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Testata Epoca Data pubbl. 06/12/96 Numero 49 Pagina 76 Titolo MAMMA, PAPA' , MA VOI LO SPINELLO L' AVETE MAI FUMATO? Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI E MARCO IMARISIO Sezione STORIE Occhiello DOSSIER Sommario Massimo D' Alema vuole legalizzare le droghe "leggere". La proposta divide i partiti. E allarma i genitori. Per i quali "Epoca" ha preparato questo dossier. Che spiega cosa sono esattamente hashish e marijuana, quali effetti hanno, quali pericoli nascondono. E che aiuta a trovare le risposte giuste per tutti gli interrogativi. Anche i più imbarazzanti. La marijuana costa tra 10 e 15 mila lire al grammo. Per una "canna" ne occorre mezzo Non sempre lo spinello procura sensazioni di benessere. Può anche scatenare stati di paranoia Andrea Muccioli: "Il 98 per cento degli eroinomani ha cominciato fumando". Ma molti lo contestano "E se i vostri figli vi chiedono se avete provato, niente paura. Dite loro semplicemente la verità" Didascalia Spacciatori di droghe "leggere" in piazza San Marco a Firenze. Testo "L ' hashish va legalizzato". Una battuta in videoconferenza, per i giovani della sinistra, riuniti venerdì 22 novembre a Bologna, ed ecco scoppiare la bomba. Massimo D' Alema, segretario del Pds, propone un referendum per legalilzzare l' hashish e la marijuana. Una proposta che spacca le coscienze, sia dentro sia fuori l' Ulivo. Se un compagno di partito come Walter Veltroni si è sentito in dovere di mettere subito dei distinguo ("separiamo le opinioni personali dalle responsabilità istituzionali"), gli avversari del Polo, da Gianfranco Fini a Silvio Berlusconi, hanno già sfoderato la spada: "Daremo battaglia e non appoggeremo mai il referendum". Alleati di D' Alema, i pionieri dell' antiproibizionismo: il nuovo portavoce dei verdi, Luigi Manconi, il leader riformatore Marco Pannella, gli esponenti del Cora (Coordinamento radicale antiproibizionista) di Marco Taradash. Il dibattito sul "fumo", per la verità, non è nuovo. A settembre c' era stata la votazione del consiglio comunale di Torino, favorevole a un esperimento di liberalizzazione. A ottobre era arrivato in Parlamento un disegno di legge del verde Franco Corleone, sottosegretario alla giustizia. D' Alema ha ribadito le ragioni del fronte "libertario": in Italia, dove i consumatori di droghe "leggere" sarebbero tra i 5 e i 7 milioni, la legalizzazione farebbe crollare il mercato criminale. Lascerebbe fuori, isolato e più controllabile, lo spaccio di droga pesante. Si potrebbe persino ipotizzare, ha detto il segretario del Pds, una distribuzione controllata dell' eroina. Ma con quali conseguenze? Epoca ha condotto un' inchiesta per capire che cosa sono realmente le droghe "leggere" e quali pericoli o vantaggi può portare la legalizzazione. Le droghe "leggere" sono proibite? In pratica no. Dopo il referendum del 1993 che ha ribaltato i rigori della legge Jervolino-Vassalli del 1990, chi viene trovato in possesso di una "modica quantità" di hashish e di marijuana rischia solo una segnalazione al Prefetto. Il "detentore" viene convocato per un colloquio, che può concludersi con un "ammonimento" a voce o scritto. Alla terza segnalazione possono scattare misure amministrative come il ritiro della patente. E' escluso invece il carcere, che era previsto (anche se mai applicato) dalla legge Jervolino-Vassalli. "In pratica", dicono all' Osservatorio per la droga del ministero degli Interni, "su 108 mila colloqui registrati negli ultimi sei anni, le sanzioni amministrative emesse sono state 26 mila". Con il referendum, inoltre, "viene eliminato il concetto di "dose media giornaliera" e le relative tabelle del ministero della Sanità. Si ritorna come nel 1975 a quello generico di "modica quantità" tollerata per uso personale". Modica quanto? Nessuno lo sa. L' unica certezza è che il consumo in sé non è più punito. A meno che non si accerti che si tratti di spaccio. Che cosa sono esattamente? E' una droga che non dà assuefazione. Ricavata dalla Canapa indiana, una pianta che cresce soprattutto nei climi caldo umidi, può presentarsi in due varianti: "erba", cioè marijuana, rametti, foglie e soprattutto fiori; o come panetto, cioè hashish, una resina compatta di colore variabile dal verde al marrone. Tutti e due i derivati si fumano mischiati al tabacco. In cartine, sotto forma di sigarette chiamati "spinelli", "canne", "joint", in pipe normali, o nei "cylum", pipe orientali a forma di cono. Dove si comperano? Dappertutto. Secondo Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo, fondatore della comunità di San Patrignano: "Dovunque ci siano o si concentrino giovani, c' è sempre qualcuno che vende hashish e marijuana". Nelle piazze, tanto per cominciare, nei giardini pubblici, vicino alle scuole, nei bar. Anche nelle discoteche. Ma lì il mercato delle droghe "leggere" è marginale, superato ormai da quello delle droghe sintetiche. Quali tipi si trovano in Italia? E quanto costano? Il tipo più comune di hashish è il cosiddetto "marocchino". Arriva, appunto, dal Marocco in tre qualità: il "primero", di colore marrone chiaro; il "cioccolato", più scadente, tagliato con sostanze di tutti i tipi (compreso l' olio per macchine); e lo "00", di colore ocra. In piazza, costa dalle 12 alle 15 mila lire al grammo. In pratica 5 o 6 mila lire a "spinello".C' è poi l' "afghano", prodotto in Afghanistan, scuro di colore, con un prezzo variabile dalle 15 alle 20 mila lire al grammo. E il "libanese", venduto nel Sud d' Italia in due qualità: "rosso" e "golden", con prezzi che vanno dalle 12 alle 15 mila. La marijuana più pregiata è invece la "sansimiglia", quella senza semi. In Italia si trova facilmente la "calabresella", verde-arancione, prodotta in Calabria e venduta tra le 10 e le 15 mila lire al grammo (anche qui, per uno spinello ne occorre circa mezzo grammo). E adesso anche l' "albanese", un nuovo tipo coltivato oltre l' Adriatico. Costa un po' di più: dalle 15 mila alle 20 mila al grammo. L' elenco potrebbe continuare. Basta dare un occhio a Internet, dove esiste un sito specifico con il "borsino" delle droghe "leggere" che arrivano in Europa dall' Asia, dal Sud America, dal Medio Oriente. Quali effetti danno? Di due tipi: stordente o euforizzante. In linea di massima, peggiore è la qualità, maggiore è il rischio di addormentarsi, sentirsi la testa pesante e le membra molto rilassate. Quando si fuma erba o hashish di buona qualità, al contrario, si ha uno stato di euforia, collegato a scoppi di risa, un senso di dilatazione del tempo, appetito e spesso eccitazione sessuale. "I legami associativi", spiega Enrico Malizia, tossicologo dell' università la Sapienza di Roma nel volume Le droghe (Newton Compton, 1996), "sono più veloci ma più labili, i pensieri si susseguono senza evidente nesso logico". Le percezioni sensoriali vengono enfatizzate. L' effetto comincia dopo cinque o dieci minuti, culmina dopo venti e si protrae per un paio di ore. Non sempre fumare produce uno stato di benessere. Molto spesso rivela e accentua le emozioni. Le "droghe dal riso facile", come sono battezzati i derivati della canapa, possono scatenare anche stati di paranoia. Ma le droghe "leggere" fanno male? Proibizionisti e antiproibizionisti su questo sono in totale disaccordo. Un tossicologo come Malizia attribuisce all' abuso di canapa indiana (dai 15 ai 40 spinelli al giorno), laringiti, bronchiti, insonnia, anoressia, dimagrimento, anemia, fino a veri e propri stati psicotici. Gli psichiatri Roberto Bertolli e Furio Ravera, fondatori del Crest (Centro per il recupero sociale dei tossicodipendenti), nel libro-intervista Un buco nell' anima, realizzato con il giornalista Guido Vergani, parlano di disturbi "dispercettivi", fenomeni di alterazione delle percezioni sensoriali, che possono portare "a obiettivi cambiamenti comportamentali, come il deterioramento delle capacità motorie, una diminuzione dell' attenzione e della memoria, una ridotta forza fisica". Gli antiproibizionisti obiettano: attenti, qui si sta parlando di abuso. "Se qualcuno si fa trenta canne al giorno", sostiene Giancarlo Arnao, medico, 70 anni, da venti impegnato nella ricerca sulla droga, autore di numerosi saggi, tutti in chiave antiproibizionista,"è chiaro che ne subisce le conseguenze. Ma questo vale per tutte le sostanze. Anzi, in proporzione i derivati dalla canapa indiana sono molto meno nocivi di tabacco e di alcol". Sono il primo passo verso l' eroina? Uno degli argomenti forti dei proibizionisti è proprio questo: si comincia con lo spinello e si finisce con l' eroina. Se è vero quello che dice Andrea Muccioli, "il 98 per cento degli eroinomani ha cominciato fumando", non è vero il contrario. Cioè che tutti i "fumatori" arrivino al buco. Arnao si appella alla statistica: "I dati epidemiologici dimostrano che a ogni aumento dei consumatori di cannabis non corrisponde alcun aumento di consumatori di eroina". Il rischio è "ambientale": chi fuma lo spinello finisce per frequentare i giri dove si fa uso e si spaccia droga pensante. Danno dipendenza fisica? La tesi non ha molti sostenitori, perfino tra i proibizionisti più accaniti. "Il rischio è modesto", dice il professor Bruno Silvestrini, docente di farmacologia all' Università La Sapienza di Roma. "Se per droghe pesanti si intendono quelle che danno dipendenza, allora l' alcool è una di queste, ha una forza tremenda. I derivati della cannabis invece hanno una forza di "persuasione" molto più blanda". Una dipendenza psicologica, più che fisica. Circolano nella scuola? Secondo un sondaggio condotto dall' Unione degli studenti fra 11 mila 870 giovani delle scuole superiori di 11 città italiane, risulta che il 77,6 per cento degli intervistati ha fumato almeno una "canna", e il 64,3 è favorevole a legalizzare le droghe "leggere". Lo spinello a scuola è dunque una consuetudine? Al liceo classico Mamiani di Roma, lo scorso febbraio un gruppo di genitori spedì una lettera ai giornali, denunciando spaccio e consumo nei corridoi della scuola. Gli studenti risposero con un poster beffardo. Chi aveva ragione? "I ragazzi", dice la professoressa Di Rocco, vicepreside dell' istituto romano. "Certo, il "fumo" è illegale, ma loro vivono lo spinello come una cosa normale. Il Mamiani non è il Bronx, è uguale a qualunque altra scuola italiana. Qualcuno fumerà pure durante la ricreazione, ma come si fa a sorvegliare tutti?". Lo spinello a scuola assume un significato ben preciso. "E' illegale, quindi diventa un gesto trasgressivo, ancora più qualificante agli occhi dei compagni". Che cosa devono fare i genitori se scoprono che il proprio figlio "fuma"? Ci si accapiglia sui dati medici, un po' meno sull' atteggiamento da tenere una volta scoperto che il figlio si fa le "canne". Sarà banale, ma la ricetta è questa: parlarne. Claudio Sorrentino, presidente di "Droga che fare", la prima struttura europea di aiuto telefonico (vedi il riquadrato a destra), fornisce indirizzi, consiglia le strutture alle quali è meglio rivolgersi. Alla sua associazione arrivano un centinaio di telefonate al giorno. A tutti i genitori snocciola il suo decalogo: "Osservare il comportamento del ragazzo. Se è normale, si tratta di spinelli isolati: basta parlargli, capire se lo ha fatto così per provare e poi dissuaderlo. Quando si chiude spesso in stanza, non ha reazioni di nessun tipo, allora c' è da preoccuparsi: è probabile che ci sia abuso". In questo caso serve un supporto psicologico più consistente: "Bisogna capire la sua personalità: se è debole, se nel suo gruppo è un gregario, se ha voglia di evasione, che cosa non lo soddisfa. Conviene fargli domande sulla gente che frequenta, se il consumo avviene tra amici o in compagnie nuove. E non escluderei una perquisizione discreta in camera sua". Manconi, antiproibizionista, dà un unico consiglio: "Metterei in guardia mio figlio dai rischi dall' abuso". Come rispondere alla domanda: "Mamma, papà, ma voi avete mai fumato uno spinello"? Lo psichiatra Paolo Crepet non ha dubbi: "Direi la verità". E "direi la verità", risponde anche Sorrentino, un discreto passato da spinellatore, oggi nelle file dei proibizionisti. "Spiegherei però ai miei figli che ai miei tempi lo spinello aveva un significato diverso. Era un gesto rituale tra amici, una protesta nei confronti di una società che percepivamo come dura e coercitiva. Oggi i tempi sono cambiati: il significato trasgressivo dello spinello, che poi è una delle molle che spingono a provarlo, non esiste più". Una delle critiche più feroci alla proposta di D' Alema è venuta da Gerardo Bianco, segretario dei popolari: "Ci atteniamo all' atteggiamento del parlamento europeo, dove i paesi che hanno imboccato la strada della legalizzazione hanno dovuto fare marcia indietro". In effetti oggi in Europa impera la severità. Il paese peggiore per farsi gli spinelli è l' Inghilterra, dove il possesso di droga sia leggera sia pesante, è punibile dai 2 ai 7 anni di detenzione. Il consumo era punito teoricamente anche in Germania, anche se nel 1994 la Corte costituzionale tedesca ha depenalizzato l' uso personale delle droghe "leggere". In alcune città (Amburgo, Berlino, Francoforte) si trovano addirittura coffee shop dove è possibile acquistare hashish e marijuana: teoricamente illegali, di fatto tollerati. Pugno duro in Francia, dove il possesso di droga leggera o pesante per uso personale è assimilato allo spaccio. Ancora più rigida la legislazione svedese: nel 1993 il governo di Stoccolma ha varato una legge antistupefacenti che proibisce tutto: sia l' uso personale sia la modica quantità. Qui è addirittura prevista la disintossicazione coatta anche per chi abusa di droghe "leggere". L' unica eccezione rimane l' Olanda. Nel 1975 il governo dell' Aja scelse la "legalizzazione delle droghe "leggere" attraverso la tolleranza". Nacquero i coffee shop e Amsterdam divenne la capitale mondiale del "turismo da spinello". Fino al gennaio scorso era possibile comprare anche 30 grammi di erba o di hashish. Adesso, però, cominciano a farsi sentire le pressioni degli altri paesi europei che accusano il governo olandese di ostacolare la lotta al crimine. L' Olanda risponde che se ha il più alto numero di consumatori di cannabis (4 mila ogni 100 mila abitanti, in Italia invece sono 1.800), è anche vero che è uno dei paesi europei con il minor numero di tossicodipendenti da eroina e di morti per droga. Testata Epoca Data pubbl. 29/11/96 Numero 48 Pagina 84 Titolo COSI' UN "GIOVANE GENTILE" E' DIVENTATO UN "SERIAL KILLER" Autore Maria Grazia Cutuli Sezione STORIE Occhiello CRONACA IL 6 OTTOBRE 1997 INIZIERA' IL PROCESSO CONTRO STEVANIN Sommario Venne catturato per caso. E nei suoi campi furono trovati tre cadaveri. Didascalia Gianfranco Stevanin, 35 anni, durante un sopralluogo nei terreni dove sono state sepolte le vittime. Testo Sette inchieste aperte. Sette omicidi sul filo di macabri rituali di sesso, violenza e morte. Mercoledì 20 novembre, Gianfranco Stevanin, 35 anni, agricoltore di Terrazzo, 50 chilometri da Verona, è stato rinviato a giudizio per l' assassinio di due donne (il processo inizierà il 6 ottobre 1997): Claudia Pulejo, 29 anni, una tossicodipendente di Legnago, e Biljana Pavlovic, cameriera serba di 25 anni. Ma i sospetti che pesano sul "serial killer" della Bassa Veronese portano ad altre cinque vittime. Cinque ragazze, una identificata, quattro sconosciute, uccise durante giochi sado-maso. Della prima si è trovato solo il tronco, senza arti e senza testa, abbandonato in un canale a meno di un chilometro da casa di Stevanin. Di un' altra c' è la foto scattata dall' agricoltore di Terrazzo, che la riprende con sembianze di morta alla fine di un rapporto sessuale. La terza potrebbe essere una prostituta austriaca, Roswita Adlassing, scomparsa nel maggio 1993, anche lei fotografata in casa Stevanin. Della quarta e della quinta, una studentessa e una slava, ha parlato lo stesso killer durante un interrogatorio con il pubblico ministero di Verona, Maria Grazia Omboni. Ma la catena potrebbe allungarsi. Nella zona dove viveva Stevanin, negli anni scorsi sono scomparse diverse prostitute straniere. La stessa sorella di Claudia Pulejo, Cristina, morta in uno strano incidente stradale, era stata fotografata in pose porno dall' agricoltore. E, per concludere, c' è anche un tentativo di omicidio su commissione: il presunto assassino avrebbe assoldato un killer per far fuori Alessandra Vaccari, una giornalista dell' Arena che ha seguito il suo caso sin dall' inizio. Ma chi è Gianfranco Stevanin? Un folle erotomane, malato di sesso e di violenza? Un lucidissimo "serial killer" che, secondo i periti, si sarebbe addirittura ispirato al "best seller" americano, Facile da uccidere, scritto dall' ex poliziotto John Katzembach? Come il protagonista del romanzo, Stevanin fotografava le sue vittime. In casa sua sono stati ritrovati archivi con centinaia di foto porno; schede su schede di donne incontrate o sconosciute; bende, corde, legacci, strumenti di tortura. Chi lo conosce lo descrive come un giovane gentile, di media cultura, ben educato. I suoi avvocati hanno parlato di doppia, tripla, quadrupla personalità, un soggetto affetto da malattia mentale, dopo un trauma cranico riportato da ragazzo in un incidente stradale. Le perizie mediche, però, lo escludono. Un' inchiesta ingarbugliata, scattata per caso il 16 novembre 1994, quando i poliziotti di una volante della questura di Vicenza, al casello dell' autostrada, vedono scendere da una Lancia Dedra una prostituta austriaca, Gabriella Musger. La donna grida disperata, indicando l' uomo al volante: "E' armato. Ha una pistola". Qualche ora dopo racconterà di essere stata violentata dal cliente, Gianfranco Stevanin, di essersi dovuta prestare per foto porno e di essere stata vittima di un tentativo di estorsione. Scattano le prime perquisizioni a casa dell' agricoltore: tra le tante foto ritrovate, anche quelle di due ragazze scomparse, Claudia e Biljana. Il 3 luglio 1995 a due passi dal rustico di Stevanin viene fuori il tronco senza testa né arti. Il 12 novembre il cadavere saponificato di Biljana. E infine il terzo corpo, quello di Claudia, imbozzolato nel Domopak. In un momento di "lucidità", Stevanin "ricorda" di aver fatto a pezzi almeno 4 donne. Testata Epoca Data pubbl. 22/11/96 Numero 47 Pagina 92 Titolo QUESTO PONTE ME LO SON FATTO (E PAGATO) DA SOLO Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario L' aveva portato via l' alluvione. Francesco Rocca, sindaco di Bastia, provincia di Cuneo, ha pazientato due anni. Poi ha ipotecato la casa, 50 milioni, s' è rimboccato le maniche e in sette giorni il lavoro era finito. Tutto bene? Macché, perché il magistrato... E' alla sua seconda impresa del genere. Tanto che la lista con cui è stato eletto si chiama Ponte Bailey Didascalia Francesco Rocca, 43 anni, sindaco di Bastia, con i concittadini che l' hanno aiutato. Alla fine, l' Anas ha accettato di prendere in gestione il ponte. Nell' altra pagina: volontari al lavoro. Testo "D' aquila penne, unghie di leonessa", cita Francesco Rocca, sindaco di Bastia Mondovì, provincia di Cuneo, all' ennesimo cronista che al cellulare gli domanda il perché di quel cappello d' alpino calcato in testa giorno e notte. "Il motto dell' Ottavo battaglione", aggiunge grattandosi la barba incolta sul viso da montanaro. Il cappello come memoria e come stendardo: "E' quello che mi dà forza e coraggio. In battaglia non lo tolgo mai". Grido di guerra. Contro lo Stato, la burocrazia, contro quelli che promettono e non mantengono. In termini concreti: Francesco Rocca, 43 anni, sindaco di un borghetto di 606 anime arroccato tra le montagne del Cuneese, stanco di aspettare, ha deciso di costruire da solo un ponte, uno di quelli distrutti dalla piena del Tanaro del 4 e 5 novembre 1994. L' ha fatto, in meno di una settimana, ipotecandosi la casa per cinquanta milioni. Ha continuato a lavorare, con l' aiuto di una ventina di volontari, anche dopo il sequestro ordinato dall' autorità giudiziaria. "Non per calcolo politico", dice. Niente a che fare con la Lega o con le manie secessioniste che allignano dalle sue parti. "Solo per offrire un servizio alla gente". Battaglia coronata da vittoria: domenica 10 novembre, l' Anas ha finalmente accettato di prendere in gestione il guado edificato dai "ribelli" e di renderlo transitabile. Adesso, nella vallata dove il Tanaro si sfilaccia in un mosaico di acqua e di terra, il sindaco festeggia il suo trionfo. A pane e salame, "perché a stomaco pieno si ragiona meglio", e un abbondante bicchiere di vino locale. Brinda e racconta. "Cominciamo dall' alluvione. Avete presente che cosa era questa valle nel 1994? I ponti tappati, i fiumi pieni di alberi, di massi, di detriti. A guardarla dall' alto sembrava una giungla". A Bastia, dice, il 26 per cento del territorio comunale era sommerso dall' acqua. C' era stato un morto e un fuggi fuggi generale. Le case danneggiate, i terreni distrutti, ma le strade, soprattutto, sparite sotto la furia della pioggia. "Dopo l' alluvione, il Comune ha ottenuto 4 miliardi per restaurare il municipio, gli impianti di depurazione, la rete elettrica. Tutto fatto". Ma rimanevano i due ponti crollati che isolavano e bloccavano la strada a fondovalle del Tanaro. La loro ricostruzione spettava all' Anas, che in due anni, invece, non ha fatto nulla. La battaglia dell' ex alpino, sindaco "incolore" di Bastia dal 1990 (come bandiera politica, una lista civica), comincia con una tirata su di maniche e un' irrefrenabile voglia di darsi da fare. Perché lui, diploma di perito tecnico, azienda agricola ereditata dal padre con un centinaio di dipendenti, è uno abituato a lavorare anche di notte. "Nei miei campi ho fatto la semina arando dall' una alle sei del mattino", aggiunge. Quando c' è da sgobbare, si sgobba e basta. In pubblico come in privato. "In comuni così piccoli, il sindaco è uno che ci rimette sempre di tasca propria". Tanto è vero che nel 1995 non voleva saperne di ricandidarsi. "Sono stato costretto, solo perché non si è presentato nessuno e bisognava occuparsi della ricostruzione". Quell' anno Francesco Rocca era stato eletto consigliere alla provincia con il Ppi, ma a Bastia il suo vessillo è una lista civica, "Ponte Bailey". Battezzata così in memoria della sua prima "battaglia": una notte del dicembre 1994, ore e ore sotto la neve, che sortirono come effetto la costruzione di una passatoia di legno e ferro, il "Bailey" appunto, su uno dei due ponti crollati. "Nel 1996, ci aspettavamo che l' Anas trovasse una soluzione anche per l' altro ponte e per la gente delle frazioni che era rimasta tagliata fuori dalle strade principali". E invece niente. Il progetto, approvato il 2 aprile, un miliardo e 400 milioni, era stato dato in appalto alla Conicos, un' azienda di Mondovì. "Poi però è intervenuto il magistrato del Po: ha chiesto modifiche e alla fine era tutto stravolto. La spesa è salita a 2 miliardi, si è ribassata a un miliardo e 600 milioni. Ma il ponte è restato sulla carta". Gli abitanti delle frazioni continuavano a lamentarsi. Chilometri forzati per spostarsi da casa, per scavalcare le piste di fango lasciate dall' alluvione, aggirare i cartelli di divieto di transito che ancora oggi costellano la zona. A ottobre, di nuovo le piogge e il Tanaro che ha ripreso a rumoreggiare, selvaggio e minaccioso, tra le sponde scollegate. E' a questo punto che Francesco Rocca tira fuori il cappello d' alpino, se lo mette in testa e decide di far da sé. "Contatto segretamente alcune ditte che mi avevano già offerto mezzi e materiali. Mi metto d' accordo con i loro operai. Calcolo che per costruire il ponte bastano una cinquantina di milioni". Il direttore del Banco di Credito cooperativo di Carrù e del Monregalese, unico sportello di Bastia Mondovì, allarga le braccia: "Caro Francesco, siamo a fine anno e grano non ce n' è". Il sindaco ne inventa un' altra: "Metto a garanzia casa mia. Frutto di vent' anni di lavoro miei e di mia moglie. Vale molto di più di 50 milioni". La moglie, Caterina, firma senza battere ciglio. Il primo novembre, parte la macchina "bellica". Due ore di preparativi. Alle otto di sera, montagne di materiali sulla piazza principale di Bastia. La colonna si avvia verso le piste sterrate che costeggiano il fiume. Il paese festeggia la rivolta delle sue truppe e del suo sindaco. Chi porta il vino, chi provvede al salame, chi prepara le frittate. La rivolta diventa una sagra, all' ombra della bandiera italiana, issata sulla tenda blu, dove il sindaco ha intenzione di passare la notte. Una cassetta di cartone raccoglie le offerte votive: "Costo max dell' opera 50 milioni", recita la scritta. "Primo: acquisto materiale. Secondo: nafta per mezzi. Terzo: vitto personale volontario". Arrivano i politici, incravattati e impettiti. Alla spicciolata, tre o quattro deputati e un senatore della Lega, più un consigliere regionale del Ppi. Agli uomini di Bossi non sembra vero. Dispiegano la bandiera autonomista. Tentano di issarla accanto al detestato tricolore. Ma il sindaco-alpino si inalbera: "Gliel' ho fatta togliere, eccome. Questa non è una battaglia politica, ma un intervento per scopi sociali". Notti in tenda. Ma ecco la controffensiva delle istituzioni. Sul più bello, martedì sera, quando il ponte è già a buon punto, si presentano i carabinieri. "Ci dispiace, ma..." C' è un ordine di sequestro della procura di Mondovì, che dichiara il ponte "abusivo" e "pericoloso". "Il magistrato si chiama Acquarone", spiega Stefano Avagnina, giovane ingegnere "volontario" che insieme a due tecnici, ha curato il progetto del ponte. "Dicono che sia l' ultimo arrivato in Procura e che abbiano voluto rifilare a lui la patata bollente. Quel che è certo è che i carabinieri rischiavano di finire in acqua e se la sono filata". I tecnici dell' Anas, invece, non si sono nemmeno avvicinati. Si sono appostati in alto, lungo il crinale, a controllare con i cannocchiali. E il sindaco? Come non fosse successo niente. Continua a dormire all' addiaccio, dentro la tenda, un paio di notti con un consigliere comunale, un' altra con il cognato. Va avanti per tutta una settimana con ruspe e scavatrici. "A tempo di record, baypassando non d' ufficio, ma d' efficienza tutte le pratiche burocratiche". Tenace e testardo. Alla fine vince: l' Anas costretta a comunicare che prenderà in gestione il guado "abusivo", la Regione costretta a impegnarsi a risanare i debiti del primo cittadino. E anche il direttore del Banco di Credito cooperativo di Carrù e del Monregalese, fa la sua: "Toglie l' ipoteca", annuncia il sindaco. "La casa è salva". Un brindisi, anche con la moglie Caterina e le due bambine. Testata Epoca Data pubbl. 01/11/96 Numero 44 Pagina 88 Titolo SALITE CON NOI SULLA NAVE PIU' GRANDE DEL MONDO Autore FOTO DI GIORGIO LOTTI TESTO DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello REPORTAGE Sommario E' più alta della statua della Libertà. Più lunga di tre campi da pallone. Pesa il doppio della torre Eiffel. "Epoca" l' ha visitata (e fotografata) in anteprima. Benvenuti sulla Carnival Destiny. Dove tutto è esagerato. Didascalia 3.400 PASSEGGERI In alto: la Carnival Destiny ormeggiata a Venezia; è destinata alle crociere nei Caraibi. A lato, a sinistra: il ponte con piscine, toboga e solarium; a fianco: il salone con la palestra e le vasche per idromassaggio, a disposizione dei 3.400 passeggeri. COSTRUITA IN 20 MESI Il salone con la hall per il ricevimento degli ospiti, sul quale si affacciano i negozi. Da qui partono quattro ascensori a vista che arrivano fino al decimo piano. La Carnival Destiny è stata costruita dalla Fincantieri in 20 mesi di lavoro. E' COSTATA 600 MILIARDI In alto, a sinistra: uno dei tre ristoranti della nave; a destra: i componenti dell' orchestra americana Palladium al bar Down Beat. Sotto, a sinistra: il teatro Palladium, con 1.600 posti a sedere; a destra: Ted Arison, fondatore della Carnival, la più grande compagnia armatrice del mondo specializzata in crociere (ora è presieduta dal figlio Micky). La Carnival Destiny è costata 600 miliardi. SOLO ITALIANI FRA GLI UFFICIALI In alto: Giovanni Vaccaro, pittore allievo di Annigoni, ritrae la Carnival Destiny ormeggiata a Venezia. Sopra: il comandante Giovanni Gallo, 44 anni, in plancia. Gli ufficiali e i sottufficiali che guidano i mille uomini dell' equipaggio sono tutti italiani. 70 MILA LUCI ECCO TUTTI I NUMERI DELLA NAVE RECORD 1 discoteca 2 teatri 3 ristoranti 4 piscine 7 vasche da idromassaggio 16 ponti 20 mesi necessari per costruirla 22,5 nodi di velocità di crociera. 23 metri di altezza del solo fumaiolo 27 ascensori 67 megavatt di potenza dell' apparato motore, sufficienti ad alimentare una città di 60 mila abitanti 70 metri di altezza totale 200 tonnellate di vernice utilizzata 272 metri di lunghezza 323 slot machine nella sala da gioco 500 aziende fornitrici 1.000 uomini d' equipaggio. 1.321 cabine passeggeri 1.600 posti a sedere nel teatro principale 2.000 televisori 2.670 posti nei tre ristoranti 3.000 chilometri di cavi utilizzati 3.400 passeggeri trasportabili 7.800 metri quadrati delle superfici da lavoro in acciaio inox delle cucine 8.000 chili di cibo cucinati ogni giorno 11.000 metri di legno di teak 12.000 metri di luci al neon 12.500 lenzuola lavate ogni settimana 20.000 le tonnellate di acciaio impiegate, oltre due volte il peso della torre Eiffel 20.500 tovaglie e tovaglioli lavati ogni settimana 23.000 metri quadrati complessivi delle cabine passeggeri 30.000 metri quadrati delle sale pubbliche, pari alla superficie di quattro campi di calcio 60.000 asciugamani da lavare ogni settimana 70.000 punti luce 100.000 tonnellate di stazza lorda. Testo "Non ci basta che la gente dica "Very nice", molto bello. Vogliamo che resti a bocca spalancata, che urli "My God! ", Mio Dio, quando vedrà tutto questo". Preston Bircher, 34 anni, direttore tecnico per gli spettacoli da crociera, di navi ne ha viste in vita sua. Tante. Ma di una cosa è certo. Quella sulla quale lavora adesso, la Carnival Destiny, la più grande nave passeggeri che mai abbia solcato i mari, "non ha precedenti". Una nave pensata all' insegna dell' esagerazione, dei grandi numeri, dei grandi spazi. Una megalopoli galleggiante più alta della statua della Libertà, più lunga di tre campi di calcio messi in fila, oltre due volte più pesante per quantità di acciaio della torre Eiffel, capace di ospitare a bordo 3.400 passeggeri, più mille uomini d' equipaggio. Un colosso del divertimento, dove tutto si traduce in cifre: 100 mila tonnellate di stazza, 70 mila punti luce, 60 mila asciugamani ogni settimana, 8 mila chili di cibo al giorno. Una nave da record. E non solo per il suo armatore americano, Micky Arison, presidente della Carnival Corporation, il primo gruppo mondiale nel settore delle crociere, fondato da suo padre Ted. Ma anche per la società italiana che l' ha sfornata: la Fincantieri (di Monfalcone, presso Trieste) a sua volta leader mondiale della cantieristica, che l' ha costruita e consegnata in 20 mesi esatti. La Carnival Destiny, costata 600 miliardi di lire, è stata inaugurata nelle acque dell' Adriatico, mercoledì 23 ottobre, con una partenza per Venezia e da lì per Malaga e l' Atlantico: Boston, New York, Miami, da dove il 24 novembre salperà per le sue crociere caraibiche. Grandi orizzonti a basso prezzo. Un sogno americano che la Carnival Cruise Line di Miami, società della Carnival Corporation, vende a 1.200 dollari la settimana (circa 1 milione e 800 mila lire) per chi parte dagli Stati Uniti; 2.500 dollari (3 milioni e 800 mila lire) per chi vola dall' Europa. Ma che cosa farà gridare "My God!" ai passeggeri della Destiny? Provate a prendere uno dei quattro ascensori a vetri che salgono, sospesi nel vuoto, fino al decimo piano. L' atrio che vi si spalanca davanti è un delirio di luci, di neon, di laser, un mosaico impazzito di marmi, di ottoni, di ceramiche, di fòrmiche, di legni, di plastiche. Una cattedrale patinata e sfavillante, che fa persino dimenticare di essere in mare. Prima fermata, al terzo piano: qui c' è il banco informazioni, c' è il bar, con i divanetti di pelle avorio. E c' è il Palladium, il teatro di varietà, dove Preston Bircher promette meraviglie da far dimenticare i fasti demodé del Moulin Rouge di Parigi. E non tanto per l' ondeggiare di piume di struzzo rosa shocking, il volteggiare di rasi gialli, azzurri, verdi dei 16 ballerini sul paloscenico. Quanto per il gioco di video, specchi, laser, che amplificherà ogni effetto, coordinato e rilanciato da 11 differenti sistemi di computer. Al terzo piano c' è anche il Galaxi, uno dei tre ristoranti della Carnival Destiny. Ha "solo" 700 posti, contro i mille delle altre due sale, ma è un osservatorio per capire di cosa si nutriranno gli ospiti. Il direttore, Ken Byrne, un irlandese di 38 anni dal sorriso smagliante, gli occhi azzurri e gli avanbracci coperti di tatuaggi, illustra i sette tipi di menù offerti in crociera: "Menù internazionale il primo giorno, italiano il secondo, centro americano il terzo...", fino al gran galà con il comandante, previsto per l' ultima sera. "La carne arriva dal Kansas, il pesce dalla Florida. I piatti italiani... Beh, per la verità, anche quelli vengono dagli Stati Uniti". A salvare la multi-etnicità della cucina, ci sono i tre chef: austriaco, indiano, britannico. "Non c' è rischio che qualcuno resti senza mangiare", spiega il direttore. "Le prenotazioni sono regolate tutte via computer. Ogni ospite possiede un tesserino che gli garantisce il posto anche se dovesse arrivare in ritardo". Altri tesserini assicurano l' entrata in cabina, l' acquisto nei negozi, le fiches al casinò, la girandola di servizi, alcuni inclusi, altri extra, previsti in crociera. Un giro ai piani superiori, shopping center, sale riunioni, sale massaggi, palestre, e soprattutto la ginkana nel labirinto di piscine, vasche, idromassaggi all' aria aperta, rivela altre possibilità. Il casinò, aperto 24 ore su 24, vanta 323 slot machine. Non manca la discoteca, circondata da una muraglia di video, 400 posti da karaoke, ancora bar aperti notte e giorno. Il tutto, in un caleidoscopio di decori, piastrelle gialle e azzurre, vetri verdi, fòrmiche grigie, legni viola, bassorilievi di gesso e mosaici veneziani, pensati da un solo uomo, l' architetto Joe Farkus. Lo incontriamo ai piedi dello scalone, ogni gradino decorato da lucette, che corre attorno all' atrio. "La gente deve trovar qui tutto quello che c' è in città", dice. "Una città ideale dove possono convivere razze, ceti, culture diverse". Il 90 per cento della clientela della Carnival Destiny verrà dagli Stati Uniti. Ma la compagnia non esclude europei e asiatici: "Abbiamo stipulato accordi con Alpitour", dice Maurice Zormati, vicepresidente delle vendite, "e comprato una quota dell' Air-Tour di Londra per assicurare charter dall' Inghilterra". E poi, la Destiny è di per sé una Babele di razze: manodopera e impiegati di 50 nazionalità. A prevalenza hispanica, tanto è vero che oltre all' inglese è tutto un echeggiare di "Hola!", "Como estas?", "Manana" e via dicendo. E poi ci sono gli italiani. Il management statunitense ha infatti voluto a bordo solo ex ufficiali e sottufficiali della nostra Marina. Come il comandante, Giovanni Gallo, 44 anni di Forio, comune di Ischia, dipendente della società americana dal 1976. In vent' anni Gallo ha visto nascere sette navi. Imbarcazioni che trasportavano all' inizio poche centinaia di passeggeri. Poi sempre più grandi: mille, 2 mila, fino ad arrivare a quota 3.400. "Certo, i problemi aumentano", dice. "Tocca sempre al comandante occuparsi di tutto: presiedere i gala, le cerimonie, ma spesso anche risolvere gli affari di cuore dei suoi ospiti. In compenso, abbiamo strumentazioni tali da poter tenere sotto controllo tutto". Tremila e 400 persone non sono uno scherzo. Che cosa succederebbe in caso di incendio o di evacuazione? Spiega Giuseppe Oddone, primo ufficiale di coperta: "Questa è la prima nave nella quale i punti di riunione dei passeggeri si trovano sullo stesso piano delle lance di salvataggio. In quanto agli incendi, non c' è imbarcazione al mondo che abbia tanti rilevatori automatici di fumo, tanti sistemi computerizzati capaci di isolare gli ambienti e circoscrivere le fiamme". Per chi volesse saperne di più, basta scendere in cabina: un canale tivù spiega come comportarsi in caso di allarme. E comunque c' è l' altoparlante che arriva fino là. Peccato che gracchi sempre, mattina e sera, anche per il più banale degli annunci. Testata Epoca Data pubbl. 18/10/96 Numero 42 Pagina 96 Titolo COSI' L' ANORESSIA HA UCCISO MIA FIGLIA Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Era una bambina felice. Poi ha lasciato il paese dov' è nata. Ed è cambiata: si vedeva grassa, ha smesso di fare torte e ha imparato un trucco. Mortale. Didascalia L' ultima a destra nella foto è Isabella Barbini, 18 anni, di Verbania, sul lago Maggiore. E' morta di anoressia martedì 1 ottobre. In alto: Isabella a Riccione. Nell' altra pagina: con la sorella Daniela (a sinistra), 17 anni. Testo Forse la chiave sta in quello che dice Daniela, la sorella: "Isabella non voleva crescere. Si rifiutava di diventare adulta". Forse in quello che sussurra la madre: "Isa aveva qualcosa dentro di sé, un nodo di angoscia, che nemmeno lei riusciva a decifrare". O forse la spiegazione di quella malattia, l' anoressia che martedì 1 ottobre ha stroncato Isabella Barbini, era un' inconsapevole attrazione verso la morte? C' è una poesia che Isabella, diciottenne bella e inquieta di Verbania, aveva scritto qualche tempo fa, sul retro di una foto dei Nirvana. Pochi versi che potrebbero non significare niente, solo l' esercizio letterario di una studentessa, e invece lasciano di stucco a pensare a quello che è successo: "La vita (...) estasiante nell' istante della fine, quanto ti abbandona come il sole di quel rosso caldo che pare fondersi e diventare tutt' uno con il buio profondo del mare". Isabella, cresciuta nel benessere, estroversa, vitale, scriveva così, come se sperasse che quel mangiare e vomitare, l' ingozzarsi di cibo e poi rigurgitare che da anni scandiva le sue giornate, l' avrebbe velocemente portata verso l' "estasi" della morte. Verso la fine dei tormenti che segnavano le sue giornate: "Si era chiusa in casa. Non voleva più vedere nessuno", dice la madre. Verso la scomparsa delle paure che agitavano le sue notti: "Soffriva di incubi. Si svegliava all' improvviso, sudata e terrorizzata". Verso la vittoria sul tempo che appesantiva il suo corpo con forme da donna: "Odiava il suo seno, voleva cancellare ogni segno di femminilità". L' anoressia è una di quelle malattie (vedi box qui sotto) di fronte alle quale la medicina si arena. Un viluppo che parte dall' inconscio, avvinghia la volontà e strozza lo stomaco. Una sindrome che colpisce soprattutto le donne, in questi anni con il mito della magrezza. Ma nel caso di Isabella Barbini, scomparsa proprio nei giorni in cui a Milano diafane e celebrate modelle calcavano le passerelle delle sfilate, che cosa è successo? Quando è cominciato quel gioco di rifiuti e privazioni che l' ha fatta crollare nelle braccia della sorella, per un arresto cardiaco? I medici hanno detto che la causa del decesso è stata una carenza di potassio. I giornali hanno scritto che Isabella aveva smesso di mangiare perché voleva fare la modella. Questo non è vero: "Era stato solo un capriccio", dice Daniela, la sorella, 17 anni. "Aveva frequentato un corso ad Arezzo. Ma era finita con un book fotografico, niente di più". No, l' odio per il cibo non nasceva da questo. La malattia era cominciata due anni dopo il trasferimento a Verbania, quando il padre, geometra, e la madre, insegnante di scuola elementare, avevano deciso di lasciare Caprezzo, un borgo di montagna, e andare a vivere in un quartiere residenziale sulle rive del lago Maggiore. E' cominciata con i 14 anni, la linea d' ombra che separa l' infanzia dall' adolescenza. "A un certo punto ha smesso di preparare torte", ricorda Daniela. "E si è messa a mangiare solo verdure bollite, cibi semplici". Diceva di essere grassa. E sembrava una follia: Isabella, alta poco meno di un metro e settanta, pesava 60 chili scarsi. Era florida. Aveva un bel seno, belle gambe, piaceva ai ragazzi. Ma non a se stessa. Digiunare non era facile. Bisognava trovare qualcos' altro. Un viaggio a Londra con la scuola, ed ecco il trucco: vomitare. "Gliel' aveva insegnato una ragazza conosciuta là. Erano alloggiate assieme da una signora che le rimpinzava di cibo", racconta Daniela. "Loro mangiavano, poi si chiudevano in bagno, si mettevano due dita in bocca e rigettavano". Isabella ha imparato e non se l' è più tolto dalla testa. Ha preso a vomitare, anche quando è tornata a casa. Lo faceva persino a scuola, al liceo Galois di Verbania dove aveva appena cominciato la quinta dello scientifico. Se lo ricordano sia il preside, Antonio Bellore, sia il professore di lettere, Giovanni Barigatti. "Andava in bagno e spariva", dice l' insegnante. "Ogni volta c' era una compagna che si alzava e le correva dietro per vedere come stava". L' anno scorso non riusciva a reggere oltre le 11 del mattino. "A quell' ora", aggiunge il preside, "arrivava la madre per portarla via. Si assentava molto, ma riusciva a mantenere la media del sette". Isabella era cambiata, anche se continuava a ripetere: "Adesso giuro, smetto". Come se la sua anoressia fosse una tossicodipendenza. Cambiava il suo corpo (era arrivata a pesare 38 chili), e cambiava la sua vita. Non ascoltava più musica rock, ma Vasco Rossi, Paolo Vallesi, e negli ultimi tempi solo classica. Aveva lasciato gli anfibi e portava scarpine da fata, sandaletti di vernice con margheritine incastonate. Si vestiva quasi sempre di nero. E mutava anche il carattere, come se odiando il cibo, avesse preso in odio anche l' esistenza. "Quest' estate era andata in vacanza a Riccione con delle amiche, poi a Fano con mia madre, ma quando l' 11 settembre è ricominciata la scuola, si è chiusa in casa a studiare e non voleva fare altro", dice Daniela. Voleva finire il liceo per potersi finalmente fermare e decidere il futuro: "Cominciava a scartare l' ipotesi dell' università. La tentava di più un lavoro da estetista". Isabella voleva buttarsi alle spalle anche il ricordo del ragazzo conosciuto quando aveva 16 anni. "Lui l' aveva lasciata", dice la madre, "e lei non si dava pace. Era come se dicesse a se stessa: a che cosa mi serve essere bella se non riesco ad avere una relazione sentimentale?". E poi era stufa della schiera di medici consultati negli ultimi anni: "Non sopportava che cercassero sempre di dar la colpa della sua anoressia ai nostri genitori", aggiunge la sorella. "Isabella aveva un buon rapporto con i miei, soprattutto con mia madre". No, la colpa non era dei genitori. Rigorosi quel tanto che bastava quando Isabella e Daniela erano piccole, con gli anni erano diventati più permissivi. Le ragazze frequentavano gli amici, andavano in discoteca, possedevano il motorino, fumacchiavano qualche sigaretta... Senza troppi segreti. Specialmente Isabella, che raccontava tutto alla mamma. "O almeno lo credevo", ricorda la signora. "Ora comincio a pensare che c' era una parte della sua vita che non conoscevo affatto". Una zona oscura, inaccessibile. Tranne forse per Marianna Puglisi, compagna di banco e di studi. Una ragazza timida, riservata. Arrivata al liceo Galois un anno fa, aveva legato solo con Isabella. "Era stata l' unica a venirmi vicina", ricorda. "Come se avesse letto dentro di me qualcosa che ci accomunava. La stessa solitudine". BOX LA CAUSA PRINCIPALE: LA PAURA DI CRESCERE IN ITALIA NE SOFFRONO TRECENTOMILA RAGAZZE L' anoressia nervosa è una malattia complessa, un disturbo che parte dalla psiche e travolge il corpo, caratterizzato dalla tendenza a ridurre progressivamente il cibo per l' ossessiva paura di ingrassare. Nel 95 per cento dei casi colpisce le donne e di essa soffrono trecentomila adolescenti italiane. Di anoressia si muore nel 10-20 per cento dei casi. Le guarigioni sono un terzo del totale, mentre un 30-40 per cento si cronicizza. Spesso la malattia si trasforma nel contrario, la bulimia: abbuffate alimentari seguite da vomito indotto. Secondo un' ipotesi accreditata, l' anoressia è segno di una difficile maturazione psicologica. Le prime conseguenze sono il progressivo calo di peso e la scomparsa delle mestruazioni : indicano il terrore di crescere e il desiderio, più o meno inconscio, di tornare all' infanzia. Le conseguenze fisiche della malattia possono essere diverse: anemia progressiva, affaticabilità, astenia, depressione , diturbi gastrointestinali, problemi dentari. E gli effetti si ripercuotono anche sulla possibilità di avere bambini, sul sesso, sulla relazione di coppia e sulla capacità, poi, di fare le mamme. Testata Epoca Data pubbl. 11/10/96 Numero 41 Pagina 8 Titolo HAPPY END A SAN PATRIGNANO Autore FOTO DI MAURO GALLIGANI TESTO DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello REPORTAGE Sommario Erano schiavi della droga. Qui sono rinati, hanno trovato l' amore e si sono sposati. Alle nozze c' era anche "Epoca". Per raccontarvi una storia (anzi 26) a lieto fine. Un viaggio di nozze per tutti: è il dono di Antonietta Muccioli Alcune coppie hanno già figli. Alcune altre non vivono più in comunità Sei anni di eroina. Ora, medico, cura i malati di Aids Per la festa, tre mesi di preparativi e 400 invitati Era da 13 anni che a San Patrignano non si celebravano matrimoni Didascalia Fabrizio Prodi, 32 anni, e Monica Barzanti, 39 anni, felici dopo la cerimonia. Per loro un viaggio di nozze a Taormina, offerto, come a tutti gli altri sposi, da Antonietta Muccioli, la vedova di Vincenzo. Tra le mete scelte, il Messico e la Tunisia. Da sinistra: Doretta Corradini si confessa prima della cerimonia; Monica Cagnoli, con la veletta, si prepara alle nozze sotto lo sguardo di Antonietta Muccioli, in piedi a sinistra; Andrea Gremoli taglia i capelli ad Antonio Schiavon. Da sinistra: la cena per l' addio al celibato di Luciano Rossi, nell' area di San Patrignano che ospita i minori; Doretta Corradini allo specchio per la prova dell' abito nuziale e, a destra, mentre apre i regali con la mamma e le colleghe della pellicceria. Da sinistra: Antonietta Muccioli (seduta) sorveglia le ultime prove e, al centro, controlla i preparativi. Alla festa hanno partecipato 400 parenti degli sposi, giunti a San Patrignano da tutta Italia. Qui sopra, Monica Barzanti rilegge le formule di rito. All' ingresso della chiesa-tenda, da sinistra: Daniele Morandotti, Bruno Perini, Massimo Tanda, Antonio Boschini, Luciano Rossi. Boschini, 38 anni, vinta la battaglia contro la tossicodipendenza si è laureato in medicina e oggi è responsabile del centro di malattie infettive della comunità. Sopra: Andrea Muccioli abbraccia Lorella Biondi. A destra: Fabrizio Prodi e Monica Barzanti accanto a Davide Isidoro e Manuela Passarini. Gli uomini, commossi, si asciugano le lacrime. Dal 1983 non si tenevano matrimoni a San Patrignano. Doretta Corradini riceve l' augurio affettuoso di una compagna di lavoro del laboratorio di pellicceria. Sopra: foto di gruppo degli sposi con (primi da sinistra) i figli di Vincenzo Muccioli, Giacomo, 29 anni, e Andrea, 32, con la moglie. A destra: la tavolata nuziale; da sinistra: Antonietta Muccioli, il vescovo di Rimini, Andrea, sua moglie e Giacomo. Sopra: i parenti gettano il riso sulle coppie. In prima fila, Antonio Boschini e la moglie Lorella Biondi. A destra: in sala mensa, Andrea Muccioli e gli sposi spruzzano champagne sugli invitati. A San Patrignano vivono 1.700 ex tossicodipendenti. Testo "Meglio le calze a rete o quelle opache?". "Il rossetto, per favore, più chiaro". "I capelli vanno bene così". Ecco le velette, una per testa. I fiori, per chi li vuole. Sigarette per tutte. Tirate nervose, accendi e spegni, sui vialetti di San Patrignano. Lulla è dentro, a seno scoperto che allatta il bebè. Marta se ne sta in piedi, la schiena contratta dalla tensione. Lorella si guarda allo specchio, pallida e statuaria, nel suo completo di Armani. Una sfilata di vestiti di seta, di tailleur da cerimonia, di timidi pizzi. Bianco, panna, avorio. "Presto, sono le 11". C' è il vescovo di Rimini che aspetta per la messa, ci sono 400 parenti lì fuori arrivati da tutta Italia, quasi 2 mila ragazzi seduti in chiesa con l' abito buono. E' domenica 29 settembre. A San Patrignano, girone dolente della tossicodipenza, sta per cominciare la prima vera grande festa celebrata all' interno della comunità. Una festa di nozze: 13 coppie davanti all' altare, 13 uomini e 13 donne che si lasciano alle spalle i loro destini spezzati dall' eroina, per ricominciare una nuova vita. Famiglia, lavoro, bambini. Qualcuno dentro, qualcuno fuori dalla comunità. Festa grande anche perché sono i primi matrimoni che si celebrano dal 1983, "quando erano state consacrate 16 coppie", ricordano gli organizzatori. Matrimoni annunciati da Vincenzo Muccioli l' anno scorso, prima della sua morte. Annunciati e attesi. Negli ultimi anni, a San Patrignano non c' era stato tempo per le cerimonie. Nel 1984, era cominciato il "processo per le catene", che vedeva Muccioli sotto accusa, poi assolto, per aver imprigionato ospiti riluttanti alla disintossicazione. Nel 1994 l' altro processo, quello per l' omicidio di Roberto Maranzano. Polemiche, sospetti su tutto il vertice della comunità e una condanna a otto mesi per il suo fondatore. L' anno scorso la malattia dello stesso Muccioli. A settembre, la sua morte e il timore che San Patrignano, senza il suo fondatore, finisse di esistere. E invece, l' investitura di suo figlio Andrea, che ha raccolto l' eredità, promettendo di continuare... Ci sono voluti tre mesi per organizzare questa festa: documenti per tutti, compresi coloro che hanno pendenze giudiziarie, prova delle fedi, acquisto di abiti (chi ha potuto lo ha comprato da sé, per gli altri è intervenuta la comunità), partecipazioni e bomboniere a piacere, viaggi di nozze (in Messico, in Tunisia, a Taormina) offerti dalla signora Antonietta, vedova di Muccioli. Adesso, davanti alla chiesa-tenda, manciate di riso e lanci di bouquet. Appaiono Gian Marco Moratti e la moglie Letizia, da sempre grandi estimatori di San Patrignano. Arriva il telegramma del cardinale Sodano con gli auguri del Papa. Il lieto fine è assicurato. "E vissero felici e contenti", lo ricorda anche Antonietta. "Ma..." Ma siamo a San Patrignano. In cifre: 1.700 ex tossicodipendenti, 400 sieropositivi, 250 persone con provvedimenti giudiziari in corso, un totale di 18 secoli di carcere. Siamo in un mondo a parte, un piccolo universo artificiale dove ricostruire una parvenza di normalità è lotta dura. Dove ogni "sì" nasconde storie di dolore, degrado, follia. "Le solite storie dei tossici", le liquida chi le ha vissute, in sintesi e senza prosopopea. Le solite storie? Tra gli sposi novelli c' è Antonio Boschini, che si è riscattato da sei anni di eroina studiando medicina, e oggi cura i malati di Aids, come responsabile del centro di malattie infettive della comunità. C' è Fabrizio Prodi, che è arrivato a San Patrignano dopo anni di carcere, e oggi sposa una volontaria del centro, una ragazza che non ha mai usato droga, ma che ha trovato qui l' equilibrio fatto a pezzi dal suicidio della sorella. C' è Marta Sangiorgio, che è approdata in comunità trascinandosi dietro una bambina piccolissima e un compagno con la mente stravolta dalla morte della precedente moglie e da anni di tossicodipendenza. Gente di ogni età, di ogni ceto sociale. Coppie che si sono conosciute durante la terapia. Altre che sono entrate insieme per disintossicarsi. Molti hanno già dei figli, convivono da anni, hanno scelto di restare per sempre a San Patrignano. Qui lavorano come responsabili chi della lavanderia, chi del laboratorio di pellicce, chi del reparto restauro. Qualcun altro si è avventurato nel mondo di fuori, ma ha voluto comunque sposarsi in comunità. Molti di loro hanno trovato qui il senso della propria esistenza. Antonio Boschini, per esempio, e sua moglie Lorella Biondi. Trentotto anni lui, grandi occhi azzurri e curriculum classico: sei anni in piazza a Verona, a consumare gli ultimi strascichi del "movimento", e poi l' eroina. Trentasette anni lei, che invece non ha mai toccato una siringa. Arrivati a San Patrignano, lui nel 1980, quando gli ospiti erano non più di una quindicina, lei nel 1990, quando erano mille e passa. Ricorda Antonio: "All' inizio, era ogni giorno un tentativo di fuga. Una volta chiesi di andarmene per sempre. Passai ovviamente dai "pusher", i miei fornitori di droga. Quando arrivai a Verona, trovai Vincenzo sotto casa. Mi aveva seguito. Quella volta capii che qualcuno si stava occupando di me". Antonio decise di riprendere i libri in mano. Si laureò in medicina, cominciò a lavorare nel nuovo centro di malattie infettive che sorgeva a San Patrignano: "Nel 1982 scoppiavano tra i tossici i primi casi di cirrosi epatica. Nel 1985 arrivava l' Aids. Tre anni dopo avevamo il primo morto. La comunità diventava un osservatorio "privilegiato". Si mobilitava l' università di Milano: il gruppo del professore Nicola Dioguardi, medici come l' epatologo Massimo Colombo, l' ematologo Mannuccio Mannucci". Oggi il reparto di Antonio Boschini è uno dei centri più importanti d' Italia. Per il giovane medico, è anche il posto dove ha incontrato Lorella. Con lei divide una delle tante casette che sembrano chalet svizzeri, destinate agli operatori e ai loro parenti. Lorella, di Cesena, alta, bionda, il viso squadrato, racconta una storia diversa: "Per anni ho lavorato nell' azienda di famiglia. Vivevo nell' agio, ma...". Un tumore maligno alla tiroide nel 1979, mesi di bombardamenti con lo iodio radioattivo, i vent' anni compiuti con l' idea fissa che presto, molto presto sarebbe morta, avevano lasciato il segno. Poi era rimasta incinta del compagno di allora. I medici le avevano consigliato di abortire. Infine quell' idea: "Venire a lavorare qui. All' inizio poche ore al giorno, dopo mi sono trasferita. Non potevo stare nel mondo di fuori e nel mondo qua dentro". Antonio aveva notato la volontaria che dava una mano in corsia, ma in un primo momento si era tenuto lontano. Solo quando lei chiuse il rapporto con il precedente compagno, due anni dopo, cominciarono a passare le prime serate assieme. A San Patrignano è sempre stato Muccioli a stabilire quando due persone fossero pronte per frequentarsi: "Se hai un problema con l' eroina devi innanzitutto risolvere quello", dice Marta Sangiorgi, 32 anni, capelli neri, viso brunito, arrivata da Cagliari a San Patrignano per sposare Massimo Tanda, 40 anni. "Appoggiarti a un' altra persona diventa estremamente pericoloso". Eppure Marta stava con Massimo da anni. Si erano conosciuti a Cagliari nel 1983. Entrambi provenivano da famiglie medio borghesi. Lei infognata con l' eroina da quando aveva 15 anni. Lui, rappresentante, aveva già un figlio e una drammatica vicenda familiare alle spalle: la moglie morta in casa, fulminata da una scarica del frigorifero. "La roba creava una complicità totale tra di noi", racconta Marta. Nemmeno la nascita di Francesca li aveva convinti a smettere. "Nel 1991, quando con la testa non ci stavo più, mi sono decisa a venir qui". Ma senza Massimo, partito per il centro Le Patriarche delle Azzorre. "Avevo bisogno di stare da sola: per 18 mesi non ho avuto nessuna notizia di lui. La bambina mi aveva raggiunto dopo un anno". Lui è arrivato nel 1994, in tempo per concludere la terapia e poi tornare tutti a Cagliari, dove Massimo ha ripreso il lavoro di rappresentante. "Rivedere San Patrignano", dice lui, "è un' emozione indescrivibile" Il cordone ombelicale, si diceva? Per qualcuno rimanere in comunità è l' unica via possibile. Fabrizio Prodi, 32 anni, di Scandiano, vicino Reggio Emilia, ha le braccia tatuate, gli occhi azzurri, la fronte stempiata e tanti di quei processi sulle spalle che ne ha perso il conto. E' qui in affidamento, come misura alternativa al carcere. "Che cosa raccontare? Sono figlio di una ragazza madre, cresciuto dai nonni. Sono uscito da casa a 16 anni, per entrare a 17 in comunità", e poi vagare attraverso una litania di carceri, di reato in reato, di processo in processo, di buco in buco. La storia con Monica Barzanti? Quella sì che ha dello straordinario. Lei, 39 anni, lunghi capelli rossi sciolti sulle spalle, orecchini d' oro e un viso da madonna, un tempo studiava lingue all' università. Non ha mai toccato eroina, ma ha conosciuto qualcosa di peggio: il suicidio della sorella, morta a 30 anni, dopo una lunga serie di crisi depressive. "Era l' estate del 1979. Io avevo cominciato a fumare qualche canna, niente di più. Ma il mio stato fisico e mentale era tale che mi ero messa a sragionare. A San Patrignano ho trovato tutte le risposte che cercavo. Anche mia madre abita qui". Muccioli all' inizio l' aveva tenuta lontana da Fabrizio. Si incontravano in mensa. Si scambiavano a stento qualche parola: "Ha sempre voluto evitare che ci chiudessimo in un rapporto di coppia. La prima tappa è socializzare con gli altri", dice Monica. "Il resto viene dopo: l' amore, il sesso, la riscoperta della famiglia..." Come nel caso di Bruno Perini e Lulla Pola, 40 anni lui, 37 lei. Bruno, figlio di povera gente, aveva creduto nell' ideologia marxista che in quegli anni si consumava attorno alla facoltà di sociologia di Trento. Lei, orfana, sola in un paesino di poche anime alla periferia della stessa Trento, a 16 anni si bucava già. Si sono incontrati in piazza: lui vendeva, lei comprava. Sono entrati assieme a San Patrignano. Qui hanno avuto due figli. Qui hanno adesso deciso di sposarsi. In chiesa. Come le altre 12 coppie. Strano per gente che ha vissuto senza tetto né legge? Don Fiorenzo Baldacci, rettore del seminario di Rimini, pioniere qui a San Patrignano da quando la curia ha deciso di mandare un prete in comunità, sorride con la sua faccia paciosa: "Strano? No. Per chi ha toccato il fondo, è l' unica salvezza: riattaccarsi alle cose semplici, alle emozioni pure, al Dio che si pregava da bambini". Testata Epoca Data pubbl. 27/09/96 Numero 39 Pagina 90 Titolo UK101 VI RIVELIAMO NOI CHE FINE HA FATTO LA PILLOLA ANTICANCRO Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello SCIENZA Sommario Ricordate la proteina che doveva segnare una svolta nella lotta al tumore? Da un anno nessuno ne parla più. "Epoca" ha indagato. E ha scoperto che: primo, la sperimentazione non è neppure cominciata; secondo... Lo scopritore: "Noi andiamo avanti a gonfie vele, ma non è il caso di parlarne" Silvio Garattini: "Non c' erano e non ci sono prove certe della efficacia dell' UK101" Didascalia Le confezioni di UK101 prodotte dalla Zanoni di Santhià. Testo Prima il "miracolo", gridato sui giornali di tutta Italia. Poi lo scetticismo, i dubbi, le polemiche. Infine il silenzio. Da più di un anno, per l' esattezza da 13 mesi, non si sa più nulla di quella che era stata annunciata come la scoperta del secolo: il farmaco anticancro UK101, una proteina ricavata dal fegato di capra, studiata a cominciare dal 1983 dal professor Alberto Bartorelli, docente presso la cattedra di immunologia clinica dell' Università di Milano. Una sostanza che, iniettata nell' organismo umano, dovrebbe produrre gli anticorpi necessari a sconfiggere i tumori. L' unica comunicazione ufficiale sulle sorti dell' UK101 viene oggi, dopo reiterate richieste di Epoca, dall' Istituto superiore della sanità. Ed è deludente. "No, la sperimentazione non è ancora stata autorizzata. Ci troviamo in questo momento in fase istruttoria", dice Cesare Peschler, direttore del laboratorio di ematologia e oncologia dell' Istituto. "In altre parole, la pratica è al vaglio della commissione che deve valutare se ci sono gli elementi per dare il via o meno agli esperimenti sull' uomo". Più o meno, siamo al punto di partenza. Con un solo, minimo, passo avanti: l' azienda che si è aggiudicata l' appalto per la produzione dell' UK101, la Sicor di Rho, in provincia di Milano, e che realizza il farmaco presso lo stabilimento della consociata Zanoni, a Santhià, provincia di Vercelli, ha finalmente fornito la documentazione richiesta dall' Istituto superiore della sanità. In particolare quella che attesta la non contaminazione virale del farmaco e la sua non tossicità. Un dettaglio? Niente affatto. Se la non tossicità sembrava già accertata, non era ancora certo che all' interno dell' UK101 non si annidassero virus, magari capaci di colpire l' organismo a distanza di tempo. Ebbene c' è voluto un anno perché questa documentazione venisse presentata. Ma dice il professor Peschler: "E' un ritardo comprensibile. Gli studi sui virus a lungo effetto richiedono molto tempo". Il riserbo più assoluto e impenetrabile è calato invece sul lavoro svolto in quest' ultimo anno dal gruppo di ricerca e sperimentazione che fa capo al professor Bartorelli. "Stiamo andando avanti a gonfie vele", dice lo scopritore della molecola. "Ma, per carità, non è il momento di parlarne con la stampa". Un ordine perentorio che vale anche per i primari di quella mezza dozzina di ospedali che nel 1993 erano stati autorizzati all' uso compassionevole del farmaco, cioè alla sua somministrazione a malati in fase terminale. Oscar Alabiso, uno dei primari autorizzati, che lavora con il professor Antonio Mussa al Servizio autonomo di chirurgia, esogafia, oncologia dell' ospedale Molinette di Torino, ammette solo: "Sì, c' è un gruppo di medici nel nostro ospedale che sta lavorando alla sperimentazione dell' UK101. Ma non io. Per quanto mi riguarda vado avanti su altri binari e con altri metodi". Allo stesso modo Carlo Mor, della prima divisione chirurgica dell' ospedale Uboldo di Cernusco sul Naviglio, risponde lapidario: "Ho usato l' UK101, finché era possibile farlo. Sì, più o meno fino a luglio 1995". Stessa musica con il professor Boturi della divisone di radioterapia del Niguarda di Milano: "Non sono autorizzato a parlare. Uso o non uso l' UK101? Non posso rispondere". L' unico autorizzato dovrebbe essere il rettore dell' Università di Milano, Paolo Mantegazza. Peccato che da più di un mese rimandi qualsiasi appuntamento con Epoca... Non solo. Anche dalla Sicor, che un anno fa aveva trionfalmente aperto i suoi cancelli a un giornalista e a un fotografo di Epoca, non trapela alcuna informazione. Solo voci. Quelle riportate da Massimo Zuffi, responsabile della Flerica Cisl di Rho, l' organizzazione sindacale di categoria dell' industria farmaceutica. Zuffi riferisce di una sospensione nella produzione dell' UK101 per non ben precisati "motivi tecnici". O quella di Renzo Maso, responsabile per l' industria chimica alla Cgil di Vercelli, che parla di una ripresa della fabbricazione del farmaco, ma solo in piccoli lotti, tra maggio e giugno. Ma per capire la storia dell' UK101 e le ragioni del silenzio sceso sulla scoperta, bisogna fare un passo, o forse più passi, indietro. Tutto comincia nel 1983, quando Alberto Bartorelli, nato a Parma 54 anni fa, scopre durante esperimenti condotti all' istituto di ricerche Sisini di Milano, fondato da suo padre, una proteina che nessuno aveva mai catalogato prima, l' UK101. All' inizio Bartorelli non si sbilancia. Continua a studiare, a testare la proteina sugli animali, a verificare che non sia tossica. Nel 1992 pensa che sia il momento di uscire allo scoperto e fondare una società che possa eventualmente gestirne il brevetto. La società, tenuta a battesimo il 19 febbraio, si chiama Zetesis e vanta partecipazioni, al suo interno, di colossi finanziari e industriali come Mediobanca e Fiat. In altre parole, si scomoda da una parte Enrico Cuccia, dall' altra l' avvocato Agnelli. Il primo, per una questione affettiva: amico del padre di Bartorelli, il cardiologo Cesare, vuol dare una mano al figlio. Il secondo per dar seguito all' impegno che la dinastia torinese ha sempre mostrato nei confronti della ricerca sul cancro. A questo punto, anche il ministro della Sanità, che allora era Maria Pia Garavaglia, non può fare a meno di pronunciarsi. La sperimentazione non viene autorizzata, ma fin dal 1993 si decide l' utilizzo del farmaco per uso compassionevole. Si farà in 4 ospedali milanesi e al Molinette di Torino. Riguarderà non più di 200 pazienti, tutti in fase terminale o con metastasi che resistono ai trattamenti chemioterapici. Per non deludere l' opinione pubblica, si organizza, presso l' Istituto tumori di Genova, un numero verde che diramerà tutte le notizie possibili sul nuovo farmaco. I telefoni diventano roventi, mentre nel 1995 Bartorelli comunica i primi risultati. Strabilianti, a detta sua: più del 60 per cento dei malati risponde positivamente. Ma non tutti sono d' accordo. Il fronte della ricerca si spacca con la defezione di Alberto Scanni, oncologo dell' ospedale milanese Fatebenefratelli, che dopo aver sperimentato con rigore la proteina per più di un anno, nel 1994 decide di mollar tutto. La ragione sta nelle cifre: su 18 pazienti in fase terminale, sottoposti al trattamento da marzo a dicembre 1994, nessuno ha ottenuto risultati apprezzabili. Nel frattempo viene affrontato da Bartorelli anche l' aspetto industriale (e tutt' altro che secondario), legato alla scoperta. Si muove addirittura, come detto, Enrico Cuccia. Passa in rassegna varie aziende, finché decide di affidare la produzione dell' UK101 alla Sicor di Rho. L' azienda annovera tra i suoi clienti aziende internazionali come la Ciba Geigy, la Mitsubishi, ma non possiede la tecnologia necessaria per estrarre la proteina dal fegato di capra. La Sicor acquista così la Zanoni, una piccola ditta già specializzata nella produzione di principi attivi estratti da organi animali. Nel gennaio 1995 Bartorelli presenta al ministero la richiesta per accedere alla sperimentazione. Ma i tempi rischiano di allungarsi, nonostante i dati positivi, esposti durante un convegno a New York, riaccendano, anzi arroventino, l' attenzione di stampa e tivù. Il nuovo ministro Elio Guzzanti, preoccupato per le eccessive speranze create, il 6 luglio convoca una riunione straordinaria, invitando i membri della Commissione oncologica nazionale, della Commisione unica del farmaco (Cuf), più gli stessi ricercatori. La decisione è drammatica: non solo non si dà il via alla sperimentazione, ma si dà l' ordine di sospendere anche l' uso compassionevole dell' UK101, che da questo momento in poi potrà essere somministrato solo ai malati già sottoposti a terapia. Come mai? Il professor Silvio Garattini, membro della Cuf, da sempre scettico sulla scoperta di Bartorelli, si limita a dire: "Non ci sono e non c' erano neanche allora prove certe dell' efficacia dell' UK101. L' uso compassionevole dà risultati che non offrono garanzie". Bartorelli, scrivono i giornali, minaccia di lasciare l' Italia. Ma in una nuova riunione del 29 luglio, al ministero si cambia linea: la sperimentazione verrà rimandata in attesa che la Sicor presenti all' Istituto superiore della sanità gli esami relativi all' assenza di contaminazione virale del farmaco. Ultima stazione di questa via crucis burocratica il 2 agosto: Bartorelli, per salvare la somministrazione per uso compassionevole, promette al ministro che la Sicor comunicherà la quantità di prodotto che è in grado di distribuire ai malati terminali e le modalità d' uso. La documentazione sulla non tossicità del medicamento viene presentata esattamente dopo un anno, mentre intanto all' inizio del 1996 il numero verde istituito all' Istituto tumori di Genova è già stato sospeso. Che cosa succederà adesso? "E' presto per dirlo", dice il professor Peschler. "Bisogna aspettare il verdetto della commissione". Giudizio sospeso insomma, anche se Peschler è personalmente convinto riguardo all' UK101 che "si tratta di un modello biologico molto interessante. Una componente della proteina, l' UK114, quella scoperta nel fegato delle capre, è presente anche nelle cellule tumorali umane. Gli esperimenti sui topi hanno dimostrato che, se si inocula questa componente nelle cellule tumorali, si ottiene la guarigione". Resta da vedere cosa succederebbe nell' organismo umano. Ci vorrà del tempo. Quanto? Dipende dal giudizio che la commissione ministeriale esprimerà sulla documentazione della Sicor. E l' attesa si prospetta tutt' altro che breve. BOX QUESTI SONO I TIPI DI TUMORE SU CUI LA MOLECOLA POTREBBE AGIRE SENO Carcinoma metastatico con localizzazioni epatiche o polmonari misurabili POLMONE Carcinoma che non sia diffuso in numerose piccole aree STOMACO Carcinoma anche con diffusione peritoneale PANCREAS Carcinoma avanzato anche con diffusione peritoneale FEGATO Carcinoma primitivo COLON Carcinoma del colon con metastasi epatiche o polmonari misurabili LE PERCENTUALI DI RIUSCITA Secondo lo scopritore della proteina oltre il sessanta per cento dei pazienti colpiti dai tumori sopra indicati e sottoposti a terapia con l' UK101 hanno manifestato dei miglioramenti. Le percentuali non sono però confermate da altri centri di sperimentazione. Testata Epoca Data pubbl. 20/09/96 Numero 38 Pagina 78 Titolo VALERIO MEROLA "IO A CASA BERLINGUER" Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello ESCLUSIVO Sommario "Giornalista tivù. Di sinistra". A "Epoca" aveva dato l' identikit del suo vero (e infelice) amore. E con "Epoca" ora il più esagerato protagonista dell' estate si lascia andare. Raccontando il flirt con Bianca, la figlia del più riservato segretario pci. Ma è proprio lei la donna del mistero? "Chissà. Sappiate che ho passato un weekend anche con..." "Nel mio libro farò il nome di un' altra conquista: un' attrice che è il sogno erotico di ogni italiano" Didascalia Bianca Berlinguer, 36 anni, giornalista del Tg3: all' epoca del flirt criticava Merola per i suoi modi "burini". Valerio Merola, 41 anni. Sotto: al flirt tra Merola e Bianca Berlinguer "Novella 2000" ha dedicato parte della sua copertina. Testo "E' una donna che lavora in televisione, una bruna sui 30 anni. Un' intellettuale. Di sinistra". Così Valerio Merola, in un' intervista sul numero scorso di Epoca, aveva descritto l' unica donna di cui, nel corso della sua turbinosa vita sentimentale, si era davvero (e infelicemente: lei lo aveva piantato dopo la loro "prima volta") innamorato. E adesso, dopo una caccia alla "donna del mistero" da parte di giornali e tivù durata una settimana, il presentatore con Epoca fa un nome: sì, Bianca Berlinguer, proprio lei. La figlia del più carismatico e austero capo del Pci. La quale, già individuata dai giornali come la ragazza che avrebbe fatto perdere la testa al fatuo presentatore, è stata costretta a confessare "di aver frequentato Merola, 12 anni fa". Un "inciucio" sentimental-sessuale imbarazzante. Vuoi per la storia del Merolone. Vuoi per le vicende giudiziarie di Biella. Vuoi per l' inevitabile conflitto politico che ne deriva: che cosa avevano da spartire la severa impeccabile rampolla di casa Berlinguer, con lo sciupafemmine romano, all' epoca amico di Forlani, oggi sostenitore di Forza Italia? I giornali dicono, persino, che l' abbia introdotto in famiglia... "Introdotto non è la parola esatta", dice Merola. "Andavo a prederla sotto casa, in via Ronciglione, quartiere bene di Roma. Un bellissimo palazzo, anni Sessanta, con un giardino all' interno". Lei scendeva, vestita di bianco, tailleur castigato al ginocchio, trousse e accendino in mano. Apriva il portone e si imbufaliva: "Quante volte ti ho detto di spegnere il motore e di non fare il burino con quella marmitta!". Merolino, non ancora Merolone (all' epoca aveva meno di trent' anni e lavorava per l' emittente privata Gbr) si scusava: "Perdonami, ma ogni volta lo dimentico, le dicevo. Avevo una Bmw turbo, blu metallizzato... Controllare che tenesse il minimo era obbligatorio". Bianca incassava e storceva il naso. Intanto parlava di politica, raccontava del rapporto con la sua famiglia. E soprattutto di quello con il padre, Enrico. Del fascino, della grandezza, della forza di carattere di quell' uomo riservato. Raccontava delle vacanze a Stintino, della serenità estiva sulle spiagge della Sardegna col padre, finalmente libero dal ruolo un po' ingessato di capo di partito. "Era più di un affetto filiale", dice Merola quasi commosso. "Bianca venerava suo padre. E anch' io ero affascinato da questa figura così straordinaria. Il mio sogno? Fare le vacanze in casa Berlinguer". Bianca se ne guardava bene, persino di farlo salire tra le mura di via Ronciglione. Finché un giorno non è successo il miracolo, anzi il miracolone. "Enrico Berlinguer usciva dal portone, attraversava il viale. Ho provato una emozione indescrivibile... Volevo conoscerlo, a tutti i costi. Ma temevo di essere asssalito dagli uomini di scorta. Quando mi sono accorto che c' era solo l' autista che lo aspettava dentro una Fiat e non si muoveva di un millimetro, gli sono andato incontro: Onorevole, posso presentarmi? Sono Valerio. Forse Bianca le ha parlato di me" E dopo? "Beh, dopo niente. Lui mi ha detto: Piacere, come sta? Cosa fa di bello? Gli ho risposto: sono iscritto all' università. "Bene, in bocca al lupo per il suo futuro", rispose". Se il povero Berlinguer non poteva sospettare quale svolta avrebbe preso l' avvenire del ragazzone bruno e aitante che si trovava davanti, la figlia Bianca, già all' epoca, intuiva il peggio. "Io le ripetevo che volevo diventare il Mike Bongiorno o il Pippo Baudo del Duemila. Lei si arrabbiava: Ti sembrano modelli da seguire? Fai come dice tuo padre: diventa un giornalista parlamentare oppure tenta la carriera diplomatica". Chissà, forse Bianca temeva già di finire in pasto alle cronache rosa: "Se c' era una cosa che la mandava nel panico erano i fotografi. Quando uscivamo insieme aveva l' angoscia che qualcuno potesse riprenderci... Una volta è successo, fuori da un ristorante del centro. E la serata si è trasformata in una tragedia". Merola che all' epoca doveva esser più riservato di adesso, o forse semplicente un po' innamorato, per evitare questi incidenti, scantonava locali e posti affollati, portandola piuttosto in romantici ristorantini. E si tratteneva persino dal comprensibile impulso di sbandierare la nuova conquista agli amici: "L' ho fatto un paio di volte. Ma è stato un disastro. Gente con cui lei aveva poco da dividere, come io avevo poco da spartire con quelli del suo giro". Merola per la verità aveva pochissimo da dividere anche con i nonni spirituali di Bianca, Marx, Engels, o per restare in Italia, Gramsci, Di Vittorio... "Si, all' epoca ero democristiano, amico di Forlani e di suo figlio Marco. Avevo conosciuto entrambi attraverso mio padre, che era stato dirigente dell' azione cattolica, poi segretario di politici come Paolo Bonomi, ex presidente della Coldiretti. Ma non credo che a Bianca interessasse". Era il 1984 (quali mesi non ci è dato saperlo, "vicini alla buona stagione", dice Merola). La piena del riflusso aveva forse già travolto, persino in casa Berlinguer, i compartimenti stagni dell' ideologia? "No, Bianca era una militante del Pci, credeva nel comunismo. Tanto è vero che era indecisa tra la carriera politica e quella giornalistica. Poi ha scelto la seconda. Ed io me la sono ritrovata tutti i giorni in tivù". A proposito che effetto fa al cuore ormai indurito di Merola? Stoccata finale: "Mi sembra molto cambiata. Dà l' idea di una donna sofferente, insoddisfatta sia dal punto di vista personale sia sentimentale". Ma prima di chiudere il capitolo- Bianca, l' ego dell' indiscreto presentatore ha una nuova impennata: "Non fermatevi alla Berlinguer. Vi ho raccontato che l' ho frequentata, ma questo non significa che era lei la donna di cui sono stato innamorato". Beh, allora chi? "Ho detto di aver amato una mora, intellettuale di sinistra che lavora in Rai. A Carmen Lasorella non ci avete pensato? L' ho conosciuta quattro anni fa a Sanremo per una gara di off-shore. Abbiamo passato un fine settimana assieme". Signor Merola, sta dicendo che ha avuto un flirt anche con la giornalista ora portavoce della Rai? "Dico solo che l' ho trovata molto sexy, molto affascinante. E anche lei mi ha trovato simpatico. Traete le vostre conclusioni". Conclusioni da querela, signor Merola... "Allora ne anticipo un' altra. Nel libro che sto scrivendo, il Decamerolone, svelerò il nome di un' attrice italiana, bellissima, una bomba, con la quale ho vissuto la più travolgente delle relazioni sessuali. Il sogno erotico di ogni italiano. Chi è? Una bionda, occhi azzurri, sui trent' anni, che vive all' estero". Oddio, ci risiamo... Testata Epoca Data pubbl. 13/09/96 Numero 37 Pagina 16 Titolo LA MIA VITA ESAGERATA Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI GIORGIO LOTTI Sezione STORIE Occhiello ESCLUSIVO Sommario Cinque case. Quattro auto. Due telefonini. Mille donne. Ma ora Valerio Merola è solo, chiuso nel suo rifugio di Montecarlo. Perché? Scopritelo nella sorprendente confessione raccolta dall' inviata di "Epoca" INCONTRO CON VALERIO MEROLA "Questa vicenda mi ha fatto riscoprire la fede" "Il Merolone? Ho depositato il marchio, creerò una mia linea" Didascalia STA SCRIVENDO UN LIBRO Valerio Merola, 41 anni, nella sua casa di Montecarlo. Il suo libro si intitolerà "Deca-merolone". MISTERO "Mi sono innamorato davvero una sola volta. Lei è un' intellettuale di sinistra, sui trent' anni, e lavora in televisione". HA PERSO UN MILIARDO Valerio Merola fa jogging nel porto di Montecarlo. L' inchiesta giudiziaria gli ha fatto saltare molti contratti non solo televisivi. SOLITUDINE Merola mentre fa colazione e (a fianco) durante un momento di relax in piscina: "Non riesco più a guardare le donne con gli occhi di prima", dice. Testo PIPPO BAUDO LO PORTO' IN RAI HA FATTO IL LICEO CLASSICO Nome Valerio Cognome Merola Nato a Roma il 15 giugno 1955 Famiglia Il padre Aldo, commercialista, è morto dieci anni fa, la madre Anna Maria, casalinga, quattro anni fa Studi Maturità classica, venti esami a Scienze politiche, indirizzo internazionale Carriera Debutta in televisione nel 1982 con il programma I falchi della notte, in onda sull' emittente privata Gbr. Due anni dopo viene chiamato da Pippo Baudo come presentatore esterno per Fantastico e quindi per Domenica In. Nel 1992 scrive e conduce Uno fortuna e nello stesso anno inventa, organizza e presenta il programma Bravissima, in onda dal 1994 su Italia Uno. Possiede due società che lavorano sullo spettacolo: Brava Italia srl e Brava Corporation, con sede a Los Angeles Vita privata Celibe, vanta di avere avuto relazioni con centinaia, forse migliaia di donne, prevalentemente giovanissime e aspiranti star Hobby Motonautica e rally. Possiede quattro automobili: una Lamborghini Diablo, una Rolls-Royce Corniche Cabrio, una Porsche Carrera 4, un' Aston Martin. Più una moto Harley-Davidson dal serbatoio decorato con l' aerografo: ai lati quattro volti di donne (Cindy Crawford, Naomi Campbell, Kim Basinger e Sharon Stone), al centro la sua faccia Il segreto sta tutto in quell' accrescitivo: "one". "One" è quello che ha trasformato Valerio Merola, conduttore televisivo di fama un po' modesta, in Merolone, il personaggio più indagato di quest' estate. Indagato dalla Procura di Biella per presunte violenze sessuali a danno di minorenni in cerca di gloria. Indagato dai paparazzi in cerca di un documento fotografico di ciò che tutti immaginano, ma nessuno ha visto. Indagato dalla curiosità degli italiani che fintamente distratti o palesemente incuriositi si chiedono: "Ma quanto sarà più "one" del mio?". Ma Valerio Merola un "one" lo era già prima che questa storia incominciasse. Basta vederlo qui, seduto sulla terrazza di uno dei suoi due appartamenti di Montecarlo, dove ha fissato la residenza, per capire che la sua è sempre stata una vita esagerata. Il mondo non lo sapeva, ma lui era già uno a cui le dimensioni normali non sono mai bastate. Dunque, vediamo: due case nel Principato ("Sono venuto qui quando facevo off shore con Stefano Casiraghi", il marito della principessa Caroline morto in un incidente in motoscafo, ndr). Il Casinò è a due passi, la facciata è liberty: ricca e discreta come tutto qui attorno. La residenza è in Francia, il cuore, gli affari e chissà che altro lo hanno indotto a non farsi mancare un appartamento a Roma, uno a Milano e persino uno a Beverly Hills, Los Angeles, California. Poi c' è il garage, anzi il garagione. In quello di Montecarlo sono posteggiate una Lamborghini Diablo: rossa come il suo nome, valore 500 milioni (mezzo miliardo). Una Rolls-Royce avorio: valore 500 milioni (mezzo miliardo). Una Porsche Carrera giallo canarino, valore 200 milioni, e un' Aston Martin (quella di James Bond, più o meno: valore 500 milioni) completano la serie. Esagerato. Così esagerato da controllare l' ora, mentre ci parla, su un orologio da una trentina di milioni, e da spararle davvero grosse: "Questa vicenda mi ha fatto riscoprire la fede: ho fatto un voto", rivela, tirando fuori dal portafoglio l' immaginetta della Madonna del Laghetto, vergine d' oro su sfondo barocco, venerata in un santuario del Principato. "Sono un uomo che ha condotto una vita sessualmente molto libera, ma quello che nessuno sa è che sono un uomo solo". Possibile? Possibile che tra le mille madamine iscritte al catalogo nessuna le sia rimasta fedele? "Sì, è vero, ne ho avute migliaia, non 5 mila come Julio Iglesias... Ma è una facciata. C' è stata una sola donna di cui mi sono innamorato: purtroppo è durato solo un fine settimana. Quando le ho parlato dei miei sentimenti, mi ha detto: "Ho fatto l' amore divinamente, ma finisce qui"". Scoop, anzi scoopone! Chi è, chi è? "E' una donna che lavora in televisione, una bruna sui 30 anni. Un' intellettuale. Di sinistra". Di più, impossibile sapere. Perché anche Merola, in fondo, è un signore? No, perché si brucerebbe la sorpresa. Il nome della bella sarà uno dei piatti forti di un libro di prossima pubblicazione: si chiamerà, molto spiritosamente non c' è che dire, il Deca-merolone. Dieci episodi autobiografici che gli piacerebbe scrivere a quattro mani con Nantas Salvalaggio (per ora non è dato sapere se è un accordo in corso o solo un desiderio del Boccaccio 2000). Nel frattempo, per allenarsi, Merola legge Il ritorno di Casanova, piccolo capolavoro di Arthur Schnitzler, da cui un impresario romano vuole ricavare una versione teatrale. Con Merola, naturalmente, nel ruolo del celebre libertino. Per leggere ci vuole concentrazione e quella la garantisce il fedele amico Maurizio impegnato nella gestione di due cellulari (due soltanto?) a squillo continuo. Su uno scaffale si intravvede un righello bianco, un "Cacchiometro". Regalo di amici... Ma riprendiamo fiato. Con le dovute modifiche del caso, di Merola si potrebbe dire quello che diceva una celebre maitresse americana: "Ogni donna sta seduta sulla propria fortuna e non lo sa". Di certo ora Merola lo ha scoperto. "Ho dovuto esibire le misure del mio sesso per difendermi. Ammetto che non è elegante, ma non mi interessa il parere dei benpensanti". E il parere del magistrato, che comunque accusa il playboy, e tutto il suo mondo scintillante fatto di pornotangenti, promesse e letti facili? "Io non credo che basti andare a letto con qualcuno per fare carriera. Può servire un pigmalione, ma una ragazza deve avere anche talento. Io stesso ho dato un segnale: sono passato dalla conduzione di un programma come Bellissima all' invenzione di uno come Bravissima. E poi, basta leggere questa...". Merola tira fuori una lettera, l' ultima dice, tra le tante arrivate a sostenerlo in questo momento di buio, firmata da una certa Elisabetta, conosciuta (non biblicamente, garantisce) durante una selezione: "Caro Valerio, tutte le accuse che ti sono state fatte so con certezza che sono false perché per quanto ti conosco io posso solo dire che sei una persona stupenda e onesta...". Aiuta in questo momento, vero? "Aiuta sì, perché ci sono soprattutto le ferite dell' anima da curare. E sono quelle che fanno più male. Non riesco più a vivere in mezzo alla gente. Ho perso la gioia. Mi hanno proposto di presentare alcune manifestazioni, ma mi sono rifiutato". E le donne? "Non riesco a guardarle con gli occhi di prima. Mi fa soffrire pensare che domani potrebbero scagliarsi contro di me. E poi i loro sguardi vanno tutti dalla cintola in giù". Imbarazzante. Tanto imbarazzante che i dirigenti tivù devono aver pensato: impossibile da mostrare in pubblico. Così è saltato il contratto per la nuova edizione di Bravissima, su Italia Uno (anche se il direttore Carlo Vetrugno è considerato ancora un amico, uno dei pochi, assieme a Vittorio Sgarbi, che non gli ha voltato la faccia): "Un miliardo secco di perdita". Se le ferite dell' anima sono una cosa personalissima e come tale non quantificabili, per quelle al portafoglio Merola però non sembra avere di che preoccuparsi. Tanto che il Merolone è diventato un marchio registrato. Sì, all' ufficio brevetti. Esagerazione? No, precauzione: "Sa, mi sono arrivate le prime proposte: una linea di abbigliamento maschile, una di video, un' altra di corroboranti, dei "Merolon-drink" che dovrebbero potenziare la virilità... Mi piace l' idea della linea di abbigliamento: pantaloncini, T-shirt, tutto molto fasciante, di quelli che mettono in mostra le forme maschili...". E dire che lo svelarsi di quell' imbarazzante (?!) segreto sembrava destinato a sancire la fine folgorante di una carriera. "Mah, cerco di essere ottimista: questa esperienza mi ha dato quello spessore che mancava al mio personaggio. Io che avevo sempre privilegiato l' aspetto frivolo della vita, adesso forse posso aspirare a qualcosa di più serio". Più serio lo avrebbe di certo voluto suo padre: ne voleva fare un diplomatico... "Sono figlio unico", racconta. "Mio padre (era un professionista, aveva due lauree) è morto per un infarto, mia madre per un ictus. Prima ne aveva avuti altri due che l' avevano ridotta su una sedia a rotelle. L' ho assistita a lungo, poi quando se ne è andata sono rimasto senza neanche il conforto di un fratello o di una sorella. Mentre mi portavano a Regina Coeli, la prima cosa che ho pensato è che dovevo ringraziare Dio. Sì, per aver fatto morire mio padre e mia madre prima di questo scandalo. Sono stato l' unico a essere imprigionato tra quelli coinvolti nell' inchiesta, come Sabani e Boncompagni. Roba da perderci la testa" (confermano le due scatole di Lexotan, tranquillante rifilato a Merola dal medico Usl per tamponare incubi e insonnie). Scuole medie dalle suore Francescane a Roma, il liceo classico al Mamiani (nessuna tentazione contestataria, piuttosto una missione: consolare le ragazze dei "compagni" impegnati a sinistra), venti esami a Scienze politiche. Poi la tivù. L' iniziazione avvenne al negozio di Valentino, a Roma: "Vivevo già da solo. Avevo messo i soldi da parte per comprarmi un cappotto. Quando andai a provarlo il direttore del negozio mi guardò e mi propose di fare delle sfilate". Ne seguì un vorticoso scendere e salire dagli aerei per i cinque continenti, ma rimaneva la voglia di fare televisione. Un secondo incontro casuale, in barca in Sardegna, con il regista di una tivù privata, lo portò dritto negli studi della Gbr, dove registrò il primo successo con I falchi della notte, una quasi-diretta per discoteche, feste, locali romani. E, anche stavolta, il colpo di scena. "Mi telefonò Pippo Baudo in persona. All' inizio pensai a uno scherzo e gli risposi: "Mi dia il suo numero, la richiamo". Poi, al bar dietro la Rai, incontrai Franco Torti, autore di Baudo, che mi disse: "Ma sei scemo? C' è Pippo che ti vuole"". Una favola esagerata e il resto è cronaca estiva. E qui a Montecarlo la cronaca diventa realtà: quando passa la Lamborghini rossa, diretta al Casinò o al Jimmy' z, la discoteca frequentata dai principi di Monaco, i fan e le fan salutano Valerio sventolando le manine. A noi, un po' stupiti, è rimasta sul taccuino solo una domanda. "Scusi, quanto è one?". Ma non osiamo... Testata Epoca Data pubbl. 30/08/96 Numero 35 Pagina 44 Titolo IL CIRCO BOSSI Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI MAKI GALIMBERTI Sezione STORIE Occhiello POLITICA Sommario Ovvero, la vitaccia dei giornalisti che per tutta l' estate hanno fatto finire il Senatùr in prima pagina. Senza mollarlo mai, giorno e notte. Soprattutto notte: ore 23 conferenza stampa, ore 3 scopone con intervista, ore 4,30 pizza con dichiarazioni esplosive. Peccato che poi l' Umberto smentisca tutto, a suon di insulti. Non ci credete? Sentite che cosa raccontano i cronisti-vittime. "Lui è una cosa unica. Nessuno è mai andato a seguire Andreotti a Cortina o Berlusconi in Sardegna" Didascalia A tavola all' hotel Mirella di Ponte di Legno. In senso orario: l' ex ministro Vito Gnutti, Fabrizio Ravelli di Repubblica, l' autista Babbini, l' inviato del Giornale Adalberto Falletta, Umberto Bossi e Renato Pezzini del Messaggero. Guido Passalacqua, inviato di Repubblica. Sopra: gli inviati che seguono Bossi. Fra loro: Renato Pezzini del Messaggero, Fabrizio Ravelli di Repubblica, Adalberto Falletta del Giornale, Fabio Poletti della Stampa. Nella pagina accanto: Umberto Bossi gioca a carte, mentre il musicista Giancarlo Corna e Falletta aspettano la fine della partita. Testo DUE MOGLI, 4 FIGLI IL SUO NOME D' ARTE? DONATO IL CANTANTE Nome Umberto Cognome Bossi Nato a Cassano Magnago (Varese) il 19-9-' 41 Famiglia Il padre Ambrogio, operaio, è morto nel 1988. La madre, Ida Mauri, è pensionata. La sorella Angela ha fondato un suo partito, Alleanza Lombarda Studi Maturità scientifica Carriera Nel 1984 fonda la Lega Lombarda e diventa segretario federale. Nell' 87 è eletto al Senato. Nel ' 91 crea la Lega Nord di cui diventa il leader Vita privata Dal 1994 è sposato con Manuela Marrone dalla quale ha avuto tre figli: Renzo, 8 anni, Roberto Libertà, 6, ed Eridano Sirio, uno. Dal 1976 all' 82 è stato sposato con Gigliola Guidali, dalla quale ha avuto il figlio Riccardo, 17 anni Hobby Il calcio Nome d' arte "Donato, il cantante sconosciuto": così si faceva chiamare quando, cercava di sfondare nel mondo della musica. L' ex ministro leghista Roberto Maroni ha lasciato Ponte di Legno prima del previsto: è schizzato via dopo l' incontro pomeridiano con Umberto Bossi. Così la Sacher Torte, preparata per lui dallo chef dell' hotel Mirella, è rifilata d' ufficio ai giornalisti: mezza dozzina di inviati, che vegliano notte e giorno sull' estate bossiana, confinati tra le montagne del Bresciano vicino al passo del Tonale, pronti a raccogliere le esternazioni d' agosto del leader leghista. Non c' è tempo per finire la torta. Alle 11 di sera si presenta Andrea Bulfaretti, il proprietario del Mirella, che è anche il sindaco di Ponte di Legno (partito popolare, ma senza preconcetti verso la Lega, visto l' indotto che gli crea tra giornalisti e leghisti). Si presenta e comunica: "Signori, il Senatore vi aspetta al bar". Le ultime briciole della Sacher muoiono nei piatti, sacrificate ai supremi obblighi della professione. Ed ecco che il circo serale, il cerchio di odio e amore che unisce Bossi alla stampa e la stampa a Bossi, comincia. Perché di circo si tratta: anomalia di un leader che da una parte si circonda di cronisti, fino a volerli attorno persino in vacanza, e dall' altra li insulta, li denigra, li espelle dai comizi come è successo a Lodi con i cameraman della tivù, o li accusa di montare falsi casi su documenti sbirciati di nascosto, come è successo a Fabio Cavalera del Corriere della Sera. Senza tagliare però mai quel filo con i giornalisti che per tutta l' estate hanno portato le sue gesta in prima pagina: Bossi che un giorno destituisce la Pivetti minacciando di restituirla al Vaticano "morta stecchita"; un altro giorno annuncia la manifestazione di disobbedienza fiscale sul Po; un altro ancora (è il caso riportato da Fabio Cavalera) rivela un complotto del Sismi ai danni della Lega, che si dimostra la bufala dell' anno; poi viene messo sotto inchiesta in tre Procure della sua agognata Padania anche "per violazione della norma contro la ricostituzione del partito fascista"; infine se ne esce con alcune "sparate" all' Arena di Verona. "Buona sera, senatore", salutano i giornalisti. "Buona sera", si bofonchia dall' altra parte. "E allùra? Sedetevi che facciamo una partita a scopa". Prendono posto Renato Pezzini de Il Messaggero, accanto all' ex ministro dell' industria Vito Gnutti, Fabrizio Ravelli della Repubblica a fianco del leggendario autista Babbini. E ancora, Bruno Capparini, l' industriale biondo con camicia di seta che a PontediLegno ospita Bossi nel suo castellone finto medievale, costruito negli anni Venti alle porte del paese. Alla pianola il maestro GiancarloCorna spezza a metà i trionfi sonori di Fratelli d' Italia per lasciar spazio, su richiesta del senatore ("Ditegli che suoni il Va pensiero, così ci purifichiamo"), ai crescendi verdiani. La notte è alle prime battute. Lunga e imprevedibile, perché non si sa mai che cosa passi nella testa del boss della Lega, fino a che ora voglia tirare, quando arriverà la sparata che servirà al titolo del prossimo articolo. Lui vive di notte, "viaggia sul fuso orario di Milwauki", come dice Babbini che con lui macina 100 mila chilometri l' anno, sta in piedi anche 36 ore consecutive, per svegliarsi alle 4 del pomeriggio. "Una fatica che non se ne ha idea", commenta Fabio Poletti de La Stampa, mentre le carte vanno e vengono sulla tovaglia a quadretti. Prima mano, seconda mano... Vito Gnutti tenta di arraffare un due e un sei con un sette. Vince la coppia Babbini-Pezzini. Stiracchiandosi contro la parete, Bossi lancia l' esca: "Vedrete cosa succederà alla "triplice" quando entrerà in azione il Sinpa, il sindacato indipendente della Padania. Toglieremo a quella marmaglia razzista almeno 500 mila iscritti". Non c' è tempo di prendere i taccuini che il senatore è già lanciato sui ricordi di infanzia a Cassano Magnago: "Il paese distrutto dalla speculazione edilizia..., la povera gente dispersa..., gli immigrati che prendevano il posto degli altri..., io e gli amici che suonavamo in un complessino... E il capo del gruppo finito in galera per aver dato un calcio a una mondana che non voleva pagare". Uno dei giornalisti si becca uno "stronzo" per avergli chiesto il nome di quell' amico. Il convivio-comizio si conclude. Ai forzati di Bossi non resta che una partita a carte con Babbini, un torneo di ping pong nello scantinato dell' Hotel Mirella. E qualche commento: "A furia di stargli dietro tutti i giorni", dice Renato Pezzini del Messaggero, "finiremo per chiedergli i pareri sull' Inter o sul Milan". Ma con Bossi non si può fare altrimenti: "Lui è un caso unico", continua Pezzini. "Nessuno è mai andato a seguire Andreotti a Cortina o Berlusconi in Costa Smeralda". Con Bossi, le notizie migliori vengono fuori in posti e momenti impensati. "Soprattutto la notte", dice Adalberto Falletta del Giornale. "Sono arrivato a Ponte di Legno il 13, non ricordo più a che ora. Bossi era al bar, io gli ho mandato un biglietto. Mi ha chiamato al cellulare:"Un' intervista? No, adesso non ho voglia". Un' ora dopo soffriva di astinenza da taccuino. Si è avvicinato: "E allùra?" Risultato: abbiamo chiacchierato per un' ora". Oggi, invece, serata magra per il "pool" dei giornalisti? Renato Pezzini del Messaggero se la ride: "Ma quale "pool". Noi siamo solo i sostituti, seguiamo la Lega quando capita. I veri "bossologi" sono a Milano". I "titolari", come li chiama Pezzini, i giornalisti che hanno seguito la Lega sin dall' inizio, oggi sono rimasti solo in tre: Guido Passalacqua di Repubblica, soprannominato "il Decano", Giovanni Cerruti della Stampa, Carlo Brambilla dell' Unità. Gli altri due, Daniele Vimercati e Gianluigi Da Rold, legati a Bossi da simpatie politiche, hanno lasciato da tempo il lavoro da cronista. Vimercati, ex direttore dell' Indipendente, autore della prima biografia del leader leghista (Vento del nord), dirigerà probabilmente un nuovo quotidiano della Lega, mentre Da Rold, ex inviato del Corriere, ha appena dato le dimissioni da condirettore del Tgr. In compenso i veterani rimasti hanno molto da raccontare. Guido Passalacqua, per esempio, il primo inviato che ha scritto di Bossi, dice: "Lui è sempre lo stesso, squinternato come pochi. Non ha ufficio stampa, non obbedisce a nessun ordine, è capace di rilasciare interviste bomba al giornalista della prima radio privata che passa, e subito dopo di negarsi con chi lo conosce da anni". L' inviato di Repubblica racconta le nottate passate ad aspettarlo, le ore attaccato al telefonino sperando che risponda. Per incontrarlo magari alle tre di notte, quando decide di trascinare tutti in orribili pizzerie di periferia. "Mi ricordo una volta, l' avevamo seguito a un comizio, a cena fino alle quattro, per sentirci dire "raggiungetemi a casa". Erano le 6 e mezzo del mattino, lui con il caffè in mano che parlava e noi che ascoltavamo". Con gli anni, i "bossologi" hanno imparato non solo a decifrare i messaggi del senatore, ma anche a seguire alcune regole. "Mai disturbarlo mentre mangia", dice Passalacqua. "Si inferocisce, dice sempre: "E' una questione di educazione"". Lui, il Senatore invece disturba quando vuole. Giovanni Cerruti della Stampa, consiglia di tenere il cellulare spento in certe ore: "Quello lì è capace di telefonare alle tre di notte, magari per rispondere a un messaggio che gli è stato lasciato alle 10 del mattino". In quanto alle sfuriate con la stampa, Guido Passalacqua non le considera nemmeno: "Anni fa, Bossi fece una lista di proscrizione, con l' elenco dei giornalisti con i quali non avrebbe più parlato. L' indomani se n' era già dimenticato". Non se ne preoccupa neanche Giovanni Cerruti. "Al comizio di Lodi, Bossi ha mandato via i cameraman. Ma a noi è capitato di peggio: sputi, monetine, insulti dalle folle leghiste. Il problema è che nessuno prende Bossi per quello che è, ma per quello che si vorrebbe che fosse. Lui dice "facciamo saltare i tralicci della Rai" ed ecco i giornali titolare "Fuoco sui tralicci". Il giorno dopo lui controbatte e così via, all' infinito". Il gioco va bene a entrambe le parti? Per Brambilla dell' Unità, bisogna scegliere una linea: "Anziché inseguire la battuta di Bossi, individuare il filo conduttore che permette di capire i suoi veri obiettivi". Anche a costo di stargli dietro giorno e notte. Anzi, più di notte che di giorno. Testata Epoca Data pubbl. 23/08/96 Numero 34 Pagina 98 Titolo STORIA (E BUGIE) DI ROSETTA OVVERO COME VIVERE DA EROINA ANTIMAFIA "ACCUSANDO DUE INNOCENTI" Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Grazie a lei, superteste del delitto Aversa, erano stati presi i "killer" del poliziotto e della moglie. Scalfaro le aveva dato una medaglia d' oro. Dal 1992 vive protetta, scortata e mantenuta assieme alla famiglia. Ma una sentenza e una nuova inchiesta dicono che Rosetta Cerminara non è credibile. Salta fuori così la strana faccenda di un posto in polizia, un debito da 700 milioni e una parentela a rischio. "A Lamezia non l' amavano prima. E non l' a mano adesso, dopo la clamorosa svolta" "Perché avrebbe mentito? Interesse economico, vendetta, o ubbidienza a ordini superiori?" Didascalia Rosetta Cerminara, 26 anni (cui "Epoca" ha deciso di rendere irriconoscibile il volto perché ancora sottoposta al programma di protezione), e Renato Molinari, 26, quando erano fidanzati. Poi lei lo ha accusato dell' omicidio di Salvatore Aversa e Lucia Precenzano (in basso). Sotto il titolo: Molinari (a sinistra) e Giuseppe Rizzardi durante il processo. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro, 78 anni: una medaglia d' oro a Rosetta. Giulia e Walter Aversa, figli della coppia uccisa. A destra: Nino Cerra e Francesco Giampà (sopra), Giovanni e Vincenzo Torcasio (sotto), arrestati il 7 agosto per il delitto Aversa. Testo La sua credibilità è a pezzi. La sua testimonianza si sta rivelando un enorme bluff. Ma Rosetta Cerminara, 26 anni, superteste dell' omicidio del sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano (assassinati il 4 gennaio 1992 a Lamezia Terme) continua a essere per lo Stato l' eroina da difendere, la pasionaria antimafia insignita con medaglia al valore civile, protetta sotto falso nome, tutelata dalla scorta. Le nuove indagini della Procura antimafia di Catanzaro attribuiscono l' assassinio alle famiglie Giampà-Cerro-Torcasio, cosche vincenti di Lamezia Terme, e ancora prima, nel 1995, una sentenza della Corte d' Assise d' Appello ha fatto crollare le sue accuse contro i presunti killer, l' ex fidanzato Renato Molinari e l' amico Giuseppe Rizzardi. Ma per il momento a Rosetta Cerminara non verrà né ritirata la medaglia d' oro datale da Oscar Luigi Scalfaro, né revocato il programma di protezione accordato a lei e ai suoi familiari. Oltre Rosetta sono infatti tenuti in luogo segreto la madre, il padre, il fratello Santino con moglie e figlio, il fratello Antonio, l' altro fratello minore. Otto persone in tutto, che da quattro anni vivono sui benefici ottenuti in cambio della testimonianza della Cerminara. Rosetta è riuscita a far arruolare il fratello Antonio in polizia. Lo confermano al commissariato di Lamezia Terme, dove però il ragazzo ha lasciato l' incarico, visto che il suo nome è sparito dagli elenchi del personale del 1995. "Mi risulta che abbia anche ottenuto il risanamento dei debiti, si parla di 700 milioni, contratti dai genitori quando gestivano due negozi a Lamezia Terme", dice l' avvocato Pino Zofrea, uno dei difensori di Molinari e Rizzardi, che cita in proposito l' intercettazione di una telefonata in cui il fratello Santino ricordava a Rosetta l' esistenza di "un sacco di problemi finanziari", raccomandandosi di dire "tutto", solo quando le autorità avrebbero fatto "quello che ci hanno promesso". Non trova invece conferma ufficiale, anzi viene smentita a Epoca dal ministero dell' Interno, l' ipotesi secondo cui Rosetta sarebbe stata assunta come impiegata civile al Viminale. Questo non esclude ovviamente che in cambio del sussidio previsto dal programma di protezione, la superteste sia stata parcheggiata in qualche prefettura o commissariato a svolgere lavoro d' ufficio. Rosetta, è vero, ha pagato il prezzo della clandestinità, ma anche su questo c' è da ridire. Se ci si inerpica per la collinetta che porta a Bella, frazione di Nicastro, uno dei tre comuni che formano Lamezia, dove i Cerminara hanno abitato fino al 1992, e si arriva nella piazzetta ritagliata tra la Chiesa e le vecchie case, è tutto un sussurrare di voci: "Rosetta a spese dello Stato fa le vacanze nei villaggi turistici di Tropea", butta lì un ragazzo. "I suoi familiari vanno e vengono come vogliono, tanto hanno la scorta", dice un altro. "Stanno tentando di vendere la casa e il negozio della madre", aggiunge il gestore della salumeria. E persino la zia, Angela Cerminara, non riesce a sottrarsi a una conferma: "Sì, è vero, sono stati qui fino a un mese fa. Hanno riaperto la merceria per dar via la roba rimasta". La stessa Rosetta sarebbe stata vista in balcone. "Ma questo è successo l' anno scorso, a settembre, per la festa della Madonna della Montagna", precisa davanti alla sezione del Pds, Vincenzo Masi, l' unico a prendere le sue difese. Gli altri a Lamezia, terra di omertà praticata in quattro parole, "non sono fatti miei", non l' amavano prima quando vestiva la corazza da Giovanna d' Arco e non l' amano nemmeno adesso "accusatrice di due poveri innocenti". Ma il punto è proprio questo: perché Rosetta avrebbe mentito? Solo per interesse economico? O per vendicarsi dell' ex fidanzato? Oppure per mitomania? Ancora peggio, per volere di qualcuno? La nuova pista seguita dalla Procura antimafia di Catanzaro, con gli ordini di custodia cautelare firmati dal gip Giuseppe Valea nei confronti di tre mandanti, Francesco Giampà, 48 anni, detto "il professore", Nino Cerra, anche lui di 48 anni, Giovanni Torcasio, di 32 anni, e del cugino di questi, Vincenzo Torcasio, di 34 anni, considerato uno degli esecutori, smentisce ogni possibile relazione tra i due presunti killer e le cosche che avevano voluto la morte di Aversa. La decisione dell' omicidio sarebbe maturata, secondo le testimonianze di cinque pentiti, in un clima di risentimento contro il sovrintendente, accusato di usare maniere forti con i mafiosi e con le loro donne, di essersi accanito contro alcuni di loro (primo tra tutti Francesco Giampà), con attività investigative "esagerate", sollecitando provvedimenti di carcerazione o di sequestro del patrimonio dei clan. Con un' aggravante: l' indagine sulle infiltrazioni mafiose che avevano portato allo scioglimento del consiglio comunale, dove Franco Giampà aveva insediato un suo uomo di fiducia, Giovanni Governa. Un gioco di interessi, insomma, che tagliano fuori Rizzardi e Molinaro, e con loro l' intera pista della Cerminara. Ma già nella prima inchiesta a carico dei due presunti assassino, ci sono precedenti che hanno fatto vacillare la credibilità della ragazza. "Al processo di primo grado abbiamo dovuto chiedere l' annullamento dell' incidente probatorio e dell' intero dibattimento", dice Armando Veneto, altro avvocato di Rizzardi e Molinari, deputato per l' Ulivo, "perché avevamo scoperto che il pubblico ministero Adelchi D' Ippolito aveva occultato prove che contrastavano la versione definitiva offerta da Rosetta: deposizioni rilasciate in precedenza, racconti di altri testimoni, centinaia di bobine con intercettazioni telefoniche...". Molinari e Rizzardi vengono comunque condannati, il primo all' ergastolo, il secondo a 25 anni, ma a maggio 1995, una sentenza della Corte d' Assise d' Appello rovescia la decisione precedente e assolve i due con formula piena. Rivista la testimonianza della Cerminara, si scopre che quanto la ragazza ha raccontato non ha nessun fondamento: "A parte i 150 "non ricordo", tutta la sua storia era costruita su contraddizioni e ripensamenti", dice l' avvocato Veneto. Interviene tuttavia la Cassazione che rimette in discussione l' ultima sentenza e rimanda in Corte d' assise d' appello, con udienza fissata per il prossimo 2 dicembre, Rizzardi e Molinari. Ma ecco le nuove indagini, che sembrano mettere definitivamente fuori gioco sia i presunti killer sia l' accusatrice. E' lo stesso pubblico ministero Luciano D' Agostino a dichiarare a Epoca: "E' opportuno che i giudici della prima inchiesta prendano le loro decisioni. Ma la nostra investigazione è assolutamente collidente su quanto ha portato alla sentenza di primo grado". In altre parole le due indagini non si sovrappongono, come sostiene l' avvocato Luigi Li Gotti, legale dei figli di Aversa. Non esistono due verità da mettere assieme: quella della Cerminara e quella rivelata di recente dai pentiti. "Nel primo processo si parlava di mafia", dice ancora il pm. "Ma quale mafia? Rizzardi e Molinari non sono mai stati organici alle cosche". In quanto a Rosetta, Luciano D' Agostino, non spreca parole: "Non ci interessa. Non l' abbiamo interrogata e non so se lo faremo mai". Del resto sono gli stessi pentiti a chiedersi da dove spunti la Cerminara. E perché abbia messo di mezzo proprio Rizzardi e Molinari. La lettura dei verbali riserva molte sorprese in questo senso. Tra le dichiarazioni raccolte, c' è quella di Antonio Recchia, che riferisce quanto sentito dalla bocca di uno dei mandanti dell' omicidio: "Fu Franco Giampà a confidarmi che Rizzardi e Molinari, così mi disse che si chiamavano, erano in realtà innocenti, in quanto il "lavoro" era stato fatto da due "amici" di Reggio, intendendo con ciò farmi capire che a organizzare la cosa era stato lui in prima persona". Un altro collaboratore di giustizia, Tommaso Mazza, ribadisce l' estraneità dei due presunti killer, e così pure il terzo pentito, Michele Iannello, che introduce un nuovo personaggio, Pasquale d' Elia, conosciuto in carcere. "D' Elia ebbe a confidarmi che a suo avviso coloro che erano stati arrestati erano innocenti. Proseguì dicendo che mandante era Franco Giampà (...) e che l' omicidio del poliziotto era una cosa organizzata da tempo e che vi era stato l' accordo di tutte le cosche del lametino...". Ma più di tutte conta la testimonianza di Massimo Di Stefano, che parte dalla famiglia di Rosetta Cerminara e finisce per accusare i responsabili del commissariato di Lamezia Terme di aver voluto depistare le indagini. Lo zio di Rosetta, Antonio, secondo il pentito, era un informatore di Aversa: "Fatto notorio tra tutti i pregiudicati lametini che infatti lo soprannominavano "u ' nfamuni"". Un altro zio, Giuseppe Cerminara, era invece amico del boss Nino Cerra (anche lui tra i presunti mandanti), in quel periodo latitante. Mentre il padre di Rosetta, Michele, stando sempre alle dichiarazioni di Di Stefano, sarebbe stato legato a un altro mafioso, Tonino De Sensi, nemico di Cerra. Un intricato gioco di parentele e alleanze, in cui lo zio Giuseppe avrebbe rivelato al padre di Rosetta dove si trovava Nino Cerra. Il padre a sua volta l' avrebbe riferito all' amico De Sensi, che aveva approfittato dell' informazione per cercare di ammazzare il rivale latitante. Cerra si era salvato, ma, sicuro di essere stato tradito dall' amico Giuseppe Cerminara, decise di farlo fuori. Per tutta risposta Michele Cerminara, padre di Rosetta, si rivolse a Tonino De Sensi chiedendo vendetta per la morte del fratello. Il tutto era stato riportato ad Antonio Cerminara, che, da buon confidente di Questura, l' aveva riferito ad Aversa. Su Rosetta, nata quindi e cresciuta in un ambiente colluso con le cosche, Di Stefano aggiunge: "Ebbi modo di parlare solo con mio nipote Antonio. Mio nipote non si spiegava proprio perché Rosetta Cerminara avesse accusato il Molinari e il Rizzardi che erano innocenti. Per certi versi però gli stava anche bene a lui come agli altri, che per questo grave episodio stessero pagando altre persone e che le indagini sembravano essersi fermate". Ma non è finita. Il 2 febbraio 1996, il pentito Di Stefano rivela "nuove sospette circostanze", "estremamente delicate", che non si era sentito di affrontare prima. E chiama in causa Arturo De Felice, all' epoca commissario di Lamezia Terme, l' uomo che aveva sciolto il consiglio comunale, che aveva raccolto le prime dichiarazioni di Rosetta Cerminara, e poi, minacciato dai clan, si disse, era sparito dal paese. Di Stefano riferisce dei discorsi con un altro poliziotto di Lamezia, l' ispettore Busetti, di cui era confidente, indicato da Rosetta Cerminara durante una deposizione come proprio amico: "Chiesi a Busetti che cosa si diceva nel commissariato a proposito della ritenuta colpevolezza del Rizzardi e del Molinari. Il Busetti già fin dalle prime volte mi disse che confrontandosi con alcuni dei suoi colleghi si erano trovati d' accordo sul fatto che quei due non potevano essere gli autori del duplice omicidio, aggiungendo che secondo loro l' ordine di uccidere il sovrintendente e la moglie era partito dal gruppo Torcasio-Giampà-Cerra". Gli disse anche il Busetti che al commissariato non se ne poteva parlare e che il dottore De Felice, "ogni volta che si prendeva questo discorso e si adombrava questa pista investigativa si alterava e faceva intendere di voler richiedere nuovi collaboratori". Un altro poliziotto del commissariato, Armando Strangis condivideva la tesi del collega. Ma la risposta di De Felice era sempre la stessa: "Aveva un teste oculare credibile e non c' era bisogno di altre indagini". Perché a Lamezia si fermarono, dunque, alla pista offerta dalla Cerminara? "Secondo Busetti", dice ancora Di Stefano, "si era pensato a risolvere in fretta il caso in previsione di eventuali promozioni che ne sarebbero derivate. In quanto a Rosetta, Busetti diceva che era una persona debole, affascinata dalla Polizia e dalla divisa e inadatta a fare quelle affermazioni". Non solo, ma anche che era "una mezza mitomane", e che le erano state fatte promesse di denaro oltre a quella di assunzione del fratello in polizia. Dubbi su dubbi. A chi giovava l' eroina antimafia da dar in pasto ai giornali? Rosetta aveva cominciato a raccontare di Rizzardi e Molinari, parlando al telefono con il figlio minore di Aversa, Paolo. Era stato lui a convincerla ad andare dal commissario De Felice. Che cosa è successo dopo? I pentiti fanno il nome persino del fratello di Paolo, Walter: si sarebbe recato da Pasquale Giampà, detto Tranganiello, grimaldello, rivale di Franco Giampà e "confidente" del sovrintendente, apparentemente per chiedere protezione per lui e i suoi fratelli, di fatto per ottenere informazioni sul delitto. Walter smentisce a Epoca ogni contatto: "Non abbiamo mai chiesto protezione nemmeno alla polizia". E rincara la dose: "Ci siamo però sempre lamentati di come erano state fatte le indagini. Abbiamo creduto alla Cerminara, ma eravamo stupiti che non si cercasse altro. Alcuni informatori dei carabinieri mi avevano detto che la polizia stava prendendo un abbaglio: le due persone indicate da lei come presunti killer erano considerati "non adatti"". Walter ripete: "I casi sono due. O la Cerminara ha visto veramente Rizzardi e Molinari e da qui è stata aiutata a costruire una testimonianza. Oppure c' è una macchinazione diabolica. Una ragazza di vent' anni non può aver pensato a tutto da sola, non può avere inventato un' accusa come questa per ottenere i benefici economici del programma di protezione. Chi c' è dietro di lei? E perché Scalfaro ha suggellato la sua credibilità con una medaglia?". ACCUSO' DELL' OMICIDIO ANCHE L' EX FIDANZATO "HO VISTO IN FACCIA GLI ASSASSINI". MA ADESSO I GIUDICI NON LE CREDONO PIU' Ecco le tappe principali della complessa vicenda giudiziaria che riguarda l' omicidio del sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e della moglie. 4 gennaio 1992. Il sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e la moglie Lucia Precenzano vengono assassinati in via dei Campioni, a Lamezia Terme. 27 gennaio 1992. Rosetta Cerminara, 22 anni, di Nicastro, rivela ai magistrati di Catanzaro di aver visto i killer. Uno è il suo ex fidanzato, Renato Molinari, 21 anni. Il secondo, è un amico di questi, Giuseppe Rizzardi, 33 anni. 13 febbraio 1992. Si svolge l' incidente probatorio con il quale Rosetta Cerminara viene chiamata a deporre, che verrà annullato tre mesi dopo, per gravi irregolarità. 25 novembre 1993. Gli avvocati chiedono l' annullamento dell' intero dibattimento (25 udienze). Il pm, Adelchi D' Ippolito, viene trasferito alla Procura di Roma. Lo sostituisce il procuratore capo Lombardi. 13 gennaio 1994. Sentenza di primo grado contro Molinari, condannato a 25 anni, e Rizzardi all' ergastolo. 12 maggio 1995. La Corte d' Assise e d' Appello del Tribunale di Catanzaro annulla la sentenza precedente e dichiara Rizzardi e Molinari innocenti. 31 gennaio 1996. La corte di Cassazione annulla la sentenza di assoluzione e rinvia i due presunti killer alla Corte d' Assise e d' Appello di Catanzaro. L' appello è fissato per il 2 dicembre. 7 agosto 1996. Il gip di Catanzaro Giuseppe Valea emette un ordine di custodia cautelare nei confronti di Franco Giampà, 48 anni, Nino Cerra, stessa età, i cugini Giovanni e Vincenzo Torcasio, di 32 e 34 anni. I prime tre sono considerati i mandanti dell' omicidio Aversa, il quarto sarebbe uno degli esecutori. La Procura distrettuale antimafia aveva chiesto al gip l' emissione di otto ordini di custodia cautelare. Testata Epoca Data pubbl. 16/08/96 Numero 33 Pagina 92 Titolo CARDELLA COSI' IL GURU DI SAMAN SE LA SPASSAVA CON I SOLDI PER I DROGATI Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Conti in banca miliardari, appartamenti, ville a Malta, barche. E perfino un aereo privato. Tutto maneggiando i finanziamenti destinati alla comunità. Guardate un po' che cosa ha scoperto la Finanza. Sullo sfondo del delitto Rostagno. "Ha sempre scelto i collaboratori tra gli ex tossicodipendenti, suoi fedelissimi" "Saman presta un miliardo alla banca Cesare Ponti. Ma gli interessi li intasca Cardella" Didascalia Francesco Cardella, 56 anni, con Chicca Roveri (46), e gli ospiti della Comunità Saman in una foto di qualche anno fa. Un primo piano di Francesco Cardella. Fu con Mauro Rostagno, ucciso il 26 settembre 1988, tra i fondatori di Saman. Oggi è all' estero. Chicca Roveri, a sinistra, depone fiori sulla bara del marito, Mauro Rostagno. Alle sue spalle Francesco Cardella e, a destra, il deputato dei Verdi Marco Boato (52 anni). Testo All' inizio era stato l' incedere della Bentley nera sulle strade polverose del Trapanese a suscitare chiacchiere su Francesco Cardella, il "santone" siciliano che nel 1981 ha fondato l' associazione Saman, una catena di comunità per tossicodipendenti. C' era, è vero, anche la pelata di Bettino Craxi, che su quella Bentley appariva in campagna elettorale a fianco della barba brizzolata e del cappello Panama del guru di Saman, a far pensare a un connubio di interessi politici ed economici. Ma tutto probabilmente sarebbe finito lì. Nessuno avrebbe indagato sulla cortina di sfarzi e "ammanicamenti" di Cardella se il 26 settembre 1988 non fosse stato ucciso Mauro Rostagno, uno dei soci fondatori di Saman ed ex leader di Lotta Continua. Che cosa era successo all' interno della comunità? L' omicidio deve essere inquadrato, secondo la più accreditata pista seguita dai magistrati di Trapani, "nell' ambito della gestione finanziaria" dell' associazione pilotata da Cardella (vedi box qui sotto). Un' inchiesta svolta dalla Guardia di Finanza nei primi sei mesi del 1995 (che Epoca riporta nei suoi passi principali) ricostruisce uno per uno i traffici del guru di Saman. E offre un filo d' Arianna che permette di non perdersi nei labirinti dell' impero economico di Francesco Cardella: con le sue nove società (vere o fittizie), infatti, si scoprono barche, un aereo bimotore, palazzi, appartamenti, terreni, conti bancari. Un flusso di miliardi che il fondatore di Saman ha gestito dall' una all' altra parte dell' oceano Atlantico, da Trapani a Managua, passando per Milano, Roma, Malta, Parigi... La Guardia di Finanza, che ha presentato i risultati dell' indagine nel giugno scorso, parte da una constatazione: Saman, in quanto ente senza fini di lucro, è sempre stata esonerata dalla dichiarazione dei redditi e dall' apertura di una partita Iva. Eppure, all' interno dell' associazione, sono state svolte "operazioni di natura squisitamente commerciale", che hanno consentito "di intravedere dietro la struttura dell' ente no-profit (cioè che non ha come obiettivo il guadagno, ndr) il perseguimento dello scopo di lucro", attraverso una "gestione personalista dell' associazione". In altre parole: Cardella, che dal 1986 per la gestione della comunità ha ricevuto copiosi contributi dagli enti pubblici, avrebbe guadagnato miliardi sulla pelle dei tossicodipendenti. Vediamo come. Il primo punto dell' inchiesta riguarda l' acquisto di alcuni immobili pagati con denaro prelevato dalle casse dell' associazione. Compare un appartamento di via Boiardo a Milano intestato a Elisabetta Roveri, detta Chicca (compagna di Rostagno ed ex-amministratore unico di Saman). E una seconda casa, sempre a Milano e intestata a Saman, acquistata dai "fratelli Caporali" (a 620 milioni di cui solo 500 dichiarati), che l' avrebbero dovuta destinare a residenza privata della Roveri e della figlia. "Ma la Guardia di Finanza ha commesso una svista", puntualizza Lucio Ambrosino, il legale chiamato ora dall' associazione per occuparsi dell' espulsione di Cardella e della Roveri. "L' abitazione di via Boiardo è sempre stata intestata a Saman, che l' avrebbe ceduta alla Roveri in cambio di un suo appartamento. Sulla seconda si è dichiarato un prezzo più basso, ma è un illecito di poco conto...". L' irregolarità riguarderebbe invece il terzo immobile, quello di Archbishop Square di Kalkara, a Malta, "intestato a Cardella", riportano i verbali, "ma pagato con denaro Saman". Un palazzotto acquistato nel 1991, di cui "non vi è traccia nei bilanci", anche se è stata trovata "una scrittura privata nella quale Cardella dichiarava che tale immobile era in effetti di proprietà dell' associazione". Con tanto di sottoscrizione della stessa Chicca Roveri. La Guardia di Finanza trae una prima conclusione: "Si profila, all' interno dell' associazione, l' esistenza di una vera e propria organizzazione a struttura piramidale, il cui vertice è rappresentato da Cardella, incontrastato deus ex machina". Il boss, con l' appoggio della Roveri, non solo non ha mai messo al corrente gli altri soci delle sue decisioni, ma "ha sempre scelto con oculatezza i propri collaboratori tra gli ex tossicodipendenti, che per forte debito di riconoscenza si prestavano a svolgere qualsiasi tipo di attività senza entrare nel merito". La seconda parte dei verbali elenca le operazioni finanziarie di Cardella con la banca Cesare Ponti di Milano: un miliardo, prelevato da un conto dell' associazione, versato l' 11 gennaio 1993 e restituito un anno dopo; un altro miliardo dato alla stessa banca il 20 dicembre 1993 e rientrato a febbraio 1995. Con i conseguenti interessi: 105 milioni nel 1994, 96 nel 1995, intascati direttamente da Cardella. I soldi verso Malta. Un' altra somma ancora, un miliardo e 610 milioni, viene versata dal "santone" alla Saman International, una tra le più misteriose società di Cardella, una sorta di scatola vuota che dovrebbe gestire le associazioni a base nazionale, come Saman Italia. La prima tranche di 500 mila dollari viene trasferita il 17 marzo 1993 dalla Cesare Ponti alla Lombard Bank di La Valletta, a Malta, dove Cardella ha il suo quartier generale. Durata del prestito: un anno. Tasso d' interesse: un misero 1 per cento. "Un tasso così basso", dice l' avvocato Ambrosino, "rende l' operazione anomala, tanto più che non c' è nessuna traccia di questi movimenti di denaro nei verbali d' assemblea di Saman". Servivano forse per finanziamenti illeciti? Ci sono poi i profitti ricavati da "prestazioni a favore di imprese private e altri enti". Come l' accordo stipulato da Delia Martinoli, responsabile della comunità Saman di Bondeno, in provincia di Ferrara, con una società per un lavoro di assemblaggio di materiali elettrici e con il Comune per la raccolta differenziata dei rifiuti, che ha permesso all' associazione di incamerare denaro facendo lavorare senza retribuzione i tossicomani in cura. Riserve occulte. Altra conclusione della Guardia di Finanza: "Saman consegue costantemente, per ogni periodo d' imposta, un avanzo economico, che i soci fondatori provvedono sistematicamente a dissimulare attraverso (...) la creazione di "riserve occulte". (...) "Il serbatoio" da cui gli amministratori di fatto attingevano per ripartire discrezionalmente vantaggi economici sotto forma di compensi monetari o di (...) "fringe-benefits" (cioè premi materiali, ndr).". In sostanza, accusano i finanzieri, Cardella con i soldi dell' associazione si sarebbe pagato i costi del suo appartamento di piazza Vesuvio a Milano, di quello di Malta, le spese personali, gli affitti, le bollette. E non solo. Con gli stessi fondi, versati alla società elvetica Transair Trade, avrebbe comprato un aereo bimotore, lo stesso che secondo i magistrati sarebbe servito alle trasferte clandestine di Craxi dalla Tunisia. "Allo scopo di non far apparire ufficialmente l' associazione Saman", dicono i verbali, "Cardella ha costituito la Gie Solidarité con sede a Parigi, alla quale è stato intestato il velivolo", una società a sua volta formata da Saman France, Saman Italia e Oiasa, tutte associazioni che facevano capo al guru siciliano. Le spese per il bimotore? Anche queste a carico di Saman. Come i 60 milioni versati alla Manoel Island Boat Yard di Malta per la manutenzione di una barca, battezzata "Povero vecchio", intestata a Cardella. Infine, l' esame dei bilanci. Una vera via crucis di irregolarità. A partire da un addebito di 3 miliardi presso la banca Cesare Ponti di Milano, il 28 dicembre 1993. Si tratta di una somma sospesa su un conto transitorio, che viene poi riaccreditata su quelli di Saman qualche giorno dopo, il 3 gennaio 1994. Secondo la Guardia di Finanza, è un' operazione che serve "a configurare un' irreale precaria esposizione bancaria dell' associazione". Secondo l' avvocato Ambrosino, "un espediente utilizzato per far quadrare il bilancio di fine anno". Insomma, per far figurare i conti in rosso. La manovra si ripete l' anno dopo, con un addebito di 3 miliardi e 800 milioni. La Guardia di Finanza tira le somme: Saman avrebbe gestito tra il 1989 e il 1994 un giro d' affari di 61 miliardi, avrebbe realizzato profitti occulti, e il tutto senza pagare una lira di Iva. Se confermate, le irregolarità potrebbero costare multe fino a un massimo di 430 milioni, più il 19 di Iva da pagare sul volume d' affari. Chi salderà il conto? Cardella, con la sua barba brizzolata, i suoi Panama di paglia, per il momento se ne sta all' estero. Con domicilio ignoto. BOX LE ACCUSE DEL MAGISTRATO CHE INDAGA SULL' OMICIDIO DELL' EX DI LOTTA CONTINUA "MA PER ME CARDELLA E' ANCHE IL MANDANTE DEI KILLER DI ROSTAGNO" Il guru pensava troppo ai soldi. Mauro non era d' accordo. Così i due fondatori di Saman litigarono. E... L' accusa del pubblico ministero è di solo favoreggiamento. Francesco Cardella avrebbe aiutato gli esecutori dell' omicidio di Mauro Rostagno a "eludere le investigazioni", "tacendo circostanze rilevanti di cui era a conoscenza". Il giudice per le indagini preliminari di Trapani, Marina Ingoglia, la pensa invece diversamente: "Vi sono più elementi", si legge nella sua ordinanza sulla richiesta di arresto firmata il 17 luglio, "che consentono di ipotizzare che il Cardella sia il mandante". E respinge la richiesta di carcerazione per il reato di favoreggiamento avanzata dal suo collega p.m. Ma quali sono gli indizi che portano all' ipotesi avanzata dal giudice Ingoglia? Le cause dell' omicidio potrebbero essere tre. Prima pista: un delitto di matrice mafiosa, stando ad alcune dichiarazioni di pentiti. Seconda: un omicidio di stampo politico maturato negli ambienti degli ex di Lotta Continua, per mettere a tacere Rostagno, che aveva fatto parte dell' esecutivo nazionale del movimento con Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, su quanto poteva sapere sul delitto Calabresi. Terza: un assassinio maturato all' interno della Comunità Saman per questioni di natura economica. Rispetto alla seconda pista, quella di omicidio politico, nell' ordinanza si dice: "Non va esclusa anche in considerazione del fatto che, dopo l' omicidio di Rostagno, risultano accertati buoni rapporti tra Adriano Sofri ed Elisabetta Roveri, tra Francesco Cardella e Giorgio Pietrostefani. Anzi è significativo rilevare che il Pietrostefani attualmente si occupa della gestione di Saman France". Per quanto riguarda la terza pista, quella finanziaria, l' ordinanza insiste sul ruolo del boss di Saman: "Cardella, più attento all' iniziativa imprenditoriale che alla causa morale, comprende che la comunità può essere strumento di notevole guadagno, distraendo i finanziamenti destinati al recupero dei tossicodipendenti a fini privati". Ci sono poi le testimonianze degli ospiti di Saman. Dice Peter Joseph Hahn, ribattezzatosi Vadan: "Mauro non era d' accordo con Francesco Cardella e Chicca Roveri sulla gestione economica della Comunità con l' arrivo dei primi finanziamenti destinati ai tossicodipendenti, perché Cardella e la Roveri erano intenzionati a usarli per scopi personali". Rostagno, secondo la sorella Carla, era diventato "una variabile impazzita. (...) Le sue posizioni erano in netto contrasto con quelle di Cardella, sia sulla gestione della comunità, sia sulla posizione nei confronti della nuova legge sulla droga (la Jervolino-Vassalli, che penalizza l' uso di stupefacenti, ndr) in quel tempo ancora in fase di elaborazione, che avrebbe comportato la criminalizzazione del tossicodipendente". Cardella invece quella legge, che gli avrebbe assicurato un finanziamento di 20 miliardi in tre anni, l' aveva promossa. Lo stesso Claudio Martelli, si legge nell' ordinanza, ha ammesso "il proprio intervento per far conseguire contributi all' associazione Saman". Per il giudice, "può pertanto concludersi che Cardella potesse avere interesse a eliminare Rostagno, ormai diventato un serio ostacolo ai suoi intenti". Un ostacolo, sostiene la sorella Carla, anche ai buoni rapporti tra il capo di Saman e il Partito socialista. L' amicizia tra i due soci si era comunque incrinata. L' ordinanza riferisce di un litigio e di un fax con il quale Cardella aveva voluto l' allontanamento di Rostagno dal Gabbiano, la residenza per i responsabili della comunità Saman di Lenzi, vicino a Trapani. Il motivo della lite, che Cardella e la Roveri indicano in un' intervista rilasciata da Mauro Rostagno al mensile King, per il giudice rimane sconosciuto. Cardella inoltre dichiara di aver saputo dell' omicidio alle 20, "di essersi precipitato a Linate e di essersi imbarcato alle 20,30 o alle 20,40, probabilmente senza biglietto". Altri dicono invece che avrebbe saputo alle 21 della morte di Rostagno, avvenuta dopo le 20, e che sarebbe partito alle 22. Contraddizioni che finiscono per avvalorare la tesi, secondo la quale Cardella era "a conoscenza che il Rostagno sarebbe stato ucciso quella sera". COSI' SI DIFENDE IL GRANDE CAPO DELLA COMUNITA' IO COLPEVOLE? MACCHE', L' OBIETTIVO E' CRAXI "Non ci sono killer a Saman. E i giudici mostrino le prove". Cardella comunica e protesta via fax dalla sua latitanza, quasi esclusivamente con l' agenzia Ansa. La prima lettera, spedita il 24 luglio, dice: "La telenovela del delitto Rostagno, maturata nell' ambito di Saman che ha portato in carcere Chicca e un numero ancora imprecisato di ospiti della Comunità, è un teorema giudiziario così fragile e fantasioso che è destinato a crollare sotto i colpi di quella verità che vorrebbe ricostruire. (...) Non venne dalla comunità la mano che assassinò Rostagno. Non c' era nessuna pulsione di morte all' interno di Saman (...) Nessuna "quinta colonna" della criminalità organizzata, perché la criminalità organizzata non si intossica (si limita a commercializzare in grandi quantità) e quindi non si disintossica. (...) Il dottor Garofalo dica ciò che ha scoperto - le prove - senza nascondersi dietro un teorema che va dal delitto ordinato da me per la paura di Mauro a quello favorito dalla moglie fedifraga e quello commesso dagli ex compagni di Lotta Continua. Non si è mai visto un delitto con tre moventi coincidenti". Secondo comunicato, spedito il 26 luglio, con intestazione Mayfair hotel di New York: "Chicca Roveri e gli altri arrestati stanno scontando il prezzo dell' amicizia di Cardella con Bettino Craxi. Sono disposto a presentarmi ai giudici di Trapani, se scarcereranno Chicca, Rallo, Marrocco, Oldrini, la povera Monica Serra e Cammisa, se nel frattempo è finito dentro. (...) Mentre in alto si svolge il dibattito sull' autocritica mancata di Lotta Continua e il povero Martelli è costretto a spiegare che non depistò le indagini, (...) in basso in cucina si prepara la zuppa più ambita dagli italiani: la distruzione morale di Craxi". Terzo comunicato, il 6 agosto (a commento dell' intervista rilasciata dal giudice Ingoglia a Repubblica il 2 agosto): "Il mio linciaggio si compie e io la invito formalmente, signor giudice, a astenersi, perché lei è venuta meno a una elementare esigenza: lei non è più un giudice terzo, e io non mi sento più tutelato. La giudice con soave candore si confessa a Repubblica: esecutori e mandanti dell' omicdio sono individuati. (...) La sua intervista signor giudice, è la prova che il processo può dare diritti a chi non ne ha e toglierli a chi li possiede. (...) I ragazzi da lei carcerati con fonti "genuine" ma lontane dalla verità, sono definitivamente perduti: anni di amore, di attenzione, sono stati seppelliti dalla passione, forse dalla follia, sicuramente dal furore del giustizialismo. (...) Non posso far altro che chiedere che lei abbandoni il processo (...)". Testata Epoca Data pubbl. 02/08/96 Numero 31 Pagina 97 Titolo MA INSOMMA, QUANTE DONNE HA UCCISO QUESTO SIGNORE? Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Giancarlo Beltrame Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Nei terreni di sua proprietà sono stati ritrovati tre cadaveri. In casa aveva le foto di altre due ragazze scomparse nel nulla. Lui, Gianfranco Stevanin, 35 anni, nega di essere un assassino. Però, dopo un anno di silenzio, ha cominciato a ricordare. E a raccontare. Per i suoi legali è solo un uomo malato. Per i magistrati un serial killer. Che potrebbe nascondere altre terribili verità. "E' un caso difficile sia sotto il profilo psichiatrico, sia sotto quello giudiziario" Dice l' avvocato difensore: "Per anni dopo un' operazione al cervello lo hanno imbottito di psicofarmaci" Didascalia Gianfranco Stevanin, 35 anni. Il pubblico ministero di Verona lo accusa di aver ucciso tre donne e lo sospetta di altri due omicidi. A fianco: gli avvocati Cesare Dal Maso (a sinistra) e Daniele Acebbi, che difendono Gianfranco Stevanin. Il giovane ha anche un terzo difensore, Lino Roetta. Sotto: il pubblico ministero Maria Grazia Omboni. A fianco: Biljana Pavlovic, 26 anni, serba. In alto: Claudia Pulejo, 30 anni, di Legnago (Verona). Sarebbero due vittime di Stevanin. Testo I suoi passatempi preferiti sono i puzzle. Ore intere a incastrare il pezzo giusto. Smette solo per esaminare i fascicoli giudiziari che lo riguardano o per leggere testi di biologia. Nella cella d' isolamento del carcere di Montorio, a Verona, Gianfranco Stevanin - 35 anni, possidente terriero di Terrazzo, nella bassa veneta, accusato di aver ammazzato cinque delle sue amanti - è come se cercasse di rimettere assieme dentro di sé i tasselli di un mosaico di sangue. Dopo un anno di silenzio, Stevanin ha deciso di parlare, di raccontare almeno una parte di verità. Quella che potrebbe riguardare il macabro ritrovamento avvenuto il 3 luglio 1995 alla periferia di Terrazzo: un troncone di donna, senza testa, né braccia, né gambe, chiuso in un sacco di iuta. Stevanin non sa il nome della vittima. Dice che si trattava di una prostituta. Confessa di aver fatto l' amore con lei due volte, ma di non averla ammazzata. "L' ho trovata all' improvviso priva di sensi. Ho auscultato il cuore e mi sono accorto che era morta. Allora ho deciso di nascondere il cadavere nei campi, e poi l' ho fatto a pezzi", ha raccontato al magistrato Maria Grazia Omboni. Ci ha messo tre notti, con un taglierino da balsa, a staccare la testa, a sezionare braccia e gambe. Gli arti li avrebbe gettati in un corso d' acqua, forse l' Adige, forse uno dei tanti canali della zona. La testa non ricorda più dove. Degli altri due cadaveri scoperti, uno il 12 novembre 1995, il secondo venti giorni dopo, attribuiti rispettivamente a Biljana Pavlovic, 26 anni, cameriera a Vicenza, e a Claudia Pulejo, 30 anni, di Legnago, Stevanin dice di non saper nulla. Dichiara di non aver colpa neanche della sparizione di Roswita Adwlasnici, prostituta austriaca, da lui fotografata, e di una seconda che appare sempre in foto a casa sua, ripresa con il capo chino come fosse morta. Inutilmente i carabinieri di Legnago hanno ripreso a scavare nei poderi di Stevanin, pensando forse di ritrovare questi due corpi. Dalle zolle rimosse vicino agli argini dell' Adige non è venuto fuori niente. Nel "triangolo della morte", racchiuso dalle stradine che collegano Torrano, Terrazzo e Nichesola, a una cinquantina di chilometri da Verona, solo i cartelli di sequestro dell' autorità giudiziaria marcano il feudo del delitto: la villa blu a due piani di Torrano dove Stevanin viveva con la madre e il padre, morto alla fine di novembre del 1994, e, qualche chilometro oltre Nichesola, un cascinale di famiglia. Anche dalla memoria annebbiata del presunto assassino riemerge poco. Sì, perché il punto è proprio questo: Stevanin, che tutti dipingono come un giovane gentile, di media cultura, ben educato, sarebbe affetto da una doppia, o forse tripla, quadrupla personalità. Uno scenario intricatissimo persino per l' equipe dei cinque psichiatri che lo hanno seguito in questi mesi, guidati da Ugo Fornari, esperto in materia di delitti plurimi. "Stevanin", dice il suo avvocato, Cesare Dal Maso, "sta cercando di collaborare con la giustizia, di capire, prima di tutto guardando in se stesso, che cosa è successo veramente". Il legale parla di "flash", intermittenze della mente, schegge di ricordi spesso scollegati l' uno d' altro: un caso non facile sotto il profilo psichiatrico. Ma un caso difficile anche sotto il profilo giudiziario. Tutto inizia il 16 dicembre 1994, verso le 3 di notte, quando i poliziotti di una volante di Vicenza vedono scendere da una Lancia Dedra una donna che grida disperata, indicando l' uomo al volante: "Ha una pistola". E' Gabriella Musger, prostituta austriaca che lavora a Vicenza. Il guidatore è Gianfranco Stevanin. La ragazza racconta di aver contrattato 500 mila lire, poi un milione in cambio di alcune foto che l' uomo voleva scattarle. Aveva accettato di andare a casa del cliente, ma qui le cose si erano messe per il verso sbagliato. Stevanin si era rifiutato di pagarla anticipatamente, poi, quando lei aveva chiesto di riportarla in strada, le aveva puntato una pistola. "Mi ha fatto indossare una tuta scollata, di colore azzurro", racconta Gabriella al magistrato, "poi mi ha fatto spogliare di nuovo e mi ha messa a sedere sulle sue ginocchia". Ed ecco la prima foto con l' autoscatto. La seconda richiesta prevedeva che la donna si facesse legare al tavolo di schiena, con gli occhi bendati e una fascia alla bocca. La prostituta si era rifiutata e gli aveva offerto 25 milioni per essere lasciata libera. Ma a Stevanin non bastavano. Le foto, diceva, gli avrebbero fruttato quasi il doppio. La ragazza era allora scappata in bagno, tentando di fuggire. Ma Stevanin "roteando la pistola" l' aveva costretta a salire in camera e ad avere un rapporto con lui. Nonostante Stevanin si difenda dicendo che la pistola era un giocattolo e che non c' era stata nessuna violenza, lo "scherzo" alla prostituta gli costa una condanna a tre anni per stupro. Ma prima ancora, una perquisizione nelle due case di famiglia rivela un "boudoir" da far invidia a De Sade: bende, feticci, riviste porno, migliaia di foto, centinaia di nomi di donne schedate per caratteristiche fisiche e prestazioni sessuali. Stevanin vanta di aver avuto rapporti sessuali con almeno 300 donne, e giochi erotici con coppie contattate tramite inserzione. Ma quello che allarma gli inquirenti è la raccolta di documenti di identità delle sue amanti, tra i quali quelli di Claudia Pulejo e Biljana Pavlovic. Non c' è nessuna prova che colleghi la sparizione delle due al focoso erotomane. Ma il 3 luglio succede qualcosa di nuovo: un contadino di Terrazzo, si trova di fronte a un sacco di juta. Un colpo di falce ed ecco apparire le ossa di un costato. E' il primo cadavere. Tre giorni dopo Stevanin viene indagato per omicidio e occultamento di cadavere. Il 12 novembre sono i carabinieri a scoprire accanto al cascinale di Stevanin un altro cadavere, piegato in due, saponificato. La perizia stabilisce che si tratta del corpo di Biljana Pavlovic. Nel feudo di Stevanin arriva allora il geo-radar, l' apparecchio usato in Inghilterra per inchiodare il mostro di Gloucester, che permette di localizzare corpi estranei nel terreno. Ed ecco il terzo cadavere. Stavolta però è lo stesso Stevanin a indicaredove scavare. In uno dei suoi "flash" ha ricordato qualcosa. Il pubblico ministero Maria Grazia Omboni addebita a Stevanin anche questa vittima, dovrebbe essere la Pulejo. Inoltre lo accusa della sparizione di altre due ragazze. Le loro foto trovate in casa dell' agricoltore fanno temere il peggio. Ma chi è davvero Gianfranco Stevanin? Chi lo conosce dice che è nato e cresciuto in quella bassa veneta dove si fatica tutto il giorno e si tira avanti a denti stretti. Sia il padre Giuseppe sia la madre, Noemi Miola, avrebbero passato anni a "conquistare" ettaro dopo ettaro gli appezzamenti di terreno che hanno poi garantito al figlio il benessere. L' hanno privato d' affetto? Chissà. Di certo si erano preoccupati della sua istruzione, tanto da mandarlo a frequentare le superiori al collegio Saccheri di Montagnana. Gianfranco, sveglio, intelligente, non aveva però un carattere facile. Non amava far gioco di squadra, dicono i compagni. Era piuttosto solitario, talvolta aggressivo. In tasca, e si parla dei primi anni Settanta, aveva sempre un biglietto da centomila lire. Era anche un contafrottole, con la fissa della Ferrari che il padre prima o poi gli avrebbe dovuto comprare, e delle moto di grossa cilindrata. Su una di queste il 21 novembre 1976, a 15 anni, perse l' equilibrio, si ruppe la testa e finì in coma. Gli dovettero ricosturire la scatola cranica con una piastra d' argento. E da allora si è cominciato a parlare di epilessia, qualcosa nel suo cervello ha smesso di funzionare. Nel 1979 cominciano i guai giudiziari. Il primo arresto in provincia di Padova per il finto sequestro di se stesso, con il quale aveva cercato di spillare due milioni al padre. Due mesi dopo un' accusa di scippo. E le donne? Tra le tante ragazze schedate dall' agricoltore, quelle interrogate dai magistrati danno versioni diverse. Maria Amelia, due anni di relazione con lui, ricorda una foto in topless sulla spiaggia. Un' altra, Antonia, che l' aveva conosciuto tramite un annuncio radiofonico per aspiranti modelle, interruppe i rapporti, "poiché la qualità degli scatti e la correttezza di lui lasciavano molto a desiderare". Un' altra, dopo due mesi di fidanzamento, si sentì chiedere di usare un vibratore. Malato di sesso o piuttosto malato di mente, Gianfranco Stevanin? L' avvocato Dal Maso, che sembra propendere per una seminfermità mentale, insiste sul fatto che si tratta di un soggetto, per via dell' operazione al cervello, bombardato per anni con psicofarmaci. La perizia pschiatrica firmata da Mario Marigo, direttore dell' Istituto di medicina legale dell' università di Verona, conferma la patologia di tipo epilettico e parla di una personalità affetta "da labilità emozionale, mancanza di controllo della propria pulsionalità, senza capacità di valutazione delle situazioni sociali...". Ma per i cinque psichiatri che da mesi lo seguono, Stevanin potrebbe già essere un caso da letteratura criminale: Dottor Jekyll e uno, due, tre, cento Mister Hyde. BOX STEVANIN SCHEDAVA E FOTOGRAFAVA TUTTE LE SUE AMANTI UN ARCHIVIO PIENO DI SEGRETI Di due ragazze uccise teneva anche i documenti. Tre corpi ritrovati, di cui due identificati, più il sospetto di altri due omicidi. Ecco secondo l' accusa chi sono le vittime di Gianfranco Stevanin. Biljana Pavlovic, 26 anni, origini serbe. Fa la cameriera ad Arzignano, in provincia di Vicenza. Scompare dalla circolazione alcuni mesi prima dell' arresto di Stevanin. Le sue fotografie vengono trovate a casa dell' agricoltore insieme con i documenti e con il suo permesso di soggiorno, particolare che mette in allarme in magistrati. Quale extracomunitaria girerebbe senza? Il suo cadavere viene trovato "saponificato" a Nichesola, nel casolare di via Brazzetto di proprietà di Stevanin. Claudia Pulejo, 30 anni, tossicodipendente di Legnago. Non si hanno più notizie di lei dal gennaio 1994. Anche le sue foto e i suoi documenti di identità sono a casa di Stevanin. Il suo cadavere, avvolto nel domopak, viene scoperto sempre nel casolare di via Brazzetto. Roswita Adwlasnici, prostituta austriaca. E' la terza donna scomparsa nella zona, fotografata e schedata da Stevanin. Il suo cadavere non è stato ritrovato. C' è il sospetto che si possa trattare del troncone senza arti, trovato sugli argini di un torrente alla periferia di Terrazzo. Ma Stevanin nega. Avrebbe sezionato una prostituta morta dopo un rapporto, ma non si tratterebbe di Roswita. Anonima. E' una donna fotografata da Stevanin. Non si conoscono le generalità, ma alcuni dettagli della foto, in particolare il collo reclinato, farebbero pensare che sia stata ritratta da morta. Testata Epoca Data pubbl. 30/06/96 Numero 26 Pagina 86 Titolo GIGI SABANI E IL GIUDICE ANTIMOLESTIE Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Stessa città (Biella), stessi sospetti (abusi sessuali), stesso magistrato (Alessandro Chionna). Dopo il dramma della famiglia suicida per le dichiarazioni di due bambini, il giallo dell' imitatore più famoso d' Italia. Colpevole o vittima? "Epoca" ha parlato con tutti i protagonisti. A cominciare dal grande accusatore. Didascalia Sopra: il pm Alessandro Chionna, 29 anni. In alto: Gigi Sabani, 44 anni. A destra: Katia Duso, 21 anni. Sopra e in alto: Nello Ramella Paia, 42 anni, titolare a Biella di un' agenzia per modelle. Sabani con una amica, Fabiana, in uno degli ultimi momenti di serenità prima che per lui scattassero, il 18 giugno, gli arresti domiciliari. Testo LA CARRIERA E IL PRIVATO DI GIGI ULTIMO A SCUOLA, IN TIVU' HA SFONDATO Nome Gigi Cognome Sabani Nato a Roma, il 5 ottobre 1952 Segno zodiacale Bilancia Famiglia Il padre, Fernando, scomparso nel 1976, era cameriere in un ristorante. La madre, Liliana, 75 anni, è casalinga Studi Licenza media. Ha abbandonato l' Istituto professionale per il commercio dopo due consecutive bocciature in seconda Carriera Esordio in tivù nel 1976 a P. T. S., emittente romana. Nel' 79 appare nella Gondola d' oro su RaiUno, ed esplode: Domenica In nell' 80, il suo primo Fantastico nell' 81. Nell' 83 è a Fantastico 3 e poi esordisce sulle reti Fininvest con Premiatissima: il continuo vai e vieni dal Biscione alla Rai è una prerogativa di Sabani. Dall' 83 all' 85 conduce Ok il prezzo è giusto. Ritorna alla Rai per Chi tiriamo in ballo (' 86 e' 87); nel' 90 presenta Stasera mi butto; nel' 93-' 94 conduce per Raidue Il grande gioco dell' oca, e nel' 95 torna a Italia 1 per Re per una notte Amori Attualmente si dichiara single. E' separato da Rita Imperi, sposata nel' 79, da cui ha avuto il figlio Simone, 16 anni. Dal' 91 al' 95 ha avuto una relazione con Anita Ceccariglia, 25 anni Hobby Le auto di lusso e di gran cilindrata, che cambia spesso Prima la faccenda del suicidio, quattro persone, nonni e genitori, che si sono tolte la vita, stroncate dall' accusa di molestie sessuali ai loro due figli e nipotini. Poi l' arresto di Gigi Sabani per induzione alla prostituzione. Due brutte storie come queste, a distanza di dieci giorni l' una dall' altra, per la placida e industriosa Biella sono davvero troppe. Come troppo sembrerebbe lo zelo del pubblico ministero che ha in mano entrambe le inchieste, Alessandro Chionna. Va bene la faccenda delle molestie sessuali, visto che si svolgeva a Sagliano Micca, a pochi chilometri da qui, ma quella di Sabani, si chiedono in tanti, che c' entra con Biella? In realtà con la fase due del dossier Sabani Biella c' entra poco o nulla. La star televisiva è accusata dal suo ex factotum, Beppe Pagano, di essersi portata a letto ragazze promettendo loro provini e contratti tivù. Chionna tra l' altro ha ascoltato Raffaella Zardo, 22 anni, fotografata in compagnia di Luciano De Crescenzo e poi del calciatore Weah, e una sua amica, Patrizia de Angelis, 20 anni. Ma entrambe, coi giornalisti, hanno difeso Sabani. Visto che i fatti sarebbero successi ad Abano Terme e a Roma, l' inchiesta sarebbe spettata per competenza alla procura della capitale. E infatti a una prima richiesta di arresto avanzata dal magistrato, il gip romano aveva risposto picche. Ma Chionna non s' è lasciato scoraggiare: ha trovato una nuova testimone, una ragazza biellese. Rieccoci così a Biella, il cui Palazzo di Giustizia è stato per l' occasione ribattezzato da Vittorio Sgarbi "procura del sesso". A giustificare l' ostinazione di Chionna c' è però un antefatto: un' indagine su Sabani dell' aprile 1995, che supporta a meraviglia la pista biellese e che protremmo chiamare fase uno. Una storia che si sviluppa nel sottobosco dello spettacolo, con una girandola di protagonisti, tutti, per un verso o per un altro, collegati a Sabani: Katia Duso, giovane barista biellese con aspirazioni da fotomodella; Nello Ramella Paia, talent-scout di provincia (anche lui biellese) con ambizioni di cantante; Beppe Pagano, ex uomo di fiducia del presentatore con intenti di gran vendicatore... Secondo quell' indagine Katia, frequentatrice di un corso organizzato dall' agenzia Celebrità, gestita da Ramella, nel 1992, a 17 anni, fu portata a Roma, complice Pagano, per finire dritta nelle braccia di Sabani. Previa promessa di provini e ingaggi televisivi. Per quella storia Ramella, Pagano e Sabani sono stati appena rinviati a giudizio. Ramella, accusato da altre quattro minorenni di truffa per via dei suoi corsi dove prometteva ingaggi, si fece una settimana di galera. Beppe Pagano addirittura due mesi. Ma vediamo di ricostruirla, questa fase uno del dossier Sabani. Cominciamo da Katia Duso. Che premette: "Per parlare con i giornalisti voglio dei soldi". Poi lascia perdere. E racconta. Ventun anni, piccola, magra, due grandi occhi azzurri, nel 1992 era una delle tante ragazzine che vivono, senza troppe prospettive ai margini di una provincia sonnolenta. Figlia di operai divorziati, entrambi in pensione, abita con la madre in un palazzina dai mattoni rossi alla periferia di Biella. Scuola poca (diploma di terza media), lavoro invece tanto: "Ho cominciato a 14 anni: operaia, barista, ragazza immagine in discoteca", racconta ai tavolini del caffè Italia, dove ora lavora come cameriera. "Non avevo mai pensato di fare spettacolo, fino a quando non ho trovato nella buca delle lettere un annuncio pubblicitario". Era quello dell' agenzia Celebrità che prometteva corsi per modella e truccatrice. "Mia madre non voleva saperne, ma poi visto che le rate del corso, tre milioni e 900 mila lire, le avrei pagate io, ha detto di sì". Ed ecco che Katia conosce Nello Ramella Paia, quarantenne rampante che a Biella sbandiera "contatti nel mondo dello spettacolo". "Prometteva servizi fotografici, sfilate, provini, ma non si vedeva niente. Un giorno finalmente, novembre 1992, mi ha detto: "Katia ti vedo pronta. Ti porto a Roma". Già il viaggio in treno è stato un martirio. Ramella ci provava e riprovava... Poi a Roma è venuto a prenderci Pagano per accompagnarci in trasmissione da Sabani". L' incontro avviene nei corridoi: "Gigi mi guarda e mi chiama "spaghetto". Poi vedo che fa un cenno a Ramella e Pagano". La serata continua al ristorante, aspettando il presentatore, che si presenta dopo cena con una Croma bianca. "Mi porta al Colosseo, poi: "Vuoi salire da me?"". Katia dice di sì. "Ero imbarazzata. Pagano mi aveva detto che dovevo esser carina...". Un' avventura consumata in fretta, finita senza strascichi. "Ramella mi raccomanda di dire alle altre ragazze del corso di esser stata a Roma per un servizio fotografico. Un mese dopo viene invitato come cantante alla trasmissione di Gigi. Uno scambio di favori? Chissà... Io nel frattempo mi stufo e riprendo a lavorare come barista". Tutto sarebbe finito lì se due anni fa quattro ragazze di Biella non avessero denunciato per truffa l' agenzia Celebrità e per molestie sessuali il suo titolare, Ramella. Katia, interrogata da Chionna, diventa un personaggio pubblico: vende un memoriale a Visto, partecipa al concorso Teen-agers, alla selezione di Lina Wertmuller per il film Ninfa Plebea, a un paio di trasmissioni in Rai. Ma non accusa Sabani: "Lui non mi ha promesso niente. Solo gli altri due, Pagano e Ramella". Il proprietario dell' agenzia Celebrità, 42 anni, Rolex d' oro al polso, vive in una villa appena fuori Biella, tappezzerie damascate e pantera nera di ceramica che fa da guardia al salotto. "Che vogliamo scrivere su queste zoccole?", esordisce, passandosi le dita nel ciuffo. Anche lui per raccontare la sua verità chiede soldi. Ma intanto parla lo stesso. "Questa è una montatura. Nasce da una mia ex dipendente, Mariella Gallarini. Ne ha combinate tante che ho dovuta radiarla. E' stata lei ad aizzare le ragazze contro di me". Da anni Ramella zigzaga nel mondo dello spettacolo, aspettando di sfondare come cantante: "Ho lavorato con Walter Chiari, con Isabella Biagini. Sono stato da Funari. Ho inciso anche un Lp, eccolo qui, Zingaro...". Ha conosciuto Sabani a Biella, durante una puntata di Piacere, Rai Uno. L' ha rincontrato poi in trasmissione a Roma. "E' stata in una di queste occasioni che Katia mi ha pregato di portarla". Dalle accuse delle altre ragazze si difende con un' impennata da Kevin Costner: "Avance? Sono io che le ho subite... Una ragazzina di 13 anni, figlia di una prostituta, che mi si è buttata addosso in macchina... Un' altra che si è tagliata le vene. E poi le madri... Mi mettevano pacchi di milioni sul tavolo supplicandomi di lanciare le proprie figlie". E Pagano? Su di lui Ramella non fiata. Si sbilancia il suo addetto alle pubbliche relazioni, l' ingegnere Giuseppe Botera: "Pagano è il tipino che va a incassare i soldi delle serate. Il classico picchiatore, niente cultura, solo sesso e denaro. Ha chiesto soldi a Ramella per non parlare con il pubblico ministero. Ma poi quando si è accorto che Sabani l' aveva scaricato e che era pronto a patteggiare, ha deciso di far scoppiare la bomba". E la bomba è scoppiata. Pagano, 48 anni, dopo la storia di Katia Duso ha cominciato a raccontare una catena di altri fatti che avrebbero al centro Sabani. Ma gratis è disposto a parlare solo di sé. "Per anni sono stato il suo autista, la sua guardia del corpo, il suo bollettaro, cioè quello che gli pagava le bollette, che incassava i soldi, che veniva svegliato nel cuore della notte perché lui aveva paura a salire da solo a casa. Non solo non mi ha mai dato quello che mi doveva, solo percentuali in nero sulle sue serate (400,500 mila lire), ma mi sono anche fatto due mesi di galera per coprirlo. E in cambio mi ha scaricato". Per l' ex factotum, parrucchiere a Napoli, poi manager di cantanti locali, dal 1989 accompagnatore di personaggi come i Ricchi e poveri, Eduardo De Crescenzo, Toto Cutugno, è il precipizio. Il baratro nel quale cerca di tirarsi dietro anche l' ex amico: "Come nacque la storia di Katia? Sabani mi disse: chiedi a Ramella di portare un po' di donne. Poi mi ha raccomandato di preparare la ragazza con bei discorsetti: come doveva essere carina se sperava di arrivare a qualcosa... Lo stesso che ha fatto con le altre". Nell' ambiente funziona così? Anche peggio, a giudizio del pubblico ministero Chionna. Testata Epoca Data pubbl. 16/06/96 Numero 24 Pagina 84 Titolo BIELLA VOCI DA UN MISTERO Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Che cosa sia accaduto davvero, nella casa della famiglia di Alba e Attilio F., non lo sapremo mai. Restano quattro vite stroncate: chi dice per la vergogna, chi dice per il rimorso. E due bambini calpestati: vittime e strumenti, qualunque sia la verità, della violenza e della follia degli adulti. Didascalia IL NONNO Attilio, 70 anni. Dopo aver gestito un laboratorio artigiano, aveva lavorato come guardiano. LA NONNA Alba, 68 anni. Casalinga. Era stata arrestata con il figlio e la figlia. Poi erano stati tutti scarcerati. Il PADRE Guido, 36 anni, impiegato. Si era separato nel 1995, a febbraio, dopo 12 anni di matrimonio con Daniela, 32. LA MADRE Maria Cristina, 40 anni, maestra. Separata. Viveva con la figlia (ora in istituto) assieme ai genitori. Testo Si sono suicidati in quattro, con il gas di scarico dell' auto, nella notte tra mercoledì 5 e giovedì 6 giugno, a Sagliano Micca (Biella), mentre era in corso il processo che aspettavano da un anno. Alba F., 68 anni, il marito Attilio F., 70 anni, i due figli, Guido, 36 anni, e Maria Cristina, 40, non hanno retto alla vergogna di quell' accusa: abusi sessuali su due bambini, un ragazzino di 10 anni e una ragazzina di 7, figli rispettivamente di Guido e di Maria Cristina, nipoti di Alba e Attilio. Ecco, attraverso le voci di chi l' ha vissuta da vicino e di altri testimoni ed esperti, la ricostruzione della tragedia. La voce di Maria Cristina E' la madre (suicida) della ragazzina. In un biglietto trovato in camera dice: "Spero che la bambina mi raggiunga presto". La voce di Alba, la nonna Scrive in una lettera lasciata in camera: "Ho avuto fiducia nella giustizia fino al 31 maggio. Dopo che è iniziato il processo mi sono resa conto che non ci avrebbe creduto nessuno e che non avremmo potuto difenderci da quelle accuse infamanti". La voce di Attilio, il nonno Disse alla vigilia del processo: "Tanto hanno già deciso..." La voce dei quattro suicidi Hanno scritto in un biglietto lasciato sul parabrezza dell' auto: "Siamo innocenti, moriamo a causa di una giustizia che non ci ha dato modo di difenderci". La voce del bambino "Anche il nonno toccava mia cugina. Non l' ho detto prima perché era l' unico ad essere buono con la mamma". Il 31 maggio, protetto da una barriera di vetro, ha ricostruito i fatti per il Tribunale mimando con sei bambole accoppiamenti e scambi di partner: "Ecco papà metteva il suo coso lì, la nonna baciava la zia, così sulla bocca...". La voce della bambina E' muta. Dice il terapeuta che la cura: "Ha chiuso i rapporti con il mondo degli adulti". Le poche volte che parla "lo fa con una voce da bambina, ancora più piccola di quello che è". La voce di Daniela E' la mamma (separata) del bambino, accusata di averlo istigato a denunciare il papà: "Volevo proteggerlo. Non ho mai preteso vendetta. Ciò che è successo è terribile. Ho paura soltanto per mio figlio, non voglio che soffra di nuovo". La voce della parte civile Dice Dario Piola, legale di Daniela: "C' è chi ha descritto la mia cliente come una donna diabolica, che ha indottrinato il figlio per ripicca sull' ex marito. Non è vero". La voce del giudice Paolo Bernardini, giudice delle indagini preliminari: "A fronte della narrata pesantezza delle turpi attenzioni mancano dei fondamentali riscontri di carattere medico sulla bambina. La querelante (cioè Daniela, madre del bambino, n.d.r,) mostra una grande ostilità". La voce del pm Alessandro Chionna, sostituto procuratore: "Lo so che adesso mi riterrano responsabile di quelle morti. Sono addolorato di quanto è successo. Io però sono a posto con la mia coscienza. L' inchiesta è stata svolta con la massima serietà (...) Il racconto del bambino era troppo preciso, non poteva essersi inventato quei particolari terribili. Ho ordinato una perizia sulla cugina. La riposta del ginecolo fu chiarissima: l' imene della bambina presentava tracce compatibili con una penetrazione digitale commessa da adulti(...) Ho nuovamente interrogato il bimbo, il giorno prima che i suoi parenti fossero scarcerati. Per due ore ha ripetuto le accuse, negli ultimi due minuti ha sospirato: "Non è vero, mi sono inventato tutto". Ma io sapevo che dovevo aspettarmi una ritrattazione. Ho aspettato e l' ho interrogato ancora. Mi ha detto che aveva ritrattato per paura". La voce della difesa Dante Bodo, l' avvocato che difendeva nonna Alba, il marito e i suoi due figli, commenta: "Si pensava che con la deposizione dei bambini il processo potesse prendere una piega migliore, invece era andato nel peggiore dei modi. E' stata una testimonianza terribile. Però ho sempre creduto nell' innocenza dei quattro". La voce dello psicologo Paola Piola, lavora presso il servizio di neuropsichiatria infantile di Vercelli: "E' stato terribile vedere quel bambino ricostruire fatti terrificanti come se si trattasse di un gioco. La bambina, più spaventata, si limitava ad annuire con la testa... Ma il suicidio è una tragedia che si aggiunge a un' altra tragedia. In fondo le vittime sono ancora i bambini. Ora sono anche rimasti senza genitori". La voce del perito Alessandra Lancillotti, psicologa dell' Associazione contro l' abuso sessuale interfamiliare, ha firmato la perizia psicologica su Guido, il padre, dopo la denuncia per incesto: "Quel bambino è un bugiardo. Era completamente plagiato dalla madre. Ho parlato con lui, con i compagni di scuola, con la maestra e tutti mi hanno detto la stessa cosa: dice menzogne, anche gratuite e inutili. Vive in un mondo fatto di invenzioni sue e sconcezze inculcate dalla mamma". La voce del barbiere Salvatore Manzi è un artigiano di Sagliano, il paese della tragedia: "Se quei quattro poveretti sono arrivati fin lì, è per moralità". La voce della tabaccaia Edvige Coda: "Questo è un paese di trogloditi. C' è vergogna, dietro questi muri (...) Già, lo so che il paese è a favore, perché quelli di Sagliano non bisogna toccarli. Io la chiamo omertà. Se non ci fosse stata della verità, in quello che hanno raccontato i bambini, non sarebbe successo quel che è successo". La voce della giornalaia Cristina Ferraro: "Un anno è lungo. Non so se basta la solidarietà. Loro parlavano con tutti, si vedevano in giro. E dicevano: è difficile da sopportare. Adesso colpevoli, o innocenti sono tutte vite rovinate". La voce delle mamme "Avevamo fatto circolare un appello, una raccolta di firme. Chiedevamo che la bambina tornasse, che non stesse in istituto". Una mamma: "Tutti giocano con i bambini. Mio marito alla bambina fa il bidet alla sera, o le mette la crema. Adesso non più, ha paura: e se qualcuno pensa male?" La voce del parroco Don Renato Bertolla: "Loro quattro erano angosciati, non sapevano come dimostrare la loro innocenza. Non hanno retto a questa difficoltà psicologica. Ma c' è stata una solidarietà immensa e, almeno qui, in paese, nessuno ha mai creduto alla loro colpevolezza". La voce del sindaco Erminio Bellino: "Erano persone affabili, disponibili, gente per bene. Tutta questa faccenda è assolutamente incredibile. C' era anche una petizione in loro favore. Chiedevamo che la bambina potesse tornare alla famiglia. Tra l' altro sarebbe meglio, perché per legge tocca a noi pagare 125 mila lire al giorno di retta all' istituto di Torino dove l' hanno messa". La voce dello psichiatra Afferma Paolo Crepet: "Il suicidio è una chiara ammissione di colpa. Bisogna sempre prendere le difese dei bambini. Credere in loro. Dare tonnellate di amore". La voce di Telefono Azzurro Dice Ernesto Caffo: "Fino a poco tempo fa si faceva di tutto per negare l' abuso sessuale sui bambini. Oggi rischiamo di passare dalla parte opposta. I racconti dei bambini devono essere vagliati con estrema prudenza da equipe specializzate". La voce di "Epoca" Colpevoli o innocenti? Forse non lo sapremo mai. E a questo punto, conta abbastanza poco: gli imputati sono morti, il caso è chiuso. Ma un altro se ne apre, e riguarda tutti noi. Nasce da alcune semplici domande. E' mai possibile che quattro persone fino a quel momento rispettate e rispettabili, accusate di colpe così gravi, debbano aspettare un anno per poter essere giudicate? E' tollerabile che, di fronte a un' accusa di violenza sessuale a due bambini, ci vogliano ben 12 mesi di indagini, controindagini, perizie e controperizie, interrogatori e ritrattazioni, ritrattazioni delle ritrattazioni, arresti e scarcerazioni, prima di arrivare non alla sentenza finale, ma semplicemente al processo di primo grado? Come si può pretendere che chi è stato avvolto da un tale infamante sospetto abbia la forza d' animo necessaria per continuare a vivere in un paese, in una comunità, tra la gente che ti conosce, ti giudica, ti guarda? In questa triste storia di Biella, nessuno vince. Ma c' è chi perde più di tutti: la Giustizia. Che è arrivata, come sempre, troppo tardi. Testata Epoca Data pubbl. 12/05/96 Numero 19 Pagina 86 Titolo IN VIAGGIO NEL NOSTRO CORPO ORA SI PUO' VEDERE DENTRO COME IN UN FILM Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI FOTO DI PASCAL GOETGHELUCK Sezione STORIE Occhiello SCIENZA Sommario Sembra quasi un videogame. Invece è un grande passo avanti per scoprire con l' aiuto del computer i malanni degli organi interni. Rapidamente. Con precisione. E senza dolore. "Presto non sarà più necessario l' uso delle sonde, così fastidiose, per esaminare i bronchi o lo stomaco" "Mentre chiedo al paziente di muovere un dito, sono in grado di capire quale parte del suo cervello ha dato l' ordine" Didascalia Il dottor Denis Gardeur mentre ricostruisce l' immagine, a tre dimensioni, dell' arteria di un paziente. Giuseppe Scotti, primario neuroradiologo del San Raffaele di Milano. Tre immagini del volto di un paziente (in questo caso un cronista di Figaro Magazine), che si è sottoposto a un esame del cranio con la nuova tecnica di indagine. Si possono distinguere perfettamente, in diverse "proiezioni", le ossa e le cavità nasali. Dentro la carotide. I grossi grumi che ostruiscono l' ingresso sono placche calcificate. Possono essere all' origine delle trombosi. Ecco le costole, così come l' operatore alla consolle si è "divertito" a mostrarcele: viste dal canale del rachide attraverso una vertebra. Le mucose nasali ricostruite in un modo assolutamente impossibile da vedere con l' endoscopio. Il nuovo sistema permette di scoprire infiammazioni ed, eventualmente, anche polipi. L' esplorazione dell' orecchio interno. E' davvero incredibile pensare che in qualche minuto, e senza dolore, si possano visitare strutture millimetriche. Una veduta della trachea e, sul fondo, la biforcazione dei bronchi. Immagini simili finora si potevano avere solo attraverso l' esame con gli endoscopi. Un aneurisma (vale a dire la dilatazione di un punto debole su un' arteria cerebrale) raffigurato dal computer in base ai dati forniti dalla Tac. Un' ottima immagine per il chirurgo. Testo L' uomo, un tunisino trasportato in coma all' ospedale San Raffaele di Milano, giace nudo sul lettino. Le radiazioni impressionano sullo schermo di un computer le immagini della sua scatola cranica, in sezione, millimetro dopo millimetro. La Tac registra fratture multiple. Ma fin qui niente di eccezionale. La novità sta in quello che succede dopo: la rielaborazione, grazie al sofisticato programma di un secondo computer, delle immagini raccolte durante il primo esame. E' così che comincia il viaggio alle nuove frontiere della radiologia, con un percorso tridimensionale all' interno del cranio del paziente. Lo schermo compone le immagini, regala loro volume, le scompone, mostra l' esterno, l' interno, i pieni, i vuoti, rivelando i segreti di una delle parti più oscure del nostro organismo. Come se all' improvviso la drammatica odissea di Viaggio allucinante (il film con Raquel Welch realizzato giusto trent' anni fa e che raccontava l' avventura di un' équipe medica miniaturizzata dentro i vasi sanguigni di un ignaro paziente) fosse diventata realtà. "Lavoriamo con questi programmi già da un po' di tempo", dice Giuseppe Scotti, primario del servizio di neuroradiologia del San Raffaele. "Ma sarà nei prossimi mesi che riusciremo ad avere una definizione più esatta e precisa delle immagini radiografiche". Il San Raffaele, infatti, è il primo ospedale in Italia ad aver acquistato tre nuovi sistemi di software (250 milioni l' uno), che andranno a corredo di tre nuovi macchinari: uno per la Tac, uno per la risonanza magnetica, il terzo per l' angiografia. Tre Work station, stazioni di lavoro, prodotte due dalla General Electric, il colosso industriale americano, il terzo dalla Siemens, tedesca, che permetteranno, anche se in maniera virtuale, di esplorare su uno schermo a colori l' interno del corpo umano, di diagnosticare disfunzioni e malattie con realismo di immagini e nitidezza di particolari come nessuna radiografia aveva finora permesso di fare. Una rivoluzione? Il professor Scotti minimizza, con il malcelato fastidio dello scienziato a cospetto di profani: "E' solo un esempio di "computer graphic" applicata alla medicina. Un buon sistema per risparmiare tempo. Se prima con una Tac impiegavamo 4 minuti per esaminare una "fetta", adesso con il programma HiSpeed, il nome dato dalla General Electric ai suoi software, possiamo completare l' intero esame in meno di un minuto". Se la Tac tradizionale seziona l' organo, lasciando ai radiologi e poi agli specialisti il compito di ricomporre le varie sezioni, con i nuovi software l' immagine viene infatti automaticamente rielaborata in maniera tridimensionale. Non sarà una scoperta da Nobel come fu la Tac, inventata nel 1972 da Godfrej Hounsfield (che ottenne il riconoscimento dell' Accademia Svedese nel 1979), ma è sicuramente un' innovazione che ridurrà i margini di errore nelle diagnosi. E diminuirà di un quinto, secondo quanto dicono a Parigi, anche la dose di radiazioni assorbite dal paziente. Se il San Raffaele di Milano sarà il primo ospedale in Italia ad acquistare il programma HiSpeed, nella capitale francese c' è già chi lo usa quotidianamente e chi - per illustrarne le meraviglie - ha voluto sperimentarlo su se stesso. Come ha fatto Patrice Lanoy, un giornalista di Figaro Magazine, che ha visitato l' istituto di ricerca e di sviluppo dell' immagine medicale della General Electric, diretto dal radiologo Denis Gardeur, e ha deciso di sottoporsi a un esame. Il risultato è stato strabiliante. Un "clic" all' interno del cranio, un altro nelle cavità nasali, il terzo tra le radici dei suoi denti ed ecco trovata l' origine della sua sinusite cronica in un paio di granulomi dentari. Una diagnosi veloce e precisa con dettagli stupefacenti per finezza e realismo. "In condizioni normali", scrive il giornalista, "per avere lo stesso risultato avrei dovuto subire un' endoscopia e ricoverarmi in ospedale". E' con divertito stupore che il cronista francese racconta i "giochi" e i colori del computer mentre riproduce la pelle del suo viso, la superficie ossea, le cavità dell' orecchio, finché la telecamera virtuale infila il suo obiettivo dentro un tunnel, nient' altro che la bocca della sua arteria carotidea. (Per avere immagini simili sarebbe stato necessario un esame con un endoscopio, uno strumento che viene introdotto nell' organismo in anestesia, con tanti disagi e anche qualche rischio per il paziente). Nei laboratori parigini, l' immagine viene poi sfogliata dall' esterno verso l' interno, indagando così nelle profondità più nascoste degli organi, e rivelando tutte quelle anomalie, da piccoli grumi di sangue fino ai carcinomi, consentendo la diagnosi per malattie più o meno gravi. Al Servizio di neuroradiologia del San Raffaele di Milano quelle che per il momento si possono vedere sono immagini in bianco e nero: la testina di un neonato affetto da un' anomalia alle palpebre, il cranio deformato di un altro paziente. "Saranno le consolle che arriveranno nei prossimi mesi, entro giugno, a darci una definizione a colori", dice il professor Scotti. "Ma non esageriamo: siamo di fronte a un' innovazione tecnologica, non a una scoperta scientifica. Le raffigurazioni tridimensionali al computer si possono applicare a tutti gli oggetti, dagli aeroplanini giocattolo ai grattacieli di New York". Se il primario minimizza l' utilità del "viaggio" virtuale ("colpisce l' immaginazione, perché abbiamo a che fare con il cervello, centrale di comando di tutte le funzioni del nostro corpo"), le grandi società stanno invece lanciando le loro scommesse proprio a partire dagli schermi dei computer. La Siemens per esempio sta già applicando un programma, battezzato Vision, sulle apparecchiature per la risonanza magnetica nucleare che prevede l' esplorazione "funzionale" del cervello. "In altre parole", dice Scotti, "mentre chiedo al paziente di muovere un dito, sono in grado di capire quale parte del suo cervello ha dato l' ordine". La Philips osa ancora di più: studia la possibilità di passare dalla diagnostica agli interventi chirurgici veri e propri, spedendo all' interno del corpo umano piccoli robot capaci di operare, come fossero microscopici dottori. Che la fantascientifica ipotesi di Viaggio allucinante stia per divenire realtà? Testata Epoca Data pubbl. 21/04/96 Numero 16 Pagina 76 Titolo PIETRO PACCIANI ORA VIVE IN DISPARTE, MA IN PAESE NON LO PERDONO MAI D' OCCHIO Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI ha collaborato Michele Giontini Sezione STORIE Occhiello CRONACA - MOSTRO / 1 Sommario Siamo andati a Mercatale. E abbiamo scoperto che la gente, lì, lo vorrebbe ancora in galera. Perché... "Lui ci evita e noi lo evitiamo. Con tutto quello che gli pende sulla testa" ENNIO, BARISTA DI MERCATALE Didascalia Pacciani in cucina. Condannato all' ergastolo in primo grado, è stato assolto in appello il 13 febbraio. Testo Prima le minacce. Un urlo rauco, cavernoso, gonfio di rabbia: "Vaffanculo, merda... Vi tiro una pietra che vi porto via un occhio". Poi la sagoma, dietro una tenda, un incedere pesante, il basco in testa, la barba incolta. Ed eccolo, Pietro Pacciani, l' ex mostro di Firenze, tornato in libertà, rintanato come un orco nella casa ritagliata tra antiche mura, recluso nei suoi orti coltivati a peschi, anzi a "pescucci", come dice lui. Eccolo blindato da un mese in un borgo vinicolo di 3 mila anime, Mercatale Val di Pesa, dove gli sguardi bruciano come marchi impressi a fuoco. "Ecco l' "omo"... non fatevi vedere", sussurrano le comari, "Meglio star cheti. Sta tutto il giorno a guardarsi intorno". Zappa e guarda, "aggeggia" e spia. Certamente ubriaco. Pericoloso? "E chi lo sa? Meglio non dargli fastidio e poi non sono affari nostri". Mica tanto. Assolto o meno, per Mercatale Pietro Pacciani è ancora il mostro. La Corte d' Appello di Firenze l' ha scagionato dalla catena di 14 delitti che gli erano stati imputati, tutte le coppiette sgozzate sulle colline toscane tra il 1968 e il 1985. Ma un' inchiesta bis, con un carosello di testimoni a sorpresa e il sospetto di un altro omicidio, quello di Renato Malastesta, marito di una sua vecchia amante, perpetua l' infamia. E la paura. Mille sguardi sono puntati su Pacciani. Esce? Non esce? Dove va? Cosa mangia? Cosa compra? Se pure i carabinieri della vicina San Casciano o gli agenti della questura di Firenze si astenessero dai controlli, se pure Pacciani non fosse sottoposto ad alcune misure di sorveglianza speciale, residui di una precedente condanna per violenza carnale sulle figlie (non può uscire di casa prima delle 7 del mattino e dopo le 6 del pomeriggio), ci penserebbero gli abitanti di Mercatale a tenere nel mirino l' orco. Le prime note si raccolgono in piazza del Popolo, davanti alla vecchia casa dove l' ex-mostro viveva con la moglie, l' Angiolina, e le due figlie. La casa adesso è chiusa. Moglie e figlie sono sparite da Mercatale: l' Angiolina affidata al servizio sociale, la maggiore delle ragazze ingaggiata come governante a Firenze, la piccola accolta in una casa di cura per handicappati. L' orco ha spostato la residenza in una seconda casa, "quella che aveva ristrutturato facendo lavorare le figlie come carpentieri", dicono in paese, "e che dava in affitto ai turisti". Lì, nascosto in un puzzle di piccole gallerie e cortiletti, si è autoconfinato per almeno due settimane. Doveva rimettere in funzione il camino, ma la canna era otturata e gli si è riempita la casa di fumo. Poi è venuto qualcuno a riparare l' impianto elettrico e c' erano anche l' orto da arare e i "pescucci" rinsecchiti da concimare. Tutto il tempo da solo. L' unico che gli si è avvicinato è stato il vicino di casa, Rolando. Il vecchietto, che si affaccia con berretto e giubba verde da cacciatore, minimizza: "Sono andato qualche volta a comprargli il pane e il giornale. Che racconta? Niente di speciale. Parla di quel "poveretto" del Vanni, il "compagno di merende" che ora lo accusa e che lui dice "si è mangiato il cervello"... Riceve qualche visita, ma non da gente del paese". Lo vanno a trovare i collaboratori dell' avvocato difensore, Nino Marazzita, l' investigatore privato Carmelo Lavorino che si dà un gran da fare a controllare eventuali cimici, microspie o chissà quale altra diavoleria piazzata dalla polizia giudiziaria. "E poi tanti curiosi che vengono qui con le macchine fotografiche e si fanno riprendere appoggiati al cancello". Una decina di giorni fa Pacciani ha cominciato a mettere il naso fuori. Ogni uscita ai verbali del popolo di Mercatale. Davanti al negozio di abbigliamento sulla strada principale si ripete la domanda di rito: "Che si è visto l' omo oggi?". "No, oggi no", risponde la proprietaria. "Ma ieri sì. E' passato da qui. Ha camminato sul marciapiede e poi si è fermato a parlare con quel tale che abita sotto l' arco, Milanesi si chiama...". Milanesi non è in casa, ma la moglie è informata di tutto. "Pacciani voleva sapere da mio marito dove è finita la "magoncina", il negozio di ferramenta che stava dietro alle fioriere". Dal ferramenta, il passaggio di Pacciani viene riportato prima con scarni, evasivi particolari: "Voleva l' Attack, per incollare non so quale pezzo della lavatrice". Poi con dettagli man mano più precisi: "Costava troppo: 4 mila e 500 lire e quello lì è tirato con i soldi. Così ha detto che non tocca a lui riparare la lavatrice, ma a non so chi che gliel' ha guastata". L' ortolana, che ha una bottega lì vicino, in compenso si scatena. Pacciani in negozio non l' ha mai visto. Ma le è stato detto, che va in giro con un abito grigio, cravatta e basco nero, curato come mai. Se lo ricorda da ragazzina, quando inseguiva lei e compagni, piccole bande di paese, con fucili e bastoni. "Lo pigliavamo in giro perché in casa teneva le palle di Natale appese tutto l' anno". Dice di avere anche lavorato con lui, quando aveva 16 anni (adesso ne ha 27). "Abbiamo fatto la vendemmia. Puzzava che faceva schifo e io e la mia amica dovevamo andare a mangiare dieci filari più in là. E poi parlava sempre delle sue figlie, come le trattava bene quelle lì. Poverette... la Rosanna, la grande, qualche anno fa, ormai fuori di testa, girava in paese con la radio a tutto volume, e cantava, e ballava, e diceva che aveva smesso di lavorare perché i soldi non le servivano, visto che non voleva più mangiare. La sua fissazione era di arrivare a pesare 34 chili". Riguardo alla colpevolezza di Pacciani, l' ortolana non ha dubbi. "La galera è la sua casa. Un mostro, certo che è un mostro". Reperto. L' infamia pesa. E continuerà a pesare su Mercatale tutta, chissà per quanto. La storia stessa del paese è divisa ormai in due epoche: prima della "Grande Perquisizione" e dopo la "Grande Perquisizione", anno 1992, quando poliziotti e carabinieri misero a ferro e a fuoco il placido borgo del Chianti per incastrare il mostro, arrestato a gennaio del 1993. "Che fosse un tipo strano, si sapeva", dice Ennio, il barista. "Non che si facesse vedere tanto al bar. A parte una volta che, passando, ha notato il poster del Gallo nero e con quella mania di dipingere che ha, mi ha detto: "Te lo rifaccio". L' ha copiato di sana pianta, ma a me non piaceva e l' ho buttato via. A saperlo, oggi sarebbe un reperto". Ennio non ha ancora incontrato Pacciani. E non ha nemmeno idea di come si comporterebbe nell' eventualità di un tête-à-tête: "Siamo tutti imbarazzati. Lui ci evita e noi lo evitiamo. E poi, con quello che pende sulla sua testa, chi ha voglia di compromettersi?". Poco lontano, in fondo al vicoletto, il ruggito dell' orco, "vaffanculo, merda..." si perde in borbottio. Il cancelletto verde resta chiuso. Solo il telo messo a protezione da occhi indiscreti, ondeggia davanti all' atrio della caverna. Testata Epoca Data pubbl. 14/04/96 Numero 15 Pagina 52 Titolo PIACERE, SIAMO I GORILLA Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello ATTUALITA' Sommario Finiscono sempre più spesso in prima pagina: per i flirt con le clienti-dive o le scazzottate al Festival di Sanremo. Ma chi sono davvero le guardie del corpo? Quali vip proteggono? E perché in teoria non esistono neppure? Didascalia DALL' ALBUM DEL N. 1 L' uomo bruno che compare in tutte le foto, accanto a divi e modelle, è Francesco Palazzi, 30 anni, la più famosa guardia del corpo romana: s' è parlato anche di un suo flirt con Julia Roberts. Dall' alto, in senso orario, Palazzi con Jack Nicholson, con Claudia Schiffer, Al Pacino, Naomi Campbell, Kevin Costner e (di spalle) con Richard Gere e Jodie Foster. Nell' altra pagina: uno degli uomini dell' Iba (International bodyguard association) in azione. LEZIONI DI TIRO, DI LOTTA E ... Allievi e istruttori dell' Iba di Ferrara durante le lezioni. Le future "guardie" imparano anche a localizzare le microspie e a confezionare ordigni esplosivi. I FERRI DEL MESTIERE Mario Libonati, 24 anni, con l' attrezzatura necessaria per i suoi corsi di addestramento. Testo Ci sono quelli dell' "Iba" di Ferrara, l' International bodyguard association, che sbandierano un curriculum senza frontiere con addestramento a Mujaheddin afghani, Spetznaz russi, Caschi blu dell' Onu. Quelli della "Verona investigazioni" che scortano cantanti e attori, rischiando, come è successo all' ultimo Sanremo, di beccarsi una denuncia per maltrattamenti a un fotografo. Quelli che flirtano con le clienti, come Francesco Palazzi, 30 anni, una delle guardie del corpo più conosciute di Roma, immortalato di recente in un affettuoso tete-à-tete con l' attrice Julia Roberts. E anche quelli che, poco oltre la frontiera, arrivano a sposare blasonate signorine, come Daniel Ducruet, ex gorilla, oggi marito, di Stefania di Monaco. Ma che razza di mestiere è questo della "bodyguard" che periodicamente sbuca fuori, sospeso tra cronaca rosa e cronaca nera? Un tempo era un lavoro che si basava sulla discrezione e la dedizione. Molti muscoli, magari, e poco cervello. Ma pur sempre in silenzio e con riservatezza. Oggi l' avvento della moda spettacolo, della politica-cabaret, del divismo imperante, sembra aver trasformato gli "uomini ombra" in star. Status o sex symbol, con licenza da una parte di dar cazzotti, di sparare, di combattere, dall' altra di amare, sedurre, competere, in quanto a spazio sui giornali, con i loro clienti. Eppure, stando alla legge italiana, le "guardie del corpo" (parliamo di quelle private, non delle scorte governative) non hanno nemmeno licenza di esistere. "I soli autorizzati a espletare questo servizio sono i poliziotti e i carabinieri", dicono al ministero dell' Interno, citando il testo unico della legge di pubblica sicurezza. Inutile chiedere dati. Per lo Stato italiano esistono gli investigatori privati (1.500 agenzie), mille istituti di vigilanza, ma nessun' altra struttura legittimata a fornire "gorilla". Una stima arriva dal Circolo sicurezza e difesa di An, che ne ha contati un paio di migliaia. "Con questa cifra ci riferiamo solo alle guardie del corpo "serie", con porto d' armi e pistola nella fondina", dice Luca De Marchi, 34 anni, ex paracadutista, titolare del Gis, Centro di servizi investigativi di Carrara. "Poi, oltre a questi duemila, che fanno la scorta a capi di Stato, politici e imprenditori, ce ne sono altri 10-20 mila che si occupano di servizio d' ordine nelle discoteche e nei concerti, di protezioni a modelle e attori". Tra le guardie del corpo c' è di tutto: 007 con licenze investigative, ex poliziotti, ex carabinieri, ex militari di corpi speciali, esperti di armi, combattimenti, esplosivi, fino ai giovanotti ginnasticati con fedina penale non sempre immacolata che si limitano a praticare in palestra il corpo a corpo. In attesa di una legge che regolamenti la professione, gli "operatori della sicurezza" lavorano sotto "false" spoglie, quasi sempre collegati ad agenzie che abbiano una licenza per investigazioni private, contendendosi a denti stretti un mercato dai ricchi profitti. Almeno per le agenzie. Se una singola guardia del corpo guadagna sulle 150 mila lire al giorno, l' azienda che procura il lavoro ricava dalle 200 alle 500 mila lire (giornaliere) per ogni persona messa a disposizione del cliente (vedi tabella a sinistra). Più cervello che muscoli. La "Verona investigazioni", la società che ha preso l' appalto della sicurezza per il Festival di Sanremo (220 milioni), fornisce per esempio scorte ad Adriano Celentano, Pippo Baudo, Valeria Mazza. Collegata ad altre due società, con filiali a Milano, Vercelli e presto a Firenze e a Roma, è ormai una piccola holding in grado di reclutare oltre 150 persone al giorno. "Nella scelta dei nostri uomini non ragioniamo in termini di centimetri muscolari, ma di cervello", spiega il titolare Teo Sole, 35enne palermitano, capelli lunghi sulle spalle, baffetti sottili, look dark rivisitato. "Il nostro è un lavoro complesso. Bisogna sapere prevenire i rischi, conoscere l' ambiente nel quale si opera, garantire il cliente da ogni incidente". In quanto al pugno in faccia al fotografo di Sanremo, Sole si scusa: "C' erano 58 persone impegnate nella "security" e uno di loro ha perso la testa. E' stato solo un caso...". E' stato anche un caso che uno dei suoi uomini più fidati, Giuseppe Pettinato, 25 anni, sia in questo momento sotto processo come presunto complice di una rapina a una discoteca milanese? Sole, che ha già affidato la difesa del suo "gorilla" allo studio legale di Ignazio La Russa, An, vicepresidente della Camera, ribatte: "Come investigatore privato ho tutti gli elementi per dire che Pettinato è innocente". E insiste: "Nella selezione dei miei uomini sono rigidissimo. Devono avere fedina penale pulita e nervi d' acciaio. Prima di ingaggiarli, li mettiamo in prova accanto a un operatore con maggiore esperienza, pronto a tendere qualche trabocchetto. Un esempio? Il "maestro" propone: "Andiamo a prendere il caffè". Se il neofita risponde di sì e abbandona il posto di lavoro, viene subito scartato". E se flirta con la sua cliente? Francesco Palazzi, proprietario dell' "Executive Service Palazzi" di Roma, dà la sua versione sull' incontro con Julia Roberts: "Lei era giù, voleva chiacchierare un po' . Il giorno dopo, per i giornali ero già diventato la sua nuova fiamma. Rischi del mestiere, ma a me non è mai capitato di innamorarmi sul lavoro". L' "Executive Service Palazzi" figura come agenzia di servizi, fondata 45 anni fa dal padre di Francesco, Ivo, che aveva per clienti Burt Lancaster, John Wayne, Gregory Peck. "Forniamo anche limousine, interpreti, hostess", dice l' erede, "collegati con agenzie di Parigi, Los Angeles, Londra. Ma sempre nel campo dello spettacolo, dove i pericoli sono minimi rispetto a quelli a cui vanno incontro le guardie del corpo di politici o imprenditori". Non ci sono ex carabinieri o ex poliziotti nella società di Palazzi. I venti collaboratori di cui dispone, "armati di pistola quando il cliente lo richiede", più spesso attrezzati di radio trasmittente e cuffietta, vengono dalle palestre, dai campi sportivi, raramente dalle arti marziali. Nella quieta e sonnolenta Ferrara c' è invece chi propaganda corsi di addestramento di stampo militare: Mario Libonati, 24 anni, figlio di un pizzaiolo emigrato a Francoforte, fondatore della filiale italiana dell' Iba, l' International bodyguard association. "Ci occupiamo soprattutto di formazione", dice presentando il programma del suo ultimo corso (7 giorni a 3 milioni più Iva). "In altre parole, combattimento corpo a corpo, tiro in situazioni di stress, confezione di esplosivi, localizzazioni di microspie". Ma non è illegale? Libonati glissa. Preferisce appellarsi alla storia dell' Iba e del suo fondatore, il maggiore francese Lucien Ott, ex paracadutista, veterano della battaglia di Dien Bien Phu in Vietnam nel 1954 e fondatore dei "Les gorillas", il nucleo di scorta di Charles De Gaulle. Le bodyguard dell' Iba avrebbero addestrato i Mujaheddin afghani, gli Spetznaz russi, le Sas inglesi, i Caschi blu dell' Onu; fatto la scorta a Clinton, Mitterrand, papa Giovanni Paolo II e Reza Pahlevi, l' ex scià di Persia. In Italia, per il momento, solo a Umberto Bossi, Claudio Baglioni, Simona Ventura. In Bosnia, coi mercenari. Vero o falso? Certamente esistono anche in Italia guardie del corpo che lavorano all' estero, specialmente nelle aree calde, a fianco di eserciti regolari, servizi segreti, formazioni paramilitari. Ne sa qualcosa Cristiano Degasperi, 31 anni, ex carabinere paracadutista del Tuscania, ex guardia del corpo di Cossiga. Lui vanta contatti con lo Shin Bet, i servizi israeliani, consulenze per la Nato, impieghi in Africa e in Medioriente. L' anno scorso, per esempio, ha passato sei mesi in Algeria a organizzare la sicurezza nei cantieri petroliferi. Adesso si prepara a partire per il Sud Africa a organizzare la protezione dei bianchi "accerchiati dai neri". Dice: "Chi ha una preparazione militare è molto richiesto all' estero. Però bisogna fare attenzione: non sempre sono lavori puliti. Molto spesso si tratta di richieste di mercenariato. In Africa ho visto gente lavorare con il braccio destro di Bob Denard, il mercenario che ha preparato l' ultimo golpe alle Comore, altri partire per la ex Iugoslavia". Altro che modelle e attrici. Lì si flirtava con Kalashnikov e lanciarazzi. Testata Epoca Data pubbl. 18/02/96 Numero 7 Pagina 20 Titolo QUESTO PAZZO, PAZZO, PAZZO TEMPO Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Sommario Metri di neve negli Stati Uniti, gelo record in Italia. Ma che succede? Gli scienziati rispondono a sorpresa: fa più freddo perché la Terra si sta riscaldando. E in futuro... Didascalia Un palazzo ricoperto dal ghiaccio nella città americana di Minneapolis. La foto è stata scattata lunedì 5 febbraio. Gennaio 1996: a New York come al Polo Nord. COSI' E' SALITO IL TERMOMETRO Il grafico mostra come è aumentata la temperatura media sulla superficie del nostro pianeta dal 1860 fino a oggi. Gennaio ' 96: New York seppellita dalla neve. Settembre ' 95: i Caraibi devastati dal tifone Luis. Aree desertiche: sono in espansione ovunque. Maggio ' 95: l' uragano Francis devasta ampie zone dell' Illinois, Stati Uniti. Novembre ' 95: il tifone Angela nelle Filippine. Agosto ' 95: roghi di bosco in Svezia. Febbraio ' 96: Giappone sotto zero. Testo "The Big Chill", il Grande freddo, sta passando. Almeno per ora. Trascinato dalle correnti siberiane, si è spinto a volo radente sulle pianure della Lombardia, nelle valli della Romagna, sulla laguna veneta, fino alle regioni del Sud lambite dall' Adriatico e dallo Ionio, portando il termometro, in tutta Italia, 4 o 5 gradi sotto le medie stagionali. Non è stato il gelo polare degli Stati Uniti, dove la temperatura ha toccato dai meno 51 del Minnesota ai meno 43 del Dakota ai meno 13 di New York, con 100 morti e danni per centinaia di miliardi, ma si è trattato comunque di un evento ben fuori dalla norma. Un inverno da record, il quarto del secolo dopo quelli del 1929, del 1955 e del 1986, che ha messo in allarme gli esperti, se non altro come avvisaglia di quello che potrà succedere nei prossimi anni: "Avremo inverni ancora più freddi e, al contrario, estati sempre più afose e soffocanti", dice il colonnello Mario Giuliacci, 56 anni, ex capo del servizio meteorologico militare dell' aeroporto di Milano Linate, oggi direttore di Ambio, società di meteo service che prepara le previsioni del tempo per le reti Fininvest e per il Corriere della Sera. In linguaggio tecnico si chiama "estremizzazione del clima": "E' la tendenza, registrata negli ultimi 20 anni, a fenomeni atmosferici sempre più esasperati, con cadenze sempre più ravvicinate". A conferma di questa tesi, una delle più condivise dai climatologi, il colonnello porta una sfilza di esempi: "Ricordate la nevicata del 1993 sulla costa orientale degli Stati Uniti? Era stata definita "la peggiore del secolo". Invece, quella di quest' anno l' ha superata. E l' inondazione del Reno, a fine dicembre 1993? Anche lì, nemmeno il tempo di ragionare su una catastrofe epocale che 13 mesi dopo mezza Europa centrale tornava ad allagarsi. O ancora, le grandi tempeste del Mare del Nord: si registravano una volta ogni ventennio. Bene, dal 1990 ce ne sono già state quattro". Ma non era l' effetto serra l' incubo di fine millennio? Non era quel generale riscaldamento del globo causato dai raggi solari che rimarrebbero intrappolati tra i gas inquinanti scaricati nell' aria dalla combustione di carbone, benzina, petrolio? "I due fenomeni potrebbero essere collegati", dice il colonnello Giuliacci. Africa devastata. Lo sostiene anche un articolo appena pubblicato dal settimanale americano Newsweek, che accetta la tesi del riscaldamento, ma analizza tutta la girandola di eventi collaterali. Il Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici, organismo sponsorizzato dalle Nazioni Uniti, a dicembre - riporta Newsweek - ha pronosticato entro il 2100 un aumento della temperatura mondiale da 1,8 a 6,3 gradi. Con quali conseguenze? Il mondo scientifico si divide: da una parte quelli che prevedono inverni miti e raccolti copiosi persino in Siberia, temperature più livellate tra i poli e l' equatore, uragani traformati in venticelli; dall' altra le cassandre che immaginano invece uno sconvolgimento delle produzioni agricole, un aumento del livello del mare tra i 15,5 e i 96,5 centimetri, due terzi delle foreste mondiali trasformate in prati, siccità devastanti in Africa. Ma l' ipotesi che sembra più attendibile è appunto quella dell' "estremizzazione" del clima. La sostiene anche James E. Hansen, direttore dell' istituto di studi spaziali della Nasa, uno dei primi ad aver strenuamente difeso la tesi del riscaldamento°terrestre°anche quando la scienza ufficiale sosteneva il contrario. "Tanto più il globo diventa caldo, tanto più possiamo vedere un aumento degli estremi nel ciclo idrologico", dice adesso Hansen. "Siccità, inondazioni, precipitazioni torrenziali". Fenomeno imprevisto. Quando la superficie della Terra si riscalda, infatti, i liquidi tendono a evaporare. Nelle zone aride, dove di acqua ce n' è già poca, si arriva a siccità catastrofiche. In quelle umide, soprattutto vicino ai mari, lungo le coste, si intensificano invece le piogge. Per lo stesso motivo aumentano gli uragani ai tropici, sugli oceani, mentre si diradano le precipitazioni nelle aree continentali. Inoltre, le grandi masse di nuvole che si formano a causa dell' evaporazione raffredderebbero l' aria abbassando la temperatura. Rispetto all' effetto serra, il mondo scientifico negli ultimi dieci anni ha scoperto qualcos' altro ancora: "Più che l' aumento di temperatura (0,6 gradi negli ultimi cinquant' anni), incide un comportamento imprevisto dell' anidride carbonica. Il suo incremento nell' atmosfera, dovuto all' effetto serra, anziché portare a un riscaldamento dell' aria ha riversato sul terreno energia calorica pari a 2,5 watt per metro quadro. Sembrerebbe una sciocchezza, solo l' 1 per cento di quella solare normalmente trattenuta dal suolo (240 watt per metro quadro) e il 2,5 per cento di quella di una lampadina da 100 watt. Però, già in passato è stato dimostrato che variazioni ancora più piccole, basta lo 0,6 per cento, hanno causato cataclismi come la "piccola glaciazione"". Questa iniezione di energia nel terreno esaspererebbe infatti tutti i fenomeni atmosferici: cicloni, anticicloni, tornado, correnti... Non solo. Le conseguenze nefaste dell' effetto serra potrebbero essere a loro volta accentuate o in certi casi mascherate da altre anomalie della circolazione atmosferica, come le "oscillazioni" periodiche (influenze delle masse d' aria sui movimenti degli oceani e viceversa), che sono causa a loro volta di stravolgimenti climatici in tutto l' emisfero. "Una di queste "oscillazioni" è El niño, il bambinello, come è stata battezzata dai pescatori peruviani per indicare la comparsa di acque più calde al largo sotto Natale", spiega Hansen. Un fenomeno che si ripeteva con cadenze dai 2 ai 7 anni e che ultimamente si è fatto più frequente e marcato, forse proprio a causa dell' effetto serra. El niño produrrebbe un livellamento o un' inversione della pressione sull' Oceano Pacifico. Risultato: temporali violenti sul Pacifico stesso e siccità in Africa, spostamenti delle fasce dei monsoni e ripercussioni anche nelle aeree più lontane. Indipendenti sia dalle "oscillazioni" sia dall' effetto serra sarebbero invece le eruzioni vulcaniche a carattere esplosivo, capaci di determinare diminuzioni sensibili della temperatura. Le ceneri catapultate nella stratosfera, a un' altezzache varia dai 20 ai 50 chilometri, farebbero da scudo contro i raggi solari, provocando raffredamenti anche per un lungo periodo. Come è successo per esempio con il Pinatubo, vulcano delle Filippine, nel 1991, che per un po' rischiò di mettere addirittura in crisi la tesi del riscaldamento provocato dall' effetto serra. E il maltempo di queste settimane? Le nevicate sono cominciate negli Stati Uniti quando le correnti d' aria fredda arrivate dal Canada hanno incontrato masse umide e calde sull' Oceano Atlantico. "Esattamente quello che è capitato in Italia", spiega il colonnello Giuliacci. "Aria calda arrivata dallo Ionio e dal Mediterraneo orientale ha sorvolato aria fredda proveniente dalla Siberia, che ne ha condensato l' umidità trasformandola in neve". Conseguenza pure questa dell' effetto serra? "Andrei cauto...", dice Giuliacci. Come sottolinea anche Newsweek, tanto le piogge quanto le siccità, tanto le grandi ondate di freddo quanto quelle di caldo, non si possono "diagnosticare" così facilmente. Sono scatenate spesso da condizioni a breve termine più che da fenomeni di lungo periodo come l' effetto serra. "Quello di cui dobbiamo tener conto è che il clima, in futuro, come tendenza generale, potrebbe effettivamente peggiorare", dice Giuliacci. "Se la teoria degli estremi ha fondamento, il freddo di quest' anno, così come il caldo dell' estate 1995, è solo uno scherzo rispetto a quello che ci aspetterà". IL CLIMA? GUARDATE COSA COMBINA La strana estate del 1995, il gelido inverno del 1996; la siccità in Inghilterra, le alluvioni in Francia. Ecco, Paese per Paese, tutte le anomalie che stanno mettendo in allarme i meteorologi. CALIFORNIA Fortissime piogge nel marzo 1995 hanno provocato inondazioni in varie zone dello Stato. Bilancio: 15 morti e danni per 3 mila miliardi di lire. MESSICO Il Nord del Paese sta conoscendo l' inverno più freddo degli ultimi 25 anni. E a Capodanno a Città del Messico si è vista la prima consistente nevicata da vent' anni a questa parte. STATI UNITI CENTRALI E DEL NORD-EST Il caldo torrido dello scorso luglio ha ucciso oltre 800 persone: alcune centinaia nella sola Chicago. STATI UNITI CENTRALI Segnalati 1.011 tornado: solo una volta nella storia il numero era stato superiore. RIO DE JANEIRO La stagione delle piogge è già cominciata, con due mesi di anticipo. ARGENTINA Nella Pampa si è avuta la più grande siccità della storia. Gli incendi nelle foreste della Patagonia stanno invece toccando l' intensità maggiore a memoria d' uomo. POLO SUD Una gigantesca porzione della montagna di Larsen si è staccata a causa delle alte temperature. ISOLE BRITANNICHE Quella del 1995 è stata un' estate torrida. Il termometro a Londra ha toccato livelli mai raggiunti dal 1659. COSTA ORIENTALE L' area è stata flagellata prima dal caldo e dalla siccità della scorsa estate, poi dalle bufere di neve di inizio ' 96. CARAIBI Otto tifoni tropicali e 11 uragani: non era mai successo dal 1933. NORD-EST DEL BRASILE La siccità del ' 95 è stata la peggiore del secolo. EUROPA DEL SUD Siccità per i primi sei mesi del 1995. OVEST AFRICA Siccità prolungata. SUD AFRICA Nel ' 95 la stagione delle piogge è giunta tardi, ma poi ha causato gravi inondazioni. EUROPA CENTRALE E DEL NORD La pioggia ha causato, all' inizio del ' 95, alluvioni in Francia e Paesi Bassi. AUSTRIA Inizio inverno mite, poca neve: alcune gare della Coppa del mondo di sci sono state annullate. GHANA Le piogge di luglio sono state le più forti negli ultimi trent' anni: 20 le vittime. SIBERIA La temperatura media nel ' 95 si è alzata di 5 gradi: l' oscillazione più forte a livello mondiale. RUSSIA Il termometro a Mosca, il 31 maggio, ha toccato i 32 gradi: record assoluto. INDIA E NEPAL I monsoni di giugno hanno provocato gravi inondazioni: 2 milioni le persone colpite, oltre 100 le vittime. CINA E COREA Le piogge estive e le inondazioni hanno provocato carestie in vaste regioni. GIAPPONE Al Nord le nevicate sono state da record: poche settimane fa la città di Sapporo ha chiesto l' intervento dell' esercito. FILIPPINE A novembre il tifone Angela, il più devastante dal 1984, ha fatto oltre 600 vittime. AUSTRALIA Il tempo è stato piovoso nelle regioni occidentali, con precipitazioni record. A est, invece, per la prima volta, Sydney ha vissuto un agosto senza pioggia. BOX E CONTRO I MALANNI, USCITE Acqua, frutta, aria fresca: per evitare i disturbi da gelo. Raffreddori, influenze e altro ancora. Secondo la bioclimatologia, la scienza che studia gli effetti del clima sull' organismo umano, il grande freddo potrebbe portare una serie di malattie ben più gravi di quelle stagionali. Deve fare molta attenzione, per esempio, chi ha problemi di cuore: potrebbero riacutizzarsi angina pectoris e scompensi cardiaci. Sicuramente a rischio sono le cosiddette vie aeree superiori: risultano in aumento riniti, faringiti, tonsilliti batteriche, laringiti, tracheiti, soprattutto nei bambini e nei ragazzi. Per quanto riguarda l' apparato repiratorio, ancora, il freddo produce un aumento delle sinusiti e accessi di asma in chi soffre di bronchite, specialmente al di sopra dei 60 anni. Ci potrebbero essere problemi anche all' apparato digerente, gastroduodeniti, ulcere, gastriti spastiche, mentre rischiano coliche biliari e renali coloro che soffrono di calcoli o che hanno problemi di fegato. In pericolo anche muscoli e articolazioni: il freddo riacutizza i dolori alla cervicale così come le lombalgie. Aumentano le cefalee, gli stati di insonnia, soprattutto nelle regioni con vento molto forte, e in genere i sintomi di tutte le malattie psicosomatiche e le allergie. Come difendersi? Consumate molta frutta, tanta verdura, sali minerali, come magnesio e potassio, associati ad amminoacidi e vitamine. E' consigliabile poi bere almeno un litro di acqua al giorno e stare il più possibile all' aria aperta. A dispetto del freddo. Testata Epoca Data pubbl. 04/02/96 Numero 5 Pagina 90 Titolo EPOCA LO AVEVA DETTO: BESTIA 666 E' PERICOLOSO Autore DI MARIA GRAZIA CUTULI Sezione STORIE Occhiello CRONACA Sommario Due anni fa una giornalista e un fotografo del nostro giornale parteciparono a una messa nera. La celebrava Marco Dimitri (detto Bestia 666), il capo della setta satanica bolognese appena arrestato per aver violentato una sedicenne. E scrissero a chiare lettere: "Merita la galera". Ecco la cronaca di quella notte. Infernale. Didascalia Marco Balestri (senza cappuccio) durante un rito demoniaco. Il nome d' arte satanico Bestia 666 viene dal numero col quale nell' Apocalisse è indicato il demonio. Sopra: Marco Dimitri, 32 anni, presidente dei Bambini di Satana. Testo Era agosto del 1993. Una notte di peregrinazioni clandestine per la Bassa bolognese, tra cascinali abbandonati, chiese sconsacrate, ruderi nascosti nella vegetazione, e il bagagliaio della macchina carico di cappe nere, teschi di plastica, spade di latta. "Bestia 666", all' anagrafe Marco Dimitri, 32 anni, ex guardia giurata convertita al satanismo, arrestato martedì 23 gennaio a Bologna per violenza carnale (è accusato di avere narcotizzato, picchiato e stuprato una sedicenne durante una messa nera), aveva accettato di portare giornalista e fotografo di Epoca sui luoghi sacri delle sue cerimonie demoniache: battesimi di sangue e riti tantrici "rossi", ovvero feste orgiastiche consumate tra gli adepti della sua setta, i Bambini di Satana. "I rituali erotici", continuava a ripetere la Bestia quella notte, "servono ad amplificare il potere che c' è dentro di noi, a trasformare il nostro essere in divinità. Usiamo le fruste, le catene. Ci piacciono le pratiche sadomaso. Servono a scatenare e potenziare le energie demoniache". Lo ascoltavamo un po' divertiti e un po' insospettiti: "Dimitri, non ha paura di finire in galera?". L' Anticristo emiliano aveva scosso i riccioli neri che gli coprivano gli occhi: "I nostri nemici sono tanti, poliziotti, carabinieri, magistrati, i portavoce della bestemmia cattolica, ma noi, protetti dal demonio, li sconfiggeremo". Si sbagliava Bestia 666 (numero che indica il demonio secondo l' Apocalisse di Giovanni). L' incolumità satanica è infatti crollata nei giorni scorsi, quando una ragazzina di 16 anni ha confessato a una parente quello che era accaduto qualche mese prima nel fienile di un casolare di campagna: era stata drogata e violentata dal "sommo sacerdote" in persona, in compagnia del vicepresidente della setta, Piergiorgio Bonora, 21 anni, e del suo stesso fidanzato, Gennaro Luongo, 24 anni, sotto gli occhi impassibili di un' anonima vestale. E i tre uomini sono così finiti in carcere. Visita al Tempio del male. Che dietro i riti di Dimitri e compagni si nascondesse qualcosa di più di una goliardata, una sorta di oscura ossessione ai limiti tra normalità e follia, si era capito anche quella notte passata nell' hinterland di Bologna. C' era con noi, nel ruolo di "sacerdotessa", una bruna di 27 anni, Emanuela Ferrari, capelli a caschetto, giubbotto di pelle, che diceva di lavorare in una gioielleria e di aver aderito ai Bambini di Satana dopo un sogno premonitore: la visione di un uomo su un trono, circondato da una folla adorante. "Era Dimitri", ci aveva spiegato mentre si spogliava per simulare davanti al fotografo una cerimonia. "L' ho scoperto alcuni giorni dopo, quando l' ho incontrato a una festa. Ero una donna insicura, perdente. Dal momento in cui mi sono avvicinata a lui sono diventata un' altra". Alla fine del giro, Dimitri ci aveva portati a Bologna, a casa sua, un piccolo appartamento in un anonimo condominio anni Settanta. In casa, un guazzabuglio di parafernalia: mascheroni "rubati alla fiera missionaria", candele rosse, statuette sataniche, pareti dipinte di nero. Come Tempio del male era deludente. Ma fax, computer e telecamere lasciavano intendere che lì dentro gli affari filavano. "Di giorno faccio il mago", ci aveva spiegato Dimitri. "Mi serve per sopravvivere. Sapete, l' iscrizione ai Bambini di Satana costa solo 100 mila lire". In realtà Dimitri aveva fondato una srl e organizzava corsi per diventare "sacerdote del Maligno" al prezzo di 5 milioni. E nel suo appartamento i carabinieri hanno trovato un floppy disk con 600 nomi: gli adepti alla setta. Tutti invasati. Ma anche vittime che hanno sborsato milioni per partecipare ai sabba di Dimitri. "Mi hanno accusato di aver fatto sacrifici umani", ci aveva detto allora il sommo sacerdote. "Ma figuratevi! Il mio satanismo non è quello che predica la profanazione delle tombe o lo squartamento. E' una filosofia che porta l' uomo allo stato divino. Satana è l' energia, lo spirito di questo mondo". Dimitri parla con un forte inflessione bolognese, così veniva quasi da ridere ad ascoltare le sue parole. Eppure dietro le tappe della sua delirante biografia già si intuiva il pericolo di una mente deviata. "Ho scoperto di essere il figlio prediletto del demonio nel 1989, durante uno stato di dormiveglia: Satana stesso mi è apparso invitandomi a bere da una coppa d' oro". A 12 anni Marco Dimitri frequentava circoli esoterici come quello della Fratellanza cosmica. A 14 anni, raccontava, era riuscito a far cadere con la sola forza dello sguardo una statua della Madonna dal piedistallo. Poi aveva fatto scoppiare le tubature dell' acqua, e aveva persino causato, non si sa con quali malefici, la morte per cancro del padre poliziotto e della madre, rei di osteggiare la sua passione per l' occulto. All' epoca in cui gli appariva Satana con il piede caprino, lavorava come guardia giurata. Ma era durata poco: "Quando hanno scoperto chi ero veramente mi hanno licenziato". Poi il primo segnale d' allarme. A giugno del 1992 un carabiniere si era infiltrato nella setta ed era riuscito a partecipare a un rituale satanico a Savignano sul Rubicone versando un milione e mezzo. Nel momento in cui avrebbe dovuto accoppiarsi con la sacerdotessa, erano comparsi i colleghi in divisa. Ne era seguita una denuncia per sfruttamento della prostituzione. Ma Dimitri era riuscito a rimanere a piede libero. Continuando a raccogliere adepti e ad apparire su tivù e giornali. Epoca compresa. Avevamo raccontato (sul numero del 28 settembre 1993) di questa notte in compagnia dell' Anticristo, con un po' di sarcasmo e molto scetticismo. Ci aspettavamo malocchi e fatture (Bestia 666 ci aveva minacciati: "Attenti a quello che scrivete"). Invece, dopo la pubblicazione dell' articolo, solo una catena interminabile di telefonate: decine di persone chiedevano il numero di telefono e l' indirizzo dei Bambini di Satana. Per iscriversi. Courtesy and Copyright Arnoldo Mondadori Editore |
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