Postcards From Hell: Stories by Massimo Cappon
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
STORIES by Massimo Cappon

AFGHANISTAN,
UNA GUERRA NEL NOME DI ALLAH (1997)
>Massimo Cappon / FRAM VIDEO
e-mail the writer
Reportage televisivo realizzato per e trasmesso
da TSI Televisione Svizzera Italiana

460402 Scontri sulla frontline ca. 15 miglia a nord di Kabul


Siamo sulla prima linea dell'ennesimo fronte di guerra che divide in due l'Afghanistan, una trentina di chilometri a nord di Kabul. I combattenti hanno delimitato un quadrilatero con bossoli di cannone e contraerea, hanno inventato una moschea all'aperto accanto alle trincee.
"Allah u akhbar", "Dio è grande", ripete il canto dell'ufficiale-muezzin. Ed è ancora una volta nel nome di Allah, contro coloro che vengono considerati i traditori della comune patria islamica, che nell'estate dell'anno scorso la guerra infinita dell'Afghanistan è divampata di nuovo. Ed è nel nome di Allah che l'esercito dei Talibani, un movimento nato due anni fa tra gli studenti delle scuole coraniche di Kandahar, è entrato di slancio nella capitale e punta ormai alla conquista dell'intero Afghanistan.
La guerra, qui, è dimensione quotidiana da quasi vent'anni, non deve stupire la commistione di fede e kalashnikov. Il paradosso è semmai che questi nuovi "soldati dell'Islam", i Talibani, ripetono gli stessi gesti dei mujaheddin schierati dalla parte opposta, eroi, dieci anni fa, della resistenza contro gli invasori sovietici.
I tornanti del Khyber Pass sono la porta storica che collega le selvagge terre di frontiera del nordovest del Pakistan all'altopiano afghano. Una porta proibita da vent'anni, che possiamo varcare solo seguendo un convoglio della Croce Rossa internazionale che porta viveri e medicinali a Kabul, tra resti di battaglie antiche e recenti.
Ci aspettavamo una città stremata dalla guerra e dall'isolamento. Kabul ci accoglie invece coi suoi colori, col fascino esotico della sua gente, con la ricchezza di una storia intrecciata con l'Occidente fin dai tempi di Alessandro Magno, con la vivacità dei suoi mercati, eredi dei fasti delle carovaniere asiatiche e della leggendaria Via della Seta. I Talibani sono i nuovi padroni di Kabul. Donne velate e relegate in casa, requisizione delle armi e imposizione della sharia, la severa legge islamica contro la droga e il crimine. Così si esprime, dal 27 settembre scorso, il nuovo potere e non pochi, qui, lo considerano il male minore. Nessuno può dimenticare che tra il 1991 e il 1994, in un paese finalmente libero da dieci anni di dominazione sovietica, Kabul venne contesa a colpi di cannone e razzi dalle bande dei "signori della guerra" afghana, ai quali erano state regalate poco tempo prima dagli americani armi per 4 miliardi di dollari. Il bilancio fu di 25 mila morti e mezzo milione di nuovi profughi.
L'emergenza non è finita. A Kabul, capitale fantasma, resta poco meno di un milione di persone ma l'economia è disintegrata, ridotta alla lotta quotidiana per la sopravvivenza. La guerra è alle porte della città, ma è soprattutto l'incubo delle mine, dis-seminate tra le macerie dei quartieri distrutti, che tiene viva, anche tra i civili, una tensione da prima linea.
Si calcola che in tutto l'Afghanistan siano state disseminate oltre 10 milioni di mine. Quella che stiamo seguendo, in presa diretta, è una giornata qualsiasi nel quartiere di Kabul Ovest, do-ve operano le squadre coordinate dagli specialisti inglesi di Halo Trust. In un anno vengono neutralizzati in questo modo oltre 20 mila ordigni esplosivi di vario genere. Ma la bonifica richiederà ancora decenni, guerra permettendo.
I feriti da mina occupano un intero reparto dell'ospedale di Kabul. Ne arrivano ogni giorno e hanno tutti la stessa maledetta storia da raccontare: quella di una vita cambiata per sempre nel lampo di un'esplosione improvvisa, appena sufficiente a spappolare un piede, una gamba, un braccio. Ne restano vittime, ancora oggi, 2000 persone al mese, per lo più civili, che vanno ad aggiungersi ad un esercito di 500mila handicappati per cause di guerra.
"E' successo cinque giorni fa" ci dice Rohallah, 27 anni, "poco fuori Kabul. Camminavo al bordo della strada, poi il terreno è saltato sotto i miei piedi e non ricordo più nulla".
Il Centro ortopedico Wazir Akbar Khan, gestito dalla Croce Rossa, è la fabbrica più attiva dell'Afghanistan. Vi lavorano 180 persone e si producono 10 nuove protesi al giorno. Tra loro, a sorpresa, troviamo anche una ragazza, Susan. Viene da Kandahar e le chiediamo se l'emarginazione delle donne dai posti di lavoro imposta dai Talibani non le crei dei problemi.
"Non soltanto a me, ma a tutte le donne qui in Afghanistan".
"E' la sola donna a lavorare qui?"
"No", qui al Centro siamo rimaste in 8".
"Non ha paura delle imposizioni dei Talibani?"
"Sapete che non possiamo rispondere alle interviste"
"Ma ha paura?"
"Un pò sì..ho paura, ma cos'altro posso fare?"
Dal 1989 sono passati al Centro ortopedico di Kabul oltre 20 mila pazienti, quasi tutti amputati in seguito allo scoppio di mine.
Lo choc psicologico di un'amputazione non è meno grave della menomazione fisica subita. E alla riabilitazione contribuisce non poco la straordinaria assistenza prodigata dallo staff infermie-ristico, composto al 50 per cento da persone vittime essi stessi della lunga guerra afghana. In questo cortile, ogni giorno, decine di persone provano a muovere i primi passi con protesi costruite su misura, in grado di ridare la speranza di una vita quasi normale. Responsabile di tutta l'attività e protagonista e-gli stesso di una straordinaria avventura di solidarietà è un piemontese di 43 anni che vive a Kabul dal 1988, testimone di tutte le tragedie più recenti che hanno devastato la capitale. Ma nessuno, meglio di Alberto Cairo, può rendere anche omaggio al coraggio e alla fierezza di questa gente.
L'ultima cosa che ci si immagina di poter fare a Kabul è una puntata allo zoo. Invece è una visita doverosa, a quel vecchio leone donato vent'anni fa dalla Germania diventato il simbolo di una o-stinata volontà di sopravvivenza. E' cieco e malandato, da quando un mujahid gli tirò una bomba a mano, tre anni fa, per vendicarsi della morte di suo fratello, entrato nel recinto in un gesto di spavalderia suicida. Per curare Markàn, il vecchio leone, si mobilitarono i pochi medici rimasti a Kabul sotto le bombe. Ma la sua fierezza è intatta e il suo guardiano, Akbar, entra ancora nel recinto con circospezione. Finchè Markàn resterà in vita, si dice, gli abitanti di Kabul avranno un motivo in più per resistere a tutte le difficoltà.
Un'altra sorpresa ci attende presso il bazar: bancarelle di libri nuovi e usati, come sul lungo Senna di Parigi. Ma allora c'è an-cora speranza, 30 secoli di storia potranno avere ancora un ruolo nella ricostruzione dell'Afghanistan?
Questo capannone sfondato, le rotative bruciate, sono invece tut-to quanto resta del più antico quotidiano di Kabul. Ci accompagna, in una visita carica di amarezza alla vecchia tipografia, il suo ex direttore, Mohammed Azim. "Tutto bruciato, due anni fa, a seguito di un bombardamento di razzi lanciati dagli uomini di Hekmatyar", racconta."Erano macchine moderne, non ne restano che questi rottami".
Alcuni fogli bruciacchiati, riesumati tra i detriti, ci ricordano oggi dell'esistenza del Kabul Times e dell'Anìss, un quotidiano che vantava quasi cent'anni di storia.
"Ecco l'ultimo numero stampato, questo era l'Anìss, il nostro giornale".
Sul fronte a nord di Kabul, i razzi che hanno devastato la capitale negli ultimi anni servono oggi ai Talibani per rafforzare le loro posizioni sulle colline. In prima linea si arriva in appena mezz'ora, traversando una piana polverosa dove correva verso nord la New Road.
Sullo slancio della loro trionfale avanzata, in settembre, i Talibani l'avevano seguita fino al Salang Pass. Furiosi combatti-menti hanno poi riportato il fronte allo sbocco della valle del Panshir, difesa dagli uomini di Massud. Ma i Talibani hanno dalla loro una certezza soprannaturale..
"Vinceremo", ci dice convinto il comandante Ahmedullah, in una trincea di prima linea...
"Dio è grande, Dio è con noi", ripetono i Talibani. Al fronte, così come nei palazzi del nuovo governo, da poco insediato a Kabul..
La battaglia di Kabul ha interrotto la strada principale verso il nord, ma in Afghanistan la parola d'ordine è "Inshallah", e tutto è sempre possibile. E così può anche succedere che si parta con un taxi sgangherato da Kabul e in due giorni di viaggio avventuroso, lungo una valle laterale che offre squarci da cartoli-na sugli aspetti più inediti e affascinanti del paese, si riesca ad attraversare quella pericolosa terra di nessuno che separa i contendenti, a sua volta divisa e contesa da un mosaico di etnie e clan tribali. Pur nelle condizioni più difficili, una spola di camion, carovane e mezzi di ogni tipo percorre queste rotte fuori mano e mantiene viva la rete dei traffici e dei commerci: da quelli elementari, ai quali è legata la sopravvivenza di intere popolazioni, a quelli inconfessati, e inconfessabili, delle armi e della droga, una realtà saldamente radicata nella tradizione afghana e ragione non ultima delle sue turbolenti vicende.
Ed eccoci a Jabal-Siraj, la roccaforte del fronte anti- Talibani: una cittadina a soli 60 chilometri da Kabul invasa dalla pittoresca armata dei mujaheddin di Massud e Dostum, dove nonostante l'animazione della folla e i colori del mercato si respira l'aria pesante della retrovia di guerra.
Per ironia della sorte, Massud, l'eroe della resistenza antiso-vietica, si trova oggi alleato del filosovietico Dostum, che controlla il nord del paese oltre il Salang Pass. Ma la loro è un'alleanza di comodo, meno motivata e compatta del fronte avversario e le speranze di riconquistare Kabul, abbandonata ai Talibani senza combattere, si fanno sempre più lontane.
Questa palazzina bianca, protetta da una scorta di fedelissimi, è il quartier generale del comandante Ahmad Shah Massud, il "leone del Panshir", beniamino dei media occidentali. Ma incontrarlo non è facile come una volta. Massud appare sempre più raramente in pubblico, sempre più teso, preoccupato e nervoso. E non rilascia interviste.
Di nuovo sulla New Road, dalla parte nord della linea del fronte, percorsa da camion e mezzi cingolati che riforniscono le posta-zioni più avanzate. Qui vicino è la base aerea di Bagram, una po-sizione strategica importante per il controllo della valle, anche se l'aviazione è ridotta ai minimi termini da ambo le parti.
Da pochi giorni, grazie agli appoggi di Dostum, sono arrivati in-vece alcuni missili a media gittata che potrebbero minacciare di-rettamente Kabul.. Una strana calma regna sulla prima linea. La guerra è anche questo: una lunga attesa durante la quale si cerca di ingannare il tempo. Giocando a dama con i bossoli di kalashni-kov, oppure ripetendo senza saperlo, proprio di fronte alla mo-schea improvvisata dai Talibani dall'altra parte, l'identico rito della preghiera islamica..
La strana guerra afghana è anche questo: una lunga, surreale at-tesa che succeda qualcosa.
E poi, anche sotto un cielo assurdamente azzurro, la violenza e la tragedia della guerra esplodono nel giro di pochi secondi, in risposta a quelle che sembravano stanche cannonate di routine...
I sibili e gli scoppi dei razzi in arrivo sovrastano il rombo delle cannonate, trasformano la strada in una trappola mortale.
I colpi dei Talibani si fanno sempre più vicini, sempre più precisi. Finchè un tiro sembra teleguidato dal destino...
Un camion carico di benzina viene centrato da un razzo sparato da chilometri di distanza. Cinque vite umane (lo sapremo poi) sono annientate in una sola, impressionante esplosione..
L'effetto psicologico del bombardamento cui abbiamo assistito è ancora più imprevedibile. Un'ondata di panico percorre la prima linea di Massud.
Il nervosismo cresce, gli uomini cominciano a ripiegare. E poi è la fuga, inarrestabile e contagiosa. Domani, il fronte dei Talibani si troverà 5 chilometri ancora più a nord: la marcia degli studenti-guerrieri prosegue, lenta ma inesorabile, avanguardia armata di un nuovo fanatismo integralista.
Dal tempo dell'invasione sovietica, l'Afghanistan è condannato al ruolo di pedina nel grande intrigo degli interessi internazionali. Con i Talibani combattono i Paesi arabi, il Pakistan, forse la Cia; con Massud e Dostum, Russia e Iran. La sensazione è che ci sarà un futuro, per questo martoriato paese, solo quando sarà in grado di camminare da solo.
E, finalmente, sulla via della pace.




THE MAN WHO WOULD BE KING AGAIN (1999)
>Massimo Cappon
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English translation kindly provided by Omaid Weekly
"The Most Widely Read Afghan Publication in the World"


460642 King Zahir Shar, residing in Italy since 1973
Photo copyright and courtesy of Massimo Cappon

He was only 19 when he ascended to Asia's legendary Kabul throne. Mohammad Zahir Shah, the last King of Afghanistan, inherited in 1933 a regal title of historic continuity from the Macedonian satrapy that followed the adventures of Alexander the Great until the Kushan [Hindu] dynasty, the Sassanian Maruia and the magnificent courts of the Timur and Babur Shah -- the indomitable resistance of the warrior-king Babur twice folded English imperial ambitions in the 1800s. Educated in France, with a passion for literature and Roman history, Mohammad Zahir Shah knew his country and determined that it needed to modernize. He called in advisors from abroad, founded the first modern University, and started commercial and cultural relationships with Europe. During the second world war, Zahir Shah succeeded in maintaining neutrality -- a difficult task -- and Afghanistan's national integrity. And in 1964, the new constitution transformed his reign into a modern democracy, with free elections, civil rights, an elected Parliament, universal suffrage, women's emancipation and freedom of the press.
But from Afghanistan's past, Zahir Shah also inherited a turbulent history of fighting between tribal clans and factions. In July 1973, while he was in Italy for medical treatment for his eyes, a coup d'etat involving Soviet sympathizers proclaimed a republic, precluding the [Red Army's] 1979 invasion and the more recent tragedies that have lead to Afghanistan' complete destruction.
From that summer of 1973, Mohammad Zahir Shah has lived in Rome. He has never abnegated the dream to return to Afghanistan, now contested between the Taliban terrorists and Masood's mujahideen. For many, the former King's return to Afghanistan is seen as the only solution to the return of civil society and reconstruction of the country.

How do You view, from a foreign country, the infinite tragedies of Afghanistan?

"My feelings, like other patriots, is of immense admiration for the Afghan people, their heroic resistance against the Soviets, their sacrifices. Their total solidarity has supported them in all these years through the most difficult tests. And I've felt great pain for their suffering, which has above all afflicted the civil population."

Do you have negotiations currently going on with the various parties in the conflict?
What are your proposals for finding a solution to the current stalemate?

"The return of legitimate political power, with legality and due order, is the fundamental requirement in establishing peace and stability to the country in order to initiate the social and economic reconstruction of Afghanistan. To establish a "State of Rights" in which human and civil rights - a system based on true Islamic values and Afghan tradition - is protected, democratic constitution founded on the common religious faith, national independence and human dignity."

What will be your role?

"We are on the eve of an important event -- long in preparation. In the next few months, we want to convene the Loya Jirga [Grand National Assembly], an assembly of respected and authoritative delegates from all tribal, regional and political sectors. The Loya Jirga is a traditional Afghan institution, convened only in the crucial moments of our history. I think that this is such a moment and that from this assembly will be born a new Afghanistan. The reactions to our initiative are very promising."

How can the rest of the world help this rebirth of Afghanistan?

"International aid and the direct participation of organizations like the United Nations, European Union and the Organization of the Islamic Conference will have a determining role. But first, all foreign interference that feed the war must stop, so that the Afghan people can themselves decide their future."

What has prompted this urgent desire to return to Afghanistan?

"Since 1973, Italy has become my second home, and I am greatly in debt to your country. But my nostalgia for Afghanistan is great. I have remained in exile in order to avoid conflict and the spilling of blood. Today, I am placing my self and the institution of the monarchy at the service of the nation in order to help restore peace, national sovereignty and democracy. InshaAllah."




L'UOMO CHE VUOLE TORNARE RE (1999)
>Massimo Cappon
e-mail the writer


460642 Re Zahir Shah, stabilitosi in Italia nel 1973
Foto gentile concessione di Massimo Cappon



Aveva solo 19 anni quando salì al trono di Kabul, il più leggendario dell'Asia. Mohammed Zaher Shah, l'ultimo Re dell'Afghanistan, ereditava nel 1933 un titolo regale in continuità storica con le satrapie macedoni che seguirono l'avventura di Alessandro Magno fino all'Indo, le dinastie Mauria e Sassanide, i fasti delle corti Moghul di Timur e Babur, l'indomabile resistenza dei re-guerrieri che per ben due volte piegarono le ambizioni imperiali inglesi a metà dell'Ottocento. Educato in Francia, appassionato di letteratura e di storia romana, Mohammed Zaher Shah decise che il suo Paese, arroccato tra le montagne selvagge dell'Hindukush, dovesse aprirsi al progresso del mondo. Chiamò consulenti stranieri, fondò la prima Università, avviò rapporti commerciali e culturali con l'Europa. Durante la seconda guerra mon-diale, riuscì a mantenere l'integrità nazionale e una difficile neutralità. E nel 1964, una nuova Costituzione trasformava il regno dell'Afghanistan in una democrazia moderna, con libere elezioni, diritti civili, un Parlamento eletto a suffragio universale, l'emancipazione femminile, la libertà di stampa.
Ma Zaher Shah ereditava dal passato dell'Afghanistan anche una turbolenta storia di lotte tra clan e fazioni tribali. Nel luglio del 1973, mentre si trovava in Italia per un trattamento medico agli occhi, un colpo di stato spalleggiato da giovani ufficiali vicini all'Unione sovietica proclamava la repubblica, preludio all'invasione del 1979 e alle tragedie più recenti che hanno completato la distruzione dell'Afghanistan, piombato nella spirale della guerra civile tuttora in corso.
Da quell'estate del 1973, Mohammed Zaher Shah vive a Roma, in una villa in affitto all'Olgiata, re di una corte in esilio e di 3 milioni e mezzo di profughi all'estero. Come loro, non ha mai rinunciato al sogno di ritornare in Afghanistan, ancora conteso tra i Talibani integralisti e i mujaheddin di Massud. E in molti si va oggi facendo strada l'idea che l'unica speranza per avviare la ricostruzione sociale e civile dell'Afghanistan sia proprio il ritorno alla monarchia costituzionale.
Dignitoso e riservato, Mohammed Zaher Shah, l'ultimo Re dell'Afghanistan, rompe per la prima volta un lungo silenzio.

Come ha vissuto, dall'estero, la tragedia infinita dell'Afghanistan?

"I miei sentimenti, come patriota prima ancora che come capo dello stato in esilio, sono di immensa ammirazione per il popolo afghano, la sua eroica lotta di resistenza durante l'invasione sovietica, i suoi sacrifici. Come uomo, sono di commossa, totale solidarietà nelle durissime prove che ha dovuto sopportare in tutti questi anni. E insieme, di grande dolore per le sue sofferenze, che hanno colpito soprattutto la popolazione civile".

Ci sono trattative in corso con le parti in conflitto? Quali sono le proposte concrete della monarchia per trovare una soluzione all'attuale fase di stallo istituzionale?

"Il ritorno alla legittimità del potere politico, alla legalità e all'ordine, è il requisito fondamentale per restituire pace, sicurezza e stabilità al Paese, per avviare la ricostruzione sociale ed economica dell'Afghanistan. Vanno ristabiliti uno "Stato di Diritto" nel quale vengano tutelati i diritti umani e civili di ogni cittadino, un sistema basato sui veri valori dell'Islam e sulle tradizioni afghane, una costituzione democratica che sancisca una ritrovata unità nel segno della comune fede religiosa, dell'indipendenza nazionale e della dignità umana".

Quale è il ruolo della monarchia in questo senso?

"Siamo alla vigilia di un evento importante, a lungo preparato. Vogliamo convocare nei prossimi mesi una Loya Jirga, una assemblea dei delegati più rispettati e autorevoli di tutte le comunità tribali, familiari e politiche afghane. La Loya Jirga è una istituzione tradizionale afghana, viene convocata solo nei momenti cruciali della nostra storia. Riteniamo che questo sia un momento molto favorevole e che da questa assemblea di saggi (i "barba bianca", come sono chiamati) possa nascere un nuovo Afghanistan. Le reazioni alla nostra iniziativa sono molto promettenti".

Come può il resto del mondo aiutare la rinascita dell'Afghanistan?

L'aiuto internazionale e l'intervento diretto di organizzazioni come le Nazioni Unite, l'Unione Europea, la Conferenza Islamica, hanno un ruolo determinante. Ma prima di tutto dovrebbero cessare le interferenze esterne che alimentano la guerra civile, così che il popolo afghano possa decidere liberamente del proprio futuro".

Con quali sentimenti segue questo estremo tentativo di ritornare in Afghanistan?

"Dal 1973 l'Italia è diventata la mia seconda patria, ho con il vostro paese un debito grandissimo di riconoscenza. Ma è grande anche la nostalgia per l'Afghanistan. Decisi allora di restare in esilio per evitare la guerra civile e lo spargimento di sangue, anche se sentivo che la pace, la sovranità nazionale e la democrazia si avviavano ad una fine brutale. Così è stato, purtroppo. Oggi pongo la mia persona e l'istituzione della monarchia legittima dell'Afghanistan al servizio della nazione e di quegli stessi ideali. Inshallah, se Dio vorrà".


UNA STORIA TURBOLENTA
Queste le date salienti nella storia moderna dell'Afghanistan:
1839-43 Prima guerra con gli Inglesi, respinti nel loro tentativo di annettere l'Afghanistan all'India dal Khyber Pass.
1879-93 Seconda guerra anglo-afghana.
1919-1921- Dopo la vittoria nella terza guerra con gli Inglesi, l'Afghanistan torna ad essere un regno indipendente.
1973 Un colpo di stato porta alla deposizione del re e suo cugino Mohammed Daoud alla Presidenza della Repubblica.
1979- Con il pretesto di difendere il regime di Babrak Karmal, i sovietici invadono l'Afghanistan, nonostante la strenua resistenza dei mujaheddin.
1989- Ritiro dei sovietici e inizio delle rivalità tra i vari capi della resistenza.
1992 Deposizione di Najbullah e proclamazione della Repubblica Islamica, con presidente Rabbani.
1994- Battaglia di Kabul tra Massud e Hekmatyar, con 25mila morti e mezzo milione di nuovi profughi.
1996- Conquista di Kabul ad opera degli studenti islamici Talibani spalleggiati dal Pakistan, che instaurano un regime integralista.




ALLA RICERCA DELLA TERRA PROMESSA (1998)
>Massimo Cappon
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49015 L'Autore di questo testo, ripreso nel campo di Rabboni (Algeria)

Un fortino merlato in cima a una collinetta di sabbia, le mura accecanti di calce, divise militari all'ingresso. Un orizzonte circolare di dune giallognole e tende circondate da bassi muretti di fango secco, a delimitare lo spazio vitale di clan e famiglie. I colori del bianco e dell'indaco su una piccola folla di uomini in attesa davanti all'ingresso dell'edificio, del nero, del gial-lo e del porpora sulle donne. Un quadro che sembra il set di "Beau Geste", con il vento del deserto che frusta i lembi dei mantelli e degli cheche che proteggono il volto, distende e fa tuonare contro un cielo di cobalto una grande bandiera celeste delle Nazioni Unite.


49114 Operazioni di certificazione nel campo di Dakhla, all'ombra delle insegne MINURSO

A gruppi di sei, uomini e donne vengono fatti entrare nell'edificio. Tra le pieghe di quei tessuti regali tirano fuori una lettera sgualcita, una foto, un documento di riconoscimento. E' il lasciapassare esibito con orgoglio, come la loro bandiera bianca rossa e verde con la mezzaluna e la stella, il titolo di appartenenza al popolo saharawi. La scena si ripete ogni giorno, e chiama ordinatamente tutti i gruppi familiari del campo profughi di Dakhla, una città di tende per 10 mila persone sorta 23 anni fa nel Sahara algerino. C'è eccitazione nell'aria, una strana atmosfera come di festa. "Libertad para el pueblo saharawi", grida una donna rivolta verso un gruppetto di giornalisti stranieri. E sorride alzando due dita nel segno della vittoria.
Dentro quelle mura di fango intonacato di fresco, una commissione internazionale cerca pazientemente, con l'aiuto degli anziani del villaggio, di trasferire i dati frammentari di un popolo senza patria in un archivio elettorale organizzato. Dopo 16 anni di guerra con il Marocco e altri 7 di polemiche e contestazioni, i 160mila saharawi esuli lungo l'inospitale confine tra Marocco, Mauritania, Algeria, sono chiamati a decidere del proprio futuro.
"Per ora tutto si svolge regolarmente, le operazioni di identificazione termineranno entro l'estate come previsto", conferma Mohamed Salem, delegato del governo saharawi."E si avvicina la data storica, la data tanto attesa. Quel referendum che il 7 dicembre prossimo segnerà l'indipendenza della Repubblica Araba Saharawi Democratica e consentirà ad una intera popolazione di riappropiarsi del proprio territorio". Gli aventi diritto al voto già identificati sono circa 60mila e altri 100mila (nei campi e nei territori occupati), attendono il loro turno.
La Terra Promessa sognata dai Saharawi, una etnia seminomade del deserto nata dalla fusione tra genti berberi e beduine autoctone con un innesto araboyemenita nel 1300, è il Sahara Occidentale. Una tessera di territorio che sembra ritagliata nella carta lungo la costa dell'Atlantico, affidata alla Spagna dal Congresso di Berlino del 1884, a spezzare il mosaico delle colonie francesi del Marocco e della Mauritania. Una colonia africana di scarse pretese, amministrata per 90 anni con sonnacchiosa condiscendenza dalla Spagna. I guai cominciano quando si scopre che in quell'arida striscia di territorio si nasconde un immenso giacimento a cielo aperto di fosfati, un minerale utilizzato come fertilizzante in agricoltura che catapulta quel perimetro di sabbie ai vertici della classifica mondiale produttori. E così il Sahara Spagnolo diventa improvvisamente oggetto di interessate attenzioni.
Nel 1975, al ritiro della Spagna, Mauritania e Marocco invadono il paese. Non resta che la guerra, combattuta con grande determinazione fino al 1991, quando viene sottoscritta la tregua tuttora in vigore con il Marocco. Nonostante la disparità delle forze in campo, il movimento indipendendista del Polisario riesce ad ottenere sul campo sorprendenti successi. Nel 1979 costringe la Mauritania a ritirarsi dalla parte meridionale e impegna seriamente anche il Marocco, liberando una striscia di territorio. Ma violando tutte le risoluzioni Onu e con la tacita copertura delle grandi potenze occidentali, il Marocco è deciso a far valere la legge del più forte. Due successive "Marce verdi" spostano centinaia di migliaia di coloni marocchini nei territori occupati, mentre viene costruita una Cortina di Ferro nel deserto, un vallo trincerato lungo 2000 chilometri che taglia fuori tutti i territori minerari e le città dal raggio d'azione del Polisario. Quell'incredibile muro è alto appena quattro metri, ma è minato e pattugliato per tutta la sua lunghezza e costituisce un ostacolo di fatto insuperabile. Per 160 mila profughi rimasti isolati dall'altra parte, il ritorno in patria diventa un miraggio.
Mohammed Buhali, 60 anni, patriarca di una famiglia di undici figli, ricorda bene i tempi della colonia. Lavorava come tecnico delle strade in una società di costruzioni spagnola. Viveva in un appartamento nella città di Dakhla. Oggi ci ospita nella grande tenda di famiglia, nel campo che ripete (come Smara, El Aioun, tutti gli altri) il nome della città d'origine. Quando cominciarono i bombardamenti dell'aviazione marocchina, racconta seduto sui tappeti che restituiscono una dignità di casa alla tenda, fuggì a piedi verso il confine algerino, con la moglie Mariam e due figli piccoli. Da allora vive in quella singolare comunità senza denaro e senza privilegi, gli aiuti internazionali rigorosamente divisi in quote famiglia e parti uguali dal Polisario.
La figlia maggiore, Ijnika, 19 anni, sta officiando il rito del tè alla menta per gli ospiti, facendolo schiumare in piccoli bicchierini di vetro. Ha grandi occhi ridenti e vivaci segnati dall'hennè, il volto scoperto come molte donne saharawi, fiere della propria indipendenza. "Sono le donne", spiega, "che mandano avanti la vita del campo. Insieme ai delegati del Polisario, amministrano la scuola, l'ospedale, la distribuzione dei viveri". La lontananza degli uomini, quasi tutti sotto le armi, ha favorito un rapido processo di emancipazione. E oggi le donne saharawi esibiscono una sicurezza rara in un paese islamico.
Ma visitare un campo profughi saharawi è una esperienza sconcertante sotto molti altri aspetti. Non c'è plastica, non c'è sporcizia, apparentemente non c'è miseria. Le moschee sono semplici perimetri di pietre all'aperto, il socialismo laico del Polisario ha consigliato una inconsueta tolleranza perfino ai mullah, tanto più notevole se si pensa che siamo in territorio algerino, in piena guerra integralista. Non c'è un mercato, non esiste il commercio, non esiste nemmeno, sorprendentemente, il lavoro. Pur nel precario equilibrio offerto dal volontariato e dalla cooperazioone internazionale, tutti hanno quanto basta per vivere dignitosamente. Le tende di Dakhla, disposte con precisione svizzera, sono fornite dalla Commissione per i Rifugiati e vengono dalla Svezia, i pozzi sono stati scavati in buona parte da volontari italiani, i viveri sono distribuiti una volta la settimana in punti prestabiliti del campo. E intanto una nuova generazione di medici formatisi a Cuba garantisce l'assistenza sanitaria indispensabile, il governo del presidente Abdelaziz delibera, i giovani vanno a scuola, le famiglie mantengono viva la lingua e la cultura nazionale.
"Siamo in presenza di un esperimento sociale unico al mondo", commenta Sandro Volpi, responsabile della Associazione italiana di Solidarietà con il popolo saharawi, in prima fila nelle iniziative di cooperazione. "E di un popolo straordinario, che ha saputo reagire al dramma con grande dignità, dando lezioni di civiltà a tutti".
I bambini si rincorrono fuori dalle tende facendo correre nella sabbia biciclettine di latta e fil di ferro. Ogni tanto, qualche esclamazione suona più italiana che spagnola. Un altro aspetto singolare della comunità saharawi in esilio è il legame che si è venuto a creare negli anni con l'Italia. Una rete di solidarietà che ha finito per coinvolgere a livello ufficiale anche la Regione Toscana e numerosi Comuni in tutta Italia. Volterra, Massa, San Gimignano, Livorno, ma anche Genzano e Catania sono "gemellate" ai campi di Dakhla, El Aaiun, Smara, Raboni. E ogni anno, nel quadro di un accordo bilaterale di cooperazione, 450 bambini saharawi vengono ospitati presso famiglie italiane durante le vacanze estive, quando la vita nei campi diventa un inferno. Altri 7000 sono ospitati in Spagna, dove il legame affettivo con l'ex colonia, almeno tra la gente comune, è ancora molto vivo.
Maura Diara, livornese, è una di queste madri "adottive". E' venuta a salutare
Fatimetu Nagim, una bella ragazza di vent'anni che negli ultimi 10 è stata più volte ospite della sua famiglia. "Sono ragazzi sveglissimi, con una grande voglia di apprendere e una grande apertura mentale", commenta. "In una generazione nata e vissuta in questi campi di tende è sorprendente la capacità di abituarsi in pochi giorni alle nostre città e al nostro stile di vita".
Il momento cruciale nel processo di pace che dovrebbe portare alla costituzione di uno stato indipendente, il D-Day nel meticoloso calendario previsto dall'accordo di Houston, è il 7 giugno 1998. In quella data il Marocco dovrebbe limitare a 65mila il numero dei militari impegnati oltre frontiera, si avvierà lo scambio dei prigionieri e lo sminamento dei tratti contesi. Nei territori occupati si dispiegheranno le forze di pace dell'operazione MINURSO (Missione dell'Onu per il Referendum del Sahara Occidentale) e ad agosto è previsto il passaggio degli aventi diritto al voto lungo i varchi aperti nel muro, verso i territori occupati nei quali si terrà il referendum. Per il popolo senza patria esiliato nel deserto sarà come varcare il Mar Rosso e mettersi in marcia verso la Terra Promessa.
Massimo Cappon


La guerra dimenticata del deserto

Nel 1973 nasce nel Sahara Spagnolo il movimento Polisario (Fronte di Liberazione di Saghiael Hamra e Rio de Oro) che chiede l’indipendenza dalla madrepatria e inizia una attività di guerriglia. Nel 1975 la Spagna decide di abbandonare la colonia al suo destino. Il 27 Febbraio 1976 il Polisario dichiara la nascita della neonata Repubblica Democratica Saharawi, ma Marocco e Mauritania d'accordo tra loro, se ne sono già spartiti il territorio. Gran parte della popolazione civile ripara oltre il confine algerino, e il Polisario resta da solo a combattere su un doppio fronte di invasione, contro nemici ben più forti ed equipaggiati: il Marocco da solo impegna 200mila uomini. Il Polisario chiede l'intervento dell'Onu, che già nel 1966 aveva sancito il diritto alla autodeterminazione dell'ex colonia spagnola, ma l'appello cade nella generale indifferenza del resto del mondo. Il Fronte di Liberazione conta pochi appoggi per di più considerati sospetti come Cuba e l'Algeria, ma mentre sostiene la sua guerra dimenticata, non rinuncia nemmeno ad un contemporaneo braccio di ferro con la diplomazia internazionale. Si tratta infatti di una flagrante violazione del diritto e l'Onu, nonostante resistenze e dilazioni estenuanti, non può tirarsi indietro. Nel 1992 viene fissata una prima data per il referendum, ma il Marocco boicotta apertamente l'iniziativa pretendendo che siano ammessi al voto anche i suoi nuovi coloni, oltre 200mila. La lunga vertenza si sblocca nel 1997 con un più deciso intervento di Kofi Annan, nuovo Segretario generale dell'Onu, che incarica della trattativa l'ex Segretario di Stato americano James Baker. Viene accettato un nuovo piano di pace che prevede la smobilitazione dei campi profughi già nella prossima estate, lo sminamento del muro e il rientro graduale della popolazione nei territori occupati. Vengono infine decisi sia la data del referendum istituzionale, il 7 dicembre 1998, sia i criteri per gli aventi diritto al voto, in larga misura facendo riferimento all'ultimo censimento spagnolo del 1974.
[ Successivamente alla stesura di questo articolo, si è deciso di posporre il referendum per l'autodeterminazione del popolo Saharawi a Dicembre 2000 ]


Repubblica Saharawi

49001

1884 Comincia l’occupazione spagnola del Sahara Occidentale
1934 L’esercito spagnolo completa l’occupazione
1966 L’ONU riconosce ai saharawi in diritto alla autodeterminazione
1975 Mentre la Spagna si ritira, il Marocco lancia la prima "Marcia Verde" e occupa il territorio spartendolo con la Mauritania. Fuga dei civili verso l’Algeria
27 Febbraio 1976 Sull’ultimo territorio libero rimasto, il Polisario proclama la Repubblica Araba Democratica Saharawi. Sarà riconosciuta, col trascorrere del tempo, da 74 Paesi.
1991 Tregua militare tra Fronte Polisario e Marocco: Si avvia il processo di pace.
7 Dicembre 1998 Referendum per l’autodeterminazione

Estensione: 286.000 chilometri quadrati
Abitanti: 250.000 circa, 160.000 dei quali esuli.
Capitale: El Aaiun
Governo: democratico, con un presidente (Mohamed Abdelaziz), un primo ministro e un Parlamento (Consiglio Nazionale Saharawi).
Risorse: Fosfati, pesca, ferro, potenziali giacimenti petroliferi.
Lingua: arabo (Hassania) e spagnolo
Moneta: Peseta saharawi




VIAGGIO NEL LIBANO DEL SUD (2000)
>Massimo Cappon
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48093 Sassaiola contro il posto di frontiera israeliano a Kyriat Schmona' (Libano meridionale)

Sull'antico forte dei Crociati sventola la bandiera verde dell'Islam. Il vento impetuoso che corre sulle basse colline del Libano meridionale frusta la tela con schiocchi improvvisi che sembrano echi di cannonate. Fino al 24 maggio scorso, il vento portava i tuoni lontani delle bombe d’aereo e le detonazioni di cannonate vere. "Praticamente ogni giorno", dice Salim, quasi con noncuranza, arrampicandosi agilmente sulla pericolante scaletta metallica che porta in cima al castello di Beaufort, il "Bel Forte". Salim è un ragazzino di 12 anni venuto a festeggiare, come continuano a fare decine di migliaia di libanesi, il ritiro di Israele dalla "fascia di sicurezza" del Libano meridionale, 1000 chilometri quadrati (per una profondità tra i 5 e i 20 chilometri), occupati ininterrottamente dal 1978. E quei tuoni nel vento annunciano oggi il miracolo di una pace ritrovata dopo 22 anni.
Arroccata attorno al castello di Beaufort, costruito come avamposto della spedizioni crociate verso la Terrasanta nel 1137, era installata una delle più potenti postazioni militari dell'esercito israeliano. Prima di abbandonarla, nella notte del 24 maggio, i militari hanno piazzato quintali di cariche esplosive e hanno distrutto sistematicamente tutte le strutture esterne che ospitavano la guarnigione. Ai piedi delle mura e sotto la torre del castello, l’ultimo a cadere nelle mani del Saladino nel 1190, si distende ora un ammasso informe di pannelli di cemento armato, lamiere contorte e fasci di cavi elettrici. Alcuni uomini, con mazze e tronchesi, stanno smontando alcune traverse di alluminio. Salim, insieme a un gruppetto scatenato di suoi compagni, corre su e giù tra detriti, trincee di sacchetti di sabbia e teli mimetici di protezione. Uno di loro, più in alto degli altri, scopre qualcosa di interessante, lancia un richiamo. Si è infilato dentro una specie di garitta metallica corazzata, le feritoie protette da spessi vetri blindati scheggiati dai proiettili. Da lì domina la valle del Litani, che sul versante opposto digrada verso il confine con Israele, a pochi chilometri. "Israel, Israel", grida eccitato. E' la prima volta che lui e i suoi amici possono guardare così lontano. E intravedere la terra dalla quale, come frecce nell'azzurro, piombavano i caccia con la stella di David che per anni hanno seminato di bombe e terrore il sud del Libano.
Sulla spianata alla base del fortino si è ormai creata la variopinta kermesse che a distanza di settimane continua a inondare tutti i villaggi di frontiera. Vecchie Mercedes e Peugeot stracariche arrivano da Tiro, Sidone, Beirut e scaricano i gruppi più eterogenei. Ci sono barbuti combattenti hezbollah in insoliti quadretti familiari, con i bambini al collo e le loro donne dal capo coperto. Ma anche chiassosi gruppi di giovani con lo stereo a tutto volume e clan familiari commossi dall'emozione. Molti di loro fanno parte di quei 200mila profughi che hanno lasciato negli anni il Sud del Libano, spesso affidando le case di Marjayoun, Nabatiye, Qhana ai parenti più anziani. L'eccitazione dei primi giorni non accenna a spegnersi. E il pellegrinaggio ai luoghi "liberati" continua, con colonne interminabili di auto sulle strade e sventolìo di bandiere.
Sono nati ovunque chioschi e bancarelle dove comprarle, quelle bandiere, issarle come un'insegna di vittoria dai finestrini aperti delle automobili e sulle case. Ci sono quelle verdi e gialle degli "hezbollah", naturalmente , i "figli di Dio" che hanno condotto una guerra implacabile alle forze di occupazione israeliane e oggi rivendicano una vittoria militare sul campo. Il loro emblema è un kalashnikov sostenuto dalla scritta "Allah". Ci sono le bandiere rossoverdi del gruppo a volte alleato a volte rivale di Amal. E ci sono quelle biancorosse col cedro del Libano, lo stato da vent'anni ostaggio nello scontro tra Siria, Palestina, Israele e umiliato nel grande gioco della politica internazionale, che oggi ritrova dignità e orgoglio. "Questa è una vittoria per tutto il Libano", grida una ragazza in jeans, rayban e maglietta firmata sventolando la bandiera nazionale da una spider rossa. E' venuta con i suoi amici da Junieh, diventata la capitale del Libano più disinibito e moderno. "Per fare festa", dice, "insieme a tutti i libanesi". Il clima generale ricorda i cortei strombazzanti per una finale di calcio. Se non fosse per il tragico prezzo pagato.
Il viaggio nella grande kermesse che sta travolgendo il Libano meridionale ritrova la sua dimensione tragica e cupa nella cerimonia in corso presso la moschea centrale di Nabatiye. L'hanno indetta gli "hezbollah", il partito che nel vuoto di potere delle istituzioni ha governato di fatto questa cittadina al limite della fascia di sicurezza come uno "stato nello stato", garantendo i trasporti, la sanità, l'assistenza sociale, la ricostruzione della case distrutte nei raid israeliani. Dalla spianata di fronte alla moschea si vedono i resti di un altro caposaldo strategico appena fatto saltare con la dinamite e abbandonato dagli israeliani. Sorgeva sulla cima di una collina dalla quale tank e cannoni bombardarono la periferia di Nabatiye, quasi interamente abbandonata dai suoi abitanti, durante i 16 giorni dell'operazione "Grapes of Wrath" (Vendemmia di Rabbia), nell'aprile 1996. I colpi sorvolavano il minareto della moschea e andavano sistematicamente a distruggere le case della borghesia più ricca, quelle della collina di fronte.
La sala parata a lutto della moschea è stata divisa in due settori per consentire l'accesso contemporaneo ma separato di uomini e donne. Su una specie di altare, i parenti depongono le fotografie incorniciate dei caduti, decine di giovani trasformati in eroi della resistenza. Ingenuamente idealizzati nella loro aureola di gloria, i volti dei martiri campeggiano ovunque anche all'ingresso dei vari villaggi e sulle pareti delle moschee, accanto all'occhialuto Nasrallah, il leader dei "figli di Dio" e al profilo grifagno di Khomeini. Il bollettino della lunga guerra tra "i figli di Allah" e i soldati del Tsahal, l'esercito di Israele, riporta 1259 caduti nelle fila degli hezbollah dal 1978 ad oggi, contro 1547 soldati di Israele e 300 miliziani dell'ELS, l'esercito del Libano meridionale alleato di Israele dissoltosi il giorno del ritiro, anche per una più decisa offensiva militare degli hezbollah. Ma sono i civili che hanno pagato il conto più alto in 22 anni di occupazione israeliana. I morti sono stati 20mila, contro appena una decina di vittime degli attacchi di katyusha e raid terroristici nel nord di Israele: un rapporto di 1 a 2000 tra israeliani e libanesi.
Una cortina di mistero circonda da sempre gli hezbollah, i mistici guerrieri che hanno giurato guerra ai "sionisti" e allo stato di Israele, del quale negano la legittimità giuridica. Il movimento è nato nel 1978 e si è ulteriormente rafforzato nel 1982, durante l'occupazione militare israeliana del Libano, ispirato agli ideali sciiti. E ha naturalmente trovato il principale alleato nel nuovo Iran integralista. I combattenti "professionisti", addestrati in Iran, sembra non siano mai stati più di 300, ma altri 3000 guerriglieri "parttime" hanno animato la resistenza. La loro arma più temuta sono state le rampe mobili katiuscia, di fabbricazione sovietica, con le quali hanno seminato più volte il terrore a Kiryat Shimona e in altri kibbutz israeliani di confine, sorvolando con i piccoli missili la fascia di sicurezza occupata. Il loro quartier generale è a Beirut sud, nel quartiere sciita tra la città e l'aeroporto, nascosto nel labirinto impenetrabile della casbah, da dove partivano gli infuocati proclami del loro leader dal turbante nero, Nasrallah. Ma la fede e la morale severa degli hezbollah animano anche un partito politico, con 9 rappresentanti nel parlamento libanese.
"Gli hezbollah vivono oggi il loro trionfo come fronte militare", commenta lo storico libanese Samir Kassir. "Ma non possono prendere il potere proprio a causa della loro identità confessionale". Il futuro politico del sud del Libano (dove restano ancora i problemi aperti della striscia di Sheba non restituita da Israele e quello di una massiccia presenza militare siriana), è ancora un'incognita, legato al dispiegamento del contingente ONU e al delicato rapporto tra l'esercito libanese, la polizia nazionale e gli hezbollah. Ma è certo che i toni degli ultimi interventi di Nasrallah e dei leader religiosi sembrano gettare acqua sul fuoco delle tensioni più che alimentarlo. "Finchè gli israeliani occuperanno una porzione di suolo libanese", ripete Nasrallah, 40 anni, "il nostro compito non sarà finito". Lasciando però anche intendere che in futuro il piccolo esercito degli hezbollah potrebbe mettersi da parte, continuando a mantenere viva la propria lotta "nello scenario politico libanese". E aggiungendo che "credere nel governo del clero non significa che noi vogliamo creare una repubblica islamica". Un tono insolitamente moderato e tollerante, perfettamente in linea con la linea morbida attuata dai militanti hezbollah "sul campo". I timori, pur ampiamente manifestati nei primi giorni da diversi osservatori stranieri, che gli hezbollah volessero "stravincere", imponendo le loro condizioni e uno status autonomo del Libano meridionale alle autorità nazionali libanesi, si sono infatti per ora dimostrate del tutto infondate. E c’è l’esempio di una inedita tolleranza religiosa e politica dimostrata dagli stessi hezbollah negli ultimi anni. Come a BarAchit, un villaggio ai limiti della zona occupata, dove il governo degli hezbollah, gestito attraverso il mouktar, il sindaco liberamente eletto, ha rispettato la minoranza cristiana e la libertà di culto nella loro chiesa senza alcuna violenza.
Di fronte ai toni apocalittici della destra israeliana all’indomani del precipitoso ritiro dal Libano deciso dal governo Barak, Nasrallah ha avuto anzi buon gioco a rilanciare l’immagine internazionale degli hezbollah (ancora appannata dai sequestri degli occidentali nella Beirut dei primi anni ‘80), come il fronte armato della resistenza popolare contro una forza di occupazione straniera. "Ci hanno descritto come terroristi pronti a sgozzare tutti i cristiani", ha dichiarato subito dopo la vittoria. "E invece noi non abbiamo ferito nessuno, non abbiamo ucciso nessuno. Tutti i prigionieri e le armi ricuperate sono state consegnati alla giustizia e allo stato libanese. Abbiamo liberato il Libano del Sud senza bagni di sangue, senza alcuno spirito di vendetta. La Rivoluzione francese", ha aggiunto con ironia, "si è macchiata di ben altri crimini".
Oggi a Nabatiye, nella sala di preghiera della moschea tappezzata di scritte in nero e oro, si ricorda Mohammed, 19 anni, l'ultimo dei caduti nella guerra con l'odiato Israele. E' stato ucciso in azione una settimana prima del ritiro israeliano, sorpreso da un elicottero Apache sul pendio di una collina mentre ripiegava con i compagni dopo un'ennesima incursione contro una postazione nemica. "Sempre la stessa cosa", mormora Hassan Taha, un giovane di 24 anni seduto accanto a me. "Mai il coraggio di uno scontro diretto. Appena attaccati, i militari chiamavano aerei ed elicotteri". Con tono addolorato ma fermo, il padre ne ricorda i meriti e la dedizione alla causa. Dietro i pannelli dove sono le donne, si sente qualche singhiozzo di pianto appena accennato. Poi il mullah intona le litanie del lutto, il nome di Mohammed, quello del giovane ucciso e quello del profeta, ripetuti fino all'ossessione.
Hassan è un bel ragazzo sportivo di 24 anni. Gioca nella locale squadra di calcio, parla qualche parola di inglese. E ha una storia dentro che non può trattenere. La racconta davanti ad una tazza di caffè libanese, ed è come se nelle sue parole vivesse tutto quanto la generazione più giovane di Nabatiye, condannata dalla geografia e dalla storia, ha vissuto negli ultimi 22 anni.
Vide Zena per la prima volta, racconta Hassan, quattro anni fa, mentre lei usciva da scuola con altre amiche. Aveva 15 anni, lunghi capelli biondi, qualcosa di speciale nello sguardo che la rendeva diversa da tutte le altre e più matura. Hassan continuava a guardarla mentre gli sorrideva, come ipnotizzato. Alla fine trovò il coraggio di farfugliarle qualcosa, lasciarle un biglietto con un numero di telefono. E incredibilmente, due giorni dopo, lei lo chiamò per il primo appuntamento. Nasceva una storia d'amore che avrebbe cambiato la loro vita. Non potevano restare più di qualche ora senza vedersi, facevano progetti, fantasticavano insieme. Hassan era mussulmano, Zena cristiana, le loro famiglie divise sulle prospettive di quel matrimonio ma anche consapevoli che era in gioco la felicità di entrambi i ragazzi. Dentro di sè, Hassan aveva invece già deciso di diventare cristiano, così da poter sposare Zena come i suoi avrebbero voluto. Unico sostentamento per sua madre, Hassan poteva contare sulla amicizia di molti suoi coetanei e compagni di squadra, arruolati nelle file locali dei simpatizzanti hezbollah. E sulla comprensione del leader politico del quartiere, Haj, un parente alla lontana che conosceva i suoi sentimenti e li rispettava.
Hassan lavorava in un bar per mettere da parte i soldi per la casa nuova, lei continuava a studiare, i due inseparabili in ogni attimo libero. E venne quel pomeriggio del 6 febbraio scorso. Il caccia israeliano che entrò rombando tra le nuvole basse sopra Nabatiye non preoccupò più di tanto chi era abituato a raid quasi giornalieri, mirati a postazioni di guerriglieri segnalate sulle colline o nella valle che si apre verso Tiro. Ma questa volta la bomba esplose vicina. Troppo vicina, ricorda Hassan passandosi una mano sulla fronte, alla casa di Zena, che lo aveva chiamato poco prima. "Devo darti una buona notizia", le aveva detto eccitata e felice, aggiungendo che sarebbe uscita dopo pochi minuti, appena finito di studiare.
Quando lo chiamarono dall'ospedale, Hassan aveva già un presentimento angosciante. Era stato Zena a farlo chiamare. Colpita alla tempia da una singola scheggia di bomba entrata dalla finestra, in lotta contro le nebbie dell’incoscienza. Voleva vederlo un'ultima volta, gli disse stringendogli le mani, e lui non doveva piangere, come ora stava facendo, perchè lei avrebbe portato dentro di sè il suo ricordo e il suo viso per sempre. Morì così, cercando di fargli coraggio e sforzandosi di sorridere fino all'ultimo, mentre i medici scuotevano il capo sconsolati.
Hassan estrae qualcosa dal portafogli. Mostra l'ultima foto di Zena scattata sulla terrazza della sua casa alla periferia di Nabatiye, una bella ragazza di 19 anni con una camicetta celeste e i capelli biondi raccolti sotto un cappello di paglia. "Sono passati cinque mesi e non riesco a non pensare a lei un istante", confessa. "Non mi interessa più niente, non riesco nemmeno più a giocare a pallone. Lei continua a parlarmi ogni giorno, a volte di notte vado a piangere sulla sua tomba. E sai una cosa? Quella notizia felice che mi voleva dare. Io credo mi volesse dire che era riuscita a convincere i suoi, che ci saremmo sposati quest’estate".
Una colonna di bianchi mezzi corazzati ONU cerca di farsi largo nella fiumana di auto che da ore intasa la strada per Fatma Gate, la porta di Israele. Quel cancello di ferro che oggi sbarra la strada, chiusa alle spalle dai militari israeliani all’alba del 24 maggio, è il traguardo finale del festoso pellegrinaggio nel Libano riconquistato. Ci si arriva ormai solo a piedi, percorrendo l'alta rete di filo spinato che separa una striscia di pochi metri di "terra di nessuno". Subito al di là ci sono altre recinzioni invalicabili di metallo e poi le torrette dei militari israeliani, protette da vetri blindati, sacchetti di sabbia e schermi di giganteschi pannelli in maglia d'acciaio. Qualche ragazzo, nei primi giorni, ha tentato di bersagliare quella torretta lontana con sassi raccolti a terra, i militari hanno risposto con raffiche di mitragliatore. E ora il varco che consentiva la piccola Intifada oltre confine è stato chiuso dagli stessi hezbollah, vestiti di nero e armati solo di telefonini e radiotrasmittenti, che sorvegliano discretamente la zona.
Carcasse di automobili bruciate, brandelli di vestiti sparsi da una valigia, testimoniano del dramma finale. La fuga dei miliziani e delle loro famiglie (almeno 5000 persone) è avvenuta nella notte, subito dopo l'annnuncio a sorpresa del primo ministro Barak, correndo dietro gli ultimi rombanti carri Merkava che rientravano in Israele. Primo fra tutti il generale Antoine Lahad, che ha abbandonato precipitosamente la sua villa a Marjayoun. Nessun testimone ha potuto raccontare questa piccola Saigon mediorientale. Ma su un punto le testimonianze sono concordi. Non c'è stata nessuna giustizia sommaria per chi è rimasto indietro. L'ordine dato dai capi religiosi e militari agli hezbollah era quello di consegnare tutti i prigionieri alle autorità di polizia libanesi. E così è stato fatto per un migliaio di miliziani, soprattutto drusi e sciiti, che si sono arresi cedendo le armi ai guerriglieri.
Davanti alla porta di Fatma, i cortei variopinti con le bandiere verdi gialle e rosse si arrestano. La gente guarda stupefatta le brutte palazzine a schiera del kibbutz Manara, che si arrampicano su una collina subito al di là delle reti di protezione. Sono le prime case di Israele, alla periferia di Metullah. Fino a poche settimane fa, erano l'obiettivo dei razzi katiuscia sparati dagli hezbollah, dalle loro postazioni fantasma mimetizzate nel terreno. Oggi, un buffo lanciamissili di cartapesta drappeggiato di bandiere e puntato sulle case del kibbutz Manara è diventato lo sfondo per le foto ricordo dei gitanti. Sul tetto dell'automobile che lo sostiene vengono issati banbini vestiti con la tuta mimetica e finti kalashnikov, il pugno levato nella V di vittoria. Mentre lo stereo di bordo sembra voler inondare con le note squillanti dell'inno degli hezbollah l'intero, vicino Israele.
C'è un altro luogosimbolo che è diventata meta di pellegrinaggio tra le basse colline verdi del Libano meridionale. E' il carcere di Khyam, dove nelle fasi concitate del ritiro della milizia, che lo controllava da 15 anni, una folla di 500 dimostranti ha letteralmente preso d'assalto la piccola Bastiglia, dove erano rimaste chiuse 144 persone accusate di terrorismo. Li hanno liberati spezzando con le mazze i lucchetti delle prigioni, strappando le sbarre alle finestre con le jeep, portandosi via tutto quanto conteneva. Ora la gente si aggira curiosa tra quella devastata Alcatraz, sempre rimasta offlimits per gli osservatori internazionali e più volte denunciata da Amnesty International come luogo di tortura e di abusi. Come non si stanca di confermare Hashem, un ex detenuto improvvisatosi guida di quella prigione già diventata museo. "Sono rimasto lì dentro 70 giorni che non auguro a nessuno", ripete ancora inebetito davanti ad un capannello di curiosi indicando la sua prigione. "accusato di avere passato informazioni agli hezbollah. Venivano da noi di notte, mascherati, ci legavano i polsi alle inferriate, ci picchiavano, ci terrorizzavano in ogni modo. Volevano che denunciassi altri compagni, minacciavano di portare lassù anche mia madre e mia sorella". Ogni finestra di questa prigione maledetta, dove la gente di Marjayoun vedeva sparire parenti e amici, è oggi tappezzata di slogan e bandiere, che le danno un inedito aspetto festoso. "Grazie Hezbollah" è la scritta più grande, che campeggia proprio all'ingresso.
Nell'entusiasmo per questa striscia di terra liberata, c'è chi guarda già avanti. Come Khaled Nahas, gestore del "Bellevue", il barristorante più moderno di Nabatiye. Lo sta costruendo su una bassa collina, la terrazza con il giardino e i tavoli all’aperto affacciata sul panorama della città. Nella luce radente della sera, risaltano i chiaroscuri del centro storico, raccolto in una conca naturale attorno alla spianata della moschea, e le case nuove, in cemento, che hanno preso il posto di quelle distrutte nel 1996 e già dilagano sulle alture di fronte. "Anch'io, come tanti, sono emigrato all'estero", racconta. Sono stato in Costa d'Avorio, come tanti miei compatrioti emigrati, ho fatto tutti i mestieri possibili e un po' di soldi. Quando sono tornato, due anni fa, molti mi hanno dato del pazzo. Dicevano che non c'era futuro. E invece il futuro è qui. Questo diventerà un posto di vacanza".
Khaled guarda la postazione da dove l'artiglieria israeliana dominava le abitazioni e le strade, le coltivazioni verdi in fondo alla valle e i riflessi dell'acqua. Indica la strada che risale dal mare, verso quelle montagne basse e aspre venate da rocce calcaree dove la neve resta fino a primavera inoltrata e dove è radicata la cultura più antica e autentica del Libano. Dove le onde della storia hanno lasciato sedimenti profondi, creato tensioni laceranti. Ma dove hanno fatto sbocciare anche la mistica ecumenica di Khalil Gibran, inedite contaminazioni spirituali e una proverbiale tolleranza legata alla vocazione commerciale dei libanesi. Dove drusi, maroniti, cattolici, sciiti, sunniti, perfino gli ebrei prima del loro sbarco in Palestina, hanno vissuto in pace per secoli. "Succederà quello che è avvenuto a Beirut", dice convinto. "Via le armi, tra qualche anno nessuno ricorderà più che qui c'è stata una guerra. E il Libano del Sud tornerà ad essere un piccolo paradiso".




GORILLA NELLA GUERRA (1998)
>Massimo Cappon
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50085 L'Autore del testo, ripreso durante un'ascensione lungo il versante ugandese del Parco dei Vulcani

Sembrava che il peggio fosse passato, che cinque anni di guerra e quattro mesi di stragi e di follia criminale (800 mila persone vittime del genocidio tutsi in Rwanda, tra l’aprile e l’agosto del 1994) avessero colmato la misura della violenza possibile. E invece l’Africa dei Grandi Laghi è ancora sconvolta dai venti di morte che soffiano dal Congo, lo stesso Rwanda è attanagliato nella spirale di ferocia che oppone le due etnie che si contendono il potere. E ancora una volta, il Parco nazionale dei Vulcani, l’habitat degli ultimi gorilla di montagna difesi a costo della vita dall’etologa americana Diane Fossey, rischia di diventare "terra di nessuno".
La tragica attualità della regione ha relegato in secondo piano i problemi naturalistici. Ma questi sono altrettanto drammatici, aggravati dal fatto che all’ombra dei cinque vulcani spenti del Virunga, lungo quella cerniera di foresta tra i 3 e i 4000 metri che divide il "cuore di tenebra" del Kivu da Rwanda e Uganda, si nascondono gli ultimi 320 esemplari di Gorilla gorilla beringei, lo schivo e pacifico King-kong delle montagne africane. Il Centro scientifico di Karisoke, fondato nel settembre del 1967 da Dian Fossey, è stato completamente distrutto durante le operazioni militari contro i guerriglieri hutu Interahamwe alla fine dell’anno scorso e dal giugno 1997 nessuno scienziato è più potuto salire sui vulcani a controllare lo stato di salute dei gorilla. "Una vera tragedia dal punto di vista scientifico", commenta l’inglese Liz Williamson, zoologa della "Dian Fossey Foundation", l’ultima ricercatrice a raccogliere l’eredità della protagonista di "Gorilla nella nebbia" uccisa misteriosamente nella sua capanna di Karisoke nel 1985. "Perchè potevamo vantare una ricerca unica nel suo genere, la storia di una popolazione animale di 80 individui portata avanti senza interruzione per trent’anni".


50292 Uno dei "Silverback" che sopravvivono sul versante Ugandese del parco del Virunga

I rappresentanti di altre due agenzie internazionali, l’"International Gorilla Conservation Program" e il "Mountain Gorilla Veterinary project", aspettano nei loro uffici di Kigali che passi la tempesta e possa riprendere il lavoro sul campo. Ma le speranze si scontrano con il continuo riaccendersi della guerriglia e dei focolai di guerra. Ruhengeri, la piccola capitale del Parco dei Vulcani (una striscia verde di 125 chilometri quadrati sottratti a stento alle coltivazioni e alla crescita demografica sulle colline rwandesi), è di fatto prima linea nelle operazioni militari contro gli hutu sbandati che operano dal Kivu o nascosti nella foresta al confine tra i tre paesi. "Per quello che sappiamo", commenta Josè Kalpers, responsabile di un difficile coordinamento tra Congo, Uganda e Rwanda che è l’obiettivo della sua missione, "non ci sono state perdite recenti di animali sul versante rwandese. Ma la situazione è certamente più grave sul lato del Congo, dove si ha notizia di almeno 4 gorilla uccisi da Interahamwe armati di kalashnikov già nel 1995". Una delle vittime, Rugabo, era un maschio dominante "silverback" (dal dorso argentato) ben conosciuto dai ricercatori, e la sua scomparsa ha certamente lasciato indifeso l’intero clan, una trentina tra giovani maschi, femmine e piccoli.
Tra il 1994 e il 1996 i campi profughi stanziati presso Goma e mantenuti dalla Commissione Rifugiati dell’Onu, con una popolazione di centinaia di migliaia di hutu fuggiti dal Rwanda dopo la controrivoluzione tutsi, hanno avuto sull’ecosistema del Virunga un impatto sconvolgente. Gorilla, antilopi e bufali si sono trovati assediati da bande di bracconieri, banditi e sbandati di ogni genere. E ogni giorno lunghe colonne di uomini e donne salivano a tagliare legna da ardere nelle foreste di bambù e alberi tropicali sulle pendici del Nyiragongo e Nyamulagira, gli unici due vulcani attivi del Virunga zairese. Si calcola che siano stati devastati in questo modo 113 chilometri quadrati di foresta vergine. La chiusura dei campi, ad opera dei banyamulenge tutsi filorwandesi e dell’esercito di Kabila, ha disperso nuovamente i rifugiati, ma in compenso ha spinto proprio sulle montagne del Virunga e del Kahuzi-Biega zairese, collegate dal Corridoio degli Elefanti, gli irriducibili guerriglieri hutu e Interahamwe che si nascondevano nei campi-profughi. Leggende locali raccolte tra i Mai-mai, i pigmei del basso Kivu, vogliono che in questi anni sia morto Maheshe, il Grande Re dei Gorilla zairesi e che il suo harem sia adesso spartito tra i maschi Ninja che se ne contendono l’eredità. Ma la verità è che della sorte di quegli animali, sui quali lavoravano zoologi belgi, non si sa più nulla da anni.
"La priorità assoluta che non ci stanchiamo di ripetere alle autorità rwandesi", dice Liz Williamson, "è la ricostruzione del Centro di Karisoke. Subito dopo si potrà tentare un nuovo censimento degli animali e riprendere il lavoro. La ricerca di Diane Fossey era nata dietro sollecitazione di un antropologo, Louis Leakey, e trent’anni di ricerca ci hanno in effetti rivelato moltissime cose sulla complessità della struttura sociale dei gorilla, sui loro legami parentali e familiari così simili a quelli dell’uomo. Ma negli ultimi anni abbiamo introdotto novità scientifiche importanti, eravamo sul punto di avviare studi a livello genetico che costituiscono la nuova frontiera dell’etologia animale". L’esame genetico sui gorilla del Virunga permetterebbe tra l’altro di risolvere un mistero da poco scoperto: se i 300 gorilla molto simili che si nascondono nell’impenetrabile foresta ugandese di Bwindi, a poca distanza dal parco dei Vulcani, appartengano alla stessa specie, consentendo così al totale della popolazione superstite di raddoppiare il numero.
Tra quanti aspettano con ansia la riapertura del Parco dei Vulcani c’è anche il direttore dell’Ufficio nazionale del Turismo, Jean Bizimana. Le visite ai gorilla, permesse solo a piccoli gruppi di 6 persone al giorno e sotto la guida di rangers specializzati, erano una delle grandi risorse del piccolo Rwanda, rendevano oltre mezzo miliardo l’anno in valuta pregiata. Bizimana cerca le statistiche delle ultime visite, ancora possibili nei primi mesi del 1997, assicura che la situazione è sotto controllo. "Abbiamo dovuto chiudere il parco ai turisti per ragioni di sicurezza", ammette, "ma le attività di pattugliamento anti-bracconaggio continuano, affiancate a quelle dei militari. E spero che nel giro di qualche mese le visite possano riprendere di nuovo".
Nell’attesa che si diradino le nebbie sempre più fitte che si addensano sui vulcani rwandesi, qualche turista avventuroso ha scoperto che l’emozionante incontro con i gorilla di montagna è ancora possibile sul versante dell’Uganda, nel piccolo parco di Mgahinga dominato dal profilo regolare dei vulcani Gahinga e Muhabura. Qui, dopo un paio d’ore di marcia nella foresta con una scorta armata, si può ancora guardare negli occhi, a distanza di pochi metri, bestioni di 200 chili intenti a mangiare germogli di bambù, l’immagine più vicina alla nostra più lontana preistoria. Le guardie dicono che i gorilla sono sempre più numerosi, che scavalcano la frontiera scendendo dal Rwanda. Evidentemente preferiscono lo scatto delle macchine fotografiche a quello degli otturatori di fucile.




RWANDA, ORRORE SENZA FINE (1998)
>Massimo Cappon
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50063 Vittime dell'eccidio presso l'istituto tecnico di Murambi

Cosa si prova a fuggire di notte dalla propria casa, ad essere circondati insieme a migliaia di donne, vecchi, bambini terrorizzati sulla cima di una collina, ad assistere inermi all'irrompere dei Demoni, ad essere massacrati con fucili, mazze, machete da una folla omicida e assetata di sangue?
Un giorno d'aprile del 1994, in un Rwanda precipitato di colpo in un Sabba dell'Orrore, Emmanuel Mulangelangwe è disceso all'Inferno, ha guardato in faccia i Demoni della Morte. E poi è tornato a raccontarlo. E' rimasto per due giorni, con il buco di una pallottola di fucile nella fronte, tra i cadaveri di sua moglie, i tre figli, le altre 27 mila persone di etnia tutsi che cercarono scampo al ge-nocidio scatenato dagli hutu nelle aule dell'Istituto tecnico di Murambi, 13 edifici dal tetto di lamiera che dominano dall'alto la cittadina di Gikongoro.

50077 Il custode della scuola di Murambi, Emanuel Mulangelangwe porta ancora i segni dell'incubo vissuto

Quando l'orgia di sangue è passata si è alzato in piedi, ha vagato per giorni come uno zombie tra quelle aule stipate di cadaveri, al limite della pazzia. "Non ci potevo credere", continua a ripetere, il volto scolpito in una maschera senza espressione, gli occhi incapaci di vedere altro che le immagini stampatesi in quella notte, "non ci potevo credere". Emmanuel è sopravvissuto, ma da allora vive in compagnia di 27 mila fantasmi, che nel silenzio surreale di quella verde collina gridano ancora assordanti nella sua testa. Da quattro anni, ogni giorno, passa la calce sui cadaveri mummificati negli ultimi contorcimenti disperati, sui volti sfigurati dal terrore di donne che stringono ancora a sè i loro neonati, ripulisce i teschi e le ossa esumati dalla fossa comune, la sua vita sospesa per sempre tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Emmanuel Mulangelangwe è il solitario guardiano del Memorial di Murambi, uno dei tanti santuari nella nuova geografia dell'orrore rwandese. Le autorità tutsi che hanno ripreso il sopravvento alla fine del 1994, con il Fronte patriottico rientrato in armi dall'Uganda, non vogliono che si dimentichi la strage che in quattro mesi, e nella sostanziale indifferenza del mondo, provocò un milione di morti. E così Murambi, come la chiesa di Ntarama, teatro di un altro eccidio di 5000 persone, è diventato il macabro museo dell'Olocausto Nero. Ma forse è troppo presto per i musei. Perchè la realtà è che la stagione di sangue che ha devastato il Paese delle Mille Colline, quella che un tempo veniva chiamata la Svizzera dell'Africa, è tutt'altro che finita. Sotto l'ingannevole, bucolica serenità delle sue campagne coltivate a mais, thè e banane aleggia ancora un vento di morte. E una maledizione sembra calare come un sudario dal "cuore di tenebra" del Congo e dai vulcani del Virunga, come le celebri nebbie nella foresta degli ultimi gorilla. Lo confermano i bollettini di guerra delle imboscate sulle strade e nei villaggi, i cadave-ri senza testa che i fiumi trascinano ancora verso le acque del lago Kivu, depositandoli poi come fantocci sulle spiagge di alberghi dai nomi francesi deserti da anni, tra palme e bouganvillee. Il blitz dell'esercito di Kabila e dei tutsi banyamulenge tra i campi di Goma gestiti dall'Onu, nell'estate del 1996, ha ricacciato in Rwanda un milione di profughi hutu, tra i quali molti responsabili del ge-nocidio del 1994, e ha disperso in maniera ancora più incontrol-lata i guerriglieri che vi si erano annidati, che infatti continuano i loro raid notturni di rappresaglia. Le stesse forze armate rwan-desi sono accusate sempre più apertamente di un "secondo genocidio", con l'alibi della controguerri-glia, ai danni della maggioranza hutu. L'intera Regione dei Gran-di Laghi, dal Congo all'Uganda, al Burundi, è pericolosamente instabile e condizionata dagli interessi internazionali legati allo sfruttamento delle miniere di oro e diamanti, il secondo forziere del continente dopo quello sudafricano. Ma la politica di "riconciliazione nazionale" lanciata dai tutsi si scontra soprattutto con le insanabili ferite lasciate aperte dal genocidio. Non c'è gruppo o clan familiare, in Rwanda, che non abbia qualche parente carnefice o vittima dell'odio tra le due etnie fomentato all'epoca della colonizzazione francese e belga: quella "nobile" ed elitaria tutsi, che formava la classe dirigente e quella maggioritaria e "plebea", hutu. Il capovolgimento di fronte avvenuto dopo le stragi del 1994 vede oggi 130 mila detenuti hutu accusati di "crimini contro l'umanità" ammassati come bestie nelle prigio-ni, una mina sociale pronta ad esplodere di nuovo. "Solo con i processi potremo ricostruire il Paese" ripete il presidente rwandese Pasteur Bizimungu. Ma il sogno di una nuova, esemplare Norimberga internazionale si scontra con l'inefficienza del sistema giudiziario, con un clima da "vendetta di stato", con la corruzione di testimoni e falsi "pentiti", con l'impotenza del diritto internazionale. A tutt'oggi sono state emesse poco più di 200 sentenze, metà delle quali prevedono morte o ergastolo. Nel maggio scorso sono state fucilate pubblicamente, tra migliaia di spettatori plaudenti accorsi negli stadi di calcio di Kigali e Butare, le prime 22 persone condannate per "genocidio", secondo la nuova legge speciale del 1996. Altre 2000 in "Categoria Uno", la lista dei pianificatori politici della strage, attendono il loro turno. Ma i magistrati sono poche decine e lavorano in un clima di intimidazione e minacce, i legali della difesa appena 33, più un pugno di volontari internazionali che hanno raccolto la sfida impossibile di difendere la legalità e i diritti degli imputati. "Anche al ritmo di 300 sentenze l'anno", commenta Marielle, una giovane legale di "Advocats sans frontieres" da poco in Rwanda, "ci vorranno 400 anni per completare tutti i processi". Non va meglio con la Corte internazionale di Arusha, in Tanzania (filiale di quella dell'Aja), che in teoria dovrebbe completare l'opera dei tribunali rwandesi occupandosi dei "genocidaires" fuggiti all'estero. Il bilancio è ancora più misero, non tanto per il budget (90 miliardi dall'Onu nel solo 1997), quanto per i numeri: 20 detenuti "eccellenti" in attesa di giudizio, una sola sentenza emessa. Sulla credibilità della Corte internazionale piovono poi le accuse delle autorità rwandesi. A loro giudizio, trattenere i "pezzi grossi" del vecchio establishment hutu ad Arusha (dove la massima condanna prevista è l'ergastolo e le con-dizioni di vita sono decisamente migliori) è un espediente giuridico per salvare dalla pena che meritano, e che li attenderebbe in Rwanda, i massimi responsabili del genocidio.
Una visita nella fatiscente prigione di Gikondo, a Kigali, dove le divise rosa confetto dei detenuti stridono in maniera parados-sale con condizioni igieniche e di vita da medioevo, rivela un altro risvolto sconcertante della tragedia rwandese, del suo or-rore senza fine. Nel girone di 10 mila "genocidaires" ci sono anche 535 detenuti poco più che bambini. Sono 2600 i minorenni sparsi nelle varie prigioni del Rwanda. Avevano 8, 10 anni all'epoca dei fatti, costretti a uccidere i propri compagni di scuola tutsi, i propri amici di infanzia, da padri, fratelli, donne della loro famiglia. La nuova legge ha stabilito che non sia responsabile penalmente chi aveva meno di 14 anni nell'aprile del 1994. Ma accertarlo richiede mesi di indagini e interrogatori per ogni singolo caso. Nel centro di Gitagata, gestito dall'Unicef, vengono raccolti alcuni dei minori strappati alla promiscuità e all'inferno delle prigioni, quasi tutti vittime di abusi da parte dei detenuti adulti. Vivono in stanzoni comuni, in un regime di semilibertà senza guardie e senza sbarre, tra turni di servizio e tentativi di scolarizzazione. Ma più spesso restano isolati e in silenzio, incapaci di ridere, di correre, di giocare come i loro coetanei. Di loro si ricordano soprattutto gli occhi: gelidi, cattivi, oppure sbarrati in uno stupore infantile, ma tutti infinitamente tristi e spenti. Nessuno vuol parlare, nessuno vuole nemmeno dire il proprio nome. Nel sistema sociale africano, dove l'emarginazione dal proprio clan e dalla propria etnia equivale ad una condanna, hanno già perso il pro-prio futuro. Con pazienza, gli assistenti sociali cercano di ri-costruire le loro storie, di reinserirli in famiglie che accetti-no la responsabilità di offrire loro una vita normale. Ma è un compito tutt'altro che facile. Su 347 minori ospitati a Gitagata, solo 12 sono stati reintegrati. "Per la legge non sono responsabili", spiega Baptiste Rudasingwa, direttore del Centro, l'intera sua famiglia sterminata nel 1994. "Ma le comunità dove andranno a vivere vogliono comunque garan-zie. E in molti casi non siamo semplicemente in grado di darle". Se i ragazzi di Gitagata sono i dannati del genocidio, sorte non tanto migliore vivono oggi i loro coetanei che sono sopravvissuti, ma di quella stagione di sangue e follia sono comunque stati le vittime. Le cifre fornite dall’Unicef e dal ministero degli Affari Sociali del Rwanda disegnano in maniera eloquente i contorni di questa sconvolgente tragedia minorile, una sfida raccolta e combattuta, nei limiti del possibile, da varie associazioni umanitarie locali e straniere. E’ il trauma indelebile di chi ha visto uccidere i propri genitori e tutti i componenti adulti della propria famiglia, oppure li ha persi negli esodi biblici tra i vari campi profughi dello Zaire, della Tanzania, del Burundi. E’ l’infanzia perduta di 300mila orfani, di 55mila bambini che ancora attendono un improbabile ricongiungimento con qualche loro parente superstite, di 60mila nuclei familiari mandati avanti da minorenni che hanno dovuto inventarsi un lavoro e un ruolo da adulti per sopravvivere, di migliaia di ‘maibobo’, i bambini di strada, che hanno scelto di vivere in bande ai margini della società. E’ l'aspetto forse più tragico nella tragedia infinita del Rwanda. Perchè condanna a morte anche la prossima generazione.

LA STORIA
La tragedia del Rwanda affonda in radici storiche antiche, legate alla composizione etnica del paese, alla nefasta politica coloniale che esasperò la tensione sociale tra hutu e tutsi, le due etnie dominanti e al ruolo determinante giocato da varie potenze straniere nelle fasi cruciali della guerra per il potere. Queste sono le tappe della tragica escalation di violenza che ha provocato il massacro di oltre un milione di persone e ha costretto alla condizione di profughi altri 2 milioni, su una popolazione totale di 8 milioni di abitanti.
1921- Il Belgio, che dal 1906 eredita dal re Leopoldo II la colonia del Congo, ottiene anche la tutela del Rwanda e del Burundi, prima amministrati dai tedeschi.
1962- Il Rwanda si dichiara indipendente e la maggioranza hutu va al potere con la strage di 100mila tutsi, provocando la diaspora di altri 250mila in Uganda e in Burundi.
1973- La tensione etnica si accentua con la salita al potere di Juvenal Habyarimana, hutu, e i tutsi all’estero si organizzano militarmente per tornare con le armi in Rwanda.
1991- Esplode la guerra. I tutsi del Rwandan Patriotic Front premono dall’Uganda. Sono spalleggiati dagli americani, mentre gli hutu hanno l’appoggio di Francia e Belgio. Nel 1993 intervengono i caschi blu dell’Onu e si tratta per il rientro dei tutsi in esilio.
1994- Il 6 aprile, un missile abbatte l’aereo di Habyarimana, considerato moderato, e gli estremisti hutu danno il via ad una strage pianificata scientificamente: 800 mila tutsi e hutu moderati sono massacrati in tre mesi.
1994- In estate, con un blitz dall’Uganda, il Rwandan Patriotic Front di Paul Kagame, l’uomo forte dei tutsi rwandesi, sbaraglia gli hutu e prende il potere. Centinaia di migliaia di hutu fuggono nei campi profughi dello Zaire. Il nuovo presidente, Augustin Bizimungu, avvia la difficile politica di riconciliazione nazionale.


I PROTAGONISTI
Hutu- Costituiscono il 90 per cento della popolazione. Sono contadini di etnia bantu, migrati dalle regioni equatoriali nel medioevo africano.
Tutsi- L’aristocrazia "nobile" (9 per cento). Un tempo noti come Vatussi (Wa (uomini)-tutsi), sono discendenti da tribù nilotiche (come i Nuba, i Masai, gli Zulu) e di cultura pastorale e guerriera.
Twa- E’ la minoranza originaria del paese (1 per cento), pigmei della foresta che sopravvivono solo tra i vulcani del Virunga.
Interahamwe- Letteralmente "Lavoriamo uniti", sottintendendo "contro i dominatori tutsi". Sono i guerriglieri hutu formatisi nei campi profughi di Goma tra il 1994 e il 1996.
Banyamulenge- Sono una etnia tribale simile ai tutsi stanziata nel Kivu. Fiancheggiando Kabila nel rovesciamento del regime di Mobutu, hanno spazzato via i campi profughi stanziati in Zaire, base logistica degli Interahamwe.




FRATELLI DI SANGUE (1999)
>Massimo Cappon
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54077 Prigionieri di guerra etiopi nel campo di Dikdiktah

Vent'anni di guerra non sono bastati. I cannoni hanno ripreso a tuonare lungo i mille chilometri di confine tracciati nel deserto tra Eritrea ed Etiopia, in battaglie sanguinose quanto lontane dai riflettori dei grandi network internazionali. Il paradosso è che a confrontarsi con le armi sono oggi un'Eritrea finalmente indipendente e una nuova Etiopia riscattatasi nel 1991, anche con l'aiuto del Fronte di liberazione eritreo, dalla lunga dittatura di Menghistu. Scoppiata nel 1998 lungo i fronti di Badme, Tsorona, Zalambesa, con l'evidente obiettivo etiopico di riprendere il controllo del porto di Assab, l'ultima guerra dimenticata del Corno d'Africa rischia oggi di far precipitare di nuovo verso la miseria e l'anarchia due popoli che si dicono fratelli. Ma che la storia sembra invece condannare a vivere in un eterno stato di guerra.
Nelle piazze di Asmara, la capitale dell'Eritrea, esplode la festa della donna. Ma si celebra anche il successo nel primo round del conflitto armato con l'Etiopia, fermata nel suo tentativo di tagliare la vitale via di comunicazione tra la capitale e il porto di Assab.

54011 Asmara, manifestazione per la pace

Il patriottismo eritreo celebra nelle donne amara un ideale di dedizione e di eroismo. I reparti combattenti femminili hanno svolto un ruolo fondamentale nella guerra di liberazione, supplendo alla sproporzione numerica tra i due paesi con un coraggio ammirevole. E oggi sono chiamate ad una nuova mobilitazione.
Il fronte dista solo poche ore dalla capitale. Partiamo con una jeep verso le torride pietraie del sud, dopo aver ottenuto un difficile lasciapassare dalle autorità militari. A soli 200 chilometri da Asmara, si entra già in zona di guerra. L'auto viene cosparsa di fango per essere meno visibile. La guerra è fatta di estenuanti contrapposizioni nelle trincee, ma anche di improvvisi raid e mitragliamenti aerei, ben oltre le linee della fanteria.

54049 I veicoli diretti al fronte vengono ricoperti di fango da squadre di efficientissimi ragazzini

Siamo ormai a pochi chilometri dal confine con l'Etiopia, una linea indefinita tracciata sulle mappe ma ancora controversa sul terreno. Le ambe che ci sovrastano sono crivellate di trincee e postazioni fortificate. Da qui si prosegue a piedi, scortati dai militari. Ci avviciniamo sempre di più alla prima linea di Zalambesa, la tensione cresce. Nessuno può dire con precisione quanti siano i soldati accampati da 13 mesi tra queste inospitali montagne e tantomeno quanti siano già le vittime di questa guerra assurda, combattuta in un territorio semidisabitato. La propaganda esagera le perdite del nemico e minimizza le proprie. Ma certamente le vittime sono diverse migliaia. Soprattutto sul fronte di Badme, dove la battaglia è stata più accanita nel febbraio scorso e riprende a intervalli di pochi giorni.
Questa piccola chiesa copta si trova proprio sulla prima linea. E' stata danneggiata, ma l'interno rivela ancora lo splendore delle pitture sacre. Dalla parte opposta, nel Tigrai e in Etiopia, centinaia di altre chiese come questa testimoniano della comune fede religiosa, il cristianesimo di stile bizantino introdotto dai santi del IV secolo nel regno di Axum, i cui sovrani vantavano una discendenza legata a Salomone, re d'Israele, e alla leggendaria Makeda, regina di Saba.
Decine di chiese come questa, nascoste nei luoghi più solitari e difficili, testimoniano la fede incrollabile dei copti arroccati sulle montagne del Tigrai. Ma invece dei rintocchi delle campane, si sentono oggi l'eco delle cannonate e le raffiche di mitragliatrice.
Il rito antico del caffè sembra quasi fuori luogo in questo avamposto di prima linea. Al contrario, per queste donne-soldato, rappresenta forse un simbolo di speranza, di un ritorno ad una vita normale.

54380 Una donna soldato serve da bere ai commilitoni sul fronte di Zalambessa

Con i suoi viali alberati di palme, la sua monumentale cattedrale cattolica, i suoi teatri, i suoi palazzi di stile littorio, Asmara sembra una cittadina del meridione trapiantata in terra d'Africa. Quasi un secolo di presenza italiana ne ha plasmato la stessa fisionomia, la dominazione coloniale ha lasciato più legami culturali che rancori. Merito anche di un'occupazione meno traumatica di quella sull'Etiopia.

54414 Asmara, veduta del centro città

Entrati con il contratto commerciale della baia di Assab, alla fine dell'Ottocento, gli italiani sono rimasti all'Asmara con una comunità numerosa e attiva fino al dopoguerra e c'erano tutte le premesse di un vero miracolo economico. Negli ultimi 40 anni, l'Eritrea ha pagato molto più pesantemente il vassallaggio con l'Etiopia del Negus e poi la lunga guerra con Menghistu, che non hanno mai consentito il decollo di un più costruttivo programma di cooperazione. Come forse anche molti eritrei si sarebbero attesi dall'Italia. Lo conferma monsignor Milesi, vescovo di Barentù..
La popolazione dell'Eritrea, poco meno di 4 milioni di persone contro i 60 dell'Etiopia, festeggia il 27 maggio il giorno dell'indipendenza. Al termine della vittoriosa guerra di liberazione, nel 1991, un referendum sancì la nascita di una nuova nazione. Ma il suo futuro è ancora tutto in salita.
Due roventi capannoni di lamiera sulla strada di Massaua ospitano 452 prigionieri di guerra etiopici. La maggior parte di loro sono ragazzi di leva, mandati allo sbaraglio sul fronte di Badme.
Da entrambe le parti, la guerra si alimenta anche di una propaganda martellante, che accusa l'avversario di tentata invasione. Nella realtà, è difficile attribuire torti e ragioni. Ancora più inutile, è cercare di capirne qualcosa interrogando questi soldati. Anche con lo smarrimento di lunghi mesi di prigionia negli occhi, nella sofferenza di ferite curate sommariamente, ripetono che la parola d'ordine che li ha chiamati alla mobilitazione, in Etiopia, era fermare l'invasione eritrea lungo il confine. Esattamente la stessa versione che i prigionieri di guerra eritrei ripetono dall'altra parte. Forse è proprio qui, prima ancora che sulle trincee della prima linea, che si capisce l'assurdità di questa guerra.
Ancora pochi giorni fa, una nuova battaglia si è riaccesa sul fronte di Tsorona, a pochi chilometri dall'epicentro degli scontri, il villaggio di Badme. Otteniamo un altro permesso straordinario, e la visita al fronte si trasforma presto in un angoscioso viaggio nell'orrore. Perchè qui i segni di questa guerra, dimen ticata ma anche spietata, prendono allo stomaco. Qui si è combattuta, e si sta ancora combattendo, una battaglia di posizione che fa rivivere gli spaventosi massacri della prima guerra mondiale. Il bollettino dei caduti, per quanto controverso e forse lontano dai 60mila morti dichiarati, lo documenta con impressionante evidenza. Quello che è certo è che centinaia di cadaveri giacciono ancora insepolti lungo chilometri di postazioni, sulle quali si sono infranti gli attacchi degli etiopici. Un insopportabile odore di morte aleggia tra le carcasse dei carri e i campi minati, dove i corpi dei caduti, che nessuno ha potuto portare via, diventano lentamente delle mummie cotte dal sole del deserto. Ognuno di questi grotteschi manichini rappresenta il più tragico, espressivo, antiretorico monumento al milite ignoto. E sembra anche gridare un definitivo e sdegnato " MAI PIU' " a tutte le guerre.

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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