Postcards From Hell: Stories by Ettore Mo
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
AFGHANISTAN, stories by Ettore Mo
copyright and courtesy of Corriere della Sera

OPPIO, ULTIMA GUERRA D' AFGHANISTAN (26 Novembre 1997)
>Ettore Mo


460403 Il comandante della guarnigione Taleban di Tagab

KANDAHAR (Afghanistan) - La battaglia contro i papaveri, che a primavera fanno rosseggiare la terra afghana e si traducono ogni anno in tonnellate di narcotici, è cominciata ufficialmente l'altro giorno qui a Kandahar: ne ha dato il via l'ex senatore Pino Arlacchi, che da settembre dirige l'Undcp (United Nations Drug Control Programme), l'agenzia dell'Onu per il controllo della droga nel mondo.
È la prima battaglia di una guerra che dovrebbe durare almeno, secondo un calcolo sensato, dieci anni: troppi per i Talebani di questa regione sud-occidentale di confine, ai quali Arlacchi ha sottoposto le sue proposte e il suo piano a lunga scadenza. Forti dell'approvazione del leader supremo, Mohammad Omar, e ansiosi di liberarsi di una «macchia» che li espone all'esecrazione universale, essi hanno subito fatto coro invocando una soluzione più rapida: sarebbe bastato un anno, secondo loro, per far sparire dall'Afghanistan tutti i fiori dell'oppio. «Li ho dovuti frenare», ha confidato il senatore, piacevolmente «sconcertato» da tanto entusiasmo.
L'iniziativa dell'Undcp scatta in un momento nel quale la produzione dell'oppio in Afghanistan ha raggiunto i livelli massimi, cui per la verità era assurta già negli anni del conflitto civile, fra il '92 e il '94: ma già nel '91, questo Paese straziato da diciannove anni di guerra era diventato il più ricco produttore d'oppio del mondo, lasciandosi alle spalle il famoso «triangolo d'oro» indocinese. È stato inoltre calcolato che l'80% delle droghe pesanti consumate in Europa può attribuire con sufficiente certezza la propria origine ai papaveri afghani.
Circa 200 mila famiglie sono impegnate nella produzione dell'oppio, che viene coltivato in dieci delle 29 province afghane su quasi 60 mila ettari di terreno, che forniscono ogni anno 2.200-2.300 tonnellate di «roba». Ma per eliminare le vastissime colture e avviare una programmazione agricola «normale», occorreva l'assenso dei Talebani, che oggi controllano i due terzi del Paese. «Da mesi - dice Giovanni Quaglia, rappresentante dell'Undcp in Pakistan - facevamo pressione su di loro perché assumessero una decisa presa di posizione contro le coltivazioni d'oppio: era però indispensabile che essi proclamassero una specie di editto in cui dichiarassero che quel prodotto era una violazione della legge islamica».
L'hanno fatto. Quando esce dall'incontro coi Talebani, durato qualche ora, Pino Arlacchi ha l'aria soddisfatta, quasi non riesce a contenere l'entusiasmo per il risultato di questo primo round, tutto positivo. È addirittura sorpreso: «Non ho incontrato alcuna resistenza - ammette -, al contrario...».
L'importanza che i Talebani attribuiscono all'iniziativa dell'Onu è stata confermata dalla presenza, al colloquio, del primo ministro Rabbani Akhund, che ha al suo fianco il governatore di Kandahar, Hassan Rahmani, tipo massiccio, una gamba sola, l'altra falciata a metà in un'operazione bellica.
Per l'esecuzione del grande progetto, che prevede l'eliminazione completa in Afghanistan dei campi di papaveri in dieci anni, le Nazioni Unite hanno stanziato 250 milioni di dollari: ma qui a Kandahar si stanno ora intrecciando le trame per la realizzazione del piccolo progetto - o progetto-pilota - che per 4 anni dovrà sperimentare l'efficienza degli interventi su quattro distretti rurali (tre nella provincia di Kandahar, uno nella provincia di Nangarhar). Per questo, il budget è di 16 milioni 400 mila dollari, circa 28 miliardi di lire.
Se le decisioni prese l'altro giorno saranno rispettate (e niente lascia supporre, al momento, che non lo saranno) l'iniziativa dell'Onu potrebbe avere un buon avvio. I Talebani si sono impegnati a non estendere la coltivazione dell'oppio in nuove aree: se ciò dovesse avvenire, le nuove colture saranno immediatamente distrutte. Esperti dell'Undcp e funzionari governativi locali avranno la possibilità di setacciare le aree interessate per verificare l'osservanza (o meno) del bando. La fase più drammatica del progetto riguarda poi la confisca delle droghe ancora in circolazione che saranno bruciate davanti alla gente, l'arresto dei produttori abusivi di oppio, la caccia ai narcotrafficanti e la distruzione di tutti i laboratori clandestini (per la conversione dell'oppio in eroina) che fossero ancora attivi nella zona.
Ma al primo ministro e ai Talebani presenti all'incontro, i «tempi» suggeriti dai rappresentanti dell'Onu sono parsi troppo lunghi: perché aspettare 4 o 10 anni per la «ripulitura» completa del Paese se si poteva far tutto subito, in quattro e quattr'otto, sottoponendo a un rullo compressore punitivo tutti i campi di papaveri dell'Afghanistan?
Dice Arlacchi: «Ho dovuto frenarli, perché un cambiamento così radicale e repentino avrebbe scatenato reazioni violente, forse di massa, tra i contadini e nel Paese. La nostra organizzazione non sarebbe in grado di far fronte a uno sconvolgimento del genere. Il sistema che abbiamo escogitato per combattere e contenere la produzione dell'oppio è basato su un criterio di fattibilità e serietà... La riduzione dev'essere progressiva, in modo da poter offrire un'alternativa ai produttori di oppio, con colture diverse, frumento, legumi, ecc...».
Tra le proposte dell'Undcp per offrire un'occupazione agli «orfani dell'oppio» c'è anche la riattivazione di un lanificio con 33 macchine ancora in perfette condizioni che è stato via via chiuso, riaperto, chiuso di nuovo in seguito agli avvicendamenti bellicosi nella regione: in passato ne sono usciti tappeti e tessuti abbastanza pregiati destinati per lo più al mercato interno.
Quando fu aperta, tra le millecento persone che vi lavoravano c'erano anche delle donne, naturalmente in reparti separati. Sollecitando la riattivazione della fabbrica, che risolverebbe in parte il problema occupazionale, Arlacchi ha suggerito che una percentuale dell'eventuale nuova forza lavorativa del lanificio potrebbe essere ancora costituita da donne. «L'ho fatto - dice ora il senatore - perché poco prima i Talebani presenti al colloquio si erano lamentati dell'immagine che il mondo intero ha di loro... Era una situazione penosa. Però ho dovuto far presente che la maggiore responsabilità ricadeva su loro stessi e per i due motivi che tutti sanno: la droga, appunto, e le donne. Bene, la risposta non ha mancato di sorprendermi: qualora fossimo riusciti a rimettere in piedi il lanificio e, comunque, ad assicurare posti di lavoro, lì o altrove, non ci sarebbe stata nessuna preclusione, da parte loro, per le donne: a condizione, naturalmente, che siano confinate in settori separati come vuole la Sharia. E anche le donne potranno sottoporsi, come gli uomini, ai necessari periodi di addestramento».
È un particolare, questo, che Pino Arlacchi non ha inserito nella lettera indirizzata al tetro leader dei Talebani, Omar, nella quale ha indicato i punti e i risultati del suo colloquio col primo ministro e col governatore di Kandahar: ma dal comportamento di questi ultimi - lascia capire il direttore dell'Undcp - è emerso chiaramente che agivano dietro mandato e con l'incoraggiamento della massima autorità.
Non è improbabile che l'iniziativa dell'Onu (che rientra sempre nel campo dei diritti umani) possa venire interpretato come un tentativo di legittimazione di un governo che attualmente ha ottenuto il riconoscimento di tre Paesi soltanto, il Pakistan, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi; e al tempo stesso non dovrebbe stupire che i Talebani ne siano confortati perché essa offre loro la possibilità di ritoccare positivamente la propria immagine, apparendo come i campioni della lotta anti droga su scala mondiale. Dice Arlacchi: «Il nostro obiettivo è esclusivamente umanitario. Noi non possiamo aspettare che finisca il conflitto in Afghanistan per intervenire. Ci sono 8 milioni di tossicodipendenti nel mondo e se abbiamo la possibilità di alzare uno sbarramento contro questo flusso mortale di droga che si riversa sull'Europa è nostro dovere non lasciarla cadere. È quindi assurda l'insinuazione di chi sostiene che i Talebani accettano ipocritamente il progetto dell'Onu per investire nella guerra i soldi che gli daremmo. L'Onu non dà soldi, come tutti sanno, e non dà cibo a nessuno. Promuove unicamente delle iniziative per migliorare le condizioni di Paesi in difficoltà, tutto qui».
L'eventualità che il progetto Onu si debba arenare, se dovessero cadere i Talebani, va scartata. Nessun nuovo governo islamico a Kabul oserebbe bloccare un'iniziativa che ha le sue premesse e attinge la sua forza dai precetti coranici. Ma a questo punto è difficile valutare quale è e potrebbe essere la reazione e l'atteggiamento dei coltivatori che, da sempre, seminano papaveri nei loro campicelli. Il primo che incontriamo, alla periferia di Kandahar, è Wali Mohammed, 66 anni, undici figli. Ha un pezzetto di 6 mila metri quadrati dove ha piantato cavoli, radicchio, cipolle, già belli e maturi. Ma appena li avrà estratti, confida, tornerà a seminare i papaveri: ne produce circa 30 chilogrammi l'anno e il guadagno è approssimativamente di 18 milioni di afghani (circa 730 dollari). Se la cava. Un altro contadino che lavora in un terreno non suo, Hagi Ehsanulah, qualche anno in meno, 14 figli, ne porta a casa solo 14 di milioni: «Se adesso la legge mi imporrà di lasciar perdere i papaveri - dice rassegnato - ubbidirò. Ma il governo dovrà dare da mangiare ai miei figli».
Un chilo di oppio viene pagato circa 33 dollari e dovrebbero essere perciò relativamente prospere le province di Helmand e Nangarhar, che ne producono rispettivamente il 40 e il 30%: un po' meno Kandahar, che arranca dietro col 7,5%.
Secondo l'Undcp, il guadagno medio di una famiglia impegnata nelle coltivazioni dei papaveri è di 500 dollari l'anno: che non è certo una cifra iperbolica, visto che va divisa tra almeno i 4 o 5 membri adulti del nucleo familiare. La trasformazione delle colture non porterà inizialmente benefici e vantaggi economici notevoli, né dovrebbe cedere all'euforia quel migliaio di persone che avrà la fortuna di varcare i cancelli della rinata fabbrica tessile, con un salario - si dice - di 50 dollari il mese.
Con la produzione e il commercio dell'oppio, lo Stato si arricchisce di 9 milioni di dollari l'anno, reperiti sotto forma di un obolo-tassa (il 10%) che confluisce negli scrigni delle moschee o nelle tasche dei mullah: «Una somma ridicola - commentano all'Undcp - se si considera che questo è un Paese in guerra e che gli obiettivi militari (la vittoria) hanno la priorità su tutto. Accanirsi nella coltivazione dell'oppio è assurdo. Non c'è paragone tra l'attuale stato dell'economia, basato unicamente sullo sfruttamento del suolo (i papaveri) e una struttura agricola sociale quale potrà sorgere nei prossimi anni grazie a colture alternative e al volume degli aiuti internazionali».
La vita langue a Kandahar, ex capitale e città dal passato eroico che nei giorni dell'invasione sovietica fu aspramente contesa fra le truppe del regime, sostenute dall'armata rossa, e le trafelate formazioni della resistenza islamica, i mujaheddin. I Talebani la invasero due anni fa, prima tappa di un'avanzata-scampagnata che li avrebbe portati, in pochi mesi, a occupare i due terzi del Paese. Ora il fronte della guerra è lontano, a Kabul, da tempo accerchiata dagli uomini di Ahmad Shah Massud e dell'Alleanza Settentrionale, più che mai decisi a rimettervi piede.
La gente è tutta per le strade, nonostante i primi freddi, e tranne i militari all'aeroporto e le sparute guarnigioni davanti agli edifici pubblici è raro imbattersi in qualche barbuto giovanotto armato di kalashnikov. È una sorpresa: quasi sempre, in passato, vicino a una barba ho visto un fucile. Abbiamo finalmente la pace, sento dire.
Ma l'eccitazione non manca. Mentre Arlacchi e le autorità stanno amichevolmente parlando, fuori, nello stadio di calcio, c'è spettacolo. La folla, due-tremila persone, si agita sugli spalti. Poi, a un certo punto, silenzio: e, nel silenzio, dei colpi secchi di kalashnikov. Un uomo giace a terra, vicino a una delle reti. È stato giustiziato.
Si chiamava Fazaluddin. Sette anni fa, durante una rapina, aveva ucciso un uomo e violentato la moglie. La Sharia esige che sia uno dei parenti più stretti della vittima a eseguire la sentenza. In questo caso, è il padre. L'omicida-stupratore è seduto per terra, le mani legate dietro la schiena. Il giudice chiede al padre della vittima, secondo il rito giuridico delle leggi islamiche, se è disposto al perdono o se accetta di lasciarlo libero in cambio di una soddisfacente offerta in denaro: la domanda è ripetuta tre volte e per tre volte la risposta è no. Il vecchio padre ha diritto a tre colpi: parte il primo, che trafigge Fazaluddin nella schiena, poi il dito resta incollato al grilletto e partono altre scariche.
Sono le 3 del pomeriggio. Dal mattino, la radio aveva annunciato l'evento: e a mezzogiorno lo stadio era già pieno di gente adulta e ragazzini. «È giusto che vedano, così imparano», dice un giovane meccanico che gira in bicicletta con un fiore di campo sul manubrio. Questa era la sua ventesima esecuzione.
C'è la pace, dice, a Kandahar.

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LE DONNE GUERRIERE UMILIANO I TALEBANI (2 Dicembre 1997)
>Ettore Mo


460051 Kabul, una mendicante

KANDAHAR (Afghanistan) - Da quella fine d'anno del '79, quando l'Armata Rossa portò in regalo a Kabul carri armati e missili, dicembre è stato quasi sempre il mese più crudele: e quello appena cominciato, dopo 18 anni di guerra, rispetta la tradizione. Qui a Kandahar l'inverno è mite, tra giornate di sole e qualche pioggia: ma le notizie che giungono dal nord, dalla capitale e, soprattutto, dalle province centrali sono di quelle che agghiacciano. Che sia questo l'ultimo inverno dei Talebani?
Un'intera popolazione - gli Hazaras - isolata da oltre tre mesi nella provincia del Bamiyan ha svuotato la madia e non può riempirla di provviste nuove perché i Talebani hanno tagliato tutte le strade ai rifornimenti. L'alternativa, per chi non vuol morir di fame, è la fuga: e infatti la carovana dei profughi sta serpeggiando da qualche settimana verso il confine iraniano, con i bambini, i fagotti, le pecore.
Kabul, che ha vissuto un'esistenza meno grama quando aveva in casa i russi, è forse oggi la città più straziata del mondo, dove la gente non vive ma sopravvive. Il nemico - le truppe dell'Alleanza settentrionale di Ahmad Shah Massud - ha i cannoni e i missili puntati sulla periferia nord-est, difesa dai guerrieri adolescenti di Allah, chiamati a presidiare la capitale dopo la disfatta e decimazione dei Talebani in maggio, a Mazar-i-Sharif. Il leone del Panshir, Massud, è un leone paziente: non ruggisce a vuoto. Ma quando sarà il momento di dare la zampata, non riusciranno a fermarlo.
La possibilità, da parte dei Talebani, di acquisire simpatie, se non alleanze, in campo internazionale, è quasi nulla. Il ministro degli Esteri, Gohar Ayub, reclama un seggio all'Onu (ora occupato dal rappresentante del governo legittimo di Rabbani-Massud) per il «suo» Afghanistan che il 28 ottobre scorso è stato ridicolmente convertito in Emirato. L'immagine dei Talebani, impegnati a edificare la più pura delle teocrazie, rimane quella di una masnada di studenti di teologia delle madrassas (le scuole di religione), inflessibili e semianalfabeti, che i maestri dell'Islam prenderebbero volentieri a bacchettate.
È difficile che il governo dei Talebani ottenga altri riconoscimenti oltre i tre che gli sono stati accordati: dal Pakistan, dall'Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. L'America di Clinton sarebbe disposta a darglielo - ha dichiarato recentemente a Islamabad il segretario di Stato, Madeleine Albright - soltanto se verranno rispettati i più elementari diritti umani e se si accettasse, a Kabul, un governo «misto» dove abbiano voce tutte le varie fazioni islamiche. Ma il leader supremo dei Talebani, Mohammed Omar, che vede il mondo con un occhio solo (l'altro è spento) e sta sempre rannicchiato nel nero quaresimale della palandrana, del turbante e della barba, ha detto no.
Gli Stati Uniti ce l'hanno con i Talebani anche perché danno ospitalità e protezione ai terroristi islamici che hanno ispirato (o contribuito a mettere in atto) attentati e stragi su suolo americano: come Osma bin Ladin, arabo saudita e, secondo la Cia, finanziatore del terrorismo internazionale, che si è rifugiato qui a Kandahar. «È vero - ammette il Governatore della provincia e numero due del regime, Mohammad Hassan - gli è stato dato asilo come a un profugo. Ma con l'impegno di stare tranquillo. Però non abbiamo intenzione di estradarlo negli Usa».
Ma l'elemento nuovo, dirompente, di questo autunno-inverno afghano sono proprio loro, gli Hazaras, quattro milioni di sciiti su una popolazione di diciassette, in prevalenza sunnita. Discendenti dai mongoli di Gengis Khan, potrebbero avere, chissà, un'indole belluina. Certamente, i reparti armati del loro partito - lo Hizbe Wahadat - hanno fornito una prova eccellente a maggio, quando, a fianco degli uzbeki del generale (si fa per dire) Rashid Dostum e dei tajiki di Massud, hanno respinto il primo attacco dei Talebani a Mazar-i-Sharif, macellandoli. E l'ottobre scorso, dopo aver fatto diga contro una seconda ondata di seminaristi-guerrieri, ormai disperati, un loro comandante ha potuto dire con orgoglio: «Lo abbiamo salvato noi, il Nord, dai Talebani».


460081 Un combattente Hazara sotto le colossali statue di Buddha di Bamiyan. La città ha resistito all'offensiva dei Talebani, i quali avevano promesso di distruggere i monumenti, che risalgono al XII secolo. Bamiyan è il caposaldo dell'etnia degli Hazaras, integralisti sciiti appoggiati dall'Iran e acerrimi nemici dei Talebani sunniti, sostenuti invece dal Pakistan.

Forse, all'animosità degli Hazaras nella «battaglia di maggio» non è stato estraneo un motivo religioso, anche se non direttamente legato alla loro fede. Bamiyan, capoluogo della provincia omonima, è stato nel dodicesimo secolo un grande centro del buddhismo in Asia Centrale, come ricordano le due gigantesche statue dell'Illuminato intagliate nella roccia viva della montagna che domina la città. Se l'avessero presa, dopo Mazar-i-Sharif, i Talebani le avrebbero fatte a pezzi. È perlomeno curioso che a sfidare tanta catastrofica intolleranza siano stati gli zoccoli duri di un movimento islamico altrettanto integralista come quello sciita.
Sostenuti dalla Russia e, soprattutto, dall'Iran, i guerriglieri Hazaras si sono imposti militarmente sfruttando il conflitto in corso a Mazar-i-Sharif tra quel caporalaccio di ventura e sventura di Rashid Dostum, autoelettosi generale durante l'invasione sovietica, e il suo braccio destro, «generale» pure lui, Malik Pahlwan, che ha avuto la meglio: al termine della controffensiva, i Talebani lasciavano sul terreno dai due ai tremila uomini. A Kandahar, il governatore Hassan ribadisce che la maggior parte delle vittime è costituita da prigionieri di guerra fatti giustiziare dopo la cattura: lo confermerebbe la scoperta (recente) di una ventina di fosse comuni, zeppe di cadaveri, vicino alla città di Shibergham, nel Nord. Ma l'umiliazione più bruciante per i Talebani e per il «mullah Polifemo» di Kandahar è stata inferta, in ottobre, a Mazar-i-Sharif, da un gruppo di donne che, la cartucciera sul chador, si sono schierate a fianco dei loro padri, mariti, fratelli e hanno cominciato a sventagliare raffiche col fucile automatico sull'arroganza maschile dei chierichetti di Allah: non era mai successo, in 18 anni di guerra, di vedere delle soldatesse in prima linea.
Elettrizzate da questa prima, temeraria esperienza, le donne dell'Hazarasjat (la regione degli Hazaras) hanno ora deciso di formare un battaglione tutto femminile e i militari stanno ora addestrando 25 signore professioniste e di buona cultura per elevarle al rango di ufficiali: tra di esse Faiza Falah, ingegnere, una delle 12 donne che fanno già parte del Consiglio Centrale di Wahadat, composto da 80 membri. In tutto l'Afghanistan sono le sole ad avere un ruolo politico e sociale. L'indignazione e il raccapriccio stanno strozzando i mullah di Kabul e Kandahar.
Un fenomeno singolare e non so quanto spiegabile, quello di Bamiyan. Un gruppo di professoresse fuggite dalla misogina Kabul ha messo in piedi un'università, sistemandola in casette tirate su alla meglio, con muri di argilla, paglia e sterco, senza vetri alle finestre, senza luce e riscaldamento. Ma la scolaresca è cresciuta e così le docenti: 300 le matricole, 16 le insegnanti. Dalla capitale, dove tutte le scuole famminili sono sprangate, le famiglie Hazaras mandano le loro figlie a Bamiyan. «Francamente, noi detestiamo i Talebani - dice la poetessa Humera Rahi, docente di letteratura persiana - perché sono contro ogni civilizzazione, contro la cultura afghana, contro l'istruzione e, in particolare, contro le donne. Hanno dato all'Islam e al popolo afghano un brutto nome».
L'inflessibilità con cui il governo dei Talebani reprime la donna a Kabul e nelle grandi città (incatenandola in casa e nel burqa-sudario, negando il lavoro alle vedove e condannando le ragazze all'analfabetismo) non trova riscontro nelle zone rurali, dove il regime è più svagato e tollerante. In campagna, nei villaggi pashtun, le scuole femminili continuano a funzionare all'80%. Lo Sca (il comitato svedese per l'Afghanistan impegnato soprattutto nel campo educativo) ha 660 scuole in 18 province controllate dai Talebani: su 160 mila alunni, 31 mila sono ragazze, e fra gli insegnanti ci sono 170 donne. Ma anche Ghazni, grosso centro urbano dove gli integralisti di Mohammed Omar sono di casa da un paio d'anni, l'85% delle bambine continua a frequentare la scuola. «La ragione - mi spiega un ex docente di francese al Lycée di Kabul - è abbastanza semplice: nella capitale, che è la loro vetrina, impongono restrizioni assurde per mostrare al mondo che intendono attuare in Afghanistan un sistema teocratico assoluto. Ma in periferia e nelle zone da cui traggono la forza militare e l'appoggio politico, chiudono facilmente un occhio».
Il furore degli integralisti continua a essere l'elemento predominante della vicenda afghana e il Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio è il più affaccendato e frenetico della capitale. Il suo capo - Maulvi Qalamuddin - sempre circondato da una torma di zelanti barbuti foruncolosi seminaristi, è l'uomo più temuto di Kabul. Ne sa qualcosa Emma Bonino. Ma le teste meno obnubilate dal misticismo sono consapevoli che la posta in gioco è un'altra. La guerra deve appianare la situazione e creare condizioni che consentano al petrolio e al gas dell'Asia Centrale di fluire indisturbato verso il Pakistan, attraverso l'Afghanistan. A fine ottobre, la compagnia petrolifera statunitense Unocal ha stipulato un contratto per la costruzione di un gasdotto in partenza dal Turkestan: costo, oltre due miliardi di dollari. Ai Talebani, che Islamabad ha ispirato, seguito e sostenuto, il compito di garantire che il gas sbocchi intatto nel punto giusto.


460585 Combattente Taleban

L'inverno sarà terribile per tutti: per i Talebani, per Massud rintanato nel suo quartier generale di Jabel Seraj, all'imbocco della Valle del Panshir, per i 160 mila Hazaras del Bamiyan senza pane e farina. Una carovana di 40 autocarri dell'Onu con 600 tonnellate di frumento a bordo è bloccata da Kabul; un'altra, con 200 tonnellate di mais, è ferma nella cittadina settentrionale di Pule Khomri. Il governatore di Kandahar dice di essere pronto ad «aprire le strade» per Bamiyan, a condizione che il carico «non vada ai guerriglieri Hazaras» e alle loro bellicose compagne.
Il generale Dostum, riemerso dalla Turchia e liberatosi del suo rivale Malik, sta cercando di agganciarsi ai Talebani, che per quasi due anni ha combattuto, al fianco di Massud. Ha fatto liberare quattro grossi funzionari del governo, detenuti a Mazer-i-Sharif, e ha promesso di «restituire» i morti trovati nelle fosse comuni. E per ultimo, a conferma della volubilità del suo cuore mercenario, ha fatto disarmare gli uomini di Massud stazionati al nord, in quello che è tornato ad essere il suo feudo. Mi riferiscono che il leone del Panshir abbia sorriso (amaramente) dell'ennesimo voltafaccia di Dostum. Il «generale» è stato al comando del presidente filosovietico Najibullah, poi si è alleato con Massud, poi la lasciato Massud per il suo acerrimo rivale Hekmatyar e poi ancora lascia Hekmatyar e torna da Massud... La disinvoltura con cui guizzano da una parte all'altra è una caratteristica degli afghani. Dice un antico adagio: «Non potrai mai comprare un afghano: ma potrai sempre noleggiarne uno». I Talebani non dovrebbero tuttavia farsi illusioni, perché il nuovo alleato potrà forse metter loro a disposizione qualche aereo e qualche elicottero oltre ai suoi gradassi uzbeki, ma non offre garanzie. Massud lo sa.
È una bella mattina di sole, quasi tiepida, quando lascio Kandahar. Ci ero venuto due volte, durante la guerra, ma restando acquattato oltre la periferia, essendo la città presidiata dagli sciuravi, i russi: la seconda volta fu nell'85, ci arrivai dal confine pakistano in groppa a una Yamaha, 17 ore 17 di balzi sul sellino della motocicletta, sulla crosta dura del deserto. La notte entravo in città coi mujaeddin di soppiatto, rasentando i muri, il cuore in gola. Ora ho passeggiato liberamente per le strade, tra i muri di fango delle case scorticati dalle pallottole. Passaggio tranquillo, ma sento che la guerra non è finita, che non finirà questo inverno e neanche il prossimo e forse non finirà mai, perché un Afghanistan in pace non mi è quasi possibile immaginarlo.

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PETROLIO, MALEDIZIONE DI KABUL (23 Novembre 1998)
>Ettore Mo


460402 Scontri sulla prima linea della New Road, ca. 15 miglia a nord di Kabul

Dall' AFGHANISTAN (ancora libero) - Tutto calmo, stamane, sul fronte della Old Road, nella Qarabagh Valley, poco più di una dozzina di chilometri in linea d'aria dalla periferia nord di Kabul.
Dalla radiolina dell'ufficiale che ci accompagna verso la postazione più avanzata sprizzano fuori le strofette in pashtun di un'allegra canzone di guerra talebana, anche se un talebano allegro è difficile immaginarlo. I
talebani sono 3-400 metri a sud, annidati nei fossi di terra argillosa o dietro gli alberi, i fucili e i cannoni puntati in attesa della fine della tregua.
Anche da questa parte i soldati governativi di
Massud bivaccano stancamente nel sole. Uno di loro - Abdul, 23 anni - sta tirando a lucido il kalashnikov dopo averne inserito, con qualche difficoltà, il caricatore: operazione che in tempi «normali» avrebbe eseguito a occhi chiusi. Ora però le sue mani sono di plastica, e così gli avambracci, le une e gli altri tranciati via di netto un anno fa da una mina anti-uomo. Che fare? In Afghanistan non sono previste né medaglie né pensioni per gli invalidi di guerra: e così, non appena «riaggiustato» e rimesso a nuovo, Abdul è tornato in prima linea, come qualsiasi altro - dice - «avrebbe fatto».
Cento chilometri più su, fra le montagne del Panshir, un altro giovane afghano - tutt'intero, questo - ha una storia diversa da raccontare: guerriero della prima ora nelle file dei seminaristi coranici (i «folli di Dio»), catturato in battaglia circa due anni fa nella provincia di Nangarhar, è uno dei 270 prigionieri talebani ammassati in un decrepito edificio della zona convertito in carcere.
Si chiama Khaled. Non dice l'età ma non arriva ai trenta, benché «invecchiato» da una barba ispida e nera che supera agevolmente i 10 centimetri di lunghezza previsti dal regolamento del loro leader , il mullah Omar. Nero anche il turbante avvitato intorno alla testa e neri sono gli occhi che ti fissano con durezza e (forse) disprezzo.
Non è di quei prigionieri, Khaled, che belano di paura e si scagionano dicendo d'esser stati costretti ad arruolarsi o di averlo fatto - pietà! - per sbarcare il lunario. Lui ha imbracciato il fucile non appena gli è stato detto che i talebani avrebbero scatenato una guerra santa (jihad) per rimuovere il governo «corrotto» di Burhanuddin Rabbani e del suo ministro della Difesa, Ahmad Shah Massud, e instaurare, a Kabul, una teocrazia, cioè un regime islamico puro, perfetto e inflessibile.
E inflessibile è Khaled. A chi gli ricorda che l'80 per cento delle droghe pesanti sui mercati europei proviene dai campi di papaveri delle province sud-occidentali dell'Afghanistan (63.674 ettari), risfodera le minacce e il ricatto del suo grande capo Omar, che s'impegnerà a combattere il narcotraffico soltanto dopo il riconoscimento del suo governo da parte dell'Onu: «E poi - conclude con raggelante cinismo -, se l'eroina fa strage in Occidente, poco importa: non si tratta di musulmani».
Nella tarda estate del '94, quando i talebani invasero fulmineamente l'Afghanistan, i seminaristi delle scuole rurali di catechismo sparse fra le tribù di frontiera pashtun (le cosiddette madrasses) ignoravano che, ancora una volta, il petrolio e il gas, con relativo corredo di ghiotti profitti, erano i veri obiettivi della guerra santa, con la restaurazione del regno di Dio.
Non era stato detto, a Khaled, che Islamabad e due o tre multinazionali onnivore (come la Unocal americana, la Delta Oil saudita o l'argentina Bridas Energy...) avevano progettato un gasdotto lungo 1.400 chilometri e un oleodotto - 1.600 chilometri - che dal Turkmenistan, transitando estesamente in territorio afghano, avrebbe raggiunto le sponde pachistane nel Mar Arabico. Se l'ira di Russia e Iran, escluse dal gioco, poteva essere liquidata con un'alzata di spalle, il nodo più duro da sciogliere era l'ostilità di Kabul, che dal progetto non avrebbe tratto alcun vantaggio e si è sentita come «raggirata» da un complotto internazionale. È a questo punto che il Pakistan fa scendere in campo nientemeno che Allah, attaverso il suo luogotenente in terra, il mullah-polifemo Omar, e i suoi talebani.
I rapporti di Ahmad Shah Massud e del suo partito - lo Jamiat-i-Islami - col governo di Islamabad, già tesi durante l'invasione sovietica, quando il Pakistan prediligeva ostentatamente il suo rivale Hekmatyar, ritenendolo il solo leader politico-militare in grado di sconfiggere l'Armata Rossa e il regime marxista di Kabul, sono deteriorati al punto da escludere, per il momento e anche per il futuro, ogni possibilità di riconciliazione.
Oltre a contribuire a far da tramite ai finanziamenti esterni (Stati Uniti, Paesi del Golfo, eccetera) della macchina bellica, viene attribuito senza esitazione all'apparato militare e ai servizi segreti pachistani (l'Isi) il merito di aver addestrato in breve tempo un esercito di chierici animati dalla fede e dai versetti del Corano, ma totalmente digiuni di arte marziale. È piuttosto consistente, tra i prigionieri di guerra, la percentuale degli «oriundi» pakistani. Ne ho incontrati un po' ovunque, nel Panshir, a Teleqan, nei markaz (accampamenti) di Dashti Calà e Yangi Calà: la maggior parte è restia ad ammettere le proprie origini. Tuttavia, il ritmo dell'arruolamento oltre frontiera non si sarebbe allentato, se diamo credito alla notizia sull'arrivo a Kabul, in questi giorni, di 1.200 soldati «freschi» dal Pakistan.
Non so se vi sia più amarezza o indignazione nella voce di Massud quando parla del Paese vicino. Siamo a Jengalak, nel Panshir, dove lui ha casa e dove vive la sua famiglia, la moglie, i quattro figli (tre ragazze, un maschietto). Giù in basso, tra pareti di terra bruciata e speroni di roccia, si sgretola il fiume, che adesso è tranquillo nella pigrizia pomeridiana: un fiume e una valle che per anni - specie dall'80 all'84 - hanno visto sferragliare i carri armati russi, implacabilmente «appiedati» dalla rudimentale artiglieria del «leone del Panshir».
I blindati sovietici sono arrivati fin quassù, a Bazarak, ma non sono riusciti a spingersi oltre: e così questo villaggio affastellato intorno a un'unica strada è passato alla storia come il «cimitero dei tank russi». Ce lo ricorda, con orgoglio, Abdul Ghias («avevo vent'anni, allora»), affettando carne di montone per lo spiedino. «Prima abbiamo fede in Dio - dice -, poi in Massud. Ce l'ha fatta con gli sciuravì, che avevano quel bel po' d'arsenale, figurarsi i talebani... Mi hanno detto che le porte della prigione dove li hanno rinchiusi, a qualche chilometro da qui, sono aperte giorno e notte. Possono uscire e rientrare quando vogliono, li vedi per strada, in mezzo alla gente. Però una cosa sanno: che è la valle intera il loro carcere e che non potranno mai lasciarla senza il nostro consenso».
Basta qualche incontro al bazar o nell'unico albergo-ristorante del villaggio, con le assi marce del pavimento che cedono sotto i piedi, per rendersi conto di che lega è fatta questa gente e di quante e quali tragedie sia stata afflitta. La guerra, ad esempio, si è particolarmente accanita su questo corpulento e barbuto mujaheddin, Habib, unico sopravvissuto di cinque fratelli: «Il primo - racconta -, 18 anni, è saltato su una mina; il secondo, 26, è morto su quella montagna in uno scontro armato; il terzo, 22, è stato impiccato a Kabul sotto il regime di Babrak Karmal; il quarto, 28, ha fatto la stessa fine sotto Najibullah. La nostra mamma è morta poco dopo, di crepacuore».
Mi invita a casa sua, nella frazione di Majahoor. È sera e lui si inginocchia sul patù per pregare, dopo avermi offerto un vassoio di uva passa e noci. Alla parete, le foto dei fratelli montanari, seri e compassati, ma con la giovinezza negli occhi. È una storia che ti rimanda fatalmente al film Salvate il soldato Ryan, ma per me ancora più cupa e tremenda, nel suo rapido lineare svolgimento.
Ahmad Shah Massud ha le sue radici in questo lembo di terra afghana, che rimane uno dei più suggestivi con le terrazze coltivate a riso degradanti verso il fondo valle e adesso ravvivato dai colori caldi dell'autunno; ma è anche quello che meglio riflette le sembianze tragiche di un Paese in perenne stato di guerra e su cui i talebani non sono ancora riusciti a mettere le mani. Questo rapporto viscerale col luogo d'origine spiega forse, in parte, perché a differenza degli altri capi dell'Alleanza, che hanno sempre combattuto la jihad dal semi-esilio di Peshawar, il comandante Massud non si è mai staccato dalle sue montagne.
A Kabul, è vero, trascorre gli anni dell'adolescenza e prima gioventù, quando la sua famiglia, che doveva essere sufficientemente agiata, lo iscrive al liceo francese; da cui passerà, subito dopo, all'università, facoltà d'ingegneria. Ma è inquieto e alle dispense e discipline scolastiche preferisce decisamente l'azione: perciò nessuno si stupisce di trovarselo, nel '78, in Panshir, a Bazarak, dove comincia la lotta clandestina contro il regime laico-comunista di Tarakì, appena scaturito dalla Saur Revolution, la Rivoluzione d'Aprile.
Trova pure il tempo - Ahmad Shah - d'impalmare una ragazza del posto, di buon ceppo contadino: secondo informazioni locali, viene da Shayeechah, uno di quei villaggi di pietra viva aggrappati ai sassi, sulla mulattiera per Andarab. Suo padre Taaguddin, gran vecchio con barba biblica, è appena tornato dal fronte di Gaworband, dove ha combattutto volontario per un mese, come qui fanno tutti, giovani e anziani. Kalashnikov e munizioni arrivano in gran parte da Dushambè, con l'elicottero, e vengono scaricati a Jengalak, nello spiazzo accanto al fiume, sotto la casa del Comandante.
Ma la resistenza ai talebani non si esaurisce nella lotta armata. Per chi inorridisce al pensiero che la Shariah imposta dal mullah Omar e dai suoi bellicosi studenti nei territori finora occupati (il 90 per cento, secondo loro) abbia mummificato la donna afghana, avvolgendola nel sudario tetro della
burka e privandola dei più elementari diritti umani, sarà di qualche consolazione sapere che nell'Afghanistan ancora libero (oltre la valle del Panshir, le grandi regioni settentrionali come Tahar e Badakshan) il buon senso prevale sull'intransigenza assurda dell'integralismo religioso.
Non dev'essere estraneo all'alta considerazione del governo per la cultura, che la maggiore scuola elementare-media della vallata sia piazzata ben in alto sulla montagna, perché la si veda: la frequentano 350 ragazze e 340 alunni, dai 6 ai 15 anni. Le prime fanno il turno del mattino, i ragazzi quello pomeridiano. Il corpo insegnante è costituito da 12 donne e un solo professore. «Purtroppo - lamenta quest'ultimo, rispettando la consegna al silenzio delle colleghe -, il grado d'istruzione finisce qui: perché nel Panshir non abbiamo università né per gli uni né per le altre».
Anche per questo inevitabile sdoganamento dalla schiavitù delle donne, la sconfitta dei talebani verrebbe accolta con esultanza dai movimenti femministi di tutto il mondo: fiduciosi nella buona fede e sincerità di Massud quando assicura che nel prossimo governo afghano si farà posto anche all'altro sesso; e confortati dal sostegno dell'alleato di Massud, il leader degli Hazarà sciiti, Haji Mohaqiq, che è già in grado di esibire la presenza di 10 donne nel Comitato centrale del suo partito, l'Hezb-i-Wahdat.
Ricordo al Comandante il nostro secondo incontro nell'84, vicino a Bazarak («proprio dietro quella montagna», precisa indicando vagamente un punto nella catena che ci sta di fronte), dopo la settima offensiva dei russi, inesorabilmente bloccati anche quella volta. E ora che la situazione non è più rosea, sento riemergere in lui la qualità che più sorprende in questo uomo d'armi mai entrato in un'Accademia: una serenità quasi glaciale, accompagnata dalla certezza di non poter mai essere sconfitto.
«I talebani sono tanti - ammette - e dispongono di un buon arsenale anche se non hanno quei "pezzi" micidiali che dicono d'avere. L'obiettivo del Pakistan, che li rifornisce e li addestra, è di consolidare ed estendere il proprio spazio strategico, oltre ai vantaggi economici che gli deriveranno dalle pipeline: perché è prevedibile che l'apertura di nuovi corridoi commerciali comporterà un maggior margine d'influenza politica nella Regione...».
L'ambizione di un aggancio commerciale e politico con le ex Repubbliche dell'Urss in Asia centrale è comprensibile: c'è l'Uzbekistan con la miniera d'oro più ricca del mondo (50 tonnellate l'anno), il Tajikistan gravido d'argento, il Kazakhstan che ha nelle viscere più di un quarto del petrolio del mondo, i giacimenti d'uranio nei ghiacci del Kirghizistan e un mercato in tutta l'area di 200 milioni di persone.
«L'Afghanistan - puntualizza Massud - confina con tutti quei Paesi e ne ha libero accesso: non stupisce perciò che suscitiamo invidia. Ma l'efficienza militare dei talebani, ammesso che ce l'abbiano, è minata da tanti punti deboli: intanto, l'esercito dei «folli di Dio» ha perso contatto con la gente e non ne gode più la fiducia. I massacri di Mazar-i-Sharif e di Bamiyan hanno scatenato la furia dei fondamentalisti e dei pasdaran iraniani, anche se non credo che entreranno in guerra. Gli eccessi e gli estremismi della leadership religiosa, sostenuta dagli Ulema e dall'estrema destra pachistana, hanno contribuito ad allargare l'isolamento internazionale dei talebani ed è assurda la speranza di un seggio all'Onu che legittimi la loro crociata. L'ospitalità che continuano a dare al finanziatore del terrorismo islamico, Osama Ben Laden, genero di Omar, ha messo in imbarazzo gli Stati Uniti che pure, attraverso l'Unocal, hanno sostenuto economicamente l'avanzata talebana. D'altra parte, ogni tentativo diplomatico si blocca davanti al muro della loro intransigenza, come è avvenuto qualche mese fa quando ho contattato per telefono Mohammad Omar».
Scuote la testa, Ahmad Shah Massud, quando gli chiedo se ha mai pensato alla possibilità di una resa. Scuote la testa e sorride: senza concedermi la soddisfazione di una frase leggermente eroica che gli ha attribuito recentemente un settimanale a conclusione di un'intervista: «È come avere una casa e una famiglia. Loro sono in tanti e potrebbero anche entrare con la forza e prenderne possesso, dopo aver abbattuto la porta. Ma prima dovranno passare sul mio cadavere».
Ci salutiamo a Jengalak. Una stretta di mano e via, addio Panshir. Ma sono bastate quelle poche parole e quei pochi sguardi per riuscire a convincermi che - questione di mesi - ai talebani non toccherà miglior sorte che agli sciuravì.

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TRAMONTA L'AFGHANISTAN DEI TALEBANI (19 Marzo 1999)
>Ettore Mo


460391 Il Comandante Ahmed Shah Massud, con alcuni luogotenenti, sul fronte
a sud di Charikar, lungo la New Road, 15 miglia a nord di Kabul

BAZARAK (Valle del Panshir) - Erano giorni che qui, nell'Afghanistan ancora libero e non telebanizzato, si respirava ottimismo, come dovesse accadere, ogni mattina, qualcosa di nuovo, di importante. + successo. In un incontro con i delegati del presidente Rabbani, sul terreno neutro di Ashkabad - capitale del Turkmenistan -, i talebani hanno acconsentito a entrare a far parte, a Kabul, di un governo di larga base, costituito dai rappresentanti di tutti i gruppi etnici del Paese.
+ la prima volta dall'autunno del '94, quando invasero l'Afghanistan inalberando il vessillo della fede, che i seminaristi guerrieri cresciuti nelle scuole religiose del Pashtunistan, lungo il confine afghano- pakistano, aderiscono a una proposta del governo di Rabbani per una soluzione pacifica del conflitto. Ma alla decisione non ha fatto seguito alcun accordo di tregua. La guerra continua, su tutti i fronti. Per sottolineare l'importanza dell'evento, i belligeranti si sono limitati a concordare uno scambio di prigionieri, venti per parte.
Ahmad Shah Massud, che ho rivisto solo pochi giorni fa nel suo villaggio di Jangaleck, nel Panshir, non ha dato visibili segni di esultanza: «Il comandante è molto cauto - mi dice il dottor Abdullah, suo braccio destro e portavoce -, restiamo in attesa. Positive le reazioni da ogni parte del mondo, da Washington, Mosca, Parigi, Londra, Teheran. Anche da Islamabad. Ma la nostra esperienza ci consiglia la cautela. I talebani hanno promesso, vedremo se manterranno... Non possiamo dimenticare che l'anno scorso, il 21 aprile, proprio mentre era in corso una trattativa, scatenarono una violenta offensiva».
L'esito dell'incontro di Ashkabad conferma comunque la convinzione del governo afghano che non vi siano alternative a una soluzione negoziata del conflitto. Sono trascorsi quasi venti anni da quando ho visto per la prima volta, a Peshawar, il professor Rabbani, leader dello Jamiat-i- Islami, eletto presidente dell'Afghanistan nella primavera del '92. Ha sempre quella sua aria ieratica da ministro del culto. A 65 anni è solo un po' più bianco e diafano.
+ imminente - chiedo - la riconquista di Kabul? «Noi non vogliamo continuare una guerra che ci è stata imposta - dice -, anche se siamo occupati da truppe straniere. Un compromesso con i talebani? Sarebbe forse possibile se non fosse Islamabad a decidere. La nostra gente è esasperata dal comportamento criminale di questi nuovi padroni... Ma si può tornare a Kabul soltanto per via diplomatica. Escludo il ricorso alla forza, all'azione militare».
Anche Massud, quando ripropongo la stessa domanda («Sono pronte le forze al suo comando a lanciare un'ultima, massiccia offensiva sulla capitale?») scuote la testa con un sorriso. + appoggiato al rottame di un carrarmato, uno dei tanti disseminati nella valle, testimoni dell'umiliazione subita dall'Armata Rossa per mano del «Leone del Panshir». Il fiume gorgoglia appena sotto, è una giornata di sole con le guglie lucenti dello Hindukush conficcate nel cielo.
«Non siamo certo in grado di risolvere militarmente il conflitto entro il nuovo anno (che comincia il 21 marzo, n.d.r.) - dice il comandante - ma speriamo di farlo attraverso negoziati senza ricorrere a ulteriori combattimenti. La possibilità che il regime crolli dall'interno per un sollevamento popolare non è da escludere. Il malcontento si sta diffondendo ovunque. Nelle province del Nord come in quelle centrali. E la pressione militare contribuisce ad accrescere lo stato d'ansia e di inquietudine dei talebani... Nuovi distretti sono stati liberati, come quello di Sayad, al Nord, e non è vero che hanno sotto controllo il 90 per cento del territorio, come continuano ad affermare. Negli ultimi incontri con i miei collaboratori siamo giunti alla conclusione che i talebani non sono più in grado di annettersi altre aree».
Sarebbe certamente azzardato sostenere che i taleb (come vengono comunemente chiamati) sono alle corde. Con la capitale sono nelle loro mani i capoluoghi di provincia e i grandi agglomerati urbani, oltre alla rete stradale che allaccia le remote regioni del Nord e del Sud, dell'Est e dell'Ovest. Per noi vecchi cronisti sono tornati i tempi dell'occupazione sovietica e della guerra civile contro Najibullah, quando gli sciuravi (i sovietici) e i militari del regime sopravvissuto al loro esodo, nell'89, avevano sigillato Kabul, Herat, Kandahar, Jalalabad. Nell'agosto scorso, con un'operazione lampo, i taleb conquistarono anche Mazar-i-Sharif, la capitale del Nord, costringendo Massud a un gelido isolamento nell'enclave del Panshir e nelle assiderate province settentrionali a ridosso dell'Amu Daria.
«Ma la conquista di Mazar-i-Sharif - sottolinea adesso il presidente Rabbani nella sede provvisoria del governo, a Gulbahar - ha peggiorato la situazione dei talebani, per i massacri che vi hanno compiuto contro la popolazione inerme. Esecrati dalla comunità internazionale, hanno scavato ancora più a fondo il solco del proprio isolamento».
Negli ultimi tempi, poi, la compattezza dei talebani, incollati insieme dal mastice di un ideale comune (la restaurazione, in Afghanistan, di una perfetta teocrazia), ha cominciato ad allentarsi a causa di tensioni e conflitti interni. + corsa voce che il governo di Islamabad dissentisse a tal punto dalla leadership di Mullah Omar da volerlo sostituire, a capo del movimento, con Gulbuddin Hekmatyar, l'esecrato leader dello Hezb-i-Islami ostinato rivale di Massud nella Jihad (guerra santa) contro gli sciuravi e poi massacratore di Kabul, dal '92 al '94, deciso a spodestare Rabbani e istallarsi al suo posto alla presidenza.
Il nome di Gulbuddin suscita un altro (striminzito) sorriso sul volto di Massud, che dice: «Non c'è dubbio che vi siano divergenze fra i talebani, divisi sostanzialmente in due fazioni: una guidata da Mullah Omar, l'altra da Mullah Rabbani (nessuna parentela con il presidente afghano). Conflitto, mi risulta, che si fa sempre più aspro. Non posso confermare la voce o l'ipotesi che Islamabad abbia deciso di affidare al mio "amico" Gulbuddin un ruolo tanto importante. Si tratta comunque di un fatto irrilevante. Ciò che è certo è che il Pakistan continua a dare il suo pieno appoggio - unico Paese della comunità internazionale - ai talebani. Ho saputo che appena la settimana scorsa i pakistani hanno inviato a Kabul armi e munizioni nascosti nei camion sotto cumuli di sacchi di farina, riso, ortaggi... Quindi, non è per niente vero che ci sia una rottura fra Islamabad e i taleb».
+ invece ragionevole supporre che, se deperimento c'è stato nella salute (militare e politica) degli studenti di teologia afghani, esso sia dipeso soprattutto dall'affievolimento dei rapporti con Stati Uniti e Arabia Saudita, che erano stati loro grandi sostenitori e finanziatori, attraverso il Pakistan, all'inizio della Santa Crociata. All'insaputa di gran parte dei chierici islamici, il vero obiettivo della Jihad era il mega-progetto delle multinazionali del petrolio (due miliardi e mezzo di dollari) per la costruzione di una rete di oleodotti e gasdotti dal Turkmenistan al Mare arabico attraverso l'Afghanistan. Ma il crollo vertiginoso del prezzo del greggio, nel '98, ha bloccato tutto. E con quel crollo è scemato anche il fervore mistico dei dirigenti della Unical e di altre compagnie per la restaurazione del regno di Dio sulla terra.
Dice Massud: «Certamente, i rapporti tra Stati Uniti, Arabia Saudita e i talebani non sono più quelli di un tempo, forse non gli danno più alcun sostegno economico. Che, secondo me, è venuto a mancare dopo il caso Osama Ben Laden. Contemporaneamente, sono migliorati i nostri rapporti con gli Usa, anche in seguito alla campagna per i diritti umani, che chiamava in causa i talebani. Dov'è ora Ben Laden? Io penso che sia ancora qui in Afghanistan: solo che, recentemente, ha continuato a spostarsi da un luogo all'altro, Kandahar, Jalalabad, Herat...».
Per molti, l'apparizione dei talebani nell'autunno del '94 resta ancora un fenomeno inspiegabile. Studenti delle scuole di religione rurali, i taleb sapevano a memoria i versetti del Corano, ma nient'altro. Quali responsabilità ha avuto il governo di Rabbani per il deragliamento di una situazione che ha consentito il loro avvento e la marcia trionfale su Kabul?
«La responsabilità - spiega Hamad Shah Massud - è del Pakistan, che ha favorito la creazione di questo movimento per creare instabilità nella regione. Ma noi pure, devo ammetterlo, abbiamo commesso un grave errore. Fino a quando i talebani non sono arrivati alle porte di Kabul, non ci siamo resi conto che, con l'aiuto straniero, volevano distruggere il nostro Paese. Non abbiamo saputo distinguere qual era il loro vero volto».
I colloqui di Ashkabad sono stati preceduti nelle ultime settimane da una serie di incontri ad alto livello per gettare la piattaforma di un nuovo governo che entrerà subito in funzione, in attesa che si ponga pacificamente fine alla guerra. Ma per assicurare al Paese quella stabilità che non ha mai conosciuto negli ultimi venti anni, occorre che questo neo-governo sia costituito dai rappresentanti di tutti i gruppi etnici e non dai vari partiti islamici tradizionali (sette in tutto) che hanno partecipato alla Jihad. «Questa - dice il comandante Massud - è stata una decisione molto importante. Abbiamo già eletto un consiglio supremo di Stato con 41 membri, ognuno dei quali rappresenta un gruppo etnico della società afghana. Ed è questa la base di un governo di unità nazionale».
La sua struttura non è stata ancora definita nei particolari. Ma sembra abbastanza evidente che il numero dei candidati dipenderà dalla consistenza numerica delle etnie. «Però nessun gruppo etnico, neanche il più forte - avverte il dottor Abdullah - potrà pretendere di governare il Paese. Perciò i talebani, che sono Pashtun, potranno entrare al governo come rappresentanti della loro tribù, che è la più numerosa, e non come rappresentanti del loro movimento politico».
Sembra una buona soluzione, ma la conferma è nel futuro. Per la realizzazione della proposta, i talebani hanno sollevato subito un problema: quello della leadership. Automaticamente, essa dovrebbe cadere nelle mani del loro capo Mullah Mohammed Omar, 39 anni, un occhio solo, l'altro perso in guerra, che è l'Amir, comandante dei credenti, e come tale si propone a guida spirituale degli afghani. «E questo - protesta Abdullah - noi non potremo mai accettarlo».
Gli concedessero di continuare a interpretare il suo ruolo, gli afghani e soprattutto le afghane sarebbero condannati a vivere nelle condizioni disumane che sono state loro imposte in questi ultimi anni di fine secolo.
«Per noi - conclude Abdullah - sarà un'esperienza più dura di quella fatta sotto le truppe d'occupazione... perché qui si tratta della libertà individuale e ciò che finora i talebani ci hanno proposto e fatto non può essere accettato né da noi, né dai nostri vicini, né dalla comunità internazionale. I talebani non possono sopravvivere in una situazione di pace e democrazia e il fatto che vogliono mantenere la leadership di Omar, significa che non vogliono rinunciare alla loro politica fondamentalista».
Ad Ashkabad e qui nel Panshir si chiedono se un futuro governo di ampia base, multietnico e democratico, possa far posto ai sostenitori di una così atroce filosofia.

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UN OSPEDALE PER I DANNATI DI CHARIKAR (17 Giugno 1999)
>Ettore Mo


460074 Una donna ferita da una mina antiuomo mentre raccoglieva legna

CHARIKAR (Afghanistan) - Non ha perso tempo, Gino Strada. Appena arrivato s'è messo al lavoro. Tutta colpa sua. Aveva offerto la propria disponibilità al dottor Rasuli - primario dell'ospedale di Charikar -, che l'ha presa al volo. «Gino - l'ha subito informato - ci sarebbero un paio di casi urgenti in mattinata. Te la senti?».
Dopo anni di chirurgia di guerra nei Paesi più straziati del mondo - dall'Etiopia al Kurdistan, dal Sud America all'Estremo Oriente, all'Asia Centrale - niente avrebbe più potuto sorprendere il dottor Strada, abituato ad amputare, suturare, cucire e ricucire su tavolacci di legno in immonde sale operatorie d'emergenza, sprovviste di tutto. E Charikar non avrebbe potuto offrirgli niente di meglio.
Il primo ad andare sotto i ferri è un uomo di 30 anni, Khoja Nadi, comandante di prima linea a Daku, avamposto mujaheddin a una dozzina di chilometri da Kabul. Era stato ferito poche ore prima, all'alba, l'occhio sinistro lacerato da una spruzzata di schegge. Lo stendono sul lettino: e così immobilizzato e terreo, le braccia allargate a croce e legate alla «traversa», sembra davvero il Cristo del Mantegna. Il team gli si muove intorno a fatica, impacciato nei movimenti nella stanza troppo angusta. Anche la luce è scarsa, troppo scarsa per illuminare a fondo gli squarci della carne, ci vorrebbe una pila da minatore incollata in fronte. Ciò che invece funziona è la stufetta di ghisa, col tubo a gomito infilato nel muro: basta nutrirla regolarmente con palle di sterco essiccato, che olezzano in un angolo. La legna è un lusso che l'Afghanistan non si può permettere.
Subito dopo un ragazzo di 15 anni, Allah Gul, viene scaricato dalla barella sul lettino. L'anestesista gli ha addormentato il sangue e soltanto domani, al risveglio, scoprirà di essere rimasto con un solo piede, il sinistro. Quello destro glielo aveva sfasciato, la notte prima, una
mina antiuomo mentre col padre attraversava un campo. Adesso il padre è accovacciato lì fuori in corridoio, immobile, e sembra un albero morto da tempo, attorcigliato su se stesso. Gino decide di amputare sotto il ginocchio. Un intervento di normale amministrazione, «facile», se si vuole, per uno che ne ha fatti migliaia: ma siamo a Charikar e per tagliare l'osso c'è soltanto la lama di una seghetta neanche rigida e senza impugnature che il chirurgo può solo azionare tenendone strette le estremità fra i polpastrelli del pollice e dell'indice.
Di episodi come questi, Gino Strada - cofondatore di «Emergency» insieme alla moglie Teresa - ha le bisacce piene: tanto piene da averli dovuti travasare in un libro di recente pubblicazione e già di grande successo - «Pappagalli verdi», sugli effetti delle mine antiuomo - dov'è condensata la sua ventennale esperienza di bisturi ambulante e inesausto soccorritore dell'umanità ferita nelle zone più calde del mondo. Ma ciò che più conta, alla fine, è che dietro le scelte iniziali e l'incontenibile personalità del medico milanese sia nata un'organizzazione - «Emergency», appunto - in grado di consentire la nascita di strutture sanitarie permanenti proprio là dove ce n'era bisogno: come gli ospedali nel Kurdistan iracheno o il centro chirurgico Ilaria Alpi a Battambang, in Cambogia.
Ma tu vai a capire Gino Strada! Dopo aver rattoppato tanti piccoli curdi azzoppati e raccattato nella giungla tanti piccoli cambogiani smembrati dagli ordigni dei Khmer Rossi, ecco che sente il bisogno di cambiar aria: l'Afghanistan, dove sono state seminate dai 5 ai 10 milioni di mine antiuomo, dove il 35 per cento dell'infanzia agonizza per denutrizione e dove 85 mila bambini muoiono ogni anno di dissenteria.
Avesse chiesto il mio parere, l'avrei dissuaso, pur sapendo che avrebbe fatto il contrario, da quel mulo che è. Ma era scontato che dovendo scegliere fra due Afghanistan - quello di Ahman Shah Massud o quello, usurpato, dei Talebani - avrebbe piantato le sue tende nel primo: dove le donne possono ancora studiare, lavorare e camminare per strada con o senza burqa; dove i bambini non vengono bacchettati se fanno svolazzare gli aquiloni; dove la musica non è bandita; dove puoi inginocchiarti e pregare cinque volte al giorno ma nessuno potrà mai spingerti a forza in moschea, neanche il venerdì; e dove non corri il rischio di essere trascinato davanti ai tetri sacerdoti dei tribunali islamici per un centimetro di barba in meno.
L'obiettivo di «Emergency» è di creare in Afghanistan un centro chirurgico per le vittime delle mine antiuomo (ma aperto naturalmente anche ai feriti di guerra in genere), cui affiancare un «workshop», un laboratorio ortopedico per la riabilitazione dei pazienti. Come è stato fatto a Suleimaniya (Kurdistan) e a Battambang. Se è vero che l'esercito dei mutilati afghani ha raggiunto in vent'anni il totale record di 700 mila, Gino Strada e il suo team dovranno rassegnarsi (ma se l'aspettano) a ritmi di lavoro massacranti. Un progetto di tali proporzioni potrà essere realizzato soltanto se verranno assicurati adeguati finanziamenti. Non facili da reperire.
Il governo legittimo presieduto da Rabbani controlla meno di un quarto del territorio nazionale (o meno ancora, secondo la stima baldanzosa dei Talebani, che lo fissano al 10 per cento) e non sarebbe in grado, dissanguato com'è da vent'anni di guerra, di sostenere i costi per un eventuale piano di ricostruzione nelle province nord-orientali o in quelle centrali, come Parwan e Càpisca, sotto la propria giurisdizione



460244 Questa bambina ci mostra, nella mano destra, uno dei micidiali "pappagalli verdi",
le micidiali mine verdi traslucide in materiale plastico che venivano lanciate in gran quantità
dagli elicotteri dell'Armata Rossa e che ancora flagellano - a decine di migliaia - l'Afghanistan.

Qui la situazione sanitaria è disperata. Con Gino e Kate - che del chirurgo è la più stretta collaboratrice e da cui dipende il funzionamento della complessa macchina organizzativa di «Emergency» e dei suoi programmi - faccio un giro per gli ospedali della zona: da quello di Charikar a quello di Gulbahar, da Roja, nel Panshir, alla clinica di Qarabagh, in provincia di Kabul, che assorbe il primo flusso dei feriti essendo a soli 8 chilometri dal fronte. Ovunque squallide, vecchie, lebbrose strutture, come ci trovassimo nelle retrovie della guerra '15-18.
Manca tutto. Mancano le apparecchiature per l'anestesia, le trasfusioni, i raggi X. Manca l'ossigeno, manca il plasma, non ci sono antibiotici. I pazienti devono pagare 2 dollari per le flebo e anche comprarsi le medicine quando l'ospedale ne sia sprovvisto. Ma qualcuno ci marcia. Farmaci che la Croce Rossa Internazionale o altre organizzazioni umanitarie forniscono periodicamente ai vari circondari vengono smerciati sottobanco al bazar. Parola di Kate.
«Il dramma - dice il dottor Feroz, primario a Gulbahar - è che le medicine sono troppo care e la nostra gente troppo povera: e chi non se le può comprare, muore».
Ma se i malati non hanno scampo, anche chi li cura fatica a rimanere a galla nel pantano delle difficoltà economiche: lo stipendio di un medico è di 20 dollari al mese, quello degli infermieri di otto-dieci. «Se apri una clinica privata per chi ha i soldi - ammette il primario del Charikar Hospital, Rasuli - si può anche arrivare a un migliaio di dollari al mese. È una lusinga. Ma come me, molti preferiscono dedicarsi alla comunità».
Alla fine, dopo una fitta serie di sondaggi, sopralluoghi, incontri con medici, politici, responsabili di centri sociali, la conclusione di Gino Strada è raggelante: «Neanche in Africa - lo sento dire una sera, dopo cena - mi son trovato davanti a una situazione sanitaria così disastrata. Questo, ragazzi, è un Paese in coma».
Anche Kate è perplessa. Lei il disastro sanitario dell'Afghanistan se lo guarda nei taccuini che giorno dopo giorno ha meticolosamente riempito: un rapporto dettagliato su capienze, posti letto, numero e genere di interventi chirurgici, servizi igienici, turni di lavoro, qualità del cibo, ambulanze, assistenza notturna ecc. Ma chi, come Kate, conosce a fondo Strada, sa molto bene che i bilanci negativi, anziché abbatterlo, lo sparano in orbita. Certamente il suo carattere è fatto di una buona lega e lo ha messo a dura prova scegliendo di svolgere la propria missione (rigorosamente laica) nei luoghi più disagiati, se non ostili, che definisce graziosamente «buchi di culo del mondo», disponendoli via via in una graduatoria di merito.
Non sappiamo ancora che punteggio verrà assegnato a questa caotica, polverosa città. Due volte travolta e soggiogata dai Talebani e due volte ripresa dalle forze governative (l'ultima 18 mesi fa), Charikar - 65 km a nord di Kabul - è un alveare umano sempre in ebollizione, attorno al bazar, che si spegne soltanto a notte, con l'ultima preghiera. Il passaggio dei «guerrieri di Allah» non è stato indolore perché i Taleb, per prima cosa, sfasciavano canali e tubature, lasciando la popolazione al freddo, senz'acqua e senza luce. «Si stava meglio durante l'occupazione sovietica - dice un vecchio mujaheddin seduto sull'argine di cemento di un canale che da qualche giorno ha ripreso a scorrere - perché almeno gli sciuravi, i russi, quelle porcherie non le facevano».
È assai improbabile che i Talebani (sempre più isolati politicamente) rompano per la terza volta il fronte dei mujaheddin a nord di Kabul per dilagare nuovamente in pianura fino alle porte di Charikar e di Jabal Saraj, feudo - quest'ultima - di
Ahmad Shah Massud, all'estremità meridionale della Valle del Panshir. «Di' pure al tuo dottor Gino - garantisce Bismillah Khan, comandante in capo delle province di Parwan e Càpisa, accompagnandomi in jeep verso l'avamposto della New Road, Mir Bachacot - di star tranquillo. Non oseranno. Faccia pure il suo ospedale, e con tanti letti. Ma non per i Taleb. Ora è il nostro turno: è il momento di passare da una strategia di difesa a una strategia d'offesa. Kabul è a soli 13 chilometri». Il dottor Gino non ha aspettato l'incoraggiamento del comandante Bismillah. S'era dato subito da fare e, visto che non chiedeva nulla e offriva molto, non aveva avuto difficoltà a organizzare le sue giornate, a stabilire contatti e incontri. Solo il rendez-vous con Massud, che era tuttavia a conoscenza della proposta, s'era fatto attendere: ma ciò per causa di forza maggiore, il maltempo, che per una settimana aveva tenuto inchiodati a terra gli obsoleti elicotteri russi, bloccando il comandante in una regione del Nord.
Nel colloquio col presidente Rabbani, che fu tra i primi a incontrarlo, e con Yunis Qanooni, ex ministro della Difesa e degli Interni, il chirurgo milanese ha suscitato ulteriore interesse per il progetto di «Emergency» lasciando capire che alla sua realizzazione potrebbe contribuire (ma pare sia già molto più di una ipotesi e di una speranza) la cooperazione italiana. «Vorrei che diciate al mondo intero - è intervenuto infine il professore di teologia Rabbani - che nell'Afghanistan settentrionale viviamo in condizioni terribili. Abbiamo bisogno di tutto, provviste alimentari, fertilizzanti, medicine. Le organizzazioni umanitarie si sono allontanate da Kabul perché, dopo l'uccisione dell'ufficiale dell'Onu in agosto, hanno paura...».
Hanno convenuto che Charikar sarebbe l'ubicazione migliore per il nuovo ospedale di «Emergency». È d'accordo il presidente; e alla fine lo è pure il ministro della Sanità, Sarah, che in un primo momento pensava a Talaqan, nel Nord, dove ultimamente è corso molto sangue. «Un laboratorio ortopedico - dice il ministro - sarebbe provvidenziale».
Una scelta, quella di Charikar, favorita pure da una singolare coincidenza: perché accanto al vecchio, tetro ospedale, dove Gino Strada ha «esordito» col bisturi, è sorto un casermone a due piani, non ancora ultimato, che doveva essere il nuovo ospedale. «Emergency» provvederà alla sua sistemazione definitiva e tra qualche mese entrerà in funzione. Parola di Kate.
La notizia che i Talebani hanno accettato di partecipare a un governo multietnico, diffusa a metà marzo, è stata accolta con molta cautela dal comandante Massud e dal governo di Rabbani: e Gino Strada è d'accordo con me quando dico che è prematuro illudersi su una pacificazione imminente del Paese. Ma nessuno può impedirgli di sperare che un giorno (chissà quando) le barriere saranno abbattute e potrà tornare a Kabul dove lavorò instancabilmente di bisturi nella sanguinosa primavera del '92. L'obiettivo, adesso, è di creare a Charikar una struttura ospedaliera come quelle di Suleimaniya e Battambang che hanno consentito a migliaia di persone senza piedi, senza gambe o senza braccia di continuare a vivere un'esistenza dignitosa. Racconta Kate: «A Sulaimaniya un uomo è rimasto a letto per 7 anni, avendo perso tutte e due le gambe. Quando Emergency gli ha procurato una sedia a rotelle, la sua vita è cambiata. Poteva muoversi, girare per strada, andare al bazar...». Hai scelto bene, Gino Strada. L'Afghanistan è ancora tutto pieno di
«pappagalli verdi» - come vengono festosamente definite le mine giocattolo anti-uomo - e nessun altro Paese al mondo ha più bisogno di questo di sedie a rotelle.

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AFGHANISTAN, LA GUERRA DEGLI SMERALDI (4 Luglio 1999)
>Ettore Mo


460042 Burqa

JANGALEK-VALLE DEL PANSHIR (Afghanistan) - Da una parte l'oppio e l'eroina, dall'altra smeraldi e lapislazzoli: a queste fonti, sempre abbondanti se non inesauribili, attingono i belligeranti della jihad, una guerra chiamata assurdamente santa che nell'autunno del '94 i
Talebani hanno scatenato contro il governo legittimo del presidente Burhanuddin Rabbani e contro il mitico stratega che lo difende, Ahmad Shah Massud. Una guerra che potrebbe continuare fino a quando i campi di papaveri nel sud-ovest del Paese cesseranno di partorire i loro fiori vermigli e la vena preziosa nelle montagne del Badakshan e del Panshir non sarà definitivamente esaurita.
Se soltanto un paio d'anni fa i Talebani respingevano con veemenza l'accusa di praticare il narcotraffico su vasta scala, adesso il tono delle loro proteste sembra meno drastico. Non hanno tenuto fede all'impegno preso con Pino Arlacchi - responsabile dell'Onu per il controllo degli stupefacenti - che aveva proposto lo stanziamento di 250 milioni di dollari in dieci anni purché cambiassero le loro colture. Soltanto un paio di mesi fa avevano annunciato la distruzione di mezza dozzina di laboratori segreti (per la conversione dell'oppio in eroina) nella provincia di Nangarhar, lungo il confine fra Afghanistan e Pakistan, ma non se ne fece nulla. I contadini (circa un milione e mezzo) hanno continuato a coltivare i papaveri nella regione (60 mila ettari) e l'Afghanistan si è aggiudicato il primato per la produzione dell'oppio nel mondo: 2.200 tonnellate nel '98, il 9 per cento in più dell'anno precedente. Con 10 tonnellate d'oppio si fa una tonnellata di eroina: i Taleb - se il dato è esatto - possono vantarsi di esportare in Europa l'80 per cento del letale prodotto.
Ahmad Shah Massud ammette senza difficoltà che smeraldi e lapislazzoli (di cui già favoleggiava Marco Polo quando 700 anni fa affrontava i valichi dell'Hindu Kush, diretto in Cina) «contribuiscono, insieme ad altre fonti, alla nostra sopravvivenza economica», ma fa slittare abilmente il discorso appena gli chiedi in che misura il contrabbando dei preziosi serva a pagare le forniture belliche della Russia e dell'Iran, che sono attualmente Paesi amici. «Le armi - taglia corto - le acquistiamo come tutti sui mercati internazionali».
Ed eccoci in cammino verso la montagna degli smeraldi, nella catena di Kharse Kanda. Ci accompagna Haji Quam che ha tra i picchi ben 22 miniere ed è scontato per noi rivolgerci a lui con un solo nome, Mr. Emerald, signor Smeraldo. Dal campo base di Khenji, che potrebbe evocare i villaggi montani della Febbre dell'Oro e si trova a 2.800 metri, si sale verso i 4.000. C'è la neve dopo le prime rampe di terra e sassi e la montagna comincia subito a cantare per le esplosioni. «Appena si vede nella roccia una polvere gialla che denuncia la presenza del minerale - spiega Mr. Emerald - si fa un buco inserendovi la dinamite. Le miniere sono in tutto 180 e danno lavoro a più di mille minatori. Non ci sono salari fissi e la vita è durissima: il ricavato è suddiviso tra i proprietari, i minatori, le spese di sostentamento; e il 10 per cento va allo Stato».
Le pareti rocciose della Kharse Kanda sono bucate come un gruviera. Cominciarono a bucarle soltanto 26 anni fa, quando alcuni montanari di Khenji scoprirono che la montagna era gravida di pietre preziose. «I pachistani - dice Haji Quam - sostenevano che le miniere fossero loro perché i primi smeraldi finirono nei loro bazar appena oltre frontiera, mentre noi eravano in guerra contro i russi. E fu proprio in Pakistan che 13 anni fa fu venduto a un americano di passaggio uno straordinario smeraldo per 3 milioni e mezzo di dollari. Un record!».
Una buona fonte assicura ora che anche Massud sia affascinato dallo splendore degli smeraldi e che solo qualche mese fa ne acquistò uno per 2 milioni di dollari: avvalorando le voci che si tratti di un business di famiglia, visto che suo cognato Rashideen possiede numerose miniere nel Panshir e ha avviato un prospero redditizio commercio con gli Emirati (amici dei Talebani), dove le pietre sono rivendute - dicono - con vertiginosi profitti. Difficile contraddire chi sostiene che gli smeraldi vengano «convertiti» in missili, cannoni, elicotteri, mine e proiettili per il proseguimento della guerra. Ma a differenza dell'eroina, gli smeraldi non uccidono. Dopo l'espansione a Nord della scorsa estate e la conquista di Mazar-i-Sharif (capitale settentrionale), i Taleb sembrano ormai essere i padroni assoluti dell'Afghanistan: non sorprende l'amara conclusione dell'Economist che considera Massud - confinato nelle regioni nord-orientali, il 10-15 per cento del territorio - «un perdente». Il «leone del Panshir» - ha scritto un giornale pachistano - è un pugile suonato, groggy, esausto, ormai rassegnato a subire la mazzata del k.o.
Seduto con la schiena appoggiata a un vecchio carro armato, in quello che è stato lo scenario delle sue leggendarie imprese contro i russi, il comandante non ha l'aria di uno che sta per gettare la spugna: «Come i russi dopo l'invasione - dice Massud -, i Talebani hanno gran parte del territorio, ma non la gente che lo abita. Il popolo afghano è con noi. E poi sono lacerati da profondi conflitti interni: mullah Omar non è più il capo assoluto dei Taleb, che non hanno più la compattezza di un tempo. Una parte si è schierata con mullah Rabbani... no, nessuna parentela col nostro presidente. Dopo la vicenda di Osama Bin Laden, cassaforte del terrorismo internazionale, i finanziamenti dell'Arabia Saudita e degli Stati Uniti ai Talebani sono stati notevolmente ridotti. Oggi i guerrieri di Dio possono solo contare sul Pakistan, che continua a sostenere la jihad, fornendo ai Taleb armi, munizioni, uomini e che di fatto ha assunto in Afghanistan il ruolo svolto dall'ex Unione Sovietica dalla fine del '79 al '92. L'obiettivo di Islamabad è quello di creare instabilità nella regione per trarne vantaggi politici ed economici. Ma i Talebani sono sempre più isolati internazionalmente e i loro sforzi per essere "riconosciuti" dall'Onu o dai governi di altri Paesi sono miseramente falliti. Ora noi siamo giunti alla conclusione che non sono più in grado di espandersi militarmente in altre zone».
Un ulteriore segno di debolezza i Talebani l'avrebbero dato a metà marzo quando, nell'incontro a Asgabat (capitale del Turkmenistan), i rappresentanti del mullah Mohammed Omar annunciarono la propria disponibilità a far parte in futuro di un governo di larga base, multietnico, sedendosi a fianco dei loro ex nemici. Troppo precipitosamente si gridò alla pace. In realtà c'erano molti scogli da superare: primo fra tutti la determinazione dei Talebani a conservare la leadership, che doveva restare nelle mani di mullah Omar, l'amir, guida e luce dei credenti.
«Decisione per noi inaccettabile - sentenzia il dottor Abdullah, braccio destro di Massud e viceministro degli Esteri - equivarrebbe a riconoscere l'integralismo dei Taleb, accettarne le pratiche assurde, come l'emarginazione spietata delle donne». Il governo di Rabbani ha certamente commesso degli errori nel tentativo di conciliare i precetti coranici con un sistema relativamente democratico all'occidentale, ma non gli si possono imputare misfatti come quelli compiuti dal regime teocratico dei Talebani. L'elenco è lungo e atroce. Mi limito a riferire che nel documentario sull'Afghanistan trasmesso su Rai Tre non è andato in onda un filmato che avrebbe sconvolto i telespettatori. Vi si mostra l'esecuzione a freddo di un uomo, cui viene recisa la gola con un coltello fino a quando - ultima agghiacciante sequenza - la testa gli penzola inerte dietro la schiena. E' concepibile che un puro Stato islamico, quale dovrebbe essere quello instaurato a Kabul dai guerrieri di Dio, ricorra a metodi così brutali?
Ma i Talebani che incontro a Barak, un villaggio nella parte alta della vallata, non sono più in grado di recitare il ruolo aggressivo che gli era stato imposto dai leader della jihad e sembrano rassegnati al loro destino: sono 364 prigionieri di guerra, catturati in zone diverse durante gli scontri armati coi mujahedddin. Tra loro, quattro ufficiali. L'80 per cento si rammarica di essersi schierato coi Taleb, molti confessano di essere stati reclutati con la forza o di averlo fatto per i pochi dollari di salario alla settimana, ma alcuni seminaristi delle madrasàt (le scuole rurali di religione ai confini col Pakistan) ammettono di aver semplicemente ubbidito ai loro mullah e insegnanti di teologia che li hanno spronati ad arruolarsi in nome di Allah: «E' la jihad, l'Islam è in pericolo nell'Afghanistan, affrettatevi, c'è bisogno di soldati e di martiri».
Qualcuno si lascia andare a dichiarazioni enfatiche da guerriero in lotta per la fede, ma alla fine hai l'impressione che ben pochi tra i prigionieri si siano resi conto che dietro la crociata dei Talebani c'è l'avidità del Pakistan e della multinazionali americane, impegnati nella realizzazione di un megaprogetto (2 miliardi e mezzo di dollari) per trasportare petrolio e gas dal Turkmenistan all'Oceano Indiano attraverso l'Afghanistan. E perché Massud si opponeva, bisognava toglierlo di mezzo.
Quando arriva l'ora della preghiera, tutti scendono al fiume - il Panshir - che traccia un'ansa azzurra proprio sotto il carcere. E qui lo spettacolo è commovente e strano, perché i detenuti e i loro carcerieri mujaheddin s'inginocchiano insieme e insieme baciano la terra e insieme pregano lo stesso Dio in nome del quale si sono scannati e continuano a scannarsi, Allah o ahkbar, Dio il più grande....
Giù a Charikar, farraginosa città-bazar a circa 60 chilometri da Kabul, dove in autunno, grazie alla intraprendenza del chirurgo milanese Gino Strada e della sua organizzazione umanitaria Emergency entrerà in funzione un nuovo ospedale, si vive tra il timore di un ritorno - il terzo - dei Talebani e la speranza che i mujaheddin sferrino un'offensiva - l'ultima - sulla capitale. Su questo, Ahmad Shah Massud è cauto: «Siamo certo in grado di risolvere il conflitto militarmente, ma speriamo di farlo attraverso i negoziati». Anche il presidente Rabbani raccomanda la «via diplomatica». Per Haji Almas («diamante»), che controlla il fronte dell'Old Road, «ogni offensiva è per il momento da escludere», mentre per Bismillah Khan, comandante sul fronte della New Road (13 chilometri da Kabul), «è ora di passare da una strategia di difesa a una manovra offensiva». A consigliare una soluzione negoziata è soprattutto il timore che quella militare possa concludersi in un bagno di sangue per i civili.
Può sorprendere il fatto che a Charikar e in altre città e villaggi rimasti sotto la tutela del governo legittimo la maggior parte delle donne continuino a girare per strada avviluppate nel burqa, anche se nessun Tribunale religioso glielo impone, come avviene a Kabul e in tutte le zone controllate dai Talebani, dove quel mortificante e asfissiante «sudario» è d'obbligo. Molte lo fanno perché succubi di una tradizione che affonda nei secoli; altre perché temono che la loro «frivolezza» (il volto, le caviglie scoperti) potrebbero essere puniti un domani, qualora tornassero i Taleb.
Ma ci sono donne che non hanno paura di loro né dei loro anatemi, come un'infermiera dell'ospedale di Charikar che, interrogata sull'opportunità o meno di mummificarsi nel burqa, ha semplicemente risposto: «Fosse per me, lo brucerei». O come un gruppetto di giovani donne che ho incontrato nel villaggio di Bayan, in mezzo a una campagna arida, solcata, dopo la pioggia, da sentieri di fango. Tutte e sei hanno in capo un velo, ma il volto è scoperto: Fatima, Zaina, Najiba, Farida, Faria, Maria. La più giovane ha 18 anni, la più anziana 35. Tutte sono munite di kalashnikov, che - dicono - hanno usato contro i Talebani durante «l'ultima invasione». Per dimostrare che lo sanno usare escono nel cortiletto e una dopo l'altra sparano un paio di colpi contro il muro di cinta. «Entravano in casa e saccheggiavano - racconta Fatima, 20 anni -. Ci sono stati anche tentativi di violenza. Ma le nostre donne preferivano togliersi la vita piuttosto che subirli e così sono morte in tante. Scrivetelo, ditelo ai governi del vostro Paese, chiedete all'Onu di intervenire. Noi continueremo a combattere finché ci sarà la pace».
Quando siamo usciti dal villaggio, le amazzoni afghane ci hanno salutato con l'arma in pugno.

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IL SATELLITE SVELA LE VIE DELL’ OPPIO AFGHANO (23 Ottobre 2000)
>Ettore Mo


460277 Il Comandante della guarnigione Taleban di Tagab col suo vice

L’accordo stipulato con i Talebani per distruggere le coltivazioni è fallito. Ma Pino Arlacchi, capo dell’agenzia per il controllo della droga, rilancia la sfida Il satellite svela le vie dell’oppio afghano
Campi, depositi, laboratori localizzati dall’Onu con l’aiuto della tecnologia russa
VIENNA - Autunno del ’97, ultima settimana di novembre: in quei giorni a Kandahar, capoluogo della provincia omonima nel sud-ovest dell’Afghanistan, i leader dei Talebani s’impegnarono solennemente a sopprimere le coltivazioni dei papaveri da oppio su tutto il territorio nazionale per sostituirle con colture alternative, grano, mais, agrumi. Una decisione sollecitata con grande fervore dall’ex senatore italiano Pino Arlacchi, da pochi mesi alla guida dell’Agenzia dell’Onu per il controllo della droga nel mondo (Undcp, United Nations Drug Control Programme), che aveva scelto l’Afghanistan come prima tappa nel suo tour attraverso i Paesi maggiormente coinvolti nel narcotraffico.
Forti dell’approvazione del loro leader supremo, Mohammed Omar, e ansiosi di sottrarsi all’esecrazione universale per l’enorme quantità di droga che, scaturita dai loro papaveri, invadeva tutti i mercati del mondo, i Talebani aderirono all’appello dell’Onu con entusiasmo anche eccessivo: e infatti ad Arlacchi, che prudentemente proponeva una graduale trasformazione delle colture (cinque, dieci anni), assicuravano che sarebbero bastati dodici mesi per far sparire dai campi tutti i «fiori del male».
Già allora, l’Afghanistan batteva il «triangolo d’oro» birmano nella produzione dell’oppio, che si trasformava in eroina: per debellare questo primato occorrevano massicci finanziamenti, e prima di lasciare Kandahar il direttore della Undcp aveva promesso lo stanziamento di oltre 16 milioni di dollari per il progetto-pilota.
In tre anni, almeno 10 di quei 16 milioni sono stati investiti nel programma «risanatore». Ma i Talebani non hanno mantenuto la promessa: e in questi giorni, presentando un dettagliatissimo rapporto nel palazzo dell’Onu a Vienna, Pino Arlacchi è costretto ad ammettere che l’Afghanistan è rimasto «il più grande produttore di oppio nel mondo» ed è anche il «più grande fornitore d’eroina» per i mercati occidentali.
Statistiche tanto precise quanto allarmanti stabiliscono che la produzione è passata dalle 2.700 tonnellate metriche del 1998 alle 4.600 del 1999. Contro la produzione totale dell’oppio non raffinato nel mondo nel 1999 (6.000 tonnellate), quella afghana costituisce pertanto il 75%.
Ma se questi dati possono ingenerare il sospetto che anche organizzazioni internazionali come la Undcp sono impotenti davanti alla piovra onnivora del narcotraffico, il rapporto presentato a Vienna è in grado di esibire i risultati straordinari di una inchiesta-sondaggio-spionaggio, eseguita dall’Agenzia dell’Onu con le tecnologie più avanzate, che offrono una mappa completa e minuziosa dell’attività dei procacciatori di droga in Afghanistan: dai campi di papaveri, localizzati con precisione millimetrica dai satelliti, ai depositi di oppio non raffinato, ai laboratori per la conversione in eroina, alle strade e ai trasporti oltre confine in Tajikistan, all’identificazione dei «padroni» della merce e dei trafficanti, alle bande armate lungo le frontiere e sui valichi.
Al buon esito dell’operazione ha contribuito notevolmente, dal dicembre del 1999, la cooperazione delle truppe di frontiera russe, che pattugliano e controllano il confine tra Tajikistan e Afghanistan.
«Tutto ciò è avvenuto in seguito a un incontro che ho avuto il settembre dell’anno scorso a Mosca col presidente Putin - dice Arlacchi - e col quale abbiamo stabilito un accordo: via libera al nostro programma nella battaglia antidroga».
I satelliti della compagnia di Stato russa «Rosvooruzhenie» hanno scrutato, frugato e fotografato anche gli anfratti più remoti del territorio afghano e sono così riusciti a localizzare e a identificare una quarantina di depositi di narcotici, più diversi laboratori, la maggior parte di questi dislocati a ridosso del confine col Tajikistan: se i calcoli contenuti nel rapporto sono esatti, dalle bocche di questi forni mortiferi escono 240 tonnellate di narcotici l’anno, più 120 tonnellate di eroina pura. Che finisce soprattutto sui mercati dell’Unione Europea (consumo annuo, 97 tonnellate) e negli Stati Uniti: ma anche altrove, naturalmente, a nutrimento della sitibonda moltitudine dei tossicodipendenti del mondo, che sono milioni.
In meno di dieci mesi lo spionaggio satellitare intrapreso dalla Undcp, unitamente a una più intensa e sofisticata attività di intelligence svolta nell’una e nell’altra parte della frontiera, ha rivelato la più vasta rete di traffico di eroina mai identificata. Ciò che risulta chiaramente dalle mappe è che oltre il 90% dei territori adibiti alla coltivazione dell’oppio rimane sotto il controllo dei Talebani, ormai padroni di quasi tutto il Paese: che dispongono anche, di conseguenza, della maggior parte dei depositi e dei laboratori scoperti dall’inchiesta.
Alle forze della cosiddetta Alleanza Settentrionale (i mujaheddin del presidente Rabbani e del comandante Massud), confinante nella Valle del Panshir e nel distretto periferico di Badakhshan, confinante col Tajikistan, non resta quindi che una minuscola fetta della «torta», meno del 10%. Ma è quanto basta per non scagionarle dall’accusa che la droga sia una delle fonti di finanziamento della loro (più che legittima) lotta contro gli invasori. Non esistono stime, nel rapporto, sulla reale quantità di denaro che lo sfruttamento del narcotraffico porti nelle casse di Massud: ma tenendo conto delle sproporzioni territoriali tra le due fazioni, è lecito desumere che essa non vada oltre un decimo del malloppo incamerato dai Talebani, oscillante dai 10 ai 30 milioni di dollari l’anno.
Comunque, sia gli uni che gli altri racimolano la «sporca moneta» con un identico sistema di tassazione: che è del 10% sul prodotto agricolo e del 20% sui profitti dei narcotrafficanti.
Ma se è vero che le due forze in conflitto in Afghanistan traggono vantaggi, sia pure in misura diversa, dal traffico della droga, sarebbe un errore presumere che siano esse a dirigerlo e a controllarlo.
Dall’indagine è emerso con chiarezza che questo è il compito di vere e proprie organizzazioni criminali, totalmente estranee a stimoli ideologici o politici, che si sono via via assestate nel Paese e se lo sono poi «diviso», esercitando la propria autorità in questo o quel distretto e patteggiando tra di loro per un comune obiettivo: assicurarsi che il flusso dei narcotici segua indisturbato il proprio iter e giunga, indisturbato e intero, a destinazione. I loro profitti, soltanto per la merce assemblata nel Tajikistan, raggiungerebbero gli 80 milioni di dollari l’anno.
Evidentemente, questi gruppi criminali, che sono i padroni dei depositi e dei laboratori più grandi e hanno quindi il controllo assoluto sul flusso del contrabbando, devono poter contare sulla collaborazione di doganieri e guardie di frontiera, che dispongono di depositi più piccoli e a cui consentono di lavorare in proprio, a un livello, per così dire, «artigianale». E a questo punto non è più possibile negare il coinvolgimento diretto di Talebani e mujaheddin dell’Alleanza nella rete del narcotraffico internazionale. Nel rapporto c’è un lungo elenco, con tanto di nome, cognome, funzione e grado, di autorità civili, funzionari e comandanti militari (dei Reggimenti di fanteria 1007, ad esempio, o del 908), dislocati soprattutto in località di confine.
Nella stagione 1998-99, la coltivazione dei papaveri si è estesa su 91 mila ettari di territorio, un aumento - informa il più recente sondaggio - del 43% in un solo anno. I raccolti più abbondanti riguardano le province di Helmand e Nangarhar (il 49 e il 26%, rispettivamente), ma i fiori rossi del male sbocciano un po’ ovunque, aprendo macchie squillanti nel verde della campagna, grazie alle cure di circa 200 mila famiglie di contadini, che non hanno mai conosciuto altre colture. Dei 7.541 villaggi disseminati in 121 distretti rurali, che gli esperti dell’Onu hanno ispezionato nei mesi scorsi, 6.645 «vivevano di oppio».
Il trasporto della droga in Tajikistan non presenta eccessive difficoltà se l’area da attraversare è pianeggiante, come quella che da Kunduz (Nord Afghanistan) si estende fino a Pyanj e a Moskovski, sull’Amu Darya, il mitico Oxus che, serpeggiando, traccia il confine tra i due Paesi. Una discreta rete stradale consente di arrivare al fiume con camion, furgoni, jeep. È l’itinerario prediletto, il più facile: e da qui passa infatti il 60% della merce. Ben diversa è la musica se la carovana deve partire da Faizabad, nel Badakhshan, zona dura, fredda, montagnosa, con valichi inaccessibili, dove quasi 800 anni fa era forse transitato anche Marco Polo, in rotta per la Cina: qui se va bene, te la fai col mulo; se no a piedi, col carico sulla schiena, come i nostri «spalloni».
Le operazioni di contrabbando lungo il fiume - informa il rapporto della Undcp - sono protette da una ventina di bande armate, le più grandi con cinquanta uomini, muniti di kalashnikov, mitragliatrici pesanti e lanciarazzi, che pattugliano in continuazione la zona a bordo di jeep Uaz, made in Russia o in Uzbekistan. I contrabbandieri, dell’una e dell’altra sponda, si tengono perennemente in contatto via radio e i drug-dealer più importanti ricorrono al telefono satellitare per definire gli ultimi dettagli delle consegne e accertarsi che avvengano secondo gli accordi prestabiliti. Insomma, un crimine consumato neanche troppo clandestinamente ed effettuato come una normale transazione commerciale o industriale, con l’ausilio delle tecnologie più avanzate.
Il rapporto-sondaggio presentato a Vienna suona come il preludio a una «dichiarazione di guerra», questa volta non più dilazionabile, contro le armate del narcotraffico in Afghanistan; e la cooperazione delle truppe di frontiera russe in Tajikistan induce a sperare che venga presto e definitivamente debellato il vertiginoso, ignobile contrabbando di eroina nella regione. O si tratta di un’illusione? «Ora che siamo riusciti a rivelare la rete del narcotraffico in Afghanistan - dice l’ex senatore Pino Arlacchi - l’obiettivo finale non può che essere lo smantellamento dei depositi e laboratori identificati e la distruzione di tutte le riserve di narcotici accumulate. Ma scopo di tutta l’operazione era anche quello di mettere i Talebani con le spalle al muro, richiamarli alle loro responsabilità».
Evidentemente, gli brucia ancora il ricordo del tentativo fatto tre anni fa e fallito per colpa dei Talebani, che non seppero mantenere gli impegni. E attualmente la situazione non è più incoraggiante di allora: «Vede - spiega uno stretto collaboratore di Arlacchi -, l’altra volta abbiamo speso nell’impresa anti-droga 9.998 milioni di dollari dei 10 che avevamo a disposizione. Adesso non abbiamo più un soldo. Occorre un intervento immediato della comunità internazionale, visto che il problema del narcotraffico, con le sue infinite ramificazioni, non riguarda soltanto l’Afghanistan ma il mondo intero. I dati contenuti nel rapporto parlano chiaro».
La grande fucina afghana sforna eroina a getto continuo che aerei, navi, treni, Tir e automezzi d’ogni genere scaricheranno poi a migliaia di chilometri di distanza, a Mosca come a Londra, a Karachi, a Parigi, a Istanbul, a Francoforte, a New York. Le vie del narcotraffico internazionale sono infinite: la western route , la eastern route , le northern rout es , la via del Caucaso, la via dei Balcani, la via dell’Asia Centrale, ecc... E alla fine di questi trasferimenti trovi sempre in attesa dei ragazzi e delle ragazze che spendono gli ultimi soldi per una bustina di neve e finiscono poi in ospedale o al manicomio o al cimitero.
La documentazione raccolta ancora una volta sull’argomento da Pino Arlacchi, con impegno e ostinazione, costituisce indubbiamente una solida base per rilanciare un nuovo piano di battaglia contro uno dei più nefasti fenomeni del nostro tempo, sempre che le organizzazioni internazionali decidessero di intervenire e assecondarlo.
Personalmente, sono perplesso. Poiché seguo da oltre vent’anni le vicende luttuose dell’Afghanistan, vorrei solo sperare che il narcotraffico non si riveli una fatalità imperitura come le sue guerre: che non finiscono mai.

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L'ULTIMA BATTAGLIA DEL "LEONE" MASSUD (8 Aprile 2001)
>Ettore Mo


460319 Kabul, Inverno 1996
L’ultima battaglia del «leone» Massud
Il leader dei mujaheddin afghani: «Chiedo aiuto all’Europa contro i Talebani»


STRASBURGO - Questo è un mestiere che porta al cinismo, ma ci sono occasioni in cui ci si può anche commuovere. A me è toccato qui a Strasburgo, l’altro giorno, quando ho visto approdare nell’aula magna del Parlamento europeo Ahmad Shah Massud, il «leone del Panshir», leader dei mujaheddin afghani, dal ’96 assediato nella sua vallata dall’orda dei Talebani, gli «studenti coranici». Questo eroe dimenticato da tutti si è presentato con il suo vestito afghano, di lino bianco, protetto appena da un soprabito beige, il berretto di felpa buttato indietro sulla dura lana dei suoi capelli, sempre più grigi sulle tempie. Ha solo 47 anni. È stato sempre in guerra, lo è stato da quando ne aveva 17 o 18.
Io lo incontrai la prima volta nell’81, ricordo un villaggio sulle rive del fiume Panshir, che ruggiva sotto la casa. Stavano tutti seduti in una stanzetta e lui, il capo, impartiva ordini e istruzioni tattiche ai suoi subalterni, per la battaglia del giorno dopo. Parlava un po’ di francese, era di buona famiglia e il padre, un ufficiale del re Zahir Shah, lo aveva mandato al Licée di Kabul, frequentato dai ragazzi bene della capitale. Mi chiese, stupito: «Cosa fa lei qui?». Ricordo che gli risposi: «Mi hanno parlato tanto bene di lei».
Durante l’invasione sovietica, ha difeso la sua vallata con i denti. Sette offensive, tutte respinte. L’obiettivo dei russi era di snidarlo, farlo fuori o comprarlo: perché Massud era il simbolo stesso della Resistenza afghana. Dal fondo valle le colonne dei blindati con la stella rossa si inerpicavano verso le sommità dell’Hindukush, ma a un certo punto erano costrette a fermarsi sotto il fuoco di sbarramento dei mujaheddin. Quel dannato figlio di puttana di Ahmad Shah Massud! In catene lo volevano portare a Kabul, per impiccarlo sulla pubblica piazza.
Nell’84 s’era sparsa la notizia che fosse morto in battaglia o che era stato rapito dagli sciuravi (i russi) o che s’era venduto, come Giuda, per trenta denari. Ma a Peshawar, in Pakistan, dov’erano acquartierati i sette gruppi della Resistenza islamica, nessuno ci credeva. Era un giorno di primavera quando bussai alla porta dello Jamiat Islami (il partito di Massud) e mi trovai di fronte un vecchio amico e braccio destro del «Leone del Panshir», Massud Khalili, che ho appena rivisto e abbracciato ora a Strasburgo. «Vado a cercarlo - gli dissi - e sono certo che è vivo e vegeto». «Sei pazzo, pazzo come lui, ma sono certo - mi disse - che lo troverai: e in buona salute».
Ci vollero 40 giorni per arrivare in Panshir, nonostante la resistenza e la buona volontà del mio cavallo Taraki. Massud stava seduto su una collinetta e aveva tra le ginocchia una mappa militare su cui disponeva noccioline e chicchi di uva passa. « Vous étes le bienvenu », siete benvenuto, disse appena mi vide sbucare. La settima offensiva sovietica era finita, come le altre, in un fiasco. «L’avevano battezzata - disse con quel suo sorriso sempre dolcemente ironico - " Goodbye , Massud", addio, Massud: adesso sono costretti a cambiarla in " Au revoir , Massud", arrivederci. Stia tranquillo, amico mio, prima o poi li butteremo fuori, e per sempre, questi sciuravi ».
I russi se ne andarono nell’89, ma il Leone del Panshir e gli altri leader della Resistenza islamica dovettero lottare per altri quattro anni contro il regime filo-sovietico di Najibullah, che Mosca continuava a sostenere.
Rividi Massud nell’aprile del ’92, il giorno prima che i mujaheddin prendessero Kabul e dessero il colpo di grazia all’agonizzante governo marxista. Ho un’immagine vivida del comandante che passa in rassegna i suoi uomini nell’accampamento di Jabal Saraj (una sessantina di chilometri dalla capitale) e raccomanda loro, uno per uno, di «comportarsi bene»: niente prede di guerra, doveva essere una grande festa per tutti gli afghani che avevano riconquistato la libertà.
Massud s’era illuso. Tornarono a galla gli antichi rancori tribali ed ecco che il governo democraticamente e legittimamente eletto a Kabul sotto la presidenza del professor teologo Rabbani (leader dello Jamiat Islami) e con Massud vicepresidente e ministro della Difesa viene immediatamente aggredito dai falchi dello Hezbi Islammi, che fa capo a Gulbuddin Hekmatyar, il torvo irriducibile rivale del Leone di Panshir fin dai tempi dell’invasione sovietica. È guerra civile per oltre due anni, perché Hekmatyar giorno e notte scarica missili su Kabul da un’altura a 25 chilometri dalla capitale, facendo strage di civili. Ma nel momento in cui anche questo nemico interno viene ridotto all’impotenza, ecco che piombano in casa i Talebani.
È stata certamente la loro ultima, sciagurata impresa a fine febbraio (la distruzione del Buddha a Bamiyan) a spingere a Massud a uscire dall’isolamento e a intraprendere il suo viaggio per l’Europa. È venuto a supplicare, a chiedere aiuto. È difficile credergli quando sostiene che il conflitto con i cosiddetti «guerrieri di Dio» potrebbe essere risolto con una «soluzione politica» e non manu militari : per questo, ha detto, l’Afghanistan ha bisogno dei Paesi europei perché «facciano pressione sul Pakistan» affinché desista dal suo appoggio (politico, economico e, soprattutto, militare) ai Talebani.
A tu per tu, mi lascia capire che la situazione nel territorio da lui controllato (che è sostanzialmente il Panshir) è drammatica. Nella zona c’è un milione di profughi, le difficoltà sono state amplificate dalla carestia e da un clima perfido, manca il cibo, manca tutto. È stato di grande aiuto l’ospedale instaurato dal chirurgo milanese Gino Strada, che recentemente ne ha aperto un altro a Kabul: «A chi mi chiede quale è stata la mia reazione a questa iniziativa - dice Massud -, cioè al fatto che sia stata instaurata una struttura sanitaria proprio nel feudo dei nostri nemici, rispondo che ne sono felice e che la condivido in pieno: perché va a beneficio di tutti noi, degli afghani».
È evasivo sulla situazione militare, che le cronache più recenti hanno definito «precaria» e «pericolosa» per i suoi mujaheddin, soprattutto al Nord: «Ciò che posso dire - è il suo commento - è che la nostra gente ha ormai capito chi sono veramente i Talebani, ed è solidale con noi. Credo che si siano resi conto, finalmente, che dietro i Talebani c’è un Paese straniero, il Pakistan».
Che ne è di Hekmatyar in questi giorni? «Ah - taglia corto -, è quello di sempre. Sta tramando con il mullah Omar, il capo dei Talebani, e con il re dei terroristi islamici integralisti, il super miliardario saudita Osama Bin Laden, per instaurare in Afghanistan una vera teocrazia. Si sono dati appuntamento a Kandahar».

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Maria Grazia Cutuli
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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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with A. S. Massud
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