , spiega il presidente, "è intervenire per un' informazione più corretta" . In che modo? "Appellandoci alle leggi della fisica e della scienza. Ma non solo.
Ci preoccupiamo anche di verificare cosa può esserci di vero o di falso nei cosiddetti fenomeni paranormali. Il risultato? Appena esprimiamo il nostro desiderio di intervenire, gli interessati, vittime o protagonisti di avvenimenti extrasensoriali, si dileguano, le energie magiche spariscono, le ire degli inferi si quietano. Al massimo ci troviamo di fronte a burle o trucchetti da prestigiatore" . Qualche esempio? "Mi viene in mente un caso del 1989, quello di Mirko Gargiulo, il bambino milanese che, secondo i genitori, sarebbe stato vittima di un Poltergeist. In altre parole uno spiritello maligno si sarebbe divertito, attraverso di lui, a mettere a soqquadro la sua stanza, rompendo vetri, mandando in frantumi vasi, rovesciando sedie. Ebbene, in camera di Mirko si creava sì un pandemonio, ma era lui stesso che lo produceva, con le sue mani. I genitori sentivano i rumori da dietro la porta, chiusa sempre a chiave, ma non si erano mai preoccupati di metterci il naso dentro, al momento in cui si scatenavano le "forze demoniache" " . Malafede, ignoranza o cos' altro? "Semplicemente ingenuità. Il paranormale si basa sempre su trucchi. Alcuni sofisticati, supportati da strumenti e macchinari, altri talmente elementari da poter essere usati da un bambino" . Cosa è successo allora a Genova, dove Geppy Costa e la figlia Elena sostengono di aver visto oggetti volare in casa? "Anche lì si è parlato di Poltergeist. Guarda caso, però, quando abbiamo pensato di intervenire, era troppo tardi: gli accendini volanti hanno smesso di vagare per la casa e i demoni se ne sono andati" . I demoni no, d' accordo. Ma è senza credito anche la teoria della psicocinesi, secondo la quale la mente è in grado di sprigionare una forza tale da poter muovere gli oggetti? "Prendiamo il caso classico del cucchiaino di metallo: viene piegato, sì, ma non certo dal pensiero. Con le mani, piuttosto. E' un gioco di prestigio anche quello" . Vi siete mai trovati di fronte a qualcuno che è riuscito nel suo "trucco" ? "No, e dirò di più. Abbiamo anche lanciato una sfida: chiunque si sente in grado di spostare un oggetto con il pensiero può recarsi al laboratorio di fisica dell' università di Pavia. E' arrivata della gente, ma nessuno è riuscito a dimostrare niente. Attualmente stiamo invece seguendo un caso in Emilia Romagna dove una persona è convinta di produrre fenomeni di psicocinesi.
Ebbene, quando ci prova di fronte a noi, i suoi poteri misteriosamente si annullano. Malafede? No. Ho buoni motivi per credere che questa persona veda veramente gli oggetti spostarsi, ma che il suo sia solo uno stato di allucinazione visiva" . Esclude quindi che possano esistere in natura "energie" sconosciute emanate dalla mente? "La fisica non ha mai scoperto nulla che faccia pensare a un campo di forza sprigionato dal cervello. Nessuna apparecchiatura è mai stata in grado di registrare l' energia "cinetica" . Esistono sì, attorno al nostro corpo, campi di forza, ma di altra natura: gli odori, i gas, le radiazioni termiche. Ma sono impulsi talmente deboli che non possono certo agire a distanza, che vengono "spenti" da "perturbazioni" esterne. Una lampada al neon, ad esempio, basta a smorzare le radiazioni del nostro corpo" .
L' energia cinetica potrebbe però essere di altra natura, sottrarsi alle regole della fisica che conosciamo? "Mi sembra impossibile. In tutti i casi, nel suo produrre effetti sui corpi materiali, andrebbe contro la legge della conservazione dell' energia" . Come spiega allora la "levitazione" dei corpi, ad esempio durante le sedute spiritiche? "E' il solito trucco di un prestigiatore che si spaccia per medium. Il tavolino balla? Basta poco: un chiodo, un filo di nailon, una leva nascosta. Il corpo di un uomo o di una donna si solleva in aria? C' è quasi sempre un marchingengo sotto, una sbarra di ferro e titanio nascosta nell' ombra" . E i bicchierini impazziti, le voci dall' aldilà? "Durante le sedute spiritiche, si crea sempre un gioco psicologico molto sottile. Tutti coloro che partecipano si aspettano che accada qualcosa, così che alla fine a qualcuno saltano i nervi. C' è chi va in escandescenze, chi furbescamente interviene per non deludere le aspettative. E poi, le mani unite assieme, attorno a un tavolo rotondo, finiscono per trasmettere vibrazioni tali da far credere che gli oggetti si muovano da soli. Sulle voci, poi, basta solo dire che vanno molto di moda, soprattutto quelle registrate su nastro..." . Un ultimo fenomeno: i rabdomanti, coloro che sostengono di essere capaci di scoprire la presenza di acqua sotto terra. Avete fatto esperimenti con loro? "Sì, una volta, con l' aiuto di Piero Angela. Avevamo creato una rete di tubature sotterranee. In alcuni tubi, secondo gli accordi, sarebbe passata dell' acqua, in altri no. I rabdomanti avrebbero dovuto scoprire in quali. Non ci sono riusciti" . Lo scrittore Alberto Bevilacqua ha appena pubblicato un romanzo (I sensi incantati, Arnoldo Mondadori) in cui raccoglie le suggestioni di un suo viaggio tra stregoni e sciamani, guru e santoni. Ci sono culture diverse dalla nostra che hanno sempre vissuto sul paranormale. Le ritenete infondate? "Finché si fa letteratura, si è liberi di scrivere quello che si vuole... Crediamo anche noi nell' estasi dello sciamano, o nelle fluttuazioni della sua mente, ma solo come esperienze della psiche. Il cervello può provocare stati di alterazione fisiologica, non può però interferire sugli oggetti esterni" . La parapsicologia fa appello alle forze dell' occulto. Anche la religione cattolica, però, ammettendo i miracoli, apre una prospettiva decisamente extrasensoriale: apparizioni di santi, Madonne che piangono... Come vi ponete di fronte a questi argomenti? "Lasciamo che i santi appaiano e che le Madonne piangano. Sui miracoli non abbiamo nessuna intenzione di interferire, non ci sembra giusto mettere in discussione i misteri della fede, o ferire coloro che credono" . Stesso atteggiamento anche con un personaggio, come monsignor Milingo, che sembra capace di guarire i suoi fedeli dalle più gravi malattie? "In certi casi entra in gioco il carisma personale, una specie di effetto placebo.
Il credente probabilmente si autosuggestiona, la sua malattia scompare per una semplice connessione psicosomatica" .
Psicosomatica, ha detto? "Sì, a questo ci credo. E sono io il primo ad esserne vittima" .

Courtesy and Copyright Arnoldo Mondadori Editore
AFGHANISTANW>>
Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

AFGHANISTANW>>
Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

AFGHANISTANW>>
INTERVIEW
with A. S. Massud
ENGLISH
••ITALIAN

EX-JUGOSLAVIAW>>
AFGHANISTANW>>
SIERRA LEONEW>>
PORTFOLIO
Children at War


SIERRA LEONEW>>
We welcome landslide
re-election of
President Khatami!

PORTFOLIO
Iran, New And Blossoming

KOSOVOW>>

SUPPORT FREE PRESS
IN IRAN !

All documents in this website copyright © A. Raffaele Ciriello 1989 - 2002
Postcards From Hell, War / Conflict Photojournalism © 1999-2001
All Rights Reserved.
This website's contents may not be published, reproduced, or distributed in print or electronic
and / or digital media without the express written consent of the Author.

PRIOR TO ANY DOWNLOAD PLEASE READ COPYRIGHT INFOS