|
||||||||||||||||||||||||||||||
|
||||||||||||||||||||||||||||||
Testata Marie Claire Data pubbl. 00/11/95 Numero 11 Pagina 135 Titolo DONNE DI SARAJEVO DENTRO LA GUERRA SOGNANDO LA PACE Autore Di Maria Grazia Cutuli. Foto di Sebastiao Salgado Sezione ATTUALITA' Occhiello DAL MONDO: EX JUGOSLAVIA Sommario C' è chi ha scelto di insegnare nei campi profughi. Chi ha assistito i feriti e chi ha accudito gli anziani. Nessuna si è arresa alla violenza. Quattro musulmane raccontano tre anni nell' inferno bosniaco. GUARDO MIO FIGLIO E IN LUI VEDO IL FUTURO E' L' ORRORE CHE MI HA INSEGNATO A ODIARE LA SCUOLA DI DOMANI SARA' MULTIETNICA Didascalia Kanita Focak, architetto, 43 anni, è rimasta vedova all' inizio del conflitto. Sola con un figlio di 6 anni, gestisce un bar. Nel campo di Kladanj, a nord di Sarajevo, sono stati accolti i profughi di Zepa. Per raggiungerlo hanno attraversato a piedi le zone di combattimento. Zenica, nella bosnia centrale: qui persino il cinema della città è diventato rifugio per un migliaio di profughi. Faceva la scultrice. Poi è entrata nell' esercito per combattere i serbi. Ora Alma Suljevic, 32 anni, è tornata all' attività artistica. Una vita in fuga: in una tenda dell' Onu dopo giorni di marcia per sottrarsi all' artiglieria serba. Hanno perso tutto: affetti, casa, lavoro. Travolte da un conflitto razziale che la maggior parte di loro non si aspettava. Lejla Aksamija, 45 anni, insegnante nei campi profughi. Organizza una scuola per tutte le etnie. In viaggio verso un rifugio nella Bosnia centrale. Per alcune è stato come rivivere l' incubo della seconda guerra mondiale. Dzenana Dedic, 29 anni, sposata, vive e lavora a Mostar. La città è divisa in due com' era Berlino. Testo L vita continua. Anzi, ricomincia. In questo cuore di tenebra dell' Europa che è l' ex Jugoslavia, le donne bosniache, principali vittime dell' odio etnico, raccolgono i brandelli delle loro esistenze per tentare di ricucire tutto quello che la guerra ha distrutto: la famiglia, il lavoro, il proprio paese. Lacerate da un conflitto razziale che non si aspettavano, depredate degli affetti, dei beni, spesso anche dell' intimità, hanno vagato in centinaia di migliaia per campi profughi, per regioni e territori dai confini stravolti, per villaggi che non erano i loro. Moltissime sono state fatte prigioniere in lager dove la pulizia etnica è stata sinonimo di stupro di massa. Altre sono rimaste nelle loro città, cercando di sopravvivere all' angoscia e al terrore. Altre ancora hanno preso il fucile e sono andate in trincea. Dopo tre anni di orrori provano a respirare di nuovo. E raccontano, tre di loro sotto l' assedio di Sarajevo, una quarta al di là del ponte tra Mostar est e Mostar ovest, il passato e che cosa potrebbe essere il futuro. KANITA FOCAK, 43 ANNI Deve esser stato di notte, all' inizio della guerra. Quando ho visto morire Faruk, mio marito, tra le mie braccia, colpito da uno dei primi proiettili sparati dalle colline. Ho avuto paura di me stessa. Paura di Dio. Sono invecchiata all' improvviso. I miei occhi hanno preso di colpo la stessa patina opaca che oscura lo sguardo della gente di Sarajevo. Talvolta nei pomeriggi tetri di questi ultimi anni di guerra, seduta sul divano di velluto rosso in questa casa che sembra un museo, tanti sono i frammenti di storia che si sono accumulati al suo interno, guardo l' album delle foto, nella speranza di ritrovare il filo con il passato che la guerra ha spezzato per sempre. Una guerra etnica, dicono. Come posso crederci io che ho vissuto sospesa da una parte e dall' altra? Croata di nascita, musulmana da quando ho conosciuto Faruk, l' uomo che avrei poi sposato... Romeo e Giulietta ci chiamavano a Sarajevo, per l' amore che ci aveva uniti da ragazzi, prima che gli eventi ci separassero, e poi di nuovo ci ricongiungessero. Forse troppo tardi, a ridosso di un conflitto che avrebbe ridotto a un cumulo di macerie la mia città e la storia stessa della mia vita. Sono nata a Spalato da una famiglia dell' antica nobiltà croata che nelle ultime generazioni aveva assorbito anche un po' di sangue italiano. Noi, gente della costa, siamo più aperti dei bosniaci. Da piccola passeggiavo sul molo con mio nonno, osservando stupita gente dagli accenti e dagli abiti diversi. Il nonno sorrideva e mi raccontava di questa strana Jugoslavia nata dalla babele geografica della Seconda Guerra. Quando avevo otto anni la mia famiglia si è trasferita a Sarajevo, dove mio padre lavorava come ingegnere. A scuola c' erano bambini di tutte le etnie, ma allora non riuscivo ancora a cogliere le differenze che ci avrebbero scagliati gli uni contro gli altri. E' stato alle magistrali che ho cominciato a scoprire l' Islam: lo trovavo una filosofia di vita, meno dogmatica del cattolicesimo. La maggior parte dei miei compagni era musulmana. Avevo una sola amica croata con la quale andavo in chiesa. Con gli altri frequentavo la moschea. Ho conosciuto Faruk a 16 anni. Lui ne aveva 26 e faceva l' orafo. Eravamo innamorati, indifferenti alle tradizioni che separavano la mia famiglia dalla sua. Poi, a un certo punto ci siamo persi. Io mi sono sposata con un professore di filosofia, un croato del nord. Nove anni di incomprensioni e di litigi. A quell' epoca ero ancora cattolica e c' è voluto del tempo prima che decidessi di separarmi. Nel 1982 ho rincontrato Faruk: tra noi non era cambiato niente, sono diventata sua moglie nell' 88. Lui non mi ha mai chiesto di convertirmi, come non ha mai voluto che portassi il velo. Ma ero io a voler vivere la sua stessa fede. Sono entrata così nella sua famiglia, famosa a Sarajevo per il rigore dei costumi religiosi. Eppure erano loro stessi a pregarmi di non dire che ero diventata islamica. Non volevano si pensasse che mi avessero fatto delle pressioni. Poi è arrivata la guerra e l' inizio è coinciso con la morte di mia suocera. Un mese dopo, mentre Faruk ed io eravamo in salotto, un proiettile di contraerea ha bucato la parete e ha colpito mio marito. Ricordo un freddo di morte che non mi ha più lasciata. Sono rimasta in questa casa con Faris, nostro figlio, che adesso ha 6 anni. Abbiamo un piccolo bar sotto casa che ci ha permesso di sopravvivere, per tre anni ho preparato il caffè per i vicini, io che facevo l' architetto... Ma non ho mai odiato e non odio nessuno. Non ho mai detto a Faris di non giocare con i bambini serbi, per esempio. La religione musulmana, il suo senso del destino mi hanno aiutata. Mi ha aiutata mio figlio. Il filo con il passato e il ponte con il futuro è lui. ALMA SULJEVIC, 32 anni Dopo il rumore delle bombe e degli spari, finalmente un temporale. Niente è più rasserenante di un tuono. Di un boato scatenato dalla natura. Tengo ancora sul comodino la mia pistola, eredità dell' anno che ho passato a combattere sulle colline contro i serbi. Mi viene difficile rinunciarci. A Sarajevo hanno tutti un' arma in casa... In compenso ho ripreso scalpello e pennelli, i miei attrezzi da artista. Prima della guerra ero una scultrice abbastanza famosa. Facevo parte di un movimento chiamato "neo-primitivismo" che si prendeva gioco della cultura ufficiale, ispirandosi ai costumi dei "papak", i cafoni delle campagne piombati in città. Era un gruppo un po' "garibaldino", contrario all' estetica accademica, che ben rappresentava però lo spirito di Sarajevo, interetnico e multirazziale. Tra di noi si diceva scherzando: "Due cose non puoi essere in questa città: gay o nazionalista". Poi, invece, la storia ha riaperto il suo conto con il passato. E anch' io, senza volerlo. Vengo da una famiglia musulmana che dall' Ottocento in poi ha subito cinque genocidi, tutti per mano dei serbi. Eravamo più di mille nuclei, siamo rimasti in trentaquattro, sparsi nel territorio della ex Jugoslavia e all' estero. Una piccola diaspora che ci ha segnati fino all' ultima generazione: mia sorella vive in Germania dove si sta specializzando in psichiatria clinica, mio fratello è in Norvegia a studiare estetica del teatro, mio padre, che fa il sociologo, è pure lui in Germania. A Sarajevo sono rimasta solo io. Ed ero sul ponte quando i serbi, all' inizio della guerra, hanno sparato sulle donne che manifestavano. Ho raccolto i primi morti con le mie braccia e in un attimo ho deciso quello che avrei dovuto fare. Ho uno zio generale. Sono andata da lui e gli ho chiesto di arruolarmi nella prima brigata, la più dura. Con me c' erano altre cinquanta donne, compresa la mia amica Dinka, insegnante d' inglese. Ha preso il kalashnikov quando ha scoperto che il marito era passato dalla parte dei serbi. Per un anno abbiamo mangiato solo fagioli, dormito sull' erba o dentro ai capannoni. Passavamo le notti immerse nei fiumi, con la testa fuori pronti ad attaccare i nemici. A volte fumavo anche cinque pacchetti di sigarette. Ricordo la morte di una nostra compagna. Aveva 18 anni ed era molto bella. All' obitorio, quando sono andata a prelevare i suoi documenti, ho trovato due uova in una delle tasche della divisa: avrebbe dovuto portarle al fratello più piccolo. Ma il momento più tragico è stato quando i serbi hanno preso i musulmani come scudi umani per impedirci di avanzare. Ce li hanno messi di fronte, a cinquanta metri di distanza. Sentivamo le loro grida e le loro preghiere: "Sparateci voi, per favore. Meglio che finire nelle loro mani". Siamo stati costretti a tirare. Ho lasciato l' esercito che ero ingrassata di 36 chili, con una disfunzione alla tiroide causata dallo stress. La mia rivalsa contro quello che è successo a Sarajevo è una mostra con quaranta artisti ispirata al tema della Centauromachia, raffigurata nelle metope del Partenone. Che cos' è stata questa guerra se non un banchetto di nozze trasformato in un massacro? Sui resti di un tram bruciato dai serbi davanti al municipio ho ricostruito le sagome dei centauri del Partenone. Volevo portare il tram-scultura in giro per la città, ma l' Onu per motivi di sicurezza me l' ha rimandato in deposito. Riusciremo però, io e gli altri artisti, a mostrarlo al mondo. Sarà il simbolo della nostra vittoria sui barbari che hanno ammazzato lo spirito di Sarajevo. LEJLA AKSAMIJA, 45 ANNI Sono tornata a Sarajevo per un progetto che forse ci permetterà di sperare di nuovo: un ginnasio interetnico, oltre ogni barriera. Sarà una scuola nuova, voluta dal governo per ragazzi di talento, con laboratori, computer, attrezzature all' avanguardia, ma soprattutto con insegnanti e studenti pronti a credere nella pace e nella libertà. Ce n' è proprio bisogno a Sarajevo. Sono stati anni disperati, questi ultimi. Senza morale, senza cultura. Ci sono stati professori, è vero, che hanno tentato di continuare le lezioni. Ho visto ragazzi andare a scuola anche d' inverno, con la temperatura a 10-15 gradi sotto lo zero e le finestre senza vetri, mentre sulla città cadevano centinaia di granate. Ma era un rischio troppo alto: come giocare alla roulette russa. Adesso c' è bisogno di qualcosa di nuovo, di una scuola e di una cultura che ci riscattino dalla violenza subita. Compresa quella ideologica. A volte mi tornano in mente particolari della mia infanzia: i libri, per esempio. Tutti i volumi scolastici che circolavano nella ex Jugoslavia erano scritti da nazionalisti serbi. Io stessa, che sono musulmana, sono cresciuta leggendo frasi come "i nemici ottomani", "i nemici cattolici". La maggior parte dei miei insegnanti era serba. E persino quando ho cominciato a lavorare, mi occupavo di informatica all' Inergoinvest, una grossa azienda di Sarajevo, mi sono trovata davanti dirigenti, direttori, amministratori, tutti di etnia serba. Subivamo la loro propaganda. Nell' anno precedente alla guerra si era fatta così pressante che da sola sarebbe bastata ad annientare croati e musulmani. Quando è cominciato l' assedio, il governo bosniaco mi ha chiesto di uscire da Sarajevo e occuparmi dell' organizzazione delle scuole per i profughi. Sono partita portandomi via le mie due figlie, una di 16, l' altra di 18 anni, lasciando in città mio marito che è vicedirettore delle ferrovie. Credevo che sarei rimasta fuori solo qualche mese. Invece ho trascorso più di due anni viaggiando per paesi, città e villaggi della Dalmazia, spostandomi poi nei campi della Turchia, della Bulgaria, cercando tra le profughe maestre e professoresse disposte a lavorare e bambini da mandare a scuola. Ridavo a loro un po' di entusiasmo e di speranza, specialmente alle donne che potevano così, anche in mezzo alla precarietà più assoluta, riprendere le loro vecchie occupazioni. Per due anni non ho più visto mio marito, e anche i contatti erano difficili. Talvolta quando riuscivo a sentirlo per telefono mi diceva: "Qui la temperatura è scesa a meno 30". Mi raccontava di quel montone orribile che gli avevo regalato. Si era sempre rifiutato di indossarlo, adesso invece lo portava anche di notte. Sono ritornata a Sarajevo qualche mese fa, attraverso il monte Igman e poi, con le mie figlie per mano, camminando nel tunnel che passa sotto l' aeroporto. Siamo subito andate a casa, ma l' appartamento era semidistrutto: un missile aveva spazzato via quello al piano di sopra. Abbiamo trovato i mobili spostati nel corridoio, tra le macerie, coperti da panni di lana. La più piccola delle mie figlie si è messa a suonare il pianoforte. Era una scena surreale. Mio marito non sapeva del nostro ritorno. E' arrivato mezz' ora dopo avvertito dai vicini. Quando ci siamo rivisti era come se fossimo nati per la seconda volta. Per un mese siamo stati sotto shock. La nostra figlia più piccola, Esma, ha reagito meglio, ha cominciato a insegnare karate e a studiare musica. Selma, la grande, invece aveva paura anche solo di uscire di casa. Ogni volta che vedevo mio marito andare al lavoro, soprattutto nel giugno scorso, quando hanno ripreso a sparare sul palazzo presidenziale, che è proprio accanto al suo ufficio, lo guardavo allontanarsi e tra me pensavo: "Forse questo è l' ultimo giorno che lo saluto". Adesso ho il ginnasio da portare avanti. Vogliamo dimenticare tutto quello che è successo, scordare l' odio piovuto giù dalle colline insieme alle granate, educare i ragazzi alla pace, alla libertà, alla tolleranza. Per questo la scuola di Sarajevo tornerà a essere aperta a tutte le etnie e a tutte le fedi. DZENANA DEDIC, 29 ANNI A Mostar ovest, dall' altra parte della città, oltre il fiume, vive ancora mia madre. Ora è difficile vederla. Ho dovuto aspettare il mio turno per dieci giorni, prima di poter passare il ponte e andarla a trovare. Non è per niente facile avere il permesso. E quando lo si ottiene è soltanto per 24 ore. Tra noi musulmani "deportati" a est c' è tantissima gente in lista, che ha lasciato la casa, i propri beni e qualche parente o amico nella sezione croata. Un tempo Mostar era un' unica città. La divisione per quartieri non era questo muro di Berlino che hanno creato adesso. A est, per tradizione vivevano i serbi, mentre a ovest stavano croati e musulmani, ma si andava e veniva tranquillamente da una e dall' altra sponda della Nerevtka. In tre anni è successo di tutto, come ci avessero messo dentro un frullatore. Nel 1992 la guerra con i serbi. L' anno dopo hanno cominciato a bombardarci i croati. I nostri parenti, i nostri amici... La sorella di mio padre è sposata con un croato, i miei compagni erano croati. Che differenza c' era tra me e loro? Sinceramente non saprei dirlo. Io personalmente non sono mai stata alla moschea, non ho mai letto il Corano. A ricordarmi che la fede di famiglia è quella musulmana c' era solo mia nonna, quand' ero bambina. Neanche mia madre, vissuta negli anni del comunismo di Tito, ha mai preteso che io adorassi e pregassi Allah. Ho cominciato a intuire che appartenevamo a due mondi diversi qualche giorno prima della guerra. Lavoravo negli uffici di radio Mostar, quando era l' unica stazione per tutta la città, in mezzo a uno staff fatto in prevalenza di croati. Ricordo che un collega, uno con cui ero particolarmente amica, non si rivolgeva più a me come prima, sembrava elettrizzato, in preda a un delirio di onnipotenza. Non posso perdonargli di non avermi detto che cosa stava per succedere... Qualche giorno dopo abbiamo sentito gli spari per strada. Hanno cominciato a tirare granate. Tutt' intorno la gente scappava. Un uomo mi ha urlato: "Ragazza prendi le tue cose e mettiti al sicuro. I croati vogliono ammazzarci tutti". Non sapevo che fare, non capivo. Ero incerta se seguire mio marito o restare con mia suocera. Nel frattempo sono arrivati i soldati croati a portar via mio padre, in prigione, a bordo della sua macchina. Io sono scappata con mio marito in un quartiere che restava ancora sotto il controllo musulmano: dieci giorni lì, con una T-shirt adosso e la borsetta con le lenti a contatto. Ho saputo che mio fratello è stato salvato da un amico croato che l' ha accompagnato a Spalato e da lì gli ha trovato un passaggio per la Germania. Mia madre è stata nascosta dai vicini, pure loro croati. E vive ancora oggi, sotto la loro protezione. Una follia... Una famiglia di Mostar est scappata in Svizzera mi ha lasciato l' appartamento. Ho vissuto un po' lì, con mio marito, esaurendo le scorte alimentari, riso e fagioli, nient' altro che quello... Non c' era acqua, non c' era luce, né legna per cucinare. Quando è finita la battaglia tra croati e musulmani ero all' esaurimento nervoso. Avevo bisogno d' aiuto, materiale e psicologico. Mi ha salvato un lavoro alla Croce Rossa. Adesso vivo a Mostar est con mezzi di fortuna e un impiego negli uffici della stazione radio che mi rende l' equivalente di un marco tedesco al giorno. Non posso avere figli per un problema ginecologico che non ho ancora potuto curare. Dovrei andare a Zagabria, ma è in Croazia, terreno minato per me musulmana. Da questa parte della città tutto è distrutto, anche l' ospedale è rimasto a ovest. Vorrei tornare nel quartiere dove sono nata, ma è difficile pensare a una nuova convivenza con i croati: troppo sangue, troppo dolore. Ci vorrà tempo per dimenticare. Testata Marie Claire Data pubbl. 00/10/95 Numero 10 Pagina 214 Titolo SCOPRIAMO LA PACE TRA LE ROSE DI KABUL Autore Maria Grazia Cutuli Foto di Michel Comte Sezione ATTUALITA' Occhiello DAL MONDO: AFGHANISTAN Sommario Donne velate e offese. Bambini mutilati e soli. Tanta nutella, ma niente acqua minerale. La guerra è finita. Adesso la capitale afghana cerca di tornare a vivere PRIGIONIERE DELLA GUERRA E DELL' ISLAM DONNE, ESSERI INVISIBILI Emarginate, recluse e sempre avvolte nella burka da capo a piedi. Questa è la legge del nuovo Stato islamico. Nessuna di loro osa ribellarsi. Surreali ed eteree, le afghane sfilano come fossero tanti fantasmi. DOPO TRE ANNI DI DURI COMBATTIMENTI: UNA PACE FRAGILE A Kabul non si spara da aprile. Ma nel resto del paese la guerracontinua, mentre in città ci si comincia ad avviare lungo il faticoso cammino della normalizzazione. Il cibo non manca, il lavoro riprende, il commercio prospera, ma i salari medi non superano i dieci dollari al mese, rendendo spesso irraggiungibili persino i confini della sopravvivenza. Didascalia Alle porte di Kabul, il contrasto tra la distruzione degli edifici e la purezza della natura è quasi insostenibile. Ma se la guerra ha lasciato profonde ferite nella città, la pace - per quanto fragile - lascia sperare un futuro migliore. I bambini e le mamme sono il simbolo della speranza e dell' attaccamento alla vita. Ma anche dei danni causati da anni di conflitto. I sopravvissuti portano nella memoria e nel fisico i segni delle ferite. Il tappeto e il velo sono due facce della realtà postbellica. Molti tra gli scampati, dopo aver perso tutto, hanno trovato rifugio nei campi profughi. In tanta desolazione l' unico tappeto salvato aiuta a sentirsi a casa. Il velo, invece, è per le donne afghane il segno della sottomissione alla legge coranica. Pesante, dopo anni di libertà, in cui le ragazze portavano la minigonna. Qualcuno ha tracciato un murale all' interno di una postazione militare, sulle colline che circondano Kabul. Fuori dalla capitale i mujiahaddin continuano a sparare in nome della Jihad, la guerra santa. Nel centro ortopedico Wazir Akbar Khan vengono distribuite 130 protesi al mese. A dirigere il centro, con i fondi raccolti dalla campagna Pomellato, è l' italiano Alberto Cairo, nella foto in alto a sinistra. Testo Kabul. Le rose non mancano mai nella capitale afghana. Saber Latifi, addetto alle pubbliche relazioni del nuovo Stato islamico d' Afghanistan, ne ha piantate diverse sul prato all' inglese dell' ex ambasciata d' Austria, un vecchio edificio coloniale trasformato oggi in ufficio di rappresentanza: "Servono per le feste. Abbiamo un gran via vai di ospiti qui", dice alludendo alle tante delegazioni diplomatiche arrivate negli ultimi mesi in città. Come i computer comprati a Dubai, le Mercedes blu, i severi doppiopetto, le radio trasmittenti, anche le rose fanno parte del make-up. Dettagli attraverso i quali gli uomini del governo, ieri signori della guerra, oggi paladini della pace, stanno tentando di rilanciare Kabul agli occhi del mondo occidentale. E a rimanere seduti nel giardino dell' ex ambasciata d' Austria, con una tazza di tè verde davanti, a chiacchierare di ricostruzione e ottimistico futuro, si rischia di credere davvero alla fine della guerra. Almeno fino a quando le ombre delle montagne non cadono sulla città e la notte non arriva, senza acqua, senza luce, a parte quella fioca e razionata dei generatori, sotto l' ordine del coprifuoco ricordato dai colpi di kalashnikov delle sentinelle. C' è la pace a Kabul, certamente. Ma è una pace fragile, sancita essenzialmente dalla forza delle armi. Una pace che riguarda solo la capitale e che è arrivata ad aprile quasi per miracolo, dopo tre anni di bombardamenti, saccheggi, stragi tra i partiti piombati in città alla fine del regime filosovietico di Najibullah. Una quiete destinata a durare? Chissà. Kabul, intanto, ha ricominciato a vivere. I negozi vomitano merci, si trova pure la Nutella, più difficilmente l' acqua minerale. I neon illuminano le due gelaterie del nuovo centro commerciale, una per i ricchi e l' altra per i poveri. I bazaar hanno ritmi frenetici, mentre le botteghe di Chicken street, la vecchia strada frequentata dagli hippy negli anni Settanta, tornano ad esporre i loro tappeti polverosi. Potrebbe essere solo un effetto ottico. Sedici anni di guerra, sotto il peso dell' islam risorto e impazzito nell' integralismo, hanno comunque cambiato i costumi, ucciso l' antico spirito di tolleranza della capitale afghana. I viaggiatori freak d' occidente, che un tempo si riversavano qui, attratti dall' hashish purissimo e a buon mercato, non torneranno più, probabilmente. E le stesse donne del posto, che gli abitanti ricordano ancora vestite in minigonna, "emancipate come le europee", sfilano invisibili e assenti come fantasmi, coperte dalla testa ai piedi con la burka, il mantello di tela plissettato con una rete davanti agli occhi. Un popolo di vedove I bilanci di tanti anni di tragedia si fanno soprattutto sulla loro pelle. Il 25 per cento delle donne afghane, secondo un rapporto dell' Unicef, è costituito da vedove. La maggior parte ha perso la casa, la famiglia, ogni mezzo di sostentamento. A milioni sono dovute fuggire dal loro paese. Tantissime hanno visto morire i familiari, genitori, fratelli, mariti, ma sopratutto figli. Su un milione e mezzo di vittime, calcolate dalle agenzie umanitarie, 400mila sono proprio bambini. I conti con le loro esistenze massacrate si fanno in strada, dove la gente vive ancora barricata dietro sacchi di sabbia antigranate, nelle case sfregiate dalle bombe, nel tanfo agro-dolce della miseria di giorno, in quello pungente delle lampade a petrolio di notte. Fuori dagli ex quartieri della nomenklatura, Kabul è un cumulo di rovine. L' antico bazaar dei tappeti, proprio nel centro della città vecchia, un tempo crocevia chiassoso dei mercanti di tutta l' Asia, è oggi una parata di archi sventrati, disseminata di mine, di proiettili inesplosi, di schegge di missili e di granate. Il pericolo è dappertutto, dentro le case distrutte, tra le macerie che si accumulano nei vicoli, persino sui tetti. E anche se le agenzie umanitarie, quelle dell' Onu in testa, hanno sguinzagliato i loro deminer, gli sminatori con giubbotto anti-scheggia e metal detector in mano per ripulire la città, passeggiare per Kabul è una gimkana di sangue e di paura. Lo sanno bene le vittime, come Lawang, una giovane donna di campagna, dal capo velato e gli occhi bassi. Seduta in fila sulle panche di legno del centro ortopedico della Croce Rossa internazionale (vedi box a pag. 220), guarda con stupore la sua nuova protesi: un' asta di acciaio piantata in un piede di legno dentro una scarpa da tennis. Lawang non sa dire quanti hanni ha, non l' ha mai saputo. Il peso della tradizione In compenso ricorda perfettamente quando è successo "il fatto", nel 1991. Lavorava nei campi, fuori Kabul. Una mina le ha strappato via la gamba destra. E' la prima volta adesso che le viene data la possibilità di un arto artificiale. "Quando è successo l' incidente, le strade per Kabul erano bloccate dalla guerra. E' già tanto che siano riusciti a portarmi in un ospedale per curarmi". Eppure, anche con una gamba sola, aggrappata a un paio di stampelle, l' anno dopo ha messo al mondo un bambino, "nove mesi di gravidanza in quelle condizioni, il parto, l' allattamento, i doveri quotidiani di madre e di moglie". Più fortunata comunque di Nasima, che a 60 anni si trova in un letto d' ospedale senza le due gambe. "Cosa farò adesso?", continua a chiedere ai medici. Il missile, che è arrivato in giardino, ha fatto strage di tutta la sua famiglia, il marito e i cinque figli. "Non ho più niente", dice. "Anche la casa è stata saccheggiata". Storie comuni in Afghanistan. Ma non basta ripetere "Inshallah", come fa Nasima. Negli uffici del World Food Programme, il programma alimentare mondiale dell' Onu, Ismail Omar, un funzionario di origini somale, elenca progetti e buoni propositi. "Siamo qui per dare aiuto soprattutto alle vedove, agli orfani, agli anziani. Per le donne, per esempio, abbiamo organizzato corsi di sartoria e di ceramica, nella speranza di insegnare loro un lavoro". La parte più consistente delle attività riguarda però la distribuzione del cibo, anche se far arrivare i viveri dal confine pakistano a Kabul non è impresa da poco: a est, dalla parte di Jalalabad, ci sono le milizie di Hekmatyar, accanito nemico dei governativi, che saccheggiano i convogli. A sud, da Kadhahar, ci si imbatte nei Talibani, gli "studenti soldati", reclutati dalle scuole coraniche, che hanno invaso un terzo del paese. Un po' più lontano, Omar mostra una delle panetterie finanziate dall' Onu. E' una casupola di fango, in un vicolo di periferia: "Un sistema di tessere permette di ritirare la razione quotidiana", spiega il funzionario. "Nei negozi di Kabul il cibo non manca. Ma qui la maggior parte della gente guadagna non più di dieci dollari al mese". Una donna protesta perché le è stata ritirata la tessera. Il suo diritto al pane, a un po' di riso, di olio, di farina. La litania dei bisogni quotidiani è l' unica rivendicazione delle donne afghane. Donne, per il resto, destinate al silenzio. Soggetti assenti di un Paese che le ignora. Non perché qui l' Islam sia più oppressivo che altrove. Nelle regioni del sud, lo è senz' altro. Effetto dell' arrivo dei Talibani che hanno instaurato la più rigida sharia, la legge islamica, vietando alle donne di apparire per strada o rivolgere la parola ad altri che non siano i mariti, i padri, i fratelli. Ma a Kabul, dove i nuovi governanti tendono a dimostrare una "certa" tolleranza, non è così. Le restrizioni nascono dal "rispetto della tradizione". Tradizione che permette sì alle donne di studiare, lavorare in alcuni pubblici impieghi, ma che le dà spose coatte, per decisione delle famiglie, ad uomini sconosciuti. E che le vuole sempre velate, separate e protette dagli sguardi maschili. Le più evolute portano coperto semplicemente il capo, ma non vengono mai meno alla regola di nascondere il corpo sotto lunghe tuniche informi. Nemmeno sul posto di lavoro. Nella redazione del Kabul Weekly, unico giornale attualmente pubblicato a Kabul, le giornaliste mantengono la severità delle suore di clausura. Come Suria, 22 anni, viso pallido, grazioso, circondato da una veletta scura, e il corpo molto esile, nascosto dentro un mantello nero. Ha studiato all' università, viene da una famiglia benestante, ma "il velo no, non posso toglierlo", dice con un sorriso. Suria ha una sorella, Khalida, che è una poetessa famosa in Afghanistan. Lavora in televisione, ha vinto un premio in Inghilterra. Ma neanche lei si sogna di protestare contro i costumi dell' Islam. I suoi versi inneggiano agli "eroi della Jihad", al "grido della storia", alle "bandiere levate al sole". In privato è un po' diverso. All' hotel Parwuan, dove si celebrano le feste di nozze dei ricchi, le ragazze indossano vestiti scintillanti, a viso e capo scoperto, intimidite appena dal flash del fotografo. Anche la sposa, Shaima, 22 anni, è senza velo, il viso ridipinto da un trucco pesante, immobile e silenziosa, accanto al marito, su un palchetto di legno che sembra un trono. Piange. Ma non è l' emozione delle nozze. "E' l' anniversario della morte del fratello, ammazzato da un missile un anno fa", sussurra un' amica. L' orchestra intona una ritmo gioioso, mentre le montagne di riso pilaf diffondono nell' aria l' odore agrodolce di Kabul, la città dove i confini tra la vita e la morte, la pace e la guerra continuano a confondersi ancora. E per tutti. Qualche chilometro più in là, in mezzo alle macerie che costeggiano il fiume, il "dottor" Akram Rahmat, al volante di una Toyota Corolla con computer incorporato che ripete ad ogni manovra versi coranici ("Il Signore sia con te", "Nel nome di Allah", "Allah è grande"), si accarezza la barba con un gesto malinconico. Anni di guerra passati in montagna, durante la resistenza contro i sovietici (e lì che si è guadagnato il titolo di "dottore", operando centinaia di feriti come poteva e fidandosi solo del suo istinto), gli hanno lasciato addosso un' inguaribile tristezza. Anche se i suoi affari nella compravendita di automobili cominciano a girare, Akram fa fatica a condividere l' euforia dei suoi amici del governo. "Abbiamo portato la pace a Kabul", dice. "Ma guardate quei bambini che sguazzano nel fiume. Non c' è più niente per loro. Non ci sono scuole, non ci sono strutture, non c' è futuro". A scuola senza libri, né sedie Non c' è altro che la guerra per i bambini dell' Afghanistan. La maggior parte è nata sotto l' invasione sovietica, spesso nei campi profughi del Pakistan. Molti vengono sfruttati nei lavori più pesanti, nelle fabbriche di mattoni, nelle officine, se non addirittura nelle attività militari. A pochi chilometri da Kabul, lungo la prima linea con i Talibani, ci sono decine di bambini che preparano da mangiare e da bere per i soldati, tutto il giorno esposti ai pericoli della trincea. Sul fronte nord, quello contro il generale Dostom, l' uzbeko finanziato dai russi, si incontrano ragazzini di 14 anni con il kalashnikov a tracolla e lo sguardo fiero da guerrieri. All' orfanotrofio di Kabul, una struttura nata per 250 ospiti, desolata e cupa come una prigione, ci sono 650 piccoli reduci, anche loro senza futuro. "Altri 200 sono in lista d' attesa", dice il direttore, snocciolando i dati. "Ma come possiamo fare? Qui manca l' acqua, le toilette, i generatori per la luce. Solo d' inverno, grazie a Dio, abbiamo un po' di diesel per il riscaldamento". E le scuole? Il "dottor" Akram si sbaglia. Hannno ripreso a funzionare. Così come l' università, dove professori e studenti catalogano, schedano, registrano migliaia di volumi dispersi, in un locale sconfinato e disastrato che un tempo era la ricca e pregiata biblioteca di Kabul. Ma in quali condizioni? Tra macerie, muri anneriti dalle bombe, vetri infranti. Shaima, maestra delle prime classi, fa lezione in un edificio diroccato senza sedie, banchi, libri o quaderni, proprio in mezzo ai campi dove i tecnici dell' Onu hanno appena cominciato a sminare. Molti dei suoi allievi sono figli di profughi, che in questo quartiere, il Microryan 2, nato prima dell' invasione russa come area residenziale per la classe media, oggi spettrale schieramento di palazzi ridotti a colabrodo, si sono riversati al pari di formiche. L' alto commissariato delle Nazioni Unite registra un migliaio di nuovi arrivi al giorno. "Sono tornati perché c' è la pace", dice la maestra. Ma non tutti. Se Bismillah, venuto dai campi di Peshawar, ha già ripreso a lavorare come poliziotto, per il momento senza stipendio, dormendo a casa del suocero, Mohamed è a Kabul solo per dare uno sguardo: "La mia casa è distrutta, saccheggiata dalle milizie. Che cosa torno a fare?". Eppure il governo promette. Ha creato un ministero per il Rimpatrio, anche se molti non sanno nemmeno che esiste. I soldati che vi montano la guardia, intanto, hanno attaccato una rosa alla canna dei loro Kalashnikov. IN GUERRA SI MUORE ANCHE PER NON ESSERE STUPRATE "Erano in 12, armati di Kalashnikov e con la faccia coperta. Ci hanno chiesto di consegnare loro nostra figlia. Ci siamo rifiutati. Insistevano. Lei ha detto che non voleva andare con i soldati. Uno di loro ha imbracciato il fucile e l' ha ammazzata, davanti ai nostri occhi. Nostra figlia aveva vent' anni". Una coppia di profughi ricorda l' orrore di una notte di marzo del 1994 a Kabul, quando le milizie del generale Dostom, l' uzbeko che controlla il nord del Paese, sono entrate nella loro casa. La loro testimonianza è stata raccolta, insieme a quella di altri profughi, in un dossier pubblicato a maggio da Amnesty International, che rivela, per la prima volta, tre anni di violenze sulle donne afghane. Nel conflitto che ha dilaniato la città dal 1992 fino all' aprile scorso, hanno perso la vita centinaia di migliaia di donne. Moltissime sono state picchiate, violentate, costrette a far da mogli ai comandanti, avviate alla prostituzione. Altre hanno scelto il suicidio. Nashima, una studentessa di 16 anni, era in casa quando gli uomini di Dostom sono entrati per portarla via. "E' salita al quinto piano", ricordano i familiari, "e si è buttata giù. Morta sul colpo". A Kabul, terra di nessuno, per tre anni la Costituzione è stata dimenticata, i tribunali giudiziari distrutti. "Diversi profughi", dice il dossier, "hanno raccontato di una donna incinta che aveva tentato di raggiungere l' ospedale con il marito durante un coprifuoco. Le guardie l' hanno fermata, assicurando all' uomo che l' avrebbero accompagnata loro". L' indomani, sulla strada, c' erano due cadaveri: quello della madre e quello del neonato. Per le donne sopravvissute è stato anche peggio. Una ragazza racconta a stento come le hanno ammazzato il padre. Sul resto tace: "Quello che hanno fatto a me dopo, non posso neanche descriverlo...". Alla saga di violenza e di sangue contro le donne afghane hanno partecipato tutti. Anche i soldati del Jamiat-el-Islami, il partito che oggi governa Kabul. A loro attribuiscono la deportazione di una quindicenne destinata a uno dei tanti comandanti. I miliziani di Hekmatyar, capo dell' Hezb-el-Islami, uno dei partiti più integralisti dell' Afghanistan, hanno stuprato, rapito, avviato alla prostituzione ragazzine ancora più giovani. "Mia nipote aveva solo tredici anni", ricorda una profuga. "Sono venuti a prenderla per il comandante. Eravamo terrorizzati. Se avessimo fatto qualcosa per difenderla, saremmo stati ammazzati tutti". La bambina è stata rilasciata quando il militare che l' aveva voluta è morto. Con la guerra è saltata ogni regola. In alcune province sono stati i capi delle fazioni a impossessarsi del potere giudiziario. In altre, è toccato alla Shura, il consiglio degli anziani, stabilire le pene, compresa la lapidazione. "A Sarobi, vicino al confine col Pakistan, abbiamo visto ammazzare una donna a colpi di pietra", raccontano dei profughi. "La sua colpa? Era stata sposata a un comandante dell' Hezb-el-Islami, che era sparito per otto anni. La donna, autorizzata dal suocero, aveva ripreso marito. Ma ad un certo punto il comandante ha fatto ritorno e ha ordinato ai suoi uomini di ucciderla". Nonostante l' anarchia, ha continuato però a legiferare la Suprema Corte dello Stato Islamico dell' Afghanistan che, nel 1994, ha emesso una disposizione che obbliga le donne a portare la burka e proibisce loro di lasciare le case, di circolare per strada e persino di lavorare nelle organizzazioni umanitarie. IL "DOTTORE" VENUTO DA LONTANO Un piccolo bimotore della Croce Rossa Internazionale atterra tra montagne bianche di neve, su una pista sterrata a 30 chilometri da Kabul. A bordo una troupe insolita per queste latitudini straziate dalla guerra: un fotografo di moda, Michel Comte, la sua assistente Michelle e un art director di Milano, Sergio Silvestris. I tre montano su una jeep. Sono diretti all' ospedale Wazir Akbar Khan. Ad accoglierli c' è un italiano dal volto scarno, Alberto Cairo, fisioterapista di 42 anni, nato a Ceva, in provincia di Cuneo. La strana troupe spedita dall' azienda Pomellato è lì per il centro ortopedico della Croce Rossa Internazionale di cui Cairo è direttore. Qual è il nesso? Le foto in bianco e nero delle star addobbate di gioielli (Patty Pravo, Catherine Deneuve, Antonio Banderas), che compaiono nell' ultima campagna pubblicitaria del designer-gioielliere milanese. Quelle foto servono a raccogliere fondi per questo centro che sforna protesi per mutilati al ritmo di 130 al mese. Gambe, ginocchia, piedi, in una città martoriata dalle mine. Sono passati otto mesi. La troupe di Pomellato, rientrata in Italia, si propone di raccogliere oltre 500 milioni per il progetto Afghanistan. A Kabul non si spara da tre mesi, ma l' emergenza non è finita. "Con la pace è aumentato il numero dei mutilati", dice Alberto Cairo. "La gente ha ricominciato a uscire per strada, a tornare nelle case. Rischiando di saltare in aria ad ogni passo". Il centro è ancora protetto dai sacchi anti-granata. In fila, sotto la tettoia di un giardino, un centinaio di amputati mostrano i loro moncherini. Cairo li visita ad uno ad uno. Monta le protesi, li fa camminare, li costringe a provare e riprovare i loro passi. "La riabilitazione richiede molta fatica", spiega. "All' inizio le protesi premono e fanno male". Un po' artigiano, un po' missionario laico, un po' manager, il fisioterapista italiano ha rinunciato persino allo stipendio per pagare quell' ottantina di persone che lavorano con lui. A Kabul lo chiamano "il dottore", anche se in effetti medico non è. Vent' anni fa a Torino aveva preso una laurea in legge, ma la sua passione, la fisioterapia, lo ha spinto a lasciare un lavoro alla Sip per l' ospedale Niguarda. Poi per un progetto umanitario in Sudan. E infine, nel 1990, per Kabul dove vive in una grande casa piena di tappeti, collezioni di teiere russe e una gatta. "Spero di restare qui altri dieci anni", dice, "soprattutto adesso che c' è la pace". La guerra non l' ha mai scoraggiato, ma lavorare sotto le bombe è stato un incubo. "Per fortuna il governo ci lasciava passare le linee per raccogliere i feriti". Nel 1991 la Croce Rossa inaugurava il nuovo laboratorio ortopedico. Ma nel 1992, quando sono iniziati i combattimenti, Cairo ha dovuto fermare l' attività. "Mi hanno chiesto di restare", ricorda, "ho detto sì. Ero felicissimo". Voleva riaprire il centro, ma c' era l' inferno. I razzi piovevano ovunque. I soldati saccheggiavano tutto. "Non ci restavano che i container nei quali lavoriamo tuttora. La Croce Rossa non può fare di più". Testata Marie Claire Data pubbl. 00/10/92 Numero 10 Pagina 137 Titolo CAMBOGIA IL LUNGO CAMMINO DELLA SPERANZA Autore Maria Grazia Cutuli Sezione ATTUALITA' Occhiello REPORTAGE Sommario Tre milioni di morti, un paese segnato da anni di orrore e distruzioni, che adesso vuole solo dimenticare. Le bombe americane durante la guerra del Vietnam, l' occupazione vietnamita. . . E soprattutto il sanguinario regime di Pol Pot, che dal '75 al '79 aveva trasformato la Cambogia in un enorme mattatoio. Ora la grande paura è finita, ma la pace, garantita dai Caschi blu dell' Onu, è ancora fragile. E l' emergenza continua. La guerriglia khmer, il pericolo di cinque milioni di mine di cui è disseminato il terreno, i problemi della ricostruzione. Da Battambang a Phnom Penh, a Angkor Wat, viaggio in Cambogia: le voci dei sopravvissuti, le speranze dei profughi che tornano in patria dopo 14 anni di esilio. I sogni di un popolo che con tenacia e determinazione sta finalmente ricominciando a vivere. Didascalia 1. Particolare del Bayon, il tempio - montagna di Angkor Wat. 2.4. Phnom Penh: monaci buddisti e un' invasione di biciclette, risciò e motorini. 3. Per le sue nozze una sposa ha scelto gli abiti occidentali. 5. Autobus di linea. Scuola buddista a Battambang, nord - ovest del paese. Dal 1975 al 1979 i khmer rossi hanno massacrato la maggior parte dei monaci e distrutto o profanato i templi. Una donna piccola e fragile, due secchi di latta perfettamente bilanciati: un metodo antico per trasportare oggetti e anche bambini. Nelle strade di Battambang. Il gioiello archeologico di Angkor Wat, 75 templi su un' area di oltre 300 chilometri quadrati. La città, fondata nel dodicesimo secolo, è stata per anni inaccessibile. La stazione ferroviaria della capitale. Ogni giorno vi transitano migliaia di profughi provenienti dai campi in Thailandia. Tornano in patria dopo molti anni di esilio. Allieve della "School of fine Arts" di Phnom Penh. Le scuole hanno ripreso da poco a funzionare: mancavano gli insegnanti, i primi a essere uccisi dal regime di Pol Pot. Il palazzo reale, con le sue pagode dai tetti gialli, è ora la residenza del principe Sihanouk, presidente del paese. Solo una parte dell' edificio è aperta al pubblico. Oro e pietre preziose in vendita al mercato centrale della capitale. Il commercio di rubini e diamanti è gestito dai khmer rossi, che controllano la zona delle miniere. Dall' alto in basso. Scene di vita quotidiana: una venditrice di uccellini a Phnom Penh; piccoli rimpatriati; al mercato di Battambang, in poche ore la sarta confeziona un abito. Sulla strada da Sisophon a Siem Reap, meta turistica del paese. Dall' alto in basso. Una donna tornata con un convoglio dell' Onu; piccoli commerci per sopravvivere; e una casa per i rimpatriati. Queste capanne di legno e di bambù sono una costante in tutta la Cambogia. Il tempio di Banteay Kdei. Angkorè sotto la protezione dell' Unesco. Dall' alto in basso. Fra le rovine della città - fantasma di Angkor Wat vivono mendicanti e ragazzini che offrono ai turisti i loro poveri souvenir. Qui sopra, un cimitero buddista. Dall' alto in basso. All' ospedale di Battambang uno dei problemi più gravi è la malaria, che qui si manifesta in una forma resistente a qualsiasi farmaco; il mezzo di trasporto più diffuso; una scuola a Sisophon. Testo Sono le sette di una sera d' estate a Battambang, nord ovest della Cambogia. Il sole è quasi sparito dietro la fila di palme che costeggiano le acque gialle del fiume Sangker, tra i fregi variopinti dei templi buddisti, oltre le ville liberty costruite dai francesi ai tempi della dominazione coloniale. La jeep delle Nazioni Unite segue sobbalzando la strada principale e ci lascia davanti a un hotel dal portico dorato. Abbiamo viaggiato per un giorno intero, tra campi di riso e villaggi di bambù, tagliando i 60 chilometri che separano i confini della Thailandia da questa prima provincia della Cambogia. Un percorso che i funzionari dell' Onu seguono ormai ogni mattina, da quando, dopo gli accordi di Parigi del 23 ottobre 1991, è cominciata la grande operazione di pace che dovrebbe riportare in patria 350mila profughi cambogiani. E che dovrebbe anche garantire tranquillità politica al paese e, finalmente, democrazia. Battambang, 200mila abitanti stipati in edifici scrostati e decadenti, è illuminata dall' afa spessa e rossastra di un tramonto tropicale. Decine di biciclette attraversano il ponte traballante che congiunge le due rive del fiume: la strada dei templi, da una parte, il centro della città, dall' altra. Um Saroeun, in piedi accanto alla porta, aspetta i suoi allievi. E' una donna di cinquant' anni che da qualche mese ha trasformato la sua casa in una scuola, aprendo un' aula proprio sotto i portici che fronteggiano il Sangker, dove ogni sera riceve una trentina di ragazzi. "Da quando in Cambogia è stata firmata la pace ed è arrivata l' Onu", dice, "vogliono imparare tutti l' inglese. Il francese no, è ormai una lingua inutile. E poi è troppo legata al passato". Un passato che qui a Battambang, come nel resto del paese, la gente vuole dimenticare in fretta. Non tanto perché ricorda gli anni della dominazione della Francia, fino al 1953, quando il re Norodom Sihanouk ottenne l' indipendenza, quanto per quello che è venuto dopo. A cominciare dal 1970. Le bombe degli americani, durante la guerra del Vietnam. Poi, dal 1975 al 1979, cinque anni di tragedia e orrore: schiere di uomini vestiti di nero, i Khmer rossi, soldati dell' inafferrabile Pol Pot, invasero il paese massacrando metà della popolazione, tre milioni di persone, in nome di un comunismo feroce e sanguinario. Distrussero le città, soppressero la moneta, si scagliarono contro tutti quelli che potevano essere etichettati come borghesi, capitalisti, corrotti, oppure intellettuali. Il loro progetto? La "creazione" dell' Uomo Nuovo, una società basata sull' agricoltura e sulla purezza di un ritorno alla terra. Non fu pace neanche quando arrivarono i vietnamiti. L' occupazione non fu vista come una liberazione. Anzi, diede il via a una nuova guerra, sostenuta dalle fazioni della resistenza. Khmer rossi in prima linea. Um Saroeun il francese lo parla ancora. Lo aveva insegnato tempo fa, quando viveva nella capitale, Phnom Penh, al liceo di Tuol Sleng. "Sì, lo stesso istituto", ricorda, "che durante gli anni di Pol Pot fu trasformato in un carcere speciale, Sicurezza 21. Vi furono torturati e uccisi 20mila prigionieri. Mio marito compreso. Era accusato di essere un intellettuale". Un ricordo che Um, come chiunque in questo paese, non riesce a cancellare: tutta la sua famiglia sparì in quella circostanza. Le rimase solo una figlia e la vecchia madre che adesso vive con lei. "Oggi, per fortuna le cose stanno cambiando", sorride l' insegnante, aprendo una grammatica tra il ronzio delle zanzare e quello più assordante del generatore di corrente. I vietnamiti hanno lasciato il paese. I rappresentanti delle tre fazioni della resistenza, i khmer rossi, i nazionalisti di Son Sann e i monarchici dell' ex sovrano Sihanouk, sono entrati nel governo presieduto dal primo Ministro Hun Sen. Il vecchio Sihanouk è rientrato in patria come presidente. E, a garantire il ritorno alla normalità, è arrivata appunto l' Onu. Sedicimila Caschi blu per smilitarizzare il paese e guidarlo verso le elezioni democratiche che si terranno il prossimo maggio. "Se ci sentiamo più sicuri? " dice ancora Um Saroeun, "Non del tutto. Abbiamo però qualche speranza in più". I dubbi sul futuro rimangono, ma la grande paura forse è finita. Dopo anni di embargo sostenuto dalle potenze occidentali contro gli invasori vietnamiti, sono arrivati finalmente gli aiuti internazionali, gli investimenti, i dollari dell' occidente. E il paese sembra in preda a una frenesia che si avverte già alla frontiera, dove ogni giorno passano i convogli dei profughi in arrivo dai campi ospitati in Thailandia, i mercanti espongono le merci, i vecchi suonatori si incantano al ritmo dei loro strumenti. Prima di arrivare a Battambang, la jeep dell' Onu si è infatti fermata a Poipet, spartiacque di traffici e umanità, labile confine tra due mondi: quello turistico, organizzato, in qualche modo efficiente della Thailandia, e quello rurale, ancora arcaico della Cambogia. Il controllo ai documenti è approssimativo. Non è difficile passare il ponticello che porta all' enorme piazza rotonda di Poipet, dove una divinità a quattro braccia, una statua tutta d' oro, accoglie la folla di venditori, monaci e mendicanti alle porte del paese. Uomini che trasportano pesce essiccato, donne con cesti di vimini e utensili in metallo, contadini sui carri con il capo riparato dal krama, una sciarpa di cotone dalle mille funzioni. Copricapo, appunto, fusciacca, abito, e persino negli usi locali, pegno d' amore. Vietnamiti, cambogiani, thailandesi, alzano tende e bancarelle. Offrono, complice il contrabbando, sigarette americane e inglesi, whisky e alcolici locali, vestiti e ferramenta, dolciumi e frutti esotici. L' aria sa di spezie, afrori e sudore. Una bambina saltella su una stampella. Ha sei anni. Qualche mese fa ha perso una gamba per l' esplosione di una mina. "Si è avventurata in un campo", racconta un vecchio, "e non si è accorta del pericolo". Ci sono cinque milioni di mine in Cambogia, su sette milioni di abitanti, eredità di Pol Pot, che sinistramente le definiva "i migliori soldati, perché non chiedono soldo, né rancio, né licenza, né riposo e vigilano sempre". Difficile individuarle anche per i tecnici dell' Onu, che da mesi sono impegnati in un programma di bonifica delle terre da dare in donazione ai profughi. La strada che da Poipet porta a Sisophon, primo quartier generale dell' Unchr, l' agenzia dell' Alto Commissariato per i profughi delle Nazioni Unite, dà un' idea di come è rimasta la Cambogia fino ad oggi. Carri trainati da buoi, capanne di legno, bufali e maiali che si rotolano nelle pozzanghere in cerca di refrigerio all' ombra dei manghi, delle palme da zucchero, degli enormi alberi dai fiori rossi che fioriscono in ogni stagione. Un paese rurale, fatto di sterminate pianure alluvionali, di coltivazioni di riso, di basse colline che degradano fino a un' enorme lago, il Tonle Sap. Un lago che poi diventa fiume e a Phnom Penh si incontra con il Mekong, proveniente dal Laos verso il Vietnam. Non c' è rete idrica e nemmeno elettrica. Le strade sono solo tracciate. L' unica in costruzione è quella che dalla frontiera porta a Battambang. Ci lavorano i reparti del regio esercito thailandese, aiutati dai Caschi blu dell' Onu. Si incontrano posti di blocco, che in realtà servono ai militari solo per raccattare qualche soldo, piccoli pedaggi chiesti a chi passa, in cambio del trasporto delle merci. A Sisophon si vedono anche un paio di automobili, ruderi sconquassati comprati al mercato nero. Tagliano la folla di biciclette e motorini, sollevando sbuffi di polvere rossa tra le case in legno e le costruzioni in muratura rimaste dall' epoca coloniale. "Fino a pochi mesi fa questo sembrava un paese da Far West", racconta un militare dell' Onu venuto dalla Malesia insieme al contingente di pace. "I kalashnikov erano in mano persino ai bambini". Oggi il clima è diverso. Hanno aperto un paio di ristoranti rinfrescati dai ventilatori, dove per pochi riel, la moneta locale, si mangiano zuppe di pesce allo zenzero, carne al chili, riso innaffiato da salsa di soia. Si beve acqua in bottiglia, oppure succhi di frutta dolciastri prodotti in Thailandia. Ma il pericolo della guerriglia è tutt' altro che sconfitto. A pochissimi chilometri, oltre il confine naturale segnato dal fiume Mongkol Borei, comincia il territorio dei Khmer rossi. Un' area che comprende la catena dei monti Cardamoni, dalla quale i soldati di Pol Pot, nonostante l' accordo di pace, continuano a sferrare offensive contro i villaggi e i paesi controllati dal governo. Assaltano spesso il treno che porta più a sud, da Battambang fino alla capitale. Rapinano i passeggeri, li prendono in ostaggio. Controllano anche l' area di Pailin, dove si trovano ricchissime miniere di pietre preziose. La loro infatti non è solo una politica del terrore. Gestiscono il commercio dei diamanti, degli smeraldi, dei rubini, controllano quello del legname che sta portando alla deforestazione, spesso illegale, della maggior parte del territorio cambogiano. "E stanno anche tentando", spiega un giovane funzionario dell' Onu, "di guadagnare consensi tra i contadini in vista delle prossime elezioni, con un grande progetto agricolo per migliorare le campagne e renderle più fertili". Impossibile entrare nel loro dominio senza un accordo preventivo con i comandi dell' esercito. Ci riescono periodicamente le forze dell' Onu, per ovvie questioni di diplomazia. Ma un fotografo italiano che nel maggio scorso ha tentato di introdursi clandestinamente, approfittando di un passaggio su un elicottero del contingente francese, è stato immediatamente arrestato e rilasciato dopo due giorni. L' emergenza, insomma, rimane ancora. Ma chi la sente di più sono sicuramente i profughi. Per loro, che provengono dagli otto campi thailandesi, ciascuno dei quali controllati e gestiti dalle tre fazioni adesso al governo, la Cambogia è ancora un' incognita. L' hanno lasciata 14 anni fa, all' arrivo dei vietnamiti. I più giovani non l' hanno mai vista. Ne hanno solo sentito parlare nei racconti agghiaccianti degli adulti. La guardano dagli autobus che li portano a Sisophon, primo punto di raccolta dell' Unhcr, con occhi sbarrati dalla curiosità e dal timore. "I problemi che dobbiamo affrontare per rendere sicuro il loro rientro? ", dice Sergio Vaeria de Mello, capo dell' operazione Onu. "Intanto le mine, disseminate dovunque. Poi, la malaria, che qui si manifesta in una forma resistente a qualsiasi farmaco. E infine il lavoro. Stiamo cercando di creare servizi e strutture, di dar loro terra da coltivare, ma molti si aspettano altro". Il 57 per cento dei profughi chiede per esempio di andare a Battambang, provincia ricca, popolata, dove la maggior parte spera di darsi al commercio. I Caschi blu accompagnano le famiglie nei nuovi insediamenti. Chankar Samrog è il più vicino alla città. Un' enorme spianata con un solo pozzo d' acqua e per giunta non potabile. Qui gli ex esuli, scioccati e disorientati, vagano da mattina a sera cercando quello che serve per costruirsi la casa. Tejun, 28 anni, ha quasi ultimato la sua capanna con le assi di legno date in donazione dall' Onu e adesso si riposa, accovacciato all' ombra. Ha accanto la moglie e due figli. "Sono qui da un mese", racconta. "Ho paura per la mia famiglia, perché non ho ancora trovato come dar loro da mangiare. Sì, ci danno del cibo. Ma quanto durerà? Ho bisogno di semi per coltivare il riso". Tejun arriva dal campo thailandese di Site 2, 185mila persone sotto il controllo del gruppo nazionalista di Son Sann. Si è rifugiato là nel 1979, quand' era ancora un ragazzino: "I miei erano di Battambang", ricorda, "avevamo casa a un chilometro e mezzo da qui. Poi sono arrivati i soldai di Pol Pot. Hanno distrutto tutto. Hanno ammazzato i miei parenti. Io ho girovagato a lungo, poi mi hanno detto che a Site 2 davano da mangiare e mi sono rifugiato lì". A Site 2 ha anche conosciuto la moglie. Ha visto nascere i suoi bambini. "Ma il desiderio di tornare era troppo forte. Non so cosa succederà in Cambogia adesso. So solo che volevo rivedere il mio paese". Se Tejun parla a fatica, la gente che si incontra sulla strada di Battambang, ma soprattutto in città, è invece cordiale, estroversa. Giovani e vecchi aprono le loro case, offrono da bere, raccontano del passato e delle loro speranze per il futuro. "E' la prima volta che vedo la Cambogia così, senza coprifuoco, senza soldati, con la gente per le strade. E' davvero emozionante", dice Elizabeth Becker, 40 anni, inviata del Washington Post. "Quasi un sogno che si realizza". La bella e bionda americana non è una giornalista qualunque: è l' unica occidentale che ha vissuto la Cambogia negli anni di Pol Pot, all' inizio dell' invasione, quando assistette in diretta all' assassinio di un collega inglese. Lei stessa venne presa e malmenata sia a quell' epoca che dopo, nel 1978, prima che arrivassero i vietnamiti. Autrice di un libro pubblicato negli Stati Uniti e in Francia, When the war is over (Quando la guerra è finita), è tornata adesso, dopo anni di assenza. "Era una scommessa. L' avevo detto. Rimetterò piede in Cambogia solo quando sarà firmata la pace". Non crede che i problemi siano realmente finiti, ma sente "che il clima è cambiato, che finalmente ci sarà da scrivere un' altra storia". Su Battambang cala la notte. Una notte piena di sorprese, di riti inaspettati. Come quello che ogni sera si consuma dall' altra parte del fiume Sangker, dove centinaia di persone vanno a giocare al "Casinò", come l' hanno ribattezzato quelli dell' Onu. E' uno spiazzo recintato dal fil di ferro, con tendoni e banchi illuminati dalle lampade, dove si gioca alla roulette, a una specie di mercante in fiera, al tiro a bersaglio. Dove si mangia la zuppa vietnamita, si dorme a terra, si balla. C' è un complessino rock che suona un misto di musica popolare e ritmo americano. Le ragazze agghindate a festa, con il viso coperto di cerone bianco (le donne detestano il colore bruno della loro pelle), si stringono l' una con l' altra. Qualcuna balla con il fidanzato o il marito. La musica si perde tra i suoni assordanti che arrivano dai tavoli di gioco. In città, nel frattempo, c' è chi prepara il proprio giaciglio sulla strada, un' amaca coperta dalla zanzariera per sfuggire al caldo soffocante delle case e agli insetti che da questa parte portano infezioni letali. All' hotel Angkor, invece, 30 dollari a notte, si dorme con il ronzio dell' aria condizionata o, a scelta, con lo sbattere d' ali del ventilatore. Non è facile muoversi in Cambogia. Battambang, poi, è fuori dalle rotte delle agenzie turistiche che gestiscono i viaggiatori del sud est asiatico (garantendo loro visto d' entrata e itinerari fuori pericolo). C' è una ferrovia che collega la città Phnom Penh, rimessa in funzione grazie a un contributo di 200mila dollari dell' Onu, e una strada dissestata che porta a sud. Per il nord, invece, non ci sono mezzi, solo un pista accidentata che arriva ad est, percorsa dai Caschi blu. Il Wulf, un blindato antimine del contingente australiano, parte da Battambang alle dieci del mattino. I soldati, quattro ragazzoni arrivati da Sidney, ci offrono un passaggio. E' la prima volta che si spostano in missione a Siem Reap, cittadella dai trascorsi coloniali, dove opera un reparto dell' Onu addetto alle comunicazioni radio, a pochi chilometri dal complesso archeologico di Angkor Wat, area di templi e foreste, una delle più ricche (e meno frequentate) del mondo. "Non sappiamo esattamente quale sia la distanza. Cento, centocinquanta chilometri da Battambang. In cinque ore ce la faremo", dice l' autista con ottimismo mal riposto. Il Wulf arriva a Siem Reap alle 11 di sera, 15 chilometri orari su una pista sterrata che porta ancora i segni delle bombe sganciate dai B52 americani ai tempi del Vietnam. Eppure Siem Reap è la principale meta turistica della Cambogia. Da quando i khmer rossi che avevano impiantato lì il loro quartier generale se ne sono andati, ma soprattutto da quando lo scorso ottobre è stata firmata la pace a Parigi, vi fa scalo ogni giorno un aereo proveniente da Phnom Penh. I visitatori finiscono tutti al Grand Hotel, costruito dai francesi negli anni Trenta. Rimasto praticamente come allora, solo con qualche arredo rinnovato, è diventato adesso anche la residenza fissa dei Caschi blu, che la sera bivaccano nei saloni invasi dai moscerini. Se non si è legati a un' agenzia, chiedere qui una macchina per arrivare ad Angkor Wat costa 100 dollari a persona. C' è una splendida ragazza asiatica, vestita all' europea, che si occupa dei turisti: Helene, 24 anni. Figlia di una cambogiana e di un francese, è fuggita a Parigi nel 1974. Ha vissuto lì per anni. Poi d' improvviso, il bisogno di ritornare, di ritrovare il filo della propria storia. "Dovevo guadagnare, così sono venuta a Siem Reap, ad occuparmi dei turisti in visita ad Angkor Wat". Un cappello di paglia per ripararsi dal sole, una bicicletta e la visita ai resti archeologici comincia anche senza il lasciapassare dell' hotel. Città fantasma, per anni inaccessibile, l' antica Angkor, un complesso di oltre 75 templi su un' area di oltre 300 chilometri quadrati, è il simbolo più evidente dell' isolamento in cui la Cambogia ha vissuto in tutti questi anni. Fondata nel XII secolo da Iayavarman VII, uno dei maggiori sovrani della civiltà khmer, come esempio di città "idraulica" incentrata da un complicato sistema di canali destinati all' irrigazione dei campi, Angkor è stata praticamente riscoperta solo dopo la fine del regime di Pol Pot. I khmer rossi l' avevano occupata infatti nel 1972, disseminando tutta l' area di mine. Per restare fedeli all' ideologia materialista decapitarono i Buddha, ghigliottinarono le statue indù, fecero a pezzi i demoni e gli eroi raffigurati nei bassorilievi. La foresta ha compiuto il resto. Le radici dei giganteschi alberi tropicali hanno penetrato la pietra, divelto le colonne, invaso gallerie e sottopassaggi, distruggendo con liane, licheni, rampicanti archi e balaustre, muraglie e frontoni. Dopo Pol Pot, sono accorsi in massa gli archeologi, gli indiani, i francesi, e ultimamente anche gli esperti dell' Unesco. Ma solo il corpo principale di Angkor, il Bayon, il tempio - montagna circondato da una muraglia con 54 torri e costituito da una piramide di quattro livelli, è in via di ristrutturazione. Il resto dei templi si perde nella giungla, tra i mille sentieri della boscaglia spesso inaccessibile. C' è però tutto un popolo silenzioso che abita le rovine, una corte dei miracoli fatta di mendicanti e ragazzini che sbucano all' improvviso dai cuniculi e dagli anfratti della roccia, con le mani cariche di piccoli souvenir. Conoscono ogni angolo della città fantasma. Sanno come evitare i serpenti velenosi, come far volar via gli enormi pipistrelli che si acquattano nelle gallerie, come superare le barriere formate dalla vegetazione, come interpretare ogni fruscio delle foglie. Camminano suonando strumenti di legno che vendono a un dollaro l' uno, agitando collanine e campanacci. "This way, madam, this way. . . " (questa strada signora, questa strada) sussurra un brunetto dagli occhi furbi. Più lontano, ai limiti della giungla, sul ponte che si apre davanti la sconfinata muraglia grigia del Bayon, una ragazza di Siem Reap sta festeggiando le sue nozze. Indossa un vestito di nylon color rosa shocking, lungo fino ai piedi. "No, non sono vestita alla cambogiana", dice sorridendo. "Ho scelto la moda europea". A d Angkor è questo l' occidente. Nella capitale della Cambogia, invece, a Phnom Penh, la moda dell' ovest è arrivata in maniera diversa. Un' invasione di automobili, tanto per cominciare. Ci sono i taxi all' aeroporto, vetture private. Mille macchine nuove la settimana appaiono per i boulevard della capitale, comprate illegalmente all' estero. Senza targhe, senza documenti, ma che importa? I risciò arrancano, le biciclette sono costrette a dare la precedenza. Solo i motorini possono competere agli incroci, mentre le vacche pascolano ai bordi delle strade di periferia, tra le capanne e le bancarelle dei venditori ambulanti. L' arrivo dell' Onu ha scatenato, qui più che in qualunque altra parte della Cambogia, una vera sfida con il tempo e una corsa affannata a nuovi guadagni. "Un appartamento", racconta un funzionario, "costa dai tremila ai cinquemila dollari al mese. Ogni mese apre un nuovo albergo. Tutti ristrutturano case e ville". C' era prima solo un hotel di lusso, il Cambodiana, 150 dollari a notte. Oggi, grazie agli investimenti stranieri se ne contano a decine. Non mancano neanche i ristoranti con cucina francese. Al No Problem, un bistrot ospitato in una splendida villa degli anni Trenta, l' ingresso è riservato solo agli occidentali. Giornalisti, fotografi, funzionari delle Nazioni Unite, diplomatici. Si gioca a biliardo, si ascolta jazz, mentre i camerieri servono foie gras. Il palazzo reale, con le sue pagode dai tetti gialli, è in gran parte chiuso al pubblico, residenza adesso del vecchio Sihanouk. Sono invece sempre aperti ai turisti i macabri santuari del passato. Il liceo di Tuol Sleng, dove i khmer rossi massacrarono migliaia di persone. E il cimitero di Choeun Ek, uno dei "killing fields", i campi della morte raccontati dal film Urla del silenzio. Oggi i teschi delle vittime sono stati raccolti in un ossario, ma le fosse coperte d' erba dove furono trovati gli scheletri sono ancora aperte. Frammenti di ossa e brandelli di stoffa escono dal terreno. Eppure i responsabili di questo, i leader dei khmer rossi, che ora si fanno chiamare DK, Democratic Kampuchean, sono oggi al governo, con il beneplacito delle Nazioni Unite. Khieu Sampan, il loro rappresentante, non tollera che si riparli del passato. "Non ho niente da dire", risponde con tracotanza. "Ora dobbiamo pensare al futuro". Sul lungofiume, di fronte alle pagode illuminate del palazzo reale, il sole è già basso sulle acque del Mekong. I marciapiedi si riempiono di stuoie e frutti tropicali, si accendono le lampade all' altare di Buddha e i bambini reggono gabbie piene di uccellini. "Prendine uno", dice una ragazza, "esprimi un desiderio. Poi fallo volar via e il tuo sogno si realizzerà". Il suo, aggiunge, forse si è già realizzato: "C' è la pace, no? Non dobbiamo più avere paura". Courtesy and Copyright Arnoldo Mondadori Editore |
|
|||||||||||||||||||||||||||||
|