FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
STORIES by Eliabetta Burba
SOMALIA, CARTOLINA DALL' INFERNO >Elisabetta Burba e-mail the writer
39081 Baidoa, Dicembre 1992
E' disteso, pancia a terra, all' ombra di un albero di giacaranda. Attaccati al teschio, ancora alcuni capelli. Era un sergente della milizia personale di Siad Barre. E' stato ammazzato nel gennaio 1991, quando i guerriglieri ribelli hanno conquistato Villa Somalia, la residenza dell' ex dittatore dove giacciono i resti del sergente. Tuttora insepolti. Non c' è più rispetto neanche per i morti, in Somalia. Due anni di guerra civile fra tribù, clan e sotto-clan hanno demolito tutto: non c' è più niente in Somalia, non c' è più Somalia. E' l' unico Stato al mondo dove in questi giorni si entra senza mostrare passaporto, dove non esistono né illuminazione pubblica né polizia. Un Paese che non conosce il numero dei vivi (5, 6, 7 milioni?) e nemmeno quello dei morti (2 mila, 3 mila, 4 mila al giorno?). Un Paese dove i bambini, quando sentono degli spari, anziché scappare vanno a guardare. E vengono colpiti. Come Yussuf Hussen Mohammed, 9 anni, che giace in un lettino dell' ospedale di Medina con una pallottola nello stomaco. Poi ci sono gli alieni. Come tutte le terre di frontiera, la Somalia ospita un campionario di suore senza croce, medici che hanno abbandonato i propri figli per salvare quelli degli altri, uomini d' affari che si sono trasformati in "Rambo" per portare cibo ai moribondi... Persone che potrebbero scappare e che invece rimangono, sfidando la morte tutti i giorni. Fra loro, Epoca ha incontrato sei italiani e una somala che, quand' era bambina, pensava di essere un po' italiana anche lei. Ecco le loro voci di testimoni dall' inferno. GIANCARLO MAROCCHINO: MI SONO ARMATO CONTRO I PREDONI. Un piemontese con l' esercito privato. Per difendere gli aiuti umanitari. Non lo abbandonano mai. Gli stanno intorno minacciosi con i kalashnikov. Presidiano le terrazze di casa sua, a Mogadiscio. Vigilano su tutte le sue attività commerciali. Ci ha pensato a lungo, Giancarlo Marocchino, poi ha deciso: se voleva continuare a vivere in Somalia, doveva arruolare un piccolo esercito privato. Fino a tre anni fa quest' uomo dall' aria placida non aveva mai preso in mano un' arma. Quando ha portato a casa per la prima volta una pistola, gli è partito un colpo: il buco nella piastrella del salotto è ancora visibile. Marocchino adesso ha 150 miliziani, cannoni da 106 senza rinculo, un autoblindo. Una conversione al militarismo obbligata, per l' unico imprenditore straniero rimasto attivo in Somalia dopo lo scoppio della guerra civile. Marocchino, 50 anni, è contitolare di una società di autotrasporti, la Sitt, che ora ha ben poco da trasportare: si limita a distribuire cibo alle associazioni umanitarie che operano in Somalia (dispone anche di un aeroporto privato con due Cessna e un cargo Antonov). Operazione ad alto rischio: una scatola di pasta da dieci chili costa la metà di uno stipendio di un miliziano e gli assalti sono all' ordine del giorno in un Paese dove chi è armato ha accesso al cibo e dunque al potere. Ma perché Giancarlo Marocchino si trova all' inferno? Piemontese di Borgosesia, è sbarcato a Mogadiscio nel 1984 con due valigie dopo aver lasciato l' Italia, la moglie, il figlio e una società di autotrasporti per non meglio precisati "motivi fiscali" . Adesso vive con la sua nuova moglie somala, Fatima, prima cugina dell' attuale presidente Ali Mahdi, in una grande villa a due piani nella zona di Mogadiscio dove un tempo risiedevano ministri e ambasciatori. Nel salotto, le ninfee della Allegoria della primavera di Botticelli guardano le uova di struzzo e le sculture di legno somale. Fra le bougainville del giardino si aggirano, 24 ore su 24, quindici miliziani. A loro disposizione, una mitragliatrice Browning 050 lunga due metri installata sulla terrazza, una ventina di M16, un paio di fucili automatici, qualche bomba a mano... Da quando è iniziata la guerra civile, l' intraprendente Marocchino è riuscito a salvare 15 camion dei 25 che aveva. Con questi, si è messo a scaricare le navi con gli aiuti umanitari senza guadagnarci nulla, solo un rimborso spese. Con risultati eccellenti: in un porto in cui le navi sono regolarmente saccheggiate (fino all' 80 per cento del carico), la forza di dissuasione messa in campo da Marocchino è servita a salvare gli aiuti destinati ai villaggi. Solo una volta, scaricando una nave francese di aiuti alimentari, l' "esercito italiano" ha subito perdite, seppur contenute: 5 tonnellate di pasta su un carico di 2200. Un eroe? Don Elio Sommavilla, missionario italiano a Mogadiscio (vedi articolo pagina 24), definisce Marocchino "una persona meritoria che si è armata per difendere cibo destinato a moribondi e ammalati" . Le ragioni profonde di questa scelta le spiega lui stesso, il piemontese di Somalia: "Io voglio bene a questo Paese, senz' altro più dei somali. E non riesco a starne lontano. L' ho capito l' anno scorso quando noi stranieri siamo stati evacuati. Ho dovuto rientrare a Borgosesia, ma mi mancava il sole che sorge alle quattro di mattina nella savana, il plancton luminoso del mare di notte... Perché rischio la vita pur di non farmi rubare un camion? Perché meno camion mi rubano, più roba arriva a questa gente. Basta vedere i bambini, le donne e i vecchi di qui per capire perché lo faccio" . MADRI MISSIONARIE QUELLE SUORE CHE NASCONDONO LA CROCE. Vengono dalla Sardegna, non hanno convertito nessuno. In compenso... Se le suore missionarie in Somalia fossero giudicate dai loro superiori in base al numero di conversioni ottenute, non raccoglierebbero giudizi lusinghieri. "In tanti anni non abbiamo fatto proseliti. Anzi, ai musulmani dà fastidio vedere la croce. E poiché i somali sono musulmani e io li rispetto come se fossero miei fratelli, evito di portarla. Anche se sanno bene che sono cattolica, perdipiù religiosa" . Suor Marzia Seur, 54 anni, è una sarda nata a Seneghe, in provincia di Oristano. In Somalia da 25 anni, si è diplomata infermiera al Cottolengo di Torino. Svolge la sua missione al villaggio "Sos Kinderdorf" di Mogadiscio, dove si occupa della farmacia. Con lei, altre tre consorelle. In lavanderia Berardina Di Giacomantonio, 66 anni, di Crognoletto (Teramo), in Somalia da vent' anni. Al villaggio degli orfani, Francantonia Canale, 73 anni, Fossano (Cuneo), che dopo esser stata in Argentina, in Brasile e in Colombia, 11 anni fa è approdata in Somalia. Un' altra suora italiana è in missione poco lontano, nella clinica di ginecologia e maternità: si chiama suor Maria Antonia Pira, ha 49 anni, è sarda di Dorgali (Nuoro). Si è diplomata infermiera ostetrica in un ospedale di Londra, poi è partita per la Somalia, dove è arrivata 22 anni fa. Per lei l' Occidente è un ricordo lontano ma, a suo modo, è una suora femminista: "Le donne somale sono altruiste, si tolgono il pane di bocca per i figli. I loro mariti, invece... Si rifiutano di donare il sangue alle mogli che devono partorire, negano il consenso per fare il taglio cesareo, spesso non vengono neanche ad accompagnarle quando devono partorire" . Delusioni, morti ovunque, condizioni disumane: come fanno a resistere? "Questa è la nostra vita" , spiega suor Marzia, "e poi ci riempie di tenerezza vedere le donne che spiegano ai loro bambini che siamo suore e siamo rimaste a Mogadiscio quasi per tutta la guerra. E che ci occupiamo di loro come mamme. Sì, come mammme". "MADRE TERESA" DI MOGADISCIO SALVA DA SOLA 500 BAMBINI AL GIORNO. Ha un ospedale. La chiamano "santa" e lei ama tutti. Tranne gli italiani. A Mogadiscio, Hawa Abdi Diblaue è chiamata "santa" . Sette anni fa ha fondato un ospedale ad Afgoi: 450 bambini ricoverati, 50 gravemente malnutriti. Per la causa si è staccata dai figli e dal marito, spende tutti i soldi che ha per mandare avanti il grande ambulatorio. E ce l' ha con il governo di Roma: "L' Italia ci ha abbandonato. Non ce la aspettavamo proprio. Ai nostri occhi, i russi e gli americani erano stranieri che usavano il nostro Paese per i loro giochi politici. Credevamo che gli italiani capissero la nostra sofferenza. E invece sono proprio loro che l' hanno creata, foraggiando a piene mani il responsabile di questo massacro, l' ex dittatore Siad Barre. A me dispiace doppiamente perché parlo italiano, ho studiato a Roma e da piccola mi sono sempre sentita ripetere da mio padre che gli italiani erano brava gente, la nostra gente" . Mentre negli anni Ottanta Amnesty International lanciava una campagna mondiale contro gli orrori di Siad Barre, l' Italia elargiva al dittatore 1500 miliardi di lire. E il capo del Fondo aiuti internazionali, il socialista Francesco Forte, riceveva la cittadinanza onoraria somala. "Madre Teresa" di Mogadiscio non l' ha dimenticato. Non è tipo da dimenticare. Questa piccola donna somala è stata capace di inizative politiche coraggiose, molto coraggiose. E' successo nel novembre 1990, quando ha saputo che al circolo ufficiali di Mogadiscio gli uomini della tribù Darod, che facevano capo a Siad Barre, si erano suddivisi le armi per attaccare la tribù ribelle degli Hawiye. Preveggente, Hawa ha convocato nel suo ospedale sette vecchi saggi della capitale, tre Hawiye e quattro Darod. "Dovete intervenire" , li ha supplicati la dottoressa, che appartiene alla tribù Hawiye, "finora i nostri gruppi sono convissuti pacificamente. Una guerra tribale significherebbe la fine della nostra civiltà. Torneremo tutti al tempo della pietra" . Un appello che i sette saggi non hanno voluto raccogliere: un' iniziativa personale contro Siad Barre era troppo pericolosa e nessuno se la sentiva di esporsi in prima persona. La guerra tribale è scoppiata. Con una crudeltà superiore a ogni aspettativa. Un mattino è arrivata dalla dottoressa Hawa una donna Hawiye che aveva sposato un Darod, disperata: suo fratello le aveva appena ammazzato il figlio, uno "sporco Darod" . La Somalia, come lei aveva previsto, è tornata all' età della pietra. Nel febbraio 1992, il marito di Hawa, l' ingegnere Aden Mohammed, è stato ferito. Ed è scappato a Nairobi, dove si è rifugiata tutta l' alta borghesia somala. "Vieni con me, che ti ammazzano" , ha detto alla moglie. Ma lei è rimasta. Anche a costo di spaccare la famiglia. Insieme al marito, sono scappati in Kenia i due figli più piccoli, il maschio di 11 anni e la femmina di 13. A Mogadiscio è rimasta la maggiore, 17 anni, che dà una mano alla madre in ospedale. "Dove prendo i soldi? Ho una fattoria di 120 ettari, che mi ha lasciato mio padre" . Nella sua futah colorata sotto un camice bianco di una taglia troppo grande, Hawa Abdi Diblaue sembra ancor più minuta. Indica un vecchio disteso sotto una capanna. Ha le gambe gonfie. Ha camminato per 250 chilometri da Baidoa ad Afgoi alla ricerca di cibo, e ha un' infezione ai piedi. Uno straccio gli copre il corpo rattrappito. Ha freddo, chiede una coperta. Ma chi, in una città dove hanno rubato anche i cavi dell' illuminazione pubblica per rivendere il rame, è disposto a dare una coperta a un vecchio nomade? "In Somalia manca tutto: qualcuno deve intervenire" , dice Madre Teresa di Mogadiscio. "Sarei felice se gli italiani tornassero. Ma gli italiani che ha conosciuto mio padre, non quelli che ho conosciuto io, quelli che hanno aiutato Siad Barre" . Gli italiani che ha conosciuto il padre di Hawa erano i fascisti di Benito Mussolini. WILLY HUBER DA BRESSANONE FINO ALL' INFERNO. Il suo orfanotrofio: per assurdo, uno dei posti più belli di Mogadiscio. E' l' unico straniero rimasto in Somalia per tutto il periodo della guerra, nonostante le 72 cannonate che hanno colpito il suo villaggio per orfani. Per i somali è un eroe. Un eroe italiano con un nome tedesco: Willy Huber, 39 anni, nato a Bressanone e residente in Africa da 17 anni, dove dirige i progetti per l' Africa orientale di "Sos Kinderdorf" , un' organizzazione non governativa austriaca con 480 villaggi per orfani in tutto il mondo. Montanaro schivo e sbrigativo, Willy è il classico "missionario laico" . Ha lasciato l' Alto-Adige a 22 anni: dopo otto anni trascorsi nelle missioni umanitarie in Africa occidentale, nel 1983 si è trasferito a Mogadiscio, dove ha fondato il primo "villaggio Sos" dell' Africa orientale. Il villaggio è composto da 15 case-famiglia per 146 orfani, una clinica di ginecologia e maternità e una scuola, ed è stato l' ultimo inaugurato dal fondatore del Sos, l' austriaco Hermann Gmeiner. Era il 1985. Oltre all' evidente valore morale del suo lavoro, quello che stupisce di Huber è la sua capacità di mantenere condizioni piacevoli nel suo Kinderdorf. Prima di arrivare da lui si percorre una strada costeggiata da file di baracche costruite con cartone e sacchi di juta, dove si sono accampati i disperati arrivati nella capitale alla ricerca di cibo. Oltrepassato il cancello cambia tutto: linde casette prefabbricate dove uccelli gialli come canarini giganti cinguettano fra alberi di ponciare. Fino al 1990 questo era un villaggio per bambini somali orfani. Allo scoppio della guerra, Huber l' ha trasformato in ospedale. Poco dopo, il 16 gennaio 1991, è arrivato il diktat: evacuazione forzata di tutti gli stranieri. Ma Huber è rimasto. A costo di separarsi dalla moglie Irina, di origine russa, e dalla loro bambina Natalia, sei anni, che si sono rifugiate a Nairobi, dove vivono tuttora. Per mesi, il suo ospedale è stato l' unico funzionante in tutta la Somalia. Ai cancelli si presentavano camion carichi di feriti provenienti da paesi distanti anche 450 chilometri. "In tre mesi" , ricorda Huber, "i nostri 12 chirurghi e i 90 volontari hanno realizzato 1600 interventi addominali" . Alla fine di maggio, quando la situazione si è calmata, la clinica è tornata alle sue funzioni originali: far nascere figli. "Facciamo 12, 13 parti al giorno per un totale di circa 3.500 l' anno. Qui non scherzano: all' ospedale di Bressanone ogni anno ci sono 450 nascite" . La scuola del campo è stata trasformata in un ambulatorio dove ogni giorno vengono curati 1500 piccoli pazienti. Tutti denutriti: alcuni con la pancia enorme, altri scheletrici come si vede nelle riprese televisive. Perché questa differenza? Il direttore del villaggio "Sos" indica Fadam, una bambina di dieci anni con il ventre dilatato distesa su un lettino: "E' arrivata quattro giorni fa priva di coscienza. Sei suoi fratelli erano già morti per la malnutrizione del tipo Kuwasherkor, provocata dalla mancanza di proteine. La pancia si gonfia per questo. I suoi genitori erano agricoltori: potevano darle carboidrati, ma non carne" . In un lettino vicino c' è una bambina pelle e ossa, con i capelli resi lisci dalla malnutrizione. Ha due anni, si chiama Nurtu. "E' affetta da marasma, una malattia provocata dalla mancanza di carboidrati. E' diffusa fra i pastori che consumano le proteine della carne e del latte ma non hanno modo di procurarsi carboidrati. Il papà di questa bambina era un nomade. Aveva sei mucche e dieci capre. Ora non ha più niente: gliele hanno rubate tutte i soldati di Siad Barre. La mamma è morta di parto, i cinque fratelli di fame" . DON ELIO SOMMAVILLA UN GEOLOGO CHE DICE MESSA. Era arrivato come docente universitario. Ma si è "convertito" . E' arrivato in Somalia per fare il docente universitario. In incognita. Perchè è un geologo, ma anche un prete. E a Mogadiscio i sacerdoti cattolici non sono proprio adorati. Nel 1976 la Somalia, oltre a essere un Paese musulmano (su 6 milioni di abitanti, 2 mila i cattolici), era ancora il "Paese del socialismo scientifico" . Tuttavia Don Elio Sommavilla è stato accettato dal ministero dell' Istruzione, che però ha preteso una certa discrezione. Il prete ha accettato. E gli è cambiata la vita. Questo sacerdote-geologo ha vissuto 16 anni in Somalia senza rivelare mai ufficialmente la propria identità di religioso, ma senza rinunciare a celebrar messa. Nato a Moena l' 11 aprile 1927, Sommavilla era un rocciatore. Si è laureato nel 1957 in geologia e ha insegnato all' università di Ferrara. Nel 1976 un collega che doveva trasferirsi all' università di Mogadiscio ha dovuto rinunciare. Sommavilla era disponibile. Ed è andato. In realtà ha insegnato soltanto per qualche semestre, poi ha fatto ricerche sui problemi idrici della Somalia, ha coordinato il programma di aiuti ai rifugiati della guerra dell' Ogaden. Ora collabora con il villaggio Sos Kinderdorf. "Sono rimasto ammaliato da questo Paese e da questo popolo" , spiega, "molto diversi da come appaiono ora" . Ora sembrano tutti affetti da mania autodistruttiva. "Il problema della Somalia è che il movimento di liberazione contro Siad Barre è nato troppo in fretta, senza una maturazione politica. Tutto è stato fatto all' insegna del "buttiamo via Barre" . Non è maturata la convinzione che buttare via Barre significava cambiare pagina, sostituire un regime con una democrazia. L' idea era: avevamo un cattivo che ci comandava, lo sostituiamo con un buono e il problema è risolto. Il guaio però è che in Somalia il sentimento nazionale non c' è, mentre il vero legame è quello tribale. Il buono quindi è solo quello della propria tribù. Risultato: la frammentazione e la lotta per il potere da parte di ogni singola tribù. L' unica via d' uscita da questa situazione è la formazione di un corpo di polizia transtribale. Un' idea possibile. E lo abbiamo dimostrato al villaggio Sos: qui persone di tutte le tribù convivono pacificamente". LUIGI BENASSI IN FERIE NEL PAESE DELL' APOCALISSE. Emiliano, ginecologo, voleva fare una vacanza-studio. Ha cambiato idea. Il ginecologo Luigi Benassi solleva il camice verde. Sul suo fianco destro, un livido. E' il segno lasciato tre giorni prima dal morso di una donna somala. "Arrivare qui per me ha significato fare un passo indietro di almeno un secolo: ho trovato donne affette da malattie in Italia scomparse da decenni. Un esempio? L' eclampsia. E' una malattia simile all' epilessia dovuta all' elevata pressione sanguigna delle donne in gravidanza. Da noi era diffusa fino a 30 anni fa, ma adesso, con un semplice esame delle urine e qualche pasticca è stata debellata. Qui, invece, è all' ordine del giorno. L' altra sera una donna ha avuto un attacco convulsivo proprio durante il parto. Istintivamente, si è attaccata alla prima cosa che aveva davanti, io. Ancora, qui infuriano tubercolosi, malaria: malattie che da noi sono relegate nei libri di storia della medicina" . Luigi Benassi è parmigiano, docente di ginecologia nell' università emiliana. Non è il tipo di volontario classico, tutto impegno e sacrifici. Eppure quest' estate ha mandato la moglie al mare ed è venuto a Mogadiscio per due mesi. Voleva studiare l' infibulazione, ovvero la mutilazione dei genitali femminili in uso presso tante tribù somale. Ma una volta in Somalia si è trovato a sostituire il ginecologo del villaggio "Sos Kinderdorf" , che ha lavorato ininterrottamente dal gennaio 1991 al luglio 1992. "Le donne incinte che visito" , continua Benassi, "sono tutte anemiche. E questo è scontato, visto il livello di denutrizione. Quello che è tutt' altro che scontato sono i valori della loro anemia. L' anemia si può misurare quantizzando le emoglobine nel sangue: da noi sono normali 12 milligrammi per 100 millilitri e sono considerati gravi valori sotto gli 8 milligrammi. Qui non ho mai visto una donna con più di 4: quasi tutte sono intorno ai 2 milligrammi, un valore che io a lezione definisco incompatibile con la vita. In effetti, molte donne non ce la fanno, si spengono. Ma tante altre riescono a salvarsi. Come, me lo chiedo continuamente" . Benassi tornerà a Parma senza il suo saggio sull' infibulazione. E con meno certezze sui valori limite della resistenza umana. Ma ai suoi studenti avrà qualcos' altro da insegnare. Molto altro.
UNA GIORNATA NELLA VITA DI SARAJEVO (1992) >Elisabetta Burba e-mail the writer
43269 Butmir, periferia di Sarajevo
"Benvenuti all' inferno" . Non è originale la scritta che si vede su un mozzicone di muro tra l' aeroporto e Sarajevo. Ma al primo impatto Sarajevo sembra proprio un inferno post-atomico: palazzi senza vetri, macchine bruciate lungo i viali, container accatastati sui marciapiedi. Più da vicino, la città non appare così infernale: i palazzi hanno i gerani ai balconi, lungo i viali c' è chi porta a spasso un cane, e in centro giovani donne con rossetto e fard camminano stringendo mazzi di fiori. Occorre però un terzo sguardo per capire la capitale della Bosnia, sotto assedio serbo da più di sette mesi. Sui muri, delle scritte avvisano: "Puca Snajper" , i cecchini tirano. E per non finire nel mirino la gente attraversa gli incroci correndo. Quanto ai fiori che le donne tengono in mano, sono crisantemi per le tombe. Fino a marzo Sarajevo era un crogiuolo di quattro popoli. Le moschee musulmane stavano accanto a edifici asburgici, le basiliche ortodosse alle sinagoghe e alle chiese cattoliche. Ora la città è un cumulo di rovine su cui risuonano i colpi dei cecchini e i tonfi dei mortai. Se non è proprio un inferno è soltanto grazie ai 400 mila rimasti in città, in maggior parte uomini (donne e bambini hanno iniziato la fuga da tempo, e la Croce Rossa pur tra mille difficoltà ha organizzato dal 10 novembre altri convogli). La loro vita continua. Deve continuare: perché costoro non hanno altro luogo dove andare, ma soprattutto perché non vogliono perdere la guancia, come dice un loro proverbio. Cioè la dignità. Un cabaret per rifugio "Sono qui dal 4 maggio. In quasi sette mesi, ho sempre dormito vestita" . Danica Karanovic è seduta davanti a un tavolino. Per terra, materassi di gommapiuma, un fornello, alcuni sacchi. Siamo nel Kabare, ex locale notturno sotto i cui archi a volta venti persone (serbe, croate e musulmane) hanno trovato riparo dalle bombe. Assieme. Sono le dieci e mezzo di mattina, ma per vedere il viso di Danica Karanovic, architetto in pensione di 53 anni, occorre accendere la pila. Non ci sono finestre, nel Kabare, e come al solito manca l' elettricità. Danica ha labbra dipinte, smalto sulle unghie, un anello al dito. Che senso ha truccarsi quando si sta al buio tutto il giorno? "Mi dà forza: quando mi guardo allo specchio e vedo che non sono ancora diventata una barbona, mi sento un po' meglio" , risponde. "E poi non sto sempre qua sotto. Se voglio mangiare devo uscire" . Stamattina la signora Karanovic è stata fortunata: ha aspettato tre ore, ma è riuscita a comprare un filone di pane. L' ha pagato 150 dinari bosniaci. Una piccola fortuna. La pensione minima mensile qui è di 6 mila dinari. Gli stipendi vanno dai 10 ai 25 mila dinari. Legna al mercato nero Davanti al negozio dove Danica ha comprato il pane, c' è il mercato Markale. I passanti sono molti, i venditori pochissimi e gli acquirenti ancor meno. Oggi non si trovano le patate. Alla fine di ottobre c' erano, ma si compravano solo pagando in marchi tedeschi, circa 30 per un chilo. E al cambio nero per 100 marchi vogliono 120 mila dinari. Su un banco, un anziano signore espone dei pezzettini di legno lunghi una spanna e spessi non più di un dito. Servono per accendere il fuoco. Costano cento dinari l' uno. Dove li ha presi? "Da un ciocco che avevo in terrazza" , spiega. Sul banco accanto, una donna vende delle piccolissime mele tutte ammaccate: 4 mila dinari al chilo, due terzi di una pensione minima. Le ha raccolte sui quattro alberi del suo giardino. Ora sono vuoti. Che cosa venderà domani? "Domanda stupida. Non so se domani sarò viva e devo stare a preoccuparmi che cosa venderò?" . L' obitorio di Allah Almir Pehilj è uno dei 2.300 abitanti di Sarajevo morti da aprile a oggi. Aveva 26 anni, era un soldato. E' stato ucciso ieri. E' disteso sopra una barella. La testa bionda è reclinata, gli occhi azzurri sono sbarrati. Sul petto ha un tatuaggio: Sanela, il nome della sua bambina. Almir si trova nell' obitorio musulmano. Sopra di lui, una scritta in arabo. E' dorata su fondo verde. Dice: "La morte è un calice amaro che tutti devono bere" . Almir è un Sehid, un combattente sulla strada di Allah. Un giusto, dice il Corano, perché lottava per difendere la sua casa e non per attaccare. E' già pronta la sua lapide, una tavoletta di abete su cui sono state inchiodate alcune lettere di plastica bianca. Non ce n' erano abbastanza per un' epigrafe completa. Di Almir compaiono soltanto il nome e gli anni di nascita e di morte: 66 e 92. Quasi tutti quelli che giacciono nel cimitero dei Sehid, fino a pochi mesi fa un parco, sono nati negli anni Sessanta e sono morti nel 1992. All' obitorio hanno ormai finito i numeri 6 e 9. Quando serve un 6 usano la lettera G. Quando è un 9 la rovesciano.
43264 Le torri del complesso Energoinvest sulla "Sniper's Alley" a Sarajevo
Il negozio del sangue Sul marciapiede un uomo sui quarant' anni ferma i passanti. E' alto e muscoloso. Prima della guerra era professore di educazione fisica. Ora è un membro dell' esercito della Bosnia, come indica lo stemma sul braccio sinistro della divisa nera. Sta di fronte a un ex negozio di vestiti. In vetrina ci sono ancora alcuni manichini. Dentro, però, niente abiti ma brande: è un centro di donazione del sangue per i 350 feriti degli ospedali di Sarajevo. "La raccolta va bene" , dice Ismet Zubcevic. "Abbiamo bisogno di 200 donatori al giorno e li troviamo. E a tanti dobbiamo dire no perché hanno le emoglobine troppo basse: colpa della cattiva alimentazione" . L' ospedale dei bimbi Una delle principali destinazioni del sangue raccolto da Zubcevic è l' ospedale Kosevo. Nella clinica chirurgica pediatrica ci sono quaranta bambini, quasi tutti feriti da granate o pallottole dei cecchini. In una saletta con i muri rosa, Mrso Aldin, mutilato di cinque anni, gioca con un trenino. Sta cambiando i denti da latte, ha il viso quadro da montanaro ed è molto pallido. A giugno stava giocando con le automobiline davanti alla sua casa di Pogledine, nella campagna a 120 chilometri da Sarajevo. Poi ha visto lacerarsi la biancheria stesa. Una granata era caduta proprio di fronte. Una scheggia gli ha spappolato il piede. Il padre l' ha portato a Sarajevo, dove gli hanno amputato la gamba. Ormai, dice, non si accorge quasi che gli manca. Si sposta disinvolto appoggiandosi ai mobili, gioca con gli altri bambini. E impara l' inglese. L' infermiera Lejla Duzan, 15 anni, capelli raccolti e brillantini sulle palpebre, ha organizzato un corso per i bambini ricoverati. "Cominciamo oggi" , dice orgogliosa. "Faremo lezione tutti i giorni, un' ora subito dopo il pranzo" . Così continua la vita a Sarajevo.
QUEGLI AIUTI RISPEDITI AL MITTENTE
Per raccoglierli s' era mosso anche il Papa. Perché Sarajevo non li ha voluti? Questione di orgoglio. "Quando li ho visti, il primo novembre, non potevo credere ai miei occhi. L' etichetta diceva: "Trascorri un buon inverno. Questi stivali fatti in Serbia ti proteggeranno" . Il giorno prima, qui a Sarajevo, 7 bambini erano morti sotto le bombe serbe. E adesso l' Unicef regalava a quelli rimasti in vita stivali comprati dai nostri aggressori" . Sonja Aksamija è interprete per l' Unprofor, la forza di protezione delle Nazioni Unite che opera nella ex Iugoslavia. E non riesce proprio ad accettare il comportamento che i funzionari dell' Unicef, colleghi dei suoi datori di lavoro, hanno tenuto con lei e i suoi concittadini. L' idea della settimana di tranquillità, la prima tregua nella storia europea per soccorrere i bambini, era ottima. Per sostenerla si erano mossi tutti, dal Papa fino a personaggi dello spettacolo come Audrey Hepburn. In tutto il mondo migliaia di persone avevano offerto oltre 9 miliardi di lire (al primo posto, gli italiani, con più di 3 miliardi). Poi, quando il primo (e finora unico) convoglio Unicef è arrivato, la sorpresa. Benché una risoluzione Onu proibisca il commercio con la Serbia, l' Unicef aveva comprato a Belgrado quasi tutte le merci destinate agli 85 mila bambini di Sarajevo. La reazione del governo bosniaco è stata immediata: ha rimandato i 1.200 stivali, le 2.880 calze, le 1.725 tute e le 8.000 coperte al mittente, accettando solo 3 tonnellate di latte di soia perché prodotto in Danimarca. Un atto di orgoglio. Ma Sarajevo è in uno stato di estrema necessità. Senza riscaldamento nelle case, il freddo inverno balcanico (si raggiungono spesso i meno quindici) sarà terribile. Mancano abiti adatti. E 400 mila persone mangiano soltanto metà delle calorie di cui avrebbero bisogno. L' Onu calcola che sarebbero necessarie 240 tonnellate di cibo al giorno. Quando tutto fila liscio, il che avviene raramente, gli aiuti umanitari riescono a portarne in città 200. Quando va male, a settembre per un intero mese, non portano niente. Non era il caso che il governo accettasse il soccorso Unicef? "Assolutamente no" , risponde Sonja. "Abbiamo perso le nostre case, i nostri cari, i nostri amici, la nostra città... Se perdiamo anche la dignità, perdiamo proprio tutto" .
RWANDA: MARIA PIA FANFANI, L' ITALIA E GLI ORFANI (1994) >Elisabetta Burba e-mail the writer
50135 Downtown Kigali
In Ruanda il massacro continua. E l' uccisione dell' arcivescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, prova che continua da entrambe le parti: hutu, "bassi", e tutsi, "alti". Se è vero che i tutsi sono stati le principali vittime del genocidio che in due mesi ha fatto almeno mezzo milione di morti, è anche vero che ora gli equilibri sono cambiati. E che i ribelli tutsi del Fronte patriottico del Ruanda (Rpf) ormai controllano tre quarti del Paese e si stanno vendicando sugli hutu. Sono stati i tutsi stessi ad ammettere di aver ucciso il 9 giugno scorso un arcivescovo, due vescovi e 10 fra suore e sacerdoti. I DUBBI SULLA MISSIONE Proprio questa strage solleva perplessità sulla missione umanitaria di Maria Pia Fanfani, che la scorsa settimana ha portato in salvo a Roma cento profughi del Ruanda. Perché sono stati aiutati soltanto bimbi designati dal Fronte tutsi? E, comunque, è giusto sradicare dei bambini dalla loro terra e trasferirli in un altro continente? Anziché spendere tutti quei soldi per un trasferimento aereo, non sarebbe stato meglio impiegarli per assistere i ruandesi in patria o nei campi profughi dei Paesi vicini? Per cercare di rispondere, Epoca ha seguito passo passo lo svolgersi della missione. Una donna coraggiosa. Maria Pia Fanfani, presidentessa dell' organizzazione umanitaria "Insieme per la pace", in aprile aveva già strappato agli orrori della guerra 46 bambini. E quando, la notte del 6 giugno, è sbarcata febbricitante dall' Hercules C-130 con un orfano ruandese in braccio e le medaglie della Croce Rossa sul petto, è diventata un' eroina nazionale. Per la seconda volta una signora settantaduenne aveva portato a termine con successo una missione umanitaria in Ruanda. Cento profughi salvati. Settantacinque bimbi feriti e mutilati, diciotto giocatori di calcio a cui i miliziani avevano amputato la gamba sinistra e sette accompagnatori. "Siamo andati a prendere queste povere creature nelle zone di guerra", ha spiegato fra un colpo di tosse e l' altro una raffreddatissima Maria Pia Fanfani. "Abbiamo viaggiato 20 ore al giorno per 5 giorni di seguito. Mi chiamavano "il soldato". Abbiamo cercato di salvare più bambini possibile". Poi li hanno infilati sui pullman, li hanno portati a Entebbe, in Uganda, li hanno caricati sugli Hercules dello Stato italiano. Destinazione: Ciampino. All' arrivo il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ha espresso "vivo compiacimento" per il successo dell' operazione. Il presidente della Camera, Irene Pivetti, si è complimentata entusiasta. E il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha detto che "il blitz italiano va imitato". Un omaggio a una signora ultra-settantenne che è salita su una jeep e ha percorso centinaia di chilometri in un Paese dove vige una sola legge: quella del machete. Difficile mettere in dubbio il coraggio e la determinazione dimostrati da Maria Pia Fanfani nel corso dell' operazione. Ma coraggio e determinazione bastano a evitare gli errori? Retroscena di un blitz. La missione è nata dopo un appello per il Ruanda lanciato da Irene Pivetti sulle colonne della Stampa. Lettolo, la Fanfani si è precipitata alla Camera: "Ci penso io". Nessuna consultazione con i diplomatici italiani ("I problemi non li risolvono i burocrati dietro la scrivania, occorre andare sul campo", ha detto Maria Pia Fanfani). Indipendenza assoluta anche dall' Unicef e dall' Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, che sconsigliano vivamente l' evacuazione dei bambini dalle zone di guerra ("Le esperienze hanno mostrato che spesso provocano più danni che benefici", osserva uno studio Onu). Nessun contatto neppure con le "Organizzazioni non governative" (che ora rilevano: "Bastano 5 milioni di lire per costruire un ambulatorio da campo capace di assistere 5 mila persone. Per accendere i motori di un aereo ne servono 200"). Completa fiducia, invece, nell' Rpf tutsi, che ha scelto i bambini da salvare. Se si fosse posta troppi problemi forse Maria Pia Fanfani non sarebbe partita. Forse quei cento profughi sarebbero rimasti intrappolati in Ruanda. Tuttavia si sarebbero evitati i contraccolpi diplomatici e soprattutto le pesanti ipoteche su qualsiasi futuro intervento umanitario italiano in Ruanda. La missione è stata infatti organizzata in collaborazione con uno solo dei due belligeranti, il Fronte patriottico tutsi. E' la stessa Fanfani ad ammetterlo. "Sono stata scortata dai soldati del Fronte", ha detto. L' Rpf tutsi non si è limitato a scortarla. Ha gestito, sembrerebbe, l' intera operazione. Lo ha di fatto dichiarato a Epoca Byimana Rogas, un tutsi di 38 anni che ha seguito in Italia i bambini. Chi lo ha scelto come accompagnatore? "L' Rpf". Chi ha scelto i bambini da evacuare nel suo campo profughi? "L' Rpf". Chi ha scelto gli altri sei accompagnatori? "L' Rpf". Una politica insolita. "I principi da seguire quando ci si occupa delle emergenze sono tre: neutralità, imparzialità, umanità", spiega Fritz Lherisson, il rappresentante dell' Unicef per il Ruanda. "Ecco perché l' Unicef cerca di portare assistenza a tutti i bambini, di tutte le parti in conflitto, nel luogo in cui si trovano". Maria Pia Fanfani ha invece aiutato soltanto profughi selezionati dall' Rpf, quasi tutti tutsi. Chi sono i buoni? Entebbe (Uganda), 5 giugno: "Lei è al corrente che anche l' Rpf compie dei massacri?", chiede Epoca a Maria Pia Fanfani. Risposta: "Falso. I tutsi non fanno massacri. Me l' ha detto Kagame". Il generale Paul Kagame è il comandante militare dell' Rpf. "Un uomo straordinario, che vuole salvare il Ruanda", spiega la signora Fanfani. "Ha 37 anni, gli occhi dolci ma fermi, ha fatto la scuola militare in America... Mi ha dato un rosario da portare al Papa. E un messaggio: "Preghi per noi. Non ci dimentichi"". Quattro giorni dopo queste considerazioni, l' Rpf guidato da Kagame ha ammesso che le sue guardie avevano massacrato 13 religiosi, fra cui l' arcivescovo cattolico di Kigali. Intanto, però, a opera di Maria Pia Fanfani, l' Italia sembrava schierarsi senza mezze misure a fianco dell' Rpf: in Africa, accanto alla signora sono apparse le divise dello staff sanitario-militare italiano guidato dal maggiore Roberto Bramati, quelle di un reparto del Col Moschin e di sei crocerossine. Litigio in Uganda. In quei giorni laggiù c' era anche il sottosegretario agli Esteri Franco Rocchetta. Appena arrivato a Entebbe, reduce da un bombardamento all' aeroporto di Kigali che gli aveva impedito lo sbarco, Rocchetta ha preso le distanze dalla Fanfani. Poi, però... Ecco la trascrizione del loro primo colloquio. Collaboratrice della signora Fanfani: "C' è Rocchetta". Maria Pia Fanfani: "Che si presenti lui". (Lui arriva, lei rimane seduta. Rocchetta le si accoccola davanti). Fanfani: "Ma perché è andato in aereo a Kigali? Bastava lo dicesse a me... Avrei pensato io a farla entrare sano e salvo". Rocchetta: "Il Ruanda dev' essere profuso di presenza pacifica: Onu, Croce Rossa...". Fanfani: "Macché militari. Servono cibo, medicine. Lei deve parlare con uno del Fronte (che non gradisce la presenza di soldati stranieri nei territori appena conquistati, ndr)". Rocchetta: "Signora, io ho avuto contatti con entrambe le parti...". Fanfani: "Ci vogliono medicine". Rocchetta (infastidito): "In un edificio che sta bruciando è fondamentale portare assistenza a chi sta soffrendo nell' edificio, ma bisogna impedire che le fiamme si propaghino". Fanfani (in inglese): "It' s too late (è troppo tardi)". Rocchetta: "It' s never too late. My father spent two years in a concentration camp (non è mai troppo tardi, mio padre ha trascorso due anni in un campo di concentramento). Solo una presenza dell' Onu diffusa in tutto il Paese può far fermare i massacri". Fanfani (irritata): "Lei fa politica, io faccio azione umanitaria". Rocchetta (ad alta voce): "Io non faccio politica. Non le permetto di usare questi toni. Lei non mi conosce...". Dopo questo approccio burrascoso il rapporto fra i due si ricompone. "Adesso credo che con Rocchetta si possa collaborare", annuncia il giorno seguente Maria Pia Fanfani. "Gli ho dato una lista di tutte le persone che mi hanno ostacolata. Vedrete, quei burocrati se ne dovranno andare". Grazie, soldati. A Entebbe, mentre Maria Pia Fanfani e Franco Rocchetta discutono, i militari italiani e le crocerossine mostrano un' efficienza quasi commovente. Le sei donne in divisa azzurra si apprestano a trascorrere una notte d' inferno con i piccoli profughi colpiti da diarrea. I soldati in tuta mimetica e guanti di gomma medicano i feriti in un improvvisato gabinetto medico. "E' stata colpita da un machete", spiega il maggiore Carmelo D' Arcangelo mentre assiste Umulisa Uwamahoro, una ragazzina di 13 anni con una profonda ferita alla base della nuca. Umulisa non emette neanche un lamento. "Urlare è un modo per reagire", spiega D' Arcangelo scuotendo la testa. "Lei è rassegnata". Sulla barella a fianco, la piccola Sonia Mukashema, due ferite da punta sulla schiena e una ferita purulenta sulla spalla, grida disperata: "Sono morta, sono morta". Almeno lei urla. Ora Sonia è in Italia. Che futuro la attende? Rimarrà nel nostro Paese? Sarà rispedita in Ruanda? Prima di intraprendere un' altra, sia pur generosa, missione umanitaria sarebbe bene saperlo.
RWANDA, SCENE DA UN CAMPO PROFUGHI (1994) >Elisabetta Burba e-mail the writer
50010 Profughi Rwandesi in marcia verso Gisenj
Che cosa mi manca di casa? Niente. Ho solo fame". Jeanne Nshimiyimana è seduta sotto una tenda di Médecins sans Frontières-Spagna. Dice di avere sette anni, ma ne dimostra poco più di cinque. Nessuno può confermare la sua età: Jeanne è sola al mondo. Suo padre, sua madre e i suoi quattro fratelli sono tutti morti. Li hanno uccisi i soldati del Fronte patriottico ruandese, l' esercito tutsi che ormai controlla la maggior parte del Paese e ora si sta vendicando del genocidio compiuto dagli hutu: oltre mezzo milione di morti. E a pagare è anche Jeanne, una piccola hutu che del massacro compiuto dal suo gruppo etnico non ha alcuna responsabilità. "Quando i soldati sono entrati in casa, io sono riuscita a scappare. Ho visto della gente che fuggiva e l' ho seguita". Il suo villaggio, Mohura, è nel Nord del Ruanda, vicino all' Uganda. Jeanne ha percorso a piedi 300 chilometri. Per mangiare, mendicava. Nelle settimane che ha impiegato per attraversare il mattatoio Ruanda si è nutrita soltanto con patate dolci. Jeanne parla tenendo continuamente la testa bassa. Per vederle gli occhi, occorre chinarsi. Sono bellissimi. Ma fanno paura: le lunghe ciglia nere accarezzano uno sguardo vuoto. Jeanne è una delle centinaia di migliaia di profughi rifugiatisi in Tanzania per allontanarsi dalla guerra civile che insanguina il Ruanda da quando, notte del 6 aprile, l' aereo del presidente hutu Juvenal Habyarimana fu abbattuto da un missile. PARA' ITALIANI Finiranno mai i massacri? La comunità internazionale, ha dovuto ammettere il Segretario generale Boutros Ghali, ha fallito. E l' Italia? "E' necessario mandare dei nostri soldati in Ruanda", ha rilanciato il sottosegretario agli Esteri Franco Rocchetta domenica scorsa, dopo aver tentato invano di atterrare nella capitale Kigali (dove il suo aereo è stato sfiorato da colpi di mortaio). Ma, a dispetto delle sue parole, l' impiego di Caschi blu europei rimane ancora molto improbabile. Qualcosa, però, si può fare comunque. Almeno per i profughi come la piccola Jeanne Nshimiyana. L' orfanella vive in una tenda a 10 chilometri dal confine, vicino alla città di Ngara, in quello che è il più grande centro di accoglienza per rifugiati mai esistito sulla faccia della Terra: il campo profughi Benaco, 311 mila persone che ne fanno ormai la terza città della Tanzania. Un inferno fatto di capanne coperte con i teli di plastica blu dell' Onu, di polvere rossa che penetra in bocca e nei vestiti, di fumo acre proveniente dai fuochi accesi per cucinare le 150 tonnellate di fagioli, mais e farina di soia che la Croce Rossa distribuisce ogni giorno. Un inferno destinato ad arricchirsi di sempre più gironi: a Benaco i profughi continuano ad affluire, con sacchi di mais in testa e capre al seguito, al ritmo di 1.500 al giorno. All' interno del Ruanda sono 300 mila i civili che cercano di raggiungere Benaco. Per non parlare di quelli che potrebbero arrivare dal vicino Burundi, nel momento in cui la lotta in corso anche lì fra hutu e tutsi dovesse esplodere in aperta guerra civile. ITALIA? NO: AFRICA. A vedere il cartello, sembrerebbe di essere a Ventimiglia. Un cerchio rosso su fondo bianco avvisa: "Dogana-Douane". Invece siamo a Kobero, confine fra il Burundi e la Tanzania, in piena Africa nera. Spiega il doganiere burundese, un watusso (cioè tutsi) alto due metri: "La strada che ci collega alla Tanzania è stata costruita da un' impresa italiana, la Amsar. E quando ha dovuto installare la segnaletica stradale, ha usato i cartelli che aveva". Il caso di Kobero non è isolato. Pochi chilometri dopo il confine, il campo Benaco è un' altra presenza italiana in questo angolo d' Africa benedetto da Dio e maledetto dagli uomini. Benaco è infatti il nome della società proprietaria del terreno dove si sono accampati i profughi in fuga dai campi del silenzio del Ruanda. Anche questa una società italiana: i titolari, Bonometti e Gatta, hanno costruito la strada che da Lusahunga, Tanzania, porta a Rusumo, Ruanda. Tutta, a eccezione del ponte giallo ai piedi delle cascate del fiume Kagera, costruito da Giovanbarone Campagna, un italiano di Sperlonga (Latina). Sotto quel ponte, che divide la Tanzania dal Ruanda, adesso passano i cadaveri dei ruandesi massacrati. Sono bambini, donne, soldati. Quasi tutti mutilati: senza braccia, senza gambe... L' acqua, il sole, la decomposizione, li hanno gonfiati, li hanno addirittura fatti diventare bianchi. Sul ponte, una mano ha scritto: "Welcome to hell", benvenuti all' inferno. SEMBRAVANO FORMICHE. La Cogefarimpresit, società del gruppo Fiat, sta costruendo i campi per i 300 mila rifugiati. Non è venuta qui apposta. C' era già, ma per tutt' altri motivi. La società italiana guida infatti una joint venture che sta realizzando una strada di 60 chilometri, iniziata dalla Cee, che collegherà la frontiera del Burundi a Nyakasanza, una località dove comincia la strada asfaltata costruita dalla Benaco che porta verso l' Oceano Indiano. Un progetto per dare sbocco al mare ai prodotti dell' interno. Direttore dei lavori è Mauro Romagnoli detto Mimmo, 48 anni, nato a Borgo Val di Taro (Parma) da genitori toscani, sposato con tre figli. Romagnoli è uno dei pochi testimoni del più grande esodo della fine del ventesimo secolo. "Di profughi qui ne erano già arrivati dal Burundi nell' ottobre del 1993. I primi ruandesi sono però giunti la sera del 28 aprile. Il primo a vederli è stato un mio collaboratore, Jim Mac Lure. "Stanno arrivando i profughi dal Ruanda", ha urlato alla radio. "Arrivano a migliaia e sono armati". Io mi sono precipitato alla frontiera, a Rusumo, assieme al colonnello Makundi dell' esercito tanzaniano. Due chilometri prima siamo rimasti bloccati: la strada era zeppa di gente. Sembravano formiche. Abbiamo cercato di contarli, siamo arrivati a 2 mila. In sette ore sono passate 100 mila persone. Tutte armate: zappe, machete, coltelli... sequestrati dalla polizia tanzaniana". Superato il confine, i rifugiati si sono fermati vicino a un laghetto e hanno iniziato subito a costruirsi le capanne: telai di bastoni rivestiti di erba elefante. Quel terreno era di proprietà della società italiana Benaco: di qui il nome Benaco Camp. "Il giorno dopo", riprende Romagnoli, "hanno continuato ad arrivare. Erano tutti hutu. Ma alle cinque del pomeriggio è arrivato il Fronte patriottico ruandese, stragrande maggioranza tutsi. Ecco perché gli hutu scappavano: temevano la vendetta. I soldati del Fronte hanno sparato delle raffiche di kalasnikov in aria e hanno occupato il ponte delle cascate di Rusumo. Da quel momento nessun profugo ha più passato la frontiera. Tutti quelli che hanno continuato ad arrivare, decine di migliaia, hanno attraversato il fiume Kagera di nascosto, servendosi di canoe e piroghe. In meno di una settimana sono arrivate 200 mila persone". I tecnici italiani hanno immediatamente messo a disposizione dell' Acnur, l' agenzia Onu che si occupa dei profughi, i loro camion, i loro bulldozer, le loro cisterne per l' acqua... In pochi giorni nel campo Benaco sono sorte latrine, strade e aree di servizio: i tanto temuti rischi di epidemie (non dimentichiamo che c' erano oltre 200 mila persone e nessuna struttura igienica) sono stati così scongiurati. "Per conto dell' Alto Commissario desidero esprimerle la gratitudine dell' Acnur per l' aiuto immediato prestato dalla Cogefarimpresit", si legge in una lettera inviata dalla responsabile dell' Acnur Maureen Connelly a Romagnoli. "Abbiamo fronteggiato quest' emergenza con estrema rapidità... Se non avessimo avuto il vostro aiuto, non saremmo a un livello così avanzato". La Cogefar non lavora gratuitamente. Verrà ricompensata: per ora si parla di un appalto di 600 milioni di lire. E ne verranno altri. A fare le spese di questo sovraccarico di lavoro saranno i venti tecnici che stanno in cantiere a Ngara. Lavorano dieci, dodici ore al giorno, domenica compresa: ininterrottamente, per cinque, sei mesi di seguito. Speravano di finire tutto per Natale. Se andrà bene, sarà per Pasqua.
"IO SFAMO GLI AFFAMATI". Ha fatto l' architetto per 15 anni. Poi ha mollato tutto e si è messo a lavorare per la cooperazione nei Paesi del Terzo Mondo. E' stato in Camerun, in Senegal, in Tunisia, in Colombia. Adesso si trova al campo Benaco, dove si occupa per la Croce Rossa della distribuzione del cibo ai rifugiati. Ogni giorno dà da mangiare a 300 mila persone. Il suo nome è Marco Onorato. Nato a Milano, 50 anni, cattolico, laureato al Politecnico, è un ex sessantottino: ai tempi dell' università era amico di Capanna, Cafiero, Toscano. Poi è andato all' estero, si è sposato, ha avuto due figli. Infine, la scelta di lavorare per la Croce Rossa. Ossia di mangiare fagioli tutti i giorni, farsi la doccia con massimo quattro litri d' acqua, dormire sotto una tenda... Perché? "La vita quotidiana mi sembrava insignificante", spiega. "Volevo essere utile, aiutare chi soffre". Adesso però aiuta anche chi ha provocato delle sofferenze: fra i rifugiati ci sono parecchi hutu autori dei massacri compiuti in Ruanda, fuggiti perché temono la vendetta dei tutsi. "Noi non possiamo sapere chi arriva", risponde. "Ma è chiaro che c' è di tutto. Il nostro compito però è di essere imparziali, di assistere chiunque si trovi in uno stato di necessità".
IL GOEBBELS ITALIANO. Tutte le sere, la maggior parte degli hutu di Benaco si sintonizza sulla "Radio Télévision Libre des Milles Collines". E' un' emittente del Ruanda, in mano agli estremisti hutu. Ecco i suoi messaggi tipo: "Dovete sterminare tutti gli scarafaggi". "Le tombe sono riempite a metà: chi vuole aiutarci a riempirle del tutto?". Lo speaker più assatanato è un italiano, Giorgio Ruggiu, cittadino belga dal 1975. Il 18 aprile la polizia belga ha spiccato contro di lui un mandato di cattura internazionale. Ma lui continua a lanciare i suoi messaggi di morte.
I TUTSI: NIENTE VENDETTA. "Ci sono persone che cercano di sporcare il Fronte, ma guarda caso sono proprio quelle che hanno partecipato ai massacri. La realtà è che noi tutsi vogliamo la pace". Queste parole di riconciliazione sono pronunciate dal comandante Innocent, rappresentante del Fronte patriottico del Ruanda alla frontiera di Rusumo. "Io sono un profugo. Sono nato in Burundi e ci sono rimasto fino al 1990. Non voglio che i miei connazionali, quelli che adesso si trovano a Benaco, rivivano le mie esperienze. Quando noi del fronte andremo al potere, stabiliremo uno stato di diritto e faremo un governo di unità nazionale. Gli hutu non saranno soggetti a rappresaglie". "Tornare in Ruanda con il Fronte al potere? Ma siamo matti: quelli ci ammazzano tutti", dice Huanga Mhwe, un hutu moderato, che fa una distinzione fra i tutsi, che considera come fratelli e il Fronte. "Come noi, la pensano tutti gli hutu incontrati a Benaco. Trecentomila persone: tutte vittime della propaganda della Radio delle mille colline?"
TUTSI CONTRO HUTU COLPEVOLI ENTRAMBI
Scene del campo profughi Benaco. Racconta Antonette Umugwaneza, studentessa di storia, 23 anni: "Quando è scoppiata la guerra ero a casa della nonna con una sorella, nel Nord del Ruanda. Terrorizzate, siamo fuggite verso la Tanzania: dopo due settimane di cammino siamo arrivate a Benaco. La nonna è rimasta: era troppo vecchia per attraversare il Paese a piedi. Di mia madre e di altri 6 fratelli ho perso le tracce. Da Radio Ruanda ho saputo invece la fine che ha fatto mio padre: è stato ammazzato dai tutsi del Fronte patriottico". "Anche mia madre è tutsi. Ma i tutsi sono troppo egoisti, vogliono solo dominare. Ricordiamoci che hanno tenuto in schiavitù gli hutu per secoli", dice la ragazza che si proclama hutu al cento per cento. "I massacri degli hutu? Macché massacri. Sono stati i tutsi a massacrare gli hutu". LORO SONO SALVI. MA QUELLI RIMASTI IN PATRIA? Un capannone del campo profughi Benaco. Racconta uno dei rifugiati, Jean-Baptiste Nyilisenge, impiegato di banca, 33 anni, hutu. "Mi sarei dovuto sposare il 15 maggio con una ragazza mezza hutu e mezza tutsi, Charlotte Mukarukundo. La guerra ci ha divisi: il 22 aprile sono dovuto fuggire. Lei è rimasta in Ruanda. L' ultima volta che l' ho sentita al telefono era a Kigali. Adesso le linee sono state tagliate. Come posso mettermi in contatto con lei?"
MA E' VERO CHE GLI ITALIANI APPOGGIANO L' UCK? (1999) >Elisabetta Burba e-mail the writer
Lo dicono gli stessi albanesi. Il generale Del Vecchio nega. E si difende "Non siamo in grado di garantire la sicurezza a tutti gli abitanti del Kosovo. Qui l' odio è atavico e generalizzato. Pretendere che la Kfor cambi una mentalità che ha radici secolari è utopistico". Il brigadier generale Mauro Del Vecchio, 53 anni, romano, è il comandante della Brigata multinazionale Ovest della Kfor, il contingente Nato composto da 7 mila uomini (5.500 italiani, 1.200 spagnoli, 300 portoghesi) dispiegato nella parte occidentale del Kosovo. Compito principale della brigata, garantire ordine e sicurezza. Un compito mancato: dei circa 50 mila serbi che vivevano nella zona ne sono rimasti alcune decine sparsi fra monasteri e chiese e un migliaio asserragliati nella enclave di Gorazdevac, bombardata il 10 agosto da estremisti albanesi. Generale Del Vecchio, gli albanesi sono soddisfatti di voi perché dicono che gli avete permesso di bruciare le case dei serbi. Non è vero. Le case dei serbi sono state incendiate in tutto il Kosovo. Noi abbiamo cercato di spegnerle, con i mezzi che avevamo e tra l' ostilità aperta degli albanesi. Lo stesso problema l' hanno avuto i tedeschi. Intende dire che è l' intera Kfor ad avere fallito? No, la Kfor fa quello che può. In una realtà dilaniata da lotte clandestine di secoli e secoli, dobbiamo insegnare le regole civili della convivenza, il rispetto dei diritti umani, la democrazia... E' proprio quello che noi italiani stiamo cercando di fare. Ma con chi? Con i tre serbi rimasti a Pec? Beh, se è per questo a Gorazdevac ce ne sono un migliaio. Ma voglio mettere in chiaro una cosa: i serbi se ne sono andati prima del nostro ingresso a Pec. A dire il vero, ne ho visti partire due pulmini proprio ieri pomeriggio. Se è per questo, ce ne sono anche alcuni che sono tornati. Quanti? Centocinquanta, un mese fa. E' a loro che dobbiamo cercare di cambiare la mentalità. Ma allora quante generazioni dovranno restare qui i soldati italiani, a spese del contribuente? Non lo so. Quello che so è che non dobbiamo essere pessimisti, che dobbiamo cercare di far nascere qualcosa di positivo. Gli italiani devono aiutarci di più. Molto di più. Devono ricordarsi da quale parte stanno: gli aeroplani della Nato decollano da Aviano. Non da Atene". Non bastavano gli inglesi e gli americani, ora a rimproverare l' Italia ci si mette pure l' Uçk. La bacchetta è nelle mani di Raif Gashi, un alto dirigente dell' esercito di liberazione del Kosovo, alla vigilia di un misterioso viaggio nel nostro Paese per incontrare non vuol dire chi. Trentacinque anni, sposato con un figlio, Gashi è un "uccikappista" della prima ora: fa parte della formazione guerrigliera fin dal 1992. Fisico magrolino e aria da bravo ragazzo, è un professore di storia, materia che ha insegnato a lungo nei licei dell' Albania. Gashi, kosovaro con passaporto albanese, è al vertice della confusa gerarchia dell' Uçk nella quale moderati come lui si confondono con imbroglioni e con capi militari che, al confine con il Kosovo, rendono le zone di loro competenza piccoli feudi autonomi. Tutti fanno i conti con il grande flusso di giovani volontari e con un tiepidissimo appoggio dell' Occidente. Che chiude un occhio sulle armi di contrabbando, ma non li supporta davvero. In questo momento la sua attività è concentrata sul fronte militare, ma Gashi è soprattutto un leader politico." Ce l' avete con l' Italia perché ha fermato carichi di armi diretti in Albania? No, non ce l' abbiamo con voi. Gli italiani hanno fatto tanto per aiutare i nostri rifugiati. E di questo vi siamo grati. Però se fossimo stati al vostro posto non avremmo fermato armi destinate a un popolo che lotta per la libertà. Comunque, speriamo che in futuro l' Italia si comporti meglio. Prendete esempio dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dall' Austria e dalla Germania. La vittoria è dalla nostra parte, non dalla parte dei serbi. Una stoccata al ministro degli Esteri Lamberto Dini? Non voglio dare stoccate a nessuno. Mi sembra però che il vostro ministro degli Esteri debba stare dalla parte dell' Alleanza atlantica. Schieramento che starebbe usando l' Uçk come battistrada per l' intervento da terra. è vero? E' possibile: la Nato parla di noi in termini elogiativi. L' anno scorso eravamo un branco di terroristi. Oggi siamo un esercito di liberazione. Eppure, ancora oggi siete accusati di ricevere finanziamenti dai clan albanesi di trafficanti di eroina. E' un' assurdità. L' Uçk si finanzia con le donazioni della diaspora kosovara: 500 mila persone solo in Europa. Ma sono proprio le polizie europee a muovervi queste accuse. Anche le polizie cadono vittime della propaganda. A proposito di propaganda: cos' è per voi il Kosovo? Il Kosovo è più grande della parte di territorio circoscritto negli attuali confini. Ci sono kosovari in Serbia, in Montenegro, in Macedonia. Per ora i confini sono questi. Poi, si vedrà. Sperate di riunire tutti gli albanesi in un solo paese? Per adesso ci basta lo stato libero del Kosovo. E quando vedremo il nuovo stato? Presto. Se la Nato ci aiuterà, la guerra finirà molto presto. La Nato deve darvi armi? Sì, se l' Occidente vuole la stabilità dei Balcani deve togliere l' embargo e rifornirci di armamenti. Ci servono gli strumenti per battere le forze corazzate serbe. Ossia armi anticarro.
LA NUOVA PULIZIA ETNICA SOTTO GLI OCCHI DELLA KFOR (1999) >Elisabetta Burba e-mail the writer
Il generale Michael Jackson, comandante Nato della Kosovo Force (Kfor), cauto: "Le nazioni della Kfor non hanno mandato truppe per liberare il Kosovo da un regime brutale solo perché venisse rimpiazzato con un altro". L' amministratore Onu Bernard Kouchner, più diretto: "Il mondo è intervenuto in Kosovo per metter fine alla sofferenza, alla ingiustizia e agli assassinii. Ma non per rendere il paese sicuro per la vendetta e l' intolleranza". Un anonimo funzionario dell' Onu, esplicito: "La Nato e le Nazioni Unite hanno fallito: sotto gli occhi di 37.500 soldati e di migliaia di osservatori internazionali, in Kosovo è in corso una sistematica contro-pulizia etnica compiuta dagli albanesi contro i serbi. Non bastasse, il paese si sta trasformando in una seconda Albania, dove pullulano criminali che trafficano in droga, prostituzione e auto rubate". Tre sfumature diplomaticamente diverse per esprimere lo stesso concetto: dopo l' accordo militare fra Nato e Jugoslavia (9 giugno 1999), gli albanesi si sono trasformati da vittime in carnefici. E non si sono limitati alla vendetta. Come denuncia la Chiesa serbo-ortodossa, "gli albanesi stanno portando avanti una distruzione sistematica di ogni traccia di presenza serba per creare un Kosovo etnicamente puro". Dal momento in cui si sono ritirati i soldati di Belgrado gli estremisti albanesi hanno cominciato a massacrare civili inermi, a devastare le chiese cristiano-ortodosse (40 danneggiate o distrutte in un mese e mezzo) e a seminare il terrore fra la popolazione per indurla a fuggire. In un paio di mesi sono partiti 180 mila serbi su poco più di 200 mila, quelli rimasti fremono di paura asserragliati in casa o rifugiati nei conventi come contadini durante le razzie lanzichenecche. Storie di ordinaria pulizia etnica, che sotto il cielo dei Balcani si ripropongono giorno dopo giorno, come i grani di un rosario interrotto ai misteri dolorosi e mai arrivato al riscatto della gloria e del perdono. Oggi i serbi, ieri gli albanesi, l' altro ieri i musulmani e i croati... Ma rispetto alla Bosnia e alla Croazia, in questo caso la posta in gioco è molto più alta: la missione di pace in Kosovo rischia di trasformarsi nella sconfitta della comunità internazionale. Con tutte le parole spese sul rispetto dei diritti civili in Kosovo, e le bombe lanciate sulla Serbia per imporlo, la Nato e l' Onu non possono ora tollerare la riproposizione speculare delle stesse violenze e degli stessi soprusi che avevano così duramente combattuto. Un rischio di cui sono ben consapevoli: lo dimostra la sterzata del generale Jackson che il 9 agosto, per frenare l' Uck in azione contro i serbi nella città di Mitrovica, ha ordinato ai suoi uomini "tolleranza zero" (il risultato è stato immediato: il giorno dopo sono stati fermati 78 presunti membri dell' Uck). Ma lo dimostra ancor di più la condizione in cui versa Kouchner, il governatore Onu ormai inviso a tutti gli albanesi per la sua volontà di creare un Kosovo multietnico. "E' sull' orlo di una crisi di nervi" sussurrano con preoccupazione gli osservatori internazionali a Pristina. E c' è già chi scommette che non reggerà fino a Natale. Ma che cosa sta succedendo in Kosovo? La comunità internazionale è in grado di fronteggiare l' emergenza o la situazione le è già scappata di mano? Per cercare una risposta a queste domande, Panorama ha fatto un viaggio nelle retrovie della missione di pace che rischia di diventare uno gravissimo smacco per l' Onu e la Nato. Ecco alcuni fotogrammi dal pantano di fine millennio. L' impotenza dell' Onu. Pristina, una notte d' inizio agosto. Un' interprete serba che lavora per le Nazioni Unite viene assalita da una banda dell' Uck: vogliono che lasci immediatamente il suo appartamento a una famiglia "ariana" di albanesi. La donna chiama il servizio di sicurezza dell' Onu, che si precipita a casa sua in due minuti. Gli uomini dell' Onu chiedono aiuto via radio ai soldati britannici della Kfor. Che non si fanno vedere per tutta la notte. E i poliziotti Onu? Su oltre 3 mila previsti, ne sono arrivati solo 400. E per giunta non ancora operativi. Se mancano i poliziotti, abbondano le auto: alle ore 11.55 del 4 agosto, nel parcheggio del quartier generale di Pristina ci sono 66 Toyota 4Runner 3.000 Turbo-diesel nuovissime. Valore: circa 3 miliardi e 300 milioni di lire. Come mai sono tutte nel parcheggio? Non dovrebbero essere operative? La rabbia dei soldati: Posto di blocco della Kfor italiana. Un veterano delle missioni nei Balcani si sfoga: "Come a Sarajevo, anche qui pensavamo di dover difendere i musulmani. Invece ci tocca difendere i serbi. Ma gli albanesi stanno esagerando: se sono qui è solo merito della Nato. Come si permettono di fare i gradassi? Stiano attenti, perché se continuano così arriva la Nato e dà una bella batosta a tutti quanti". Nel frattempo, il soldato provvede ad avvisarli: "Quando uno di questi cialtroni si mette a fare il bulletto, io gli dico: "Ehi, bimbo: fly down or fly Nato"". Vola basso o vola la Nato. La paura dei volontari Kosovo orientale. "I serbi? Mi dispiace per loro perché stanno vivendo una situazione veramente drammatica, ma non intendiamo parlarne. Sarebbe troppo pericoloso per noi". E' la risposta amara della responsabile di un' organizzazione non governativa che lavora in Kosovo con i rifugiati. "Non siamo codardi" precisa la ragazza. "E' che dobbiamo proteggere i nostri volontari: questo è diventato un Far West. E gli albanesi sparano". La Babele della Nato Inizi di giugno. Zivorad Igic, vicepresidente socialista del consiglio comunale di Pristina, è nella sua casa a Babin Most, a nord della capitale. Una sera si presentano dei ladri. Il politico chiama i soldati britannici della Kfor, che accorrono in pochi minuti. Prendono i ladri, li mettono contro il muro, verificano che non hanno armi e li lasciano liberi. Dopo di che se ne vanno. I ladri continuano indisturbati. A quel punto, Igic richiama gli uomini della Kfor, che per fortuna arrivano con un interprete. E capiscono così la ragione per cui erano stati chiamati: un tentativo di furto, non di assalto armato. Le menzogne degli interpreti. Monastero di Decani, ore 13.30 di martedì 3 agosto. L' abate Theodosio sta mostrando al generale Francesco Cervoni, capo di stato maggiore dell' Esercito italiano, i magnifici affreschi trecenteschi della sua chiesa. Lunga barba bionda, occhi azzurri dov' è condensata una tristezza infinita, l' abate sembra un mistico medioevale. Invece è un uomo del suo tempo: durante la guerra ha ospitato circa 200 albanesi nelle mura del convento e adesso non esita a denunciare la tragedia del suo popolo. Peccato che le sue parole non arrivino al mittente: anziché tradurre fedelmente, l' interprete albanese smorza i toni, cambiando i tempi verbali o addirittura il senso delle frasi. "La popolazione serba è stata costretta a fuggire" dice per esempio l' abate. Traduzione: "La popolazione serba si trovava in cattive condizioni". Un caso isolato? No. "Da più parti ci segnalano casi di interpreti albanesi che fanno di tutto per mettere in difficoltà i serbi" denuncia padre Sava Janijc, il giovane prete cristiano-ortodosso che grazie alla sua ottima padronanza dell' inglese e delle nuove tecnologie in Kosovo sta emergendo come il portavoce dei serbi moderati presso la comunità internazionale. "D' altra parte, che cosa dobbiamo aspettarci? Nella Kfor americana gli interpreti albanesi indossano addirittura la divisa delle truppe statunitensi. E quelli serbi praticamente non esistono. Con buona pace dell' equidistanza". L' immobilismo degli italiani. Come si stanno comportando i soldati italiani della Kfor? "Molto bene" è la risposta di Teuta K., 26 anni, albanese di Pristina, economista. Perché? "Perché hanno lasciato che gli albanesi bruciassero le case dei serbi mentre i proprietari si erano rifugiati nelle chiese protette dai soldati". Ma è vero? Risponde il vescovo Atanasije del patriarcato di Pec, praticamente il Vaticano della Chiesa serbo-ortodossa. "Sono falsità fatte circolare dagli albanesi per seminare zizzania. Quello che io in sincerità posso dire è che ogni volta che abbiamo avuto bisogno gli italiani ci hanno aiutato. Anche gli spagnoli. I latini, diciamo". Questo è vero: il patriarcato è protetto 24 ore su 24 da cinque carri armati e da una cinquantina di uomini. Altrettanto vero, però, che la zona italiana, assieme a quella tedesca, è l' area da cui sono fuggiti più serbi. Prima della guerra, nella sola città di Pec ce n' erano 15 mila: ne sono rimasti tre. Nella vicina Decani ce n' erano 620: non ne è rimasto nessuno. A Djacovica erano in 3 mila: ora sono otto. Quella degli italiani è anche l' area dove sono state distrutte più case e più chiese. "L' unica cosa che facciamo è spegnere gli incendi" ammette candido un giovane soldato. Per spegnere quegli incendi (e poco altro) i contribuenti italiani spendono ogni mese almeno 44 miliardi di lire solo in stipendi. Lo stipendio di un soldato semplice si aggira intorno ai 7,3 milioni. Fatta una media (bassa) di 8 milioni e moltiplicata per 5.500, il numero dei connazionali dispiegati in Kosovo, arriviamo a 44 miliardi. Nota bene, solo di stipendi: tutto il resto è fuori. A quanto ammonta la spesa totale? Nessuno è in grado di dirlo.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]