Postcards From Bosnia: E' Pace Triste a Sarajevo
DEATH OF A HERO
Ahmed Shah Massud
> TRIBUTEWi> INTERVIEW
> MESSAGE TO THE
PEOPLE OF THE USA

NEW YORK, NEW YORK!
Tribute to
a defaced city
FAREWELL MARJAN...
Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
Dear Visitors, these next pages are a heartful tribute to Maria Grazia Cutuli, sweetest friend, valued travelmate and skillful writer for Corriere della Sera, major italian newspaper, who was ambushed and killed by unknown assailants on November 19 2001, while traveling from Jalalabad to Kabul (Afghanistan) together with colleagues Julio Fuentes (spanish newspaper El Mundo), Harry Burton and Hazizullah Haidari (cameraman and photographer, Reuters).
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E' PACE TRISTE A SARAJEVO (1996)
>Maria Grazia Cutuli
copyright and courtesy of Corriere della Sera

43002 Sarajevo, 1996
I serbi restituiscono ai musulmani bosniaci le abitazioni proditoriamente occupate soltanto dopo averle date alle fiamme


Tutto quello che è rimasto intatto, in un angolo, sotto la finestra, è un vaso di ceramica verde con un pianta grassa rinsecchita. Laila, 40 anni, musulmana-bosniaca, una pelliccia di visone che le scivola dalle spalle, si china con movimenti lenti, mentre ciocche di capelli rossi le cadono sul viso. Scuote la testa, raccoglie quel vaso dalla vernice scrostata, lo stringe al petto, come una reliquia. Si rialza con passo incerto sui tacchi imbrattati di fango, guardandosi attorno con lo sguardo raggelato. Nelle stanze di quella che tre anni fa era la casa della madre, prima che il sobborgo di Ilidza, alla periferia di Sarajevo, diventasse con la guerra una delle roccaforti serbe, solo cumuli di calcinacci. Il parquet è stato divelto, i pensili della cucina fatti a pezzi, gli infissi scomparsi, le mura turchesi scarabocchiate con croci cetniche. Dappertutto i segni inconfondibili di inquilini abusivi e devastatori.
Gli accordi di Dayton che hanno diviso in due la Bosnia, da una parte la Federazione croato-musulmana, dall'altra la repubblica Srpska (serba), con il 19 marzo, giorno del «trasferimento di autorità» dei sobborghi occupati dai serbi alla municipalità di Sarajevo, hanno dato a Laila, come ad altri musulmani, il diritto di ritornare nelle vecchie abitazioni. Ma i 40 mila, forse 60 mila serbi che hanno lasciato i loro territori hanno distrutto, saccheggiato, bruciato case, uffici, centrali telefoniche, impianti di acqua, gas, luce. Cosicchè il tentativo di ricreare un nuovo ordine tra i gruppi etnici dilaniati dalla guerra, rischia di aprire nuove ferite, di cambiare per sempre la geografia politica e sociale della ex Jugoslavia, di trasformare la pace in una saga triste e dolorosa.
Se il mondo celebra Dayton, Laila no. Sale in macchina per tornare a Sarajevo con la sua piantina sotto il braccio, mentre tra i casermoni incendiate di Ilidza riecheggiano i canti stonati di miliziani serbi ubriachi che scaricano contro il cielo le ultime munizioni. Non c'è gioia negli occhi della donna. Come non ce n'è nelle parole di Dragan, un serbo di 33 anni, incontrato a Grabavica, un altro dei sobborghi «passati di autorità», che sputa rabbia mentre carica una vasca da bagno sul protabagagli della macchina: «Dove vado? Il più lontano possibile dei musulmani. A cercare un lavoro a Belgrado. A ricominciare a combattere appena si potrà...»
E non c'è troppa gioia neanche a Sarajevo, la città martire di questi tre anni di guerra, dove i blindati dell'Ifor, l'Implementation force della Nato, 60 mila militari incaricati di far rispettare la pace, pattugliano giorno e notte le strade, lasciando sulla neve le impronte spinate dei loro cingoli.
Welcome to Sarajevo, dice la scritta sul muro di una casa sventrata, lungo la strada dell'aeroporto. Benvenuti in un dopoguerra faticossismo, dove si tenta di ricominciare a vivere, di dimenticare i 250 mila morti che la guerra ha prodotto, i 4 milioni di profughi, i 2 milioni di granate cadute sulla capitale. Benvenuti in questo mosaico impazzito che gli accordi di Dayton non riescono a rimettere in ordine. Mentre i serbi vanno via, Sarajevo riprende i suoi ritmi , certamente. Ma non è facile ritrovare i segni di una vera ricostruzione. Forse sulla Sniper Alley, il boulevard dei cecchini, dove si sono riaccese come le lampadine delle mille abitazioni sui fianchi delle colline. O davanti alla discoteca dove i ragazzi fanno la fila, impazienti di entrare. Forse tra le luci dei bar, dei ristoranti, che nascondono le sagome cieche delle architetture di stampo asburgico, o nel centro storico della città, l'antica Bascarsija di legno, affollata di moschee e resti ottomani, dove le botteghe tradizionali sfornano cevapcic, pizze di pane imbottita di carne.


43095 Sarajevo, una delle arterie principali, al tramonto

Sherif, 65 anni, un omone grande e grosso come un pascià che per sopravvivere affitta un paio di camere a 40 marchi a notte, contro i 320 di alberghi come l'Holiday Inn e i 240 del Bosnia, abita a ridosso dell'antica cattedrale cattolica. Apre in ciabatte, invitando gli ospiti a togliere le scarpe secondo l'usanza musulmana. «Non si spara e questa è la cosa più importante», dice, mentre il televisore acceso trasmette a ritmo martellante le immagini della guerra passata, stragi, urla di feriti, pianti di madri, parate militari, funerali di «eroi», «Uno dei miei fratelli ha perso entrambe le gambe, tagliate di netto da una granata. L'altro è sparito nel nord della Bosnia», racconta subito l'uomo.
L' odore pesante delle sigarette Drina riempe la stanza, ma non si sta male a casa di Sherif. La stufa di zinco caricata a legna, elettrodomestico che si è rivelato fondamentale in ogni casa bosniaca durante questi anni di guerra, surriscalda il soggiorno, dove Fatima, la moglie, una donna di 46 anni dai tratti decisi, ancora molto belli, fuma nervosamente una sigaretta dopo l'altra. «Il gas viene un giorno sì e un giorno no», spiega l'uomo, «l'elettricità funziona sempre, il telefono pure, ma solo per chiamare in Bosnia. L'acqua va e viene». E' tutto quello che per ora può assicurare, praticamente gratis, il governo della Federazione croato musulmana. Il resto, lavoro, denaro, benessere, è un miraggio. I mercati sono pieni di roba, ma i prezzi vanno su standart europei, mentre la maggior parte della gente ha un reddito inferiore ai 100 marchi al mese, poco più di 100 mila lire. «E poi» ricorda l'anziano signore con tono da cicerone, «c'è un problema enorme per il nostro paese: in città ci sono solo 46 mila soldati da smobilizzare, 46 mila giovani che per il momento non hanno idea di come andrà il loro futuro».
Se i due figli dell'affittacamere, lontani dalle macerie della Bosnia, hanno deciso di rimanere ad Ancona dove lavorano come carpentieri, per i ragazzi di Sarajevo l'unico conforto è quello di poter riprendere gli studi, ora che scuole e università sono finalmente in grado di assicurare lezioni regolari. O il blando piacere di riunirsi nei bar, fino alle 11, prima che scatti il coprifuoco. Ce un pub che ha appena aperto vicino al Palazzo della presidenza. L'hanno chiamato Trust, fiducia, con l'obiettivo di promuovere i gruppi musicali che si stanno organizzando in città. Vladimir, 34 anni, nome d'arte Don Guido, una barbetta a pizzo e due occhi neri da guerriero ottomano, sta seduto vicino al biliardo, dove giocano ragazze alte e sottili inguainate in pantaloni scuri. L'anno scorso, dopo che i vecchi amici avevano lasciato Sarajevo per sfuggire al destino di soldati e tentare la fortuna a Parigi, armato di una Fend Stratocaster, la mitica chitarra di Jim Hendrix, Don Guido è riuscito a rimettere insieme un gruppo di tre persone, The Missionary: «Il nostro genere? Funk-mandalism», ride. «Funk, non fond-amentalism». Ha combattuto anche lui, come tutti gli altri, ma adesso, dice è stato appena smobilizzato e si prepara a festeggiare con un concerto. «Bisogna aver fiducia», ripete, «Bisogna ricominciare a ricostruire le nostre vite».
Zlasko, 24 anni, il viso pallido e lo sguardo fisso su una lattina di birra, si passa nervosamente le dita tra i capelli chiari. «Ricostruire? Ma cosa? Per chi non l'ha vissuto è difficile capire che cosa è successo qui negli ultimi tre anni e che cosa sta cambiando adesso. Combattevamo prima. C'era adrenalina, c'era la lotta per restare vivi, ogni giorno, ogni minuto. Ora non c'è più niente. E' tutto finito...» Ricominerà a studiare Zlasko, certamente, «perchè solo con un diploma tecnico può sperare di avere un lavoro, di partecipare alla ricostruzione», ma per il momento si arrabatta come può facendo l'interprete d'inglese e il giornalista per la Reuter. Più fortunato di Adam, 33 anni, musulmano scappato all'inizio del conflitto da un quartiere serbo, che ogni sera, a dispetto di un diploma di ragioniere, con la mimetica addosso, sta al mercatino di Kampardzica, in fila con altri soldati e una decina di donne, a vender sigarette per portar da mangiare a moglie e figli.
La guerra ha spezzato ogni legame con il passato e reso vani i progetto per il futuro, anche se c'è chi non si è arreso alla logica dell'annullamento. Bojan e Dalida Hadzihalilovic, marito e moglie, 32 anni lui, 29 lei, disegnatori, in questi ultimi tre anni hanno continuato a lavorare, denunciando gli orrori di Sarajevo con una grafica polemica e provocatoria.


43073 Bojan e Dalida Hadzihalilovic con alcune delle loro opere più note

Hanno lanciato un poster diventato famoso in tutto il mondo: il logo della Coca cola reinventato con la scritta Enjoy Sarajevo, goditi Sarajevo. Hanno prodotto cartoline, lavorato per una decina di giornale, spesso chiusi in cantina, talvolta con guanti e cappello per ripararsi dal freddo, approfittando delle rare ore di elettricità per accendere il computer. Sono finiti anche a Milano, invitati per una mostra curata da Achille Bonito Oliva. E ancora oggi continuano a produrre immagini choc: il segretario dell'Onu Boutros Boutros-Ghali nudo che bacia il posteriore al presidente serbo Milosevic, o ancora il presidente croato Tudjiman in un amplesso con Milosevic. «Quando è scoppiata la guerra», spiega Bojan, «sono stato chiamato sotto le armi, ma anzichè darmi un kalashnikov mi hanno chiesto di curare la grafica per l'Esercito bosniaco» Oggi insegna all'accademia d'arte, chiamato a supplire uno dei tanti professori scappati con la guerra. «E' difficile tornare nella realtà, ricordarsi che esistono obblighi quotidiani come studiare... I ragazzi non hanno più energia, l'hanno sprecata durante la guerra, vagano per la macerie di questa città e non riescono a vedere altro». Per tener impegnati gli studenti Bojan ha affidato loro il compito di preparare alcuni disegni per Sarajevo 2000. «Uno di loro mi ha detto: professore ma lei è in grado di pensare al futuro? Sarajevo, gli ho risposto, sarà un grande laboratorio di sopravvivenza».
A due passi dal mercato di Marsala Tito, quello che nell' aprile 1994 due granate trasformarono in un groviglio di corpi maciullati, le vetrine del negozio di Benetton, aperto l'anno scorso con gran clamore, espongono i saldi. Non ci sono più i sacchi antigranata davanti alla facciata, la gente entra ed esce. E anche se per il momento il fatturato non registra grandi balzi in avanti, la direttrice, Vesna Kapidzic, è una delle poche persone a Sarajevo che ostentano soddisfazione e ottimismo. «La gente ha sempre seguito la moda italiana, anche durante la guerra. Tutti quelli che uscivano dalla città tornavano indietro carichi di capi di Gucci, di Armani, di Missoni. Molti li copiavano e li cucivano a mano» Questo spiega perchè le ragazze di Sarajevo, nonostante le ristrettezze siano sempre ben vestite? La direttrice ride: «C'è un detto inglese che recita: siamo troppo poveri per poterci permettere roba a buon mercato. E comunque, abbiamo anche noi i nostri designer». Come Amna Kunovic, giovane stilista dai capelli biondi ed enormi occhi azzurri, che ha cominciato con qualche metro di fustagno e una macchina da cucire arrivata dalla Germania in un camion di aiuti umanitari, e ha poi creato una sua etichetta «Fashion made in Sarajevo», sfornando lunghe giacche di lana un po' infeltrita, dalle tinte cupe, nero, viola, come questi anni di guerra e di miseria. Presto andrà in Germania per una sfilata di moda, puntando su un po' di successo per riscattarsi dalla paura.
Lontano dal quadrilatero del centro, dove il brulicare di gambe, di occhi, di visi fa quasi dimenticare il passato, un groviglio metallico di carcasse d'auto, un bambino che corre, i colpi di un kalashnikov, riportano immediatamente alla mente i fantasmi dei giorni dell'assedio. Ma è una finzione, il set sul quale Ademir Kenovic, ex sceneggiatore del regista Kusturiza, sta girando il primo film prodotto a Sarajevo.


43265 Ademir Kenovic durante la lavorazione di "The Perfect Circle" a sarajevo nel Marzo 1996

The Perfect Circle, Il circolo perfetto, risposta musulmana ad Underground, la pellicola di Kusturiza premiata a Cannes, messa all'indice nella capitale bosniaca come filo-serba.
Altri spettri aleggiano nella piccola cittadella che racchiude i padiglione dell'ospedale Kossevo: le urla dei feriti trasportati dalle ambulanze, le sale operatorie dove i chirurghi tentavano, spesso sotto le bombe, di operare d'urgenza, gambe, braccia, ventri dilaniate dalle granate. E gli incubi quotidiani di una popolazione afflitta al 80 per cento da quella che gli psichiatri chiamano la «sindrome post-trauma», lo shock causato dai bombardamenti, dal terrore costante di essere ammazzati. Zeliko Trograncic, un medico di 50 anni, dal passo claudicante per la ferita alla gamba provocata dallo sparo un cecchino, i capelli bianchissimi, il volto scavato dietro due lenti dalla pesante montatura nera, non riesce a nascondere il timore degli effetti che questa guerra potrà ancora avere in futuro: «Le malattie psichiatriche sono aumentate di 15 volte rispetto al periodo che ha preceduto il conflitto: anziani e bambine le categorie più colpite, ma credo che neanche i giovani si siano salvati. La "sindrome di Sarajevo" è come quella del Vietnam, stati depressivi, insonnia, flash-back, stati di agressività. Ed è una bomba ad orologeria, non sparisce con la pace, può tornare a manifestarsi anche tra vent'anni».


43281 Il Dr. Zeliko Trograncic del servizio psichiatrico del Kosovo hospital a Sarajevo

Il medico si rifiuta di mostrare il suo reparto. Preferisce affidare l'orrore alle sue parole: «Ho sotto cura un miltare che ha perso la sua unica figlia, una bambina di 7 anni. Una granata è arrivata sulla casa, mentre erano assieme. L'onda d'urto l'ha spinto contro il muro, ha paralizzato i suoi riflessi. Ha visto la bambina insanguinata, l'ha sentita gridare: aiutami papà, aiutami e lui non poteva muoversi. E' successo nel 1992, ma lui non riesce a liberarsi da quella immagine, la sogna, gli ritorna in mente come un allucinazione. Non credo che riuscirà mai a guarire». Una smorfia: «Siamo tutti vuoti, terribilmente vuoti. La città potrà pure essere ricostruita, ma le nostre vite?»
Sarajevo potrà essere ricostruita. La Bosnia intera, 2 mila e 400 chilometri di strade, 58 ponti, mille chilometri di ferrovia, il 60 per cento delle case, metà delle linee telefoniche, quasi tutte le industrie, sono da rimettere in piedi. La Banca mondiale, le agenzie delle Nazioni Uniti, le organizzazioni non governative sono tutti schierati in prima linea per supportare la rinascita del nuovo stato. Ma è un impresa dalle proporzioni mastodontiche. Chiuso a lavorare di domenica nei suoi uffici del municipio, il sindaco Tarik Kupusevic, un elegante signore di 43 anni dagli occhi azzurri, snocciola la lista delle emergenze: «Per ripristinare le infrastrutture, le reti del gas, della luce, dell'acqua, del telefono, ci vogliono almeno 4 miliardi e 200 milioni di dollari. Per non parlare delle abitazioni....»


46mgc075 Il sindaco di Sarajevo, Tarik Kupusevic intervistato dall' autrice di questa storia

Ci vorrebbe pure, il sindaco non lo dimentica, che il mercato del lavoro si riavviasse: «Prima della guerra a Sarajevo 150 mila persone avevano un impiego regolare. Oggi quelli che guadagnano più di 500 marchi al giorno sono al massimo 3 mila, tutti impiegati negli organismi internazionali. Io come sindaco e docente universitario guadagno in tutto 280 marchi al mese». E poi c'è il problema dei profughi che andranno via da Sarajevo, di quelli che torneranno dei sobborghi, Ilidza, Grabaviza, Vogoska, passati sotto la Federazione croato-musulmana, con le decina di migliaia di appartamenti evacuati dai serbi da ridistribuire tra la popolazione... «Abbiamo conservato tutti i documenti, gli attestati di proprietà, così non ci dovrebbero essere problemi a reintegrare le famiglie nelle loro abitazioni, almeno in quelle non troppo danneggiate. decimila persone nei prossimi due mesi partiranno da Sarajevo, 50 mila arriveranno per l'inizio dell'estate. E del resto è importante che gli abitanti di questa città ritornino, si ricompattino...».


43279 Sarajevo, Marzo 1995: un militare italiano di IFOR

Fuori dal municipio il boulevard dei cecchini, con la sua fila di palazzoni dai vetri fracassati e dagli androni gelidi, con il passaggio incessante dei blindati dell'Ifor, torna a mostrare le ferite insanabili della città. L'ultimo giro con alcuni militari del contigente italiano, 2 mila e 500 bersaglieri arroccati nei punti più delicati di Sarajevo, ci riporta nei sobborghi abbandonati dai serbi, a Grabavica, oltre quello che un tempo era chiamato Ponte delle fratellanza. E' Nicola Sgherzi, il maresciallo dei Boe, il nucleo Bonifica ordigni esplosivi, diventato «eroe» nazionale da quando ha attraversato un campo minato per mettere in salvo una donna ferita, a indicare il percorso che per tre anni ha diviso una fazione per l'altra.


43076 Sarajevo, Marzo 1996: il Maresciallo Nicola Sgherzi del nucleo BOE (Bonifica Ordigni Esplosivi)

La «linea di confrontazione», come la chiamano in gergo: una gruviera di condomini oggi controllati dall'Ifor, ieri covo di decine di cecchini che tiravano da un palazzo all'altro, di fronte allo scheletro di cemento dell'ex Hotel Bristol. «Fate attenzione a mettere i piedi dove li metto io», consiglia il maresciallo. I giardinetti condominiali coperti di neve nascondono infatti trappole letali, migliaia di mine sparse alla periferia di Sarajevo, destinate chissà per quanti altri anni ancora a seminare morte. I militari hanno cominciato a toglierne qualcuna, ma toccherà alle autorità della Federazione croata musulmana bonificare le terre inzuppate di sangue e di neve della ex Jugoslavia.
Sulla pista dell'aeroporto, intanto, sta per decollare uno dei tanti «shuttle» dell'Ifor diretti in Italia. Maybe airlines, dice la scritta allo scalcinato check-in. Maybe, cioè «forse». Lo stesso nome che avevano dato i Caschi blu dell'Onu alle linee militari, quando le batterie serbe lanciavano i loro missili verso il cielo. Il giubbotto antiproiettile e l'elmetto per salire a bordo non servono più. Ma l'incognità di quel nome resta. Chissà, forse per scaramanzia.

copyright and courtesy of Corriere della Sera

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Maria Grazia Cutuli
sketch courtesy and © F.Sironi

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Farewell, good ol' Marjan...
The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself

Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope.  However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]

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