FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
NEL VENTRE DI KABUL, CAPITALE DI MACERIE (23 Marzo 2001) >Maria Grazia Cutuli copyright and courtesy of Corriere della Sera
460075 Kabul, Jade Maywand Alley
Nel ventre di Kabul, capitale di macerie
Visita al museo della città afghana: «Abbiamo tenuto le opere che non offendono l' Islam, il resto è distrutto» In vendita anche merci semiproibite, come macchine fotografiche, sigarette, cosmetici. Circolano cassette di film: «Titanic» è la pellicola più amata, seguita da James Bond
DAL NOSTRO INVIATO A KABUL - Najibullah Ahmadiyar ha un sorriso beffardo mentre scende le scale veso i sotterranei del museo di Kabul, la testa coperta da un turbante nero, il viso ornato dalla barba, i baf fi illuminati dalle lampade a petrolio. Il direttore mostra i pochi oggetti esposti: una porta di marmo del IX secolo, reperti con l' iscrizione islamica, cocci di terracotta ammassati negli scaffali. «Perché insistete tanto sulle statue? Qui ci sono solo ceramiche». L' editto, promulgato dai talebani contro gli idoli pre-islamici, applicato con la demolizione dei due Buddha giganti di Bamiyan, e la distruzione di ogni icona del Paese, sembra aver ringalluzzito l' orgoglio del regime. «Abbiamo t enuto solo le opere che non offendono la nostra religione - interviene Hammed Naim Safi, alto funzionario del ministero della Cultura e dell' Informazione -. Il resto è stato distrutto. Non c' è un solo Buddha intero in tutto l' Afghanistan». Il giro del museo non offre nessuna prova sulla campagna iconoclasta che ha allarmato la comunità internazionale. Non ci sono detriti, polveri che testimonino la demolizione delle statue «contrarie allo spirito dell' Islam». Ma è l' unica concessione fatta dai talebani, le milizie integraliste che governano Kabul, alla stampa straniera. L' unico mattatoio artistico individuabile, visto che la valle di Bamiyan è interdetta «per motivi di sicurezza». All' interno, per la verità, resta poco da esibire. Il museo, costruito nel 1931, è sopra una spianata di macerie, davanti al relitto del palazzo di Re Ammanullah, sulla Darwan Aman Road, un boulevard surreale costeggiato da mura diroccate, residenze sventrate, tracce di rocce corrose da fatti lontani. Il corpo centrale dell' edificio è stato restaurato, il resto, pericolante senza soffitto, è ancora squarciato dalle bombe lanciate dai mujaheddin durante la guerra civile dei primi anni Novanta. «Dei centomila reperti raccolti in Afghanistan - spiega il direttore - ne sono rimasti solo 30 mila». Gli altri sono stati distrutti, saccheggiati o rivenduti oltre frontiera. Da allora il museo è stato aperto solo una volta, ad agosto scorso, e per quattro giorni. Gran parte di quel che è stato salvato , catalogato dalla Spach, società archeologica affiliata all' Unesco, è stato depositato nelle cantine del ministero della Cultura. Impossibile stabilire quindi che cosa è stato distrutto in nome del Corano, e che cosa potrebbe essere invece sparito, con la copertura dell' editto, per essere contrabbandato altrove. Lo scempio delle opere d'arte è l' ultimo specchio in cui si riflette l' Afghanistan. Non bastano le motivazioni religiose per giustificare la campagna demolitrice del governo. È vero che tra i Talebani trionfano le fazioni più radicali. Ma dietro la distruzione si affaccia anche la sfida all' Occidente. Assediati dalle sanzioni per l' appoggio dato a Osama Bin Laden, accusati di traffico di droga e violazione dei diritti umani, i guerrieri d' Allah sembrano aver voluto riaccendere così i riflettori sul Paese. «Abbiamo garantito pace e stabilità dopo vent' anni di guerra», è il primo slogan recitato dal portavoce del ministero degli Esteri Faiza Ahmad Faiz, non appena si me tte piede a Kabul. «Abbiamo abolito le coltivazioni d' oppio. Adesso ci aspettiamo che la comunità internazionale riconosca il nostro governo». Un' operazione propagandistica difficile da gestire. Il fronte con l' opposizione, guidata dal comandante Massud, è ancora aperto. Guerra e carestia hanno spinto fuori dai villaggi 700 mila persone e altre 300 mila oltre la frontiera dell' Iran e del Pakistan. E anche Kabul, laboratorio della Sharia, la legge coranica, a quattro anni e mezzo dall' arrivo dei talebani, non è certo la vetrina migliore per ricavare una legittimazione, accordata finora solo dall' Arabia Saudita, dal Pakistan e dagli Emirati Arabi. Città di spie Kabul, messe alle costole di ogni straniero. Capitale di macerie, di mendicanti che stazionano a ogni incrocio, di bambini laceri e affamati. Per chi la ricorda negli anni in cui i mujaheddin, dopo la caduta del regime filosovietico di Najibullah, si combattevano da un quartiere all' altro, la capitale sembra aver fatto qual che progresso. In molte zone è tornata l' acqua e la luce. Ingorghi di automobili e biciclette guidano verso le strade del centro, in un' incalzare di bancarelle che smerciano frutta, verdura, pezzi di ricambio, orologi e persino merci semiproibite, come macchine fotografiche, sigarette, cosmetici importati dal Pakistan. Nonostante i bandi del regime, sul mercato sotterraneo circolano cassette di film: «Titanic» è la pellicola più amata, seguita dai James Bond d'annata. Ma la polizia religiosa, il braccio armato del ministero per la Promozione della virtù e la repressione del vizio, non ha mai sospeso le sue incursioni tra la popolazione. Gli agenti piombano dai loro pick-up, afferrano, bastonano, imprigionano chiunque violi i sacri editti . Uno degli ultimi riguarda il taglio dei capelli alla Leonardo Di Caprio: arrestati i barbieri e i loro clienti. I bambini giocano con gli aquiloni lungo le sponde fangose del fiume Kabul. Ma è proibito anche questo, così come parlare con gli stranieri o riceverli in casa. Afisullah, 41 anni, una laurea in ingegneria presa a Mosca, si azzarda a farlo solo tra le mura di un ospedale gestito da occidentali. «Sotto i mujaheddin abbiamo visto le nostre case distrutte e saccheggiate, i nostri parenti deportati e uccisi, ma questi che sono adesso al potere non sono meglio degli altri. Viviamo con il terrore di infrangere le loro leggi. Tutto è considerato un crimine». Esiste una vita sotterranea, fatta di angoscia e paura. «In casa ascoltiamo musica, guardiamo qualche film, ma bisogna chiudere porte e finestre, in modo che nessuno veda. I nostri figli crescono senza istruzione. La stessa storia dei Buddha è la prova di come i talebani stiano distruggendo ogni traccia di cultura». La miseria è un destino di massa: «Un' intera classe professionale è senza lavoro. Qui si campa con pochi dollari al mese». L' embargo ha svalutato la moneta nazionale del 40 per cento, 70 mila afghani per fare un dollaro. Ma anche senza il tonfo della valuta, l' economia è quella di un Paese in guerra, delegata ai traffici del bazar o agli aiuti della comunità internazionale. Le donne restano avvolte nella burqa. Si avventurano a gruppi di tre o quattro. A passi incerti sotto i loro sudari, per far la spe sa al mercato. L' unico diritto riconosciuto è quello alle cure mediche. Dottoresse e infermiere sono le sole autorizzate a lavorare. Alla periferia di Kabul, tra case di argilla e palazzi, si nasconde uno dei pochi posti franchi del regime: una clinica gestita da «Médecins sans frontières», dove le madri a viso scoperto passano le ore in attesa di far visitare i propri bambini. Anis ha 29 anni, i capelli raccolti in una coda di cavallo, il rossetto e gli occhi bistrati. «Lavorare qui dentro è l 'unico modo per non cadere in depressione. Fuori tutto ci soffoca». Una prigione in cambio di sicurezza? «Ma quale sicurezza. I talebani arrivano dentro le nostre case - incalza una dottoressa -. Con la scusa di cercare armi, saccheggiano e rubano». Non è questo quello che propagandano i guerrieri di Allah: il progetto teocratico di un emirato di fede sunnita che superi in «purezza» ogni altro regime islamico sembra naufragare in una serie di editti formali, più che in una vera morale religiosa . Come la distruzione dei Buddha. «Se ne sono andati all'altro mondo», sghignazza Ahmed, giovane talebano in carriera. È il loro vanto. Sarà forse anche il loro fallimento.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]