FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
060 Maria Grazia Cutuli in uno degli opifici di Darah
Colpi secchi. Raffiche di mitra. Poi ancora colpi di fucili. A Darra Adamkhel, una quarantina di chilometri dalla città pakistana di Peshawar, il giorno comincia con l'odore pungente della polvere da sparo. Tirano tutti, giovani, vecchi, bambini, tra le baracche di legno aperte lungo uno stradone giallastro e polveroso. Ma non è una guerra. Sparare in questo lembo di Far West, che da oltre un secolo sopravvive tra le lande aride e montagnose dell'Asia meridionale, nelle turbolente «aree tribali» sul confine tra Pakistan e Afghanistan, è normale, quotidiana amministrazione. Non si combatte. Semplicemente si provano e si collaudano le armi: copie artigianali di Uzi, AK-47 Kalashnikov, mitragliatrici Sten, M-16, che qui vengono prodotte e vendute in libertà. Una fila di botteghe dalle insegne coloratisime, aperte direttamente sulla strada, reclamizza la merce con il sistema «cash and carry». Chiunque può comprare, senza bisogno di presentare nè il porto d'armi nè le proprie generalità
Darra, abitata da 100 mila afridi, clan dell'etnia pathana, il più numeroso gruppo tribale del mondo (tra i 15 e i 17 milioni di persone), si snoda su un solo rettilineo, tra il frastuono e la folla di quello che sembrerebbe un comune bazaar orientale: capre che masticano ciuffi d'erba, cibo e frutta sulle bancarelle. Ma a poche centinaia di metri dalle porte della città, dove si gira solo con autorizzazione del governo pakistano, scortati da una guardia locale, si spalanca il sorprendente e primitivo duty-free di morte. Gli artigiani di Darra copiano di tutto: armi russe, cinesi, americane, europee, sempre e rigorosamente lavorate a mano. L'arsenale comprende rifacimenti, e talvolta anche originali, dei vecchi Juzail, i lunghi fucili afghani del secolo scorso, collezioni di Lee Enfield 303, fucili Springfield, Mauser, Beretta calibro 9. Ma soprattutto Kalashnikov.
«Continua a essere l'arma più venduta, niente rinculo, nè salti. Leggerissima», dice Mohamed Zamir Khan, 35 anni, proprietario del primo negozio sulla strada, sollevandosi dalla stuoia sulla quale sta languindamente sdraiato a fianco di scaffali pieni di fucili, pistole, bombe a mano, munizioni. «Una copia costa tra le 15 mila e le 10 mila rupie». L'uomo, vestito con la tradizonale jalabjia, impiega una ventina di giorni a fabbricarne un esemplare. A venderlo molto meno, visto che la sua media è di 100 pezzi l'anno. Mostra subito il suo patrimonio: l'imitazione di un 30 Mauser modello cinese e di una semiautomatica tedesca 30 Bora. Più un fucile inglese d'inizio secolo.
Ma quello che l'armaiolo si diverte a maneggiare, come tutti i venditori di Darra, è la penna-pistola, più economica (dalle 200 alle 400 rupie), copiata da un modello inventato per gli agenti del Kgb. Svita la biro, mette dentro un proiettile, calibro 6,35, tra i più piccoli che esistano. Poi si affaccia per strada, preme e scarica il colpo in aria: «Letale? Eccome, con un aggeggio così, se si mira da vicino, si può far fuori una persona», assicura. «Ma qui non la usiamo per questo: uccidere è contro i costumi religiosi musulmani dei popoli pathani».
A chi e a che cosa sono destinate le armi di Darra rimane un mistero, almeno a sentir lui. In teoria quello che viene venduto nelle 200 botteghe cittadine non potrebbe nemmeno passare lo scalcinato check point che, una decina di chilometri più in là, separa il territorio governato dalle autorità pakistane dalle «aree tribali». Ma qui, in queste regioni selvagge, comprese all'interno della «Frontiera della provincia del Nord Ovest» (zona a statuto speciale che copre un quarto dell'intero Pakistan), la parola legge ha un significato molto particolare. Il potere è gestito dalla Fata, l'amministrazione delle aree tribali, che fa capo ad «agenti politici» dotati di milizie proprie. Le autorità non rispondono al governo pakistano, con il quale intrattengono rapporti tutt'altro che distesi, ma solo al Pashtun-wali, il codice non scritto d'onore e di vendetta dei guerrieri pathani. «Vendiamo i fucili agli uomini delle tribù», ammette alla fine l'armaiolo, «Ma solo come strumento per la loro protezione personale. Diverso è invece l'uso che ne fanno i pakistani. Vengono dal Punjab e da Karachi, dove ogni giorno si ammazzano come cani. La scorsa settimana ho venduto venti pezzi a uno solo di loro».
Il commercio bellico di Darra risale alla colonizzazione britannica. Furono infatti gli inglesi a voler conservare le «aree tribali» come zona cuscinetto contro gli afghani e la Russia imperiale, permettendo nel 1897 a pathani e afridi di tenersi le loro fabbriche d'armi. Una forma di extraterritorialità quanto meno azzardata in una regione abitata da antichi guerrieri di montagna, a un tiro di fucile dal leggendario Khyber Pass descritto da Rudyard Kipling, valico per generazioni d'invasori piombati sulle piane dell'India e in tempi recenti, durante la guerra in Afghanistan, per schiere di combattenti islamici. E infatti, l'autonomia concessa dalla Gran Bretagna, conservata fino ad oggi, ha permesso il proliferare di ogni tipo di traffico illegale. Soprattutto durante l'invasione sovietica in Afghanistan, Darra (che in lingua locale pashtu significa «passo») e i suoi dintorni sono diventati tra i più attivi crocevia di compravendita di armi della zona. Pare siano passati da qui i 300 missili terra-aria «Blowpipe» venduti dai servizi segreti britannici e dalla Cia ai mujihaddin nel 1985. Buco nero anche per il contrabbando, l' area tribale: tonnellate di merci, soprattutto articoli di elettronica, sbarcati al porto di Karachi e dirette a Kabul, arrivano qui e si fermano, per poi rifornire gli immensi «smuggler market» alla periferia di Peshawar. Per non parlare del floridissimo commercio di droga, liberamente venduta, come si fosse ad Amsterdam, in appositi «hashish shop» disseminati nei villaggi vicini alla citta delle armi.
«Altri tempi», dice Mohammed Zamir Khan lustrando la canna di un 8M-M in vendita a 3 mila rupie. «Ormai niente più droga a Darra. E nemmeno armi pesanti». Il primo ministro pakistano Benazir Bhutto, a capo di uno Stato in questo momento lacerato da lotte interne, scontri politici e religiosi tra partiti ed etnie, ha tentato infatti di mettere un freno alla produzione di mitragliatrici antiaeree che fino a poco tempo fa si acquistavano a un paio di milioni, così come al traffico e alla lavorazione di stupefacenti. In quanto ai mujihaddin, che nel vicino Afghanistan, a sei anni dal ritiro dei sovietici, continuano a combattersi, fazione contro fazione, l'armaiolo non li considera più clienti privilegiati: «Qualche volta scambiamo le armi: loro ci forniscono vecchi fucili russi o americani che a noi servono come prototipo per far le copie».
A dispetto delle restrizioni, il commercio rimane comunque florido. Oltre le botteghe dalle facciate di legno in stile «Ombre rosse», la strada principale di Darra nasconde un intreccio di cortili interni che accolgono i depositi. Inutile sperare di trovare pezzi d'artiglieria pesante. Di visibile sono soprattutto i Kalashnikov che vengono riprodotti con fantasiose variazioni, come il calcio mimetico a macchia di leopardo. Khaled, un ragazzino di 12 anni, batte e ribatte un pezzo di ferro destinato a diventare un proiettile,. Accanto a lui, una cesta piena di imitazioni perfette di cartucce 7.62 Nato. Il padre invita a provare uno dei suoi fucili: «Sparare costa solo il prezzo della munizione, 50 rupie», dice. Più o meno 200 lire. Il rischio che le armi prodotte manualmente si inceppino c'è, eccome. «Gli originali», lo ammette anche l'uomo, «costano di più ma sono certamente migliori». A Darra però vale il codice d'onore: un arma che non funziona se riconsegnata prima del calar del sole, viene subito sostituita.
Il cuore della città palpita però in periferia, in un labirinto di vicoletti fangosi, tra canali di scolo e malandate casupole dai tetti in lamiera. Colpi di martello, sfregar di pialla, fischiar di trapano, scoppiettii di fiamme indicano che laboratori ed officine sono in piena attività. Mohammed Fateh, 32 anni, due fratelli armaioli, è considerato uno dei più ricchi produttori di Darra. Nello stanzone semibuio della sua fabbrica lavorano sessanta operai, in vera e propria catena di montaggio: chi liscia le canne, chi controlla i tamburi, chi lima i proiettili A fine giornata devono consegnare una cinquantina di pezzi. Giovani, vecchi, bambini. A Darra non fa differenza: «E' la tradizione degli afridi. Il mestiere dei nostri padri e dei nostri fratelli», dice un'operaio scaricando in aria il caricatore dell'ultimo manufatto. «Le armi sono il nostro pane quotidiano».
Pane a passione. All'uscita della città, un vecchio alto e macilento apre la bocca in un gran sorriso entusiasta e sdentato: «Good Bye, italiani. Siete gente fortunata. Beretta...che meravigliose pistole!»
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]