FAREWELL MARJAN... Marjan, the one-eyed lone
lion is no longer the king of
Kabul zoo
PICTURES from the grenade attack!
STORIES by Fausto Biloslavo
INTERVISTA COL GENERALE BRUNO LOI (19 GIUGNO 1997) >Fausto Biloslavo e-mail the writer
39098 Il Gen. Bruno Loi durante la riconquista del checkpoint "Pasta" del 09 Luglio 1993
D: Generale come vive questi giorni di denunce e polemiche. Stava forse meglio in guerra a Mogadiscio?
R: Sono molto amareggiato, perché hanno il sapore di una vendetta, di un desiderio di gettare fango su una cosa bella, costata sudore a dodicimila ragazzi e sangue a 11 di questi giovani.
D: E allora passiamo alle denunce sollevate dal settimanale "Panorama". Prima accusa: la presunta tortura con i fili del telefono a un somalo nel campo di Giohare da parte del maresciallo parà Valerio Ercole. Cosa ne pensa?
R: Stiamo cercando di capire che cosa possa essere accaduto realmente. Quello che emerge è un quadro squallido, in cui inserisco pure l'individuo ritratto con i fili, che in quel momento deve aver perduto il senso della logica ed il rispetto dell'istituzione che rappresentava.
D: Il maresciallo ha sostenuto che voleva solo impaurire il prigioniero somalo. Cosa gli direbbe, tenendo conto che si è fatto anche immortalare?
R: Che si tratta di un comportamento molto leggero, superficiale, stupido. Un comportamento, però, che mal si concilia con la determinazione, la ferocia, la crudeltà di un vero torturatore.
D: Seconda accusa: una donna somala che subisce violenza da parte di un gruppo di soldati italiani al check point Demonio sulla strada fra Mogadiscio e Balad...
R: E una sequenza oscena, che mi fa provare disgusto ogni volta che la guardo. Cos'altro posso aggiungere? Se non che i giovani che le stanno attorno sono quelli che abbiamo educato nelle nostre famiglie, nelle nostre scuole. L'esercito li accoglie per soli dodici mesi e se hanno dentro di sé delle tendenze perverse, certamente non saranno le forze armate a poterle cambiare. Lei mi dìrà che dovevamo controllare questo genere di comportamenti... noi l'abbiamo fatto. Ricordo che proprio quel posto di blocco doveva essere pattugliato tutta la notte. In Somalia su 70mila chilometri quadrati del nostro settore agivano 2800 paracadutisti, ovvero un soldato ogni 26 chilometri. Avere tutto costantemente sott'occhio non era umanamente possibile.
D: Terza denuncia: una jeep zeppa di somali sulla quale gli italiani hanno sparato per divertimento...
R: Ci sono documenti e testimonianze che hanno già smentito questa versione dei fatti. A questo proposito vorrei fare una considerazione. Quando un ragazzo è in condizioni di stress, avverte una situazione di pericolo, sente una raffica di mitragliatrice, oppure assiste alla cattura di un prigioniero, o coglie una mezza frase sulla rete radio..., questo ragazzo ha 20 anni e raccoglie degli elementi con i quali si costruisce una sua verità. Tornando al campo racconterà la sua storia rendendola credibile alle orecchie di chi non era con lui. Che a sua volta la riferirà ad altri, magari arricchita di ulteriori particolari e così via. Questa è la spiegazione che dò alle tante chiacchere saltate fuori in questi giorni sui misfatti del contingente.
D: Ma lei metterebbe la mano sul fuoco, che in Somalia non ci siano stati degli eccessi?
R: No, perché già le fotografie dei fili del telefono e della donna somala testimoniano degli eccessi vergognosi, ovviamente da provare fino in fondo. E non mi stupirei se ne fossero accaduti altri, perché su una popolazione di 12mila ragazzi possono essercene 50, 20, 30 che commettono porcherie o atti delinquenziali. Questo però non deve essere assolutamente generalizzato e considerato come comportamento abituale del contingente.
D: Lei ha rilevato violenze da parte dei suoi uomini in Somalia?
R: I miei comandanti e io abbiamo punito qualche centinaio di soldati, rimpatriandone diversi, perché ritenuti non idonei al servizio in quella missione. Nessuna tortura o stupro. Il caso più grave è stato quello di un calcio a una donna somala durante la distribuzione dei viveri
D: Il Canada ha sciolto un reparto aviotrasportato per le violenze in Somalia. Potrebbe essere il destino della Folgore?
R: Io credo propno di no, perché sarebbe uno degli errori più madornali che questo Paese potrebbe commettere. La Folgore è sotto tiro, ma non merita di venir sporcata. Si attribuiscono storiacce di cui la brigata non ha alcuna colpa. Questo corpo è assolutamente fedele alla Costituzione e in grado di assolvere tutti gli incarichi che lo Stato italiano decide di affidargli. Chi propone di sciogliere la brigata, evidentemente non vuole il bene dell'Italia.
D: Perché si è dimesso?
R: Non mi sono dimesso, ma ho fatto un passo indietro affinché le indagini e le inchieste in corso possano procedere rapidamente. Io stesso ho bisogno di maggiore libertà e tempo per raccogliere i dati sui fatti che ci vengono contestati. Dopo quattro anni la memoria può avere qualche lacuna.
D: Cosa pensa della campagna stampa in corso?
R:E' una campagna triste e distruttiva.
D: Si sente abbandonato?
R: Alla porta dell'aereo ci si presenta uno per volta. Quando il paracadutista è in volo è solo, ma quando atterra si ricongiunge con i suoi compagni.
D: Il Paese ha voltato le spalle ai baschi amaranto?
R: L'Italia benpensante no, ma quelli che serbano vecchi rancori contro le forze armate e sete di scandali, ci hanno già processato esprimendo giudizi sommari che fanno male. In Somalia siamo andati anche per loro, per tutta l'Italia.
43060 Resti umani - presumibilmente di civili bosniaci in fuga da Zepa e da Srebrenica, "safe areas" spazzate via dalle milizie del Generale Mladic nell'Agosto 199 - rinvenuti in una fossa comune a Nova Kassaba
La vecchia fabbrica Koran per carri armati ha mantenuto solo una patetica scritta all'entrata, che non si illumina da tempo. Ora ospita gli uffici governativi della presidenza della Republika Srpska, il 49% della Bosnia Erzegovina. Ufficialmente la padrona di casa è la lady di ferro dei Balcani, Biljana Plavsic, che da tempo preferisce i palazzi di Banja Luka, nel nord ovest della repubblica, lontani da Pale. Forse perché a Koran rischierebbe di incrociare spesso Radovan Karadzic, leader storico dei serbi di Bosnia, il ricercato numero uno per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia, con il quale non intrattiene più gli ottimi rapporti di un tempo. Pale è un ex località di villeggiatura a quindici chilometri da Sarajevo, la capitale bosniaca. Durante la guerra questo paesotto è diventato famoso come quartier generale dei politici serbi, raramente sfiorato dalla furia dei combattimenti. Davanti all'ex stabilimento di tank i poliziotti serbi sono in tenuta da combattimento. Giubbotto antiproiettile, kalaschinkov con doppio caricatore e addirittura maschera antigas agganciata alla gamba. Dopo il controllo di sicurezza proseguo scortato fino al retro della palazzina principale dove è posteggiata una Mercedes nera con finestrini oscurati. Nella hall attende un generale in borghese per accompagnarmi al secondo piano lungo tappeti rossi e corridoi spaziosi. Funzionari indaffarati non ti degnano di uno sguardo, ma vengo ben presto fatto accomodare nella stanza del generale a fianco di un ufficio ben più spazioso. Intravedo nell'anticamera una segretaria carina dai capelli rossi. Rimango solo per qualche minuto quando alle 12.15 di un venerdì di maggio apre la porta ed entra, Radovan Karadzic l'uomo più odiato della Bosnia. Spalanca un sorriso e si affretta a confermare un «come vede sto bene, è tutto ok». Immancabile completo grigio, 52 anni ben portati, un po' dimagrito, scavato in viso, ma il ciuffo ribelle e brizzolato gli è rimasto come segno distintivo. La comunità internazionale gli ha imposto di abbandonare tutte le cariche ufficiali, di non comparire né in pubblico, né sui media e teoricamente di non influenzare la scena politica locale. A lui e al generale Mladic il Tribunale de L'Aja ha dedicato due atti d'accusa nel '95 per genocidio, crimini contro l'umanità, mancato rispetto della convenzione di Ginevra e gravi violazioni delle leggi di guerra spiccando anche dei mandati di cattura internazionali. Karadzic ha sempre respinto le accuse con sdegno ma ora spiega sardonico che «si occupa più di economia che di politica, perché il paese ha bisogno di risollevarsi». L'accordo era chiaro: nessuna intervista, solo un breve incontro di cinque minuti. Il primo con un giornalista occidentale da quando non può apparire pubblicamente.
La zona di Pale è nel settore di controllo del contingente italiano composto da 1782 uomini. Il primo reparto in pattuglia che incontro, subito dopo essere uscito dall'ufficio di Karadzic, è composto da un blindato e una camionetta con la bandiera di San Marco dei fanti di marina. Sono a cinque chilometri dal super ricercato de L'Aja, quasi al bivio della strada fra Sarajevo e Rogatica. «Abbiamo il compito di arrestare gli accusati dal Tribunale solo se ci passano davanti, li riconosciamo e siamo in condizioni di sicurezza per farlo. Quando transitiamo nei pressi dell'ex fabbrica Koran non dobbiamo controllare se all'interno ci sono i criminali di guerra che ci lavorano», spiega il generale Mauro Del Vecchio, 51 anni a giugno, occhialini tondi e baffetti. In realtà un ufficiale dei reparti operativi ha rivelato che mister K, come è chiamato in codice il leader serbo, viene segnalato spesso nei suoi spostamenti e attentamente monitorato, ma non c'é la volontà politica di arrestarlo.
A questo problema ci sta pensando l'alto comando della Nato a Bruxelles di concerto con Washington, Parigi e Londra. E' pronto il piano per un blitz di forze speciali combinate di vari paesi, che avrebbero già inviato in Bosnia degli uomini in ricognizione. L'operazione condotta senza coinvolgere direttamente le truppe multinazionali presenti sul terreno durerebbe 18 ore. Centinaia di uomini impiegati e trasportati via elicottero sotto il comando Nato e del Pentagono. L'obiettivo è catturare il più alto numero di presunti criminali di guerra e primo fra tutti Radovan Karadzic, che secondo una fonte attendibile della comunità internazionale «non giungerebbe mai vivo davanti ai giudici de L'Aja». Gli italiani sono restii a queste azioni spettacolari, ma in caso di luce verde non avrebbero voce in capitolo per fermare gli eventi.
«Vanno tutti portati davanti alla giustizia. Sappiamo, però, che l'arresto dei criminali di guerra ha delle implicazioni politiche pesanti in un paese come questo, dove a settembre si apriranno le urne per le difficili elezioni locali», spiega Thomas Migliorina, portavoce dell' Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa (Osce) a Banja Luka. Quindi o il mega blitz scatta entro fine giugno, almeno otto settimane prima del voto, oppure bisognerà attendere il prossimo anno e seguire molto da vicino gli ultimi sei mesi di permanenza in Bosnia della forza di pace.
43159 Milan Martic, ripreso a Banja Luka durante l'intervista (vedi anche qui) «Mi hanno bollato come criminale di guerra, ma siamo sicuri che qualcuno voglia veramente arrestarmi? In tutti i conflitti chi perde paga e noi serbi della Kraijna siamo gli sconfitti, anche se i veri criminali sono Clinton, Kohl e anche il vostro ex ministro degli esteri Gianni De Michelis che hanno lasciato crollare e poi distruggere la Jugoslavia». Parola di Milan Martic, 42 anni, leader in esilio dei serbi della Croazia, ricercato con mandato di cattura internazionale per aver ordinato il lancio di missili su Zagabria dall'entroterra dalmata, provocando una strage. E' uno dei 74 accusati dal Tribunale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia insediato dalle Nazioni Unite nel 1993 a L'Aja e presieduto dal fiorentino Antonio Cassese. Solo otto si trovano dietro le sbarre nella città olandese, mentre gli altri, incriminati per reati che vanno dal genocidio alle violazione delle leggi di guerra, restano latitanti. A cinque anni dall'inizio del conflitto, che a colpi di massacri e pulizia etnica ha provocato 250mila morti, Panorama si è messo sulle tracce dei 66 ricercati dal Tribunale internazionale. La maggior parte vive liberamente in Bosnia Erzegovina, alcuni hanno ancora un enorme potere, altri conducono avviate attività commerciali e solo una minoranza è allo sbando. Eppure il trattato di pace di Dayton in vigore dalla fine del '95 impone l'estradizione a L'Aja dei presunti criminali di guerra.
«Questo Tribunale è una farsa, un organo politico. Se fosse veramente imparziale sarei il primo a consegnarmi per dimostrare che ho ordinato di lanciare i missili su obiettivi militari in risposta all'uccisione di civili da parte delle truppe croate. Tutti i serbi accusati hanno deciso di ignorare i giudici delle Nazioni Unite», continua imperterrito Martic aggiustandosi i baffetti, un po' insaccato nel completo blu stile presidenziale. Ci troviamo nel suo ufficio di rappresentanza a Banja Luka, la principale città nel nord ovest della Republika Srpska, la metà della Bosnia in mano ai serbi. Siamo in una villetta di due piani guardata a vista dai poliziotti locali, al numero 123 di via Kralja Petra. Un'arteria centralissima, indicata come indirizzo ufficiale anche nel manifesto con tutti i nomi dei ricercati distribuiti agli oltre 32mila soldati della forza multinazionale (Sfor) che assicura la pace in Bosnia. Sul poster Martic ha l'onore, assieme ad altri 28, di una fototessera che ne renderebbe molto semplice il riconoscimento. E' incolpato dall'atto di accusa del 25 luglio 1995 di violazione delle leggi di guerra per aver causato il 2 e 3 maggio dello stesso anno 6 morti e 170 feriti, quasi tutti civili, lanciando dei razzi Orkan armati con bombe a frammentazione sulla capitale croata.
Uscendo dalla sede di Martic basta girare l'angolo per trovarsi di fronte ad un ufficio informazioni dei soldati della Nato in Bosnia con tanto di gipponi da deserto posteggiati fuori dalla porta. Anche gli agenti delle Nazioni Unite sono a pochi passi e il centro città è controllata nientemeno che dal 3° reggimento della reale polizia militare inglese. Ma nessuno muove un dito.
IL TRIANGOLO DELLA MORTE
Fra i criminali di guerra dell'ex Jugoslavia i serbi fanno la parte del leone: 54 in tutto, due dei quali già processati e giudicati colpevoli a L'Aja. Il famigerato triangolo della morte fra Prijedor, Omarska e Kozarac a 50 chilometri da Banja Luka conta almeno una dozzina di ricercati. Nella Bosnia nord occidentale i diversi censimenti fra il '91 e il '95 dimostrano che da queste zone sono scappati almeno mezzo milione di croati e musulmani. Invece non è fuggito da Prijedor, Dragan Fustar, 41 anni, cento chili di peso e capelli neri che vive relativamente tranquillo in una villetta a due piani in via 1 Maj numero 41. All'inizio della guerra era uno dei comandanti del lager locale ricavato nella fabbrica di ceramica Keraterm, uno stabilimento basso, in mattoni rossi, ancora esistente all'entrata della cittadina. Secondo l'accusa, il 20 luglio '92, almeno 140 prigionieri musulmani sono stati passati sbrigativamente per le armi durante una notte di baldorie. «Mio padre tace. Non è un criminale di guerra ha fatto solo il suo dovere. Andatevene.», intima il figlio biondo e grosso come un armadio. Qualche chilometro più in là, nel quartiere di Cirkino Polje, abitano altri imputati fra i quali i fratelli gemelli Nenad e Predrag Banovic, classe 1969, accusati entrambi di crimini contro l'umanità e gravi violazioni della convenzione di Ginevra per il lager di Keraterm. La trattativa per parlarli si rivela lunga e pericolosa. Ad un certo punto Nenad, sempre con una pistola alla cintola sotto la felpa, minaccia di morte il mio interprete, ma alla fine ci mettiamo d'accordo. Dopo un giro vizioso ci porta in un prato lontano da occhi indiscreti e comincia a vuotare il sacco: «Certo che c'è stata pulizia etnica, ma l'hanno fatta anche croati e musulmani contro di noi. La guerra è solo una mattanza e per questo non potremo mai più vivere assieme». All'inizio del conflitto aveva i capelli lunghi, neri, a coda di cavallo, ora li ha tagliati corti per cambiare fisionomia, porta vestiti fin troppo usati, un orecchino e la barba incolta. Ha lo sguardo infinitamente triste. Li sbattiamo davanti l'atto di accusa del 21 luglio '95 che al capo di imputazione numero 18 lo chiama in causa assieme a suo fratello e altre guardie del campo per " aver fatto uscire dalle celle un gruppo di detenuti picchiandoli a turno. Molti di questi uomini morirono a causa delle bastonate." Il giovane sembra disperato, sgrana gli occhi, controlla i nomi e giura di non saperne niente, poi ammette che è accaduto tutto «per colpa della politica. Non possiamo essere responsabili individualmente di questi crimini». Confessa che vorrebbe scappare, ma non ha abbastanza soldi e alla fine se ne va con gli occhi velati di lacrime. Fino alla scorso anno Mladen Radic, Miroslav Kvocka e Nedelko Timarac, pure loro ricercati per crimini di guerra, lavoravano nelle file della polizia della regione. Invece un altro accusato, Nikica Janjic, ha preso il suo fucile da caccia e si è sparato in bocca senza lasciare spiegazioni nel novembre del '96.
43057 Resti umani - verosimilmente civili bosniaci in fuga da Zepa e da Srebrenica, safe areas spazzate via dalle milizie del Generale Mladic nell'Agosto 1995 - rinvenuti in una fossa comune a Nova Kassaba
NESSUNO VUOLE ARRESTARLI
Fonti del contingente di pace, che operano nella zona, ammettono a denti stretti che il problema dell'arresto dei criminali di guerra è politico, oltre che pratico, essendo difficile riconoscerli tramite le foto dei poster e ancor più catturarli tutti in un colpo solo. Inoltre il mandato prevede "la custodia" dei presunti criminali solo se passano davanti ai soldati. Alan Roberts, portavoce a Banja Luka della polizia dell'Onu (IPTF) sostiene che «il nostro lavoro a Prijedor non è quello di girare la città con le foto dei ricercati, anche se siamo determinati a identificare i responsabili dei crimini di guerra». In realtà tutti se ne lavano le mani.
Così a Bosanski Samac, sulla sponda della Sava di fronte alla Croazia, continuano a incontrarsi al caffè As, Blagoje Simic, ex sindaco della città e Stevan Todorovic, ex presidente del consiglio comunale. Ambedue accusati della pulizia etnica che ha ridotto croati e musulmani da 17 mila unità a 300 anime hanno abbandonato da poco i loro posti di potere, ma continuano a svolgere una certa autorità politica come esponenti di spicco del Sds, il partito nazionalista serbo. Altri presunti criminali di guerra sono segnalati a Doboi e Brcko e soprattutto a Foca nel sud est della Bosnia. Il generale Ratko Mladic, ex comandante dell'esercito serbo bosniaco ricercato numero due nella lista de L'Aja, è accusato di genocidio. Si nasconde nel quartier generale di Han Pijesak, una base militare con bunker sotterranei voluta dal maresciallo Tito, fondatore della Jugoslavia, nella Bosnia orientale. Pochi chilometri più a sud si trova Pale, l'autonominata capitale della Republika Srpska a un tiro di schioppo da Sarajevo, nell'area controllata dal contingente italiano integrato nella forza di pace. Sotto il naso dei nostri soldati continua a lavorare tranquillamente il ricercato numero uno, Radovan Karadzic, leader storico dei serbi di Bosnia.
IL LAGER DEI MUSULMANI
Dall'altra parte della barricata, nella Federazione croato-musulmana, che occupa il 51% del territorio bosniaco la situazione è ugualmente imbarazzante. Non sono stati solo i serbi a macchiarsi di crimini di guerra e lo dimostra il lager di Celebici, oggi una caserma dell'Armija bosniaca, sulla strada che da Sarajevo porta verso ovest a Jablanica. All'inizio della guerra il comune di Koijnic, di cui fa parte il villaggio di Celebici, contava 45mila persone delle quali il 15 per cento serbe. L'etnia minoritaria fu presa di mira e ben presto confinata in vari edifici fra cui l'ex caserma dell'esercito federale jugoslavo di Celebici. Secondo l'atto di accusa del 21 marzo 1996 nel lager "i detenuti erano assassinati, torturati, violentati, picchiati e soggetti ad altri trattamenti crudeli". Questo calvario durò dal maggio al dicembre '92, ma poi molti internati furono trasferiti in altri campi di detenzione dove rimasero prigionieri per 28 mesi. Il processo per Celebici è attualmente in corso a L'Aja perché tutti gli imputati, tre musulmani e un croato, sono stati arrestati. Zdravko Mucic nel marzo dello scorso anno a Vienna, mentre scattavano le manette per Zejnil Delalic a Monaco. Due mesi dopo il governo di Sarajevo estradava a L'Aja Esad Landzo e Hazim Delic. Quest'ultimo era stato uno dei comandanti del campo ed è accusato, inoltre, di ripetuti stupri. Nel capo d'accusa 24 si legge: "dal 27 maggio '92 fino all'agosto, Hazim Delic e altri sottoposero Grozdana Cecez (una prigioniera serba nda) a ripetute violenze sessuali. In un'occasione era stata stuprata da tre differenti persone in una sola notte".
Casa Delic è immersa nel verde a due passi dalla moschea e la signora Hida, la giovane moglie di Hazim dai lunghi capelli rossi, sta stendendo i panni. Quando ci vede ha l'impulso di prenderci a sassate poi si calma e inizia a parlare il padre, Ibrahim Delic, dell'accusato di crimini di guerra. «Siamo orgogliosi di mio figlio, perché senza il suo aiuto ci avrebbero ammazzato tutti, tagliato le gole anche ai bambini e violentato le nostre donne. Non è vero che i serbi prigionieri a Celebici venivano torturati o addirittura stuprati. Magari qualcuno è morto cercando di fuggire o qualche vecchio ha avuto un attacco cardiaco. Tutto qui. Noi crediamo in Allah e sappiamo che verrà fatta giustizia», sottolinea papà Ibrahim, un omaccione con pochi capelli bianchi in testa. Hazim ha la possibilità di ricevere una telefonata al giorno, escluso il sabato, per parlare dal carcere in Olanda con i due figli di 10 e 4 anni, ma tutta la famiglia si chiede «perché lui e quelli di Celebici sono alla sbarra, mentre i pezzi grossi come Karadzic e Mladic restano in libertà?».
LA CITTA' DEI CRIMINALI
Non solo loro, anche i presunti criminali di guerra croati della Federazione sono in gran parte latitanti in Bosnia. Su 17 accusati, uno è morto, tre sono a L'Aja, mentre gran parte degli altri continua a vivere a Vitez una cittadina dal cuore croato fra le roccaforti musulmane di Zenica e Travnik. A tre chilometri e mezzo dal centro, arrivando da Sarajevo, si nota un cartello con la scritta "Auto Otpad (riparazioni) Papic" e una freccia rossa che indica un deposito di auto da rottamare pochi metri oltre il bordo della strada. Accanto al deposito sorge la casa del proprietario. Dragan Papic, 30 anni, ricercato per gravi violazioni della convenzione di Ginevra abita qui nel sobborgo di Santici. Il 16 aprile 1993, durante la guerra scoppiata fra musulmani e croati, quest'ultimi attaccarono i primi nella valle di Lasva. Secondo l'atto di accusa del Tribunale del 10 novembre 1995 il villaggio di Ahmici vicino a Vitez fu raso al suolo. "103 musulmani rimasero uccisi, fra i quali 33 donne e bambini. Tutte le 176 case di Ahmici, compresa la moschea furono distrutte" inoltre "Dragan Papic e altri soldati hanno usato i prigionieri musulmani per lavori forzati come lo scavo di trincee sulla prima linea" si legge nell'atto di accusa. La casa di Papic è a 500 metri in linea d'aria dal minareto tristemente abbattuto, che ancora oggi resta un terribile monumento della tragedia di Ahmici. All'imputazione numero 38 risulta che Vlatko Kupreskic, 49 anni, "e altri soldati hanno sparato alla famiglia Pezer che stava fuggendo verso la foresta. Fata Pezer, la moglie di Ismail, è stata uccisa, mentre la figlia Dzenana e un altro civile sono rimaste ferite". Oggi Vlatko gira in mercedes 200 metallizzata e fa buoni affari con la compagnia commerciale "Modus" a tal punto da investire in pubblicità, con grandi cartelloni sul bordo della strada che porta a Vitez . Un altro presunto criminale di guerra, Drago Josipovic, 42 anni, è il marito di Slavica, l'inflessibile presidente dell'Hdz locale il potente partito nazionalista croato. Marinko Katava, 45 anni, conduce con la consorte la farmacia cittadina oltre ad essere ricercato da L'Aja.
«Sappiamo che Vitez è la cittadina con la più alta concentrazione di personaggi accusati per crimini di guerra, ma cosa possiamo farci? Il nostro mandato è limitato...», spiega imbarazzato il giovane e simpatico capitano Miles Hutchinson portavoce sul luogo della forza multinazionale. Nella zona opera il 101° gruppo di battaglia olandese, un reparto corazzato, che passa ogni giorno con i suoi mezzi davanti alle case dei ricercati. Ironia della sorte, lo scorso aprile durante la commemorazione della strage di Ahmici, i musulmani venuti a piangere i loro morti hanno visto alcuni degli incriminati passeggiare nei dintorni.
«Non vogliamo giustificare i crimini compiuti nella Bosnia centrale, ma il tribunale de L'Aja sta accusando le persone sbagliate e crede a testimonianze false», giura Zvonimir Cilic, un giornalista del quotidiano croato Slobodna Dalmacija, che ha combattuto a fianco di tutti gli incriminati e ora ricopre il ruolo di loro portavoce. Mi fa vedere una lettera firmata dagli "accusati di Vitez" e consegnata a Michail Steiner, il numero due della comunità internazionale in Bosnia, nella quale si evidenziano alcune contraddizioni. In effetti il Tribunale ha preso un grosso granchio con Stipo Alilovic, che avrebbe lasciato Vitez nel marzo '92, prima dell'inizio del conflitto, per poi morire di cancro a Rotterdam nel '95. Eppure compare in uno degli atti di accusa de L'Aja contro i croati, per la pulizia etnica nella valle di Lasva. «Comunque se l'Europa ci assicurasse un processo equo, rapido e corretto nel quale possiamo mostrare l'altra faccia della medaglia, ovvero le stragi di croati, gli 11 accusati di Vitez andrebbero spontaneamente alla sbarra - continua il giornalista portavoce - Se invece tentassero di catturarli, allora tutta la città combatterà per difendere la loro libertà.»
"UNA MINACCIA ALLA PACE"
Carl Bildt, l'Alto rappresentante della comunità internazionale, nel suo ultimo rapporto alle Nazioni Unite ha denunciato che la "presenza in Bosnia-Erzegovina di persone accusate dal Tribunale è una continua minaccia al processo di pace e un serio impedimento alla riconciliazione". Secondo le sue informazioni diversi accusati mantengono cariche pubbliche, soprattutto nei comuni di Bosanski Samac e Foca. Per Bildt le conclusioni sono chiare: "il problema va risolto" a qualsiasi costo. Magari con un blitz, che nessuno ha voluto compiere finora, perché nasconde l'enorme rischio di conseguenze irreparabili, dalle ritorsioni contro i soldati di pace alla riesplosione del conflitto. E quindi la farsa dei boia dimenticati continua.
«Non si preoccupi signore, arriveremo comunque a Beirut, anche se ci dirottano» era la battuta migliore delle piacevoli hostess dalla Middle East Airlines, la compagnia area che ha sempre volato sul Libano, pure nei momenti peggiori della guerra civile iniziata nel 1975 e assopitasi da poco. Oramai i palestinesi sono tornati fra luci e ombre nella loro terra, i cristiani hanno deposto le armi ed i siriani mantengono il controllo del paese dei cedri. Chi non ha alcuna intenzione di mollare, invece, è il "Partito di Dio", composto dagli "Hezbollah" i guerriglieri sciiti che si battono contro l'occupazione militare israeliana nel Libano del Sud. A Hey Madi, il cuore dello spartano quartiere di Bir el Abed a Beirut, sono rari gli uomini senza barba e le donne senza il velo. Le immagini sbiadite dell'ayatollah Komeini sono qui dal 1982, quando gli israeliani invasero il Libano spingendosi fino a Beirut pur di buttare a mare i palestinesi. Oggi risuonano profetiche le parole di allora pronunciate da Mohammed Hussein Fadallah, leader spirituale degli Hezbollah proprio ad Hey Madi: «I cambiamenti storici non si possono impacchettare e spedire per posta dove si desidera, ma la rivoluzione islamica dell'Iran viene recepita all'esterno come un eco. Tutti i popoli sono in grado di udirla. Se si è espansa la rivoluzione francese in Europa, anche quella musulmana potrà compiere lo stesso tragitto nel mondo arabo».
Un tragitto cosparso di "martiri" come Salah Gandour che due anni fa si è lanciato con una macchina imbottita di 450 chilogrammi di tritolo contro una colonna israeliana. Dodici i soldati dilaniati assieme al terrorista. Nella misera periferia meridionale di Beirut dove vivono 800mila sciiti in gran parte profughi dal Libano del Sud, Mohammed, figlio di cinque anni del martire hezbollah guarda ogni sera la videocassetta che riprende un 'esplosione terrificante: il sacrificio del padre. «Se il mio bambino vorrà seguire la stessa strada, come si augurava mio marito, potrà farlo», spiega Maha la vedova del terrorista intervistata dalla giornalista Hala Jaber, una veterana del Medio Oriente. Maha, dopo il sacrificio, è diventata un simbolo nella cosiddetta "Cintura della povertà", che semi circonda la capitale libanese ed è sovrappopolata dagli sciiti. Ad ogni balcone sventola la bandiera verde dell'Islam o quella nera del lutto per un miliziano morto in battaglia. La corrente elettrica arriva grazie a collegamenti di "rapina" alle rete della città, ma nonostante la miseria non mancano gli odori forti delle spezie arabe usate per il kebab e le scritte giganti contro gli Usa e Israele. Onnipresenti anche le fotografie o i dipinti di Al Quds la grande moschea di Gerusalemme, che gli hezbollah vorrebbero "liberare" dalla presenza ebrea. In quest'ambiente è nata la scelta del sacrificio di Salah, raccontata con calma irreale dalla vedova ventiquattrenne, gracile, di media statura e rigorosamente velata. «Una settimana prima del suo martirio mi ha detto che sarebbe andato ad immolarsi per la causa, ma io lo "sentivo" già da tempo che quello sarebbe stato il nostro ultimo anno assieme. - spiega Maha - Ma ora non mi sento sola perché lui è nei miei sogni per raccontarmi gli ultimi momenti di vita, il suo martirio. Me lo aveva promesso prima di morire e grazie ad Allah compare ogni notte». La mistica del supremo sacrificio affonda le sue radici nei secoli passati, quando a Karbala, Huseyn, figlio di Alì, genero del profeta Maometto, e sua moglie Fatima, furono trucidati dagli usurpatori. Da Karbala fino a oggi gli attacchi suicidi "aprono ai guerrieri dell'Islam le porte del Paradiso". E il simbolo del martirio è un tulipano impresso al centro della bandiera dell'Iran teocratico. Un simbolo dolce, ma forte come Maha, la vedova del kamikaze.
Il partito di Dio in Libano è sorto dalla frammentazione di diciassette gruppi diversi finanziati dalla Libia, dall'Olp dall'Iran e dalla Siria. Quasi tutti hanno avuto come intermediario e catalizzatore l'ambasciata iraniana a Damasco e la prima base organizzativa è stata piantata a Baalbek nella valle libanese della Beqaa controllata dalle truppe siriane e regolarmente bombardata dagli israeliani. A Baalbek hanno stazionato almeno 300 Pasdaran, i guardiani della rivoluzione iraniana, truppe scelte utilizzate per addestrare la milizia hezbollah. Gli sciiti si propongono come principale obiettivo la cacciata degli israeliani dal sud del Libano e per questo motivo investono spesso con una pioggia di razzi katyuscha i villaggi ebrei di confine. Pochi giorni fa il ministro della difesa israeliano, Yitzhak Mordechai, ha annunciato di essere pronto «a sgomberare militarmente a patto che tutti rispettino i loro obblighi soprattutto in tema di antiterrorismo».
Nel frattempo gli hezbollah si sono organizzati non solo sul piano bellico con propri mezzi di informazioni e strutture sociali. Per esempio hanno costruito due equipaggiati ospedali che forniscono medicine e cure a basso costo o gratuitamente. Stesso discorso per una catena di supermercati islamici dove i generi alimentari hanno prezzi politici e per un sistema di trasporto giornaliero dei contadini dalle città ai campi.
L'attuale leader, lo sceicco Hassan Nasrallah, ha moderato i termini del suo linguaggio dopo aver sostenuto che «l'unica via per ottenere una pace duratura nel Medio Oriente è la restituzione di tutte le terre occupate dagli ebrei ai legittimi proprietari». In pratica una dichiarazione di guerra a Israele anche oltre i confini del martoriato Libano.
DALL'AFGHANISTAN ALL'ALGERIA
Ma il vero crogiolo del terrorismo islamico negli ultimi anni è l'Afghanistan. Durante l'invasione sovietica fra il 1979 e l'89, centinaia, forse migliaia di volontari musulmani hanno partecipato alla "guerra santa" contro l'Armata rossa facendosi le ossa come guerriglieri. Erano soprattutto algerini, tunisini, egiziani, yemeniti, sauditi, turchi ribattezzati con il nomignolo di "afghanskj". Dopo il ritiro sovietico i partigiani anticomunisti hanno iniziato a scannarsi fra loro e uno dei leader più fondamentalisti, Gulbuddin Hekmatyar, oltre a combattere la guerra civile aveva organizzato quattro campi per l'addestramento dei terroristi islamici nel sud del paese fotografati dai satelliti americani. Con l'avvento dei Talebani, gli "studenti di teologia" afghani provenienti dal vicino Pakistan, che oggi controllano due terzi del territorio nazionale con la legge dura e pura del Corano, le strutture terroristiche sono state mantenute e potenziate.
Nel 1992 gli afghanskj algerini hanno formato il primo nucleo della lotta armata dopo che il "Fronte islamico di salvezza", vittorioso alle elezioni, era stato messo al bando su pressione dei militari. In cinque anni si stima che siano morte 60mila persone, soprattutto civili, fra imboscate, attentati e massacri di inaudita ferocia. Inermi ghigliottinati, giovane ridotte a schiave del sesso, bambini tagliati in due dalla fiamma ossidrica e innocenti mutilati a colpi di ascia o roncola. Ma la guerra civile algerina nasconde molti lati oscuri, anche nella strage dei primi di gennaio, che secondo fonti giornalistiche avrebbe provocato 412 morti. I terroristi sarebbero calati sul villaggio di Relizane, a ovest di Algeri, alla fine della giornata di Ramadan, il digiuno islamico, mettendo a ferro e fuoco il paese. La zona è sotto l'influenza del braccio armato del Fis, che dall'autunno scorso ha dichiarato una tregua unilaterale. I massacratori sarebbero membri dei Gruppi islamici armati (Gia), la formazione più estremista della guerriglia, che però molti sospettano infiltrata dai servizi segreti algerini. Non a caso la strage sarebbe avvenuta nella zona del Fis e le forze di sicurezza, che hanno dichiarato di aver trovato "solo" 78 cadaveri, si sarebbero fatte vedere a mattanza compiuta. La situazione si complica tenendo conto che all'interno dell'esercito persiste la linea dura dei cosiddetti "sradicatori", pronti alla soluzione finale con la guerriglia musulmana. Un gruppo che sarebbe ispirato nientemeno che dal capo di stato maggiore, generale Lamari.
IL MILIARDARIO FONDAMENTALISTA
Dall'Algeria all'Egitto il passo è breve, soprattutto se c'è di mezzo Osama Bin Laden, giovane, ascetico e discusso miliardario saudita, indicato da fonti dei servizi segreti come il principale finanziatore dei fondamentalisti di mezzo mondo. Dopo aver combattuto contro l'Armata Rossa in Afghanistan si è trasferito in Sudan, in un sobborgo della capitale Khartoum. Questo paese, dove vigono le regole della Sharià, la legge islamica, è uno storico rivale dell'Egitto, e quindi vede di buon occhio la guerriglia della Jamaa Islamya contro il governo de Il Cairo. Secondo fonti arabe è proprio in Sudan che si trova il più importante centro di addestramento degli estremisti musulmani egiziani e non. «Tutte bugie alimentate dalle ambasciate occidentali. Sono un imprenditore che costruisce strade e trova lavoro a tanti veterani dell'Afghanistan», ha dichiarato Bin Laden nelle rare interviste che concede. Peccato che la sua terra natia, l'Arabia Saudita, gli abbia tolto il passaporto in seguito alle rivelazioni di alcuni terroristi. Quest'ultimi, catturati nel '96 e accusati di aver fatto saltare per aria una caserma della Guardia nazionale saudita a Riyadh hanno ammesso di essere stati addestrati in Afghanistan e di aver subito l'influenza di Bin Laden. Un particolare interessante riguarda l'esplosivo usato nell'attentato in cui perirono anche 24 militari americani. Era stato contrabbandato dal confinante Yemen.
YEMEN BASE SCONOSCIUTA DEI TERRORISTI
E nello Yemen ritroviamo gli estremisti islamici e l'onnipresente Bin Laden. «Da qualche mese continuano gli arresti di egiziani, algerini, sudanesi, siriani e afghani coinvolti nel terrorismo internazionale. Ultimamente sono state scoperti collegamenti con alti ufficiali dei servizi di sicurezza yemeniti e membri influenti della politica locale. Per questo motivo è calato sull'inchiesta un imbarazzante segreto di stato», rivela una fonte riservata a San'a, la capitale yemenita. Si era sempre parlato di Libia, Iran, Iraq e Siria come probabili "santuari" dei terroristi mediorientali, ma ora si scoprono nuove basi. Dal '90 in poi un altro veterano del conflitto in Afghanistan, lo yemenita Tarik Al Fadlhi, iniziò a raccogliere i suoi commilitoni in un campo di addestramento nel governatorato di Abyan, sui monti di Marqsha. Ancora oggi la zona, seppur sfiorata dalle principali vie turistiche frequentate soprattutto da italiani, è proibita. Al Fadlhi aveva ottenuto il comando dei mujaheddin (i partigiani islamici in Afghanistan) yemeniti grazie ai buoni uffici di Bin Laden. Infine si era convinto a fare i lavori sporchi per il governo di San'a eliminando l'opposizione socialista. L'attuale capo dello stato yemenita ha premiato Al Fadlhi chiamandolo al suo fianco come consigliere in uno speciale gabinetto presidenziale. Un altro tentacolo della "piovra" islamica.
IN FUGA DAL KOSOVO ( Panorama, 6 Agosto 1998) >Fausto Biloslavo e-mail the writer
52020 Alzabandiera con l'aquila bicipite per i combattenti KLA di Unik
IN FUGA DAL KOSOVO
Un giornalista e un fotografo stavano seguendo per «Panorama» l'ultima tragedia dei Balcani. Finché, senza volerlo, si sono trovati a dividere, attimo dopo attimo, il dramma di un gruppo di uomini, donne e bambini che tentavano di scappare dalla zona di guerra. Ecco, attraverso le parole e le immagini, la straordinaria testimonianza di una lunga marcia nelle zone liberate dai guerriglieri e sulle montagne ai confini con l'Albania. Tra sparatorie, violenze e fame.
di FAUSTO BILOSLAVO
fotografie di RAFFAELE CIRIELLO
La valanga di fuoco arriva all'improvviso, con tutto il fragore delle mitragliatrici pesanti e dei kalashnikov che cercano le facili prede dell'imboscata. A un tratto la fitta foresta a due chilometri dal confine con l'Albania si trasforma in un inferno. Una cinquantina di soldati serbi ha teso un agguato a un gruppo di profughi albanesi in fuga dal Kosovo. Fra loro una dozzina di bambini accompagnati dalle madri e un pugno di guerriglieri della provincia ribelle nel sud dei Balcani.
La responsabile della carovana suicida è Sally Becker, un'inglese di 37 anni. Bassina, con i capelli corti e scuri, non è nuova a imprese del genere nel campo umanitario. In Bosnia centrale, durante la guerra fra croati e musulmani aveva portato via feriti e bambini finendo sulle prime pagine dei giornali con l'appellativo di «angelo di Mostar». Nel dimenticato Kosovo ha convinto alcune famiglie albanesi a consegnarle i loro bambini in precarie condizioni di salute. Nessuno è in pericolo di morte, ma le bruciature causate dai bombardamenti serbi su quei corpicini, sebbene rimarginate, servono allo scopo della pasionaria: impressionare l'opinione pubblica internazionale. L'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che con i suoi osservatori pattuglia i confini dalla parte albanese, le ha dato molto credito consegnandole una ricetrasmittente con la quale ha potuto parlare liberamente fino a poche ore dall'imboscata. «Davanti alle telecamere della Cnn, che ci aspetteranno oltre confine, i serbi non possono farci niente» ha rassicurato i profughi. Si è dimostrata talmente attenta ai bisogni dei bimbi che voleva salvare, da farne scendere uno da cavallo per prendere il suo posto, oramai sfinita da ore di marcia.
Quando i serbi aprono il fuoco, il gruppo di disgraziati fugge scompostamente travolto dal panico, assieme a cavalli e muli terrorizzati. I traccianti si conficcano a una ventina di centimetri dai piedi accendendo le foglie secche in un bagliore rossastro. Altre pallottole fischiano sopra le teste o sbrecciano le cortecce degli alberi facendo schizzare ovunque schegge di legno. Rambo, un emigrato albanese in Germania che comanda la colonna, tenta una minima reazione con il suo equipaggiamento da operetta: la mitragliatrice a tracolla con tanto di bandoliere. Capelli unti e lunghi, viso da pugile suonato, si dà in breve alla fuga.
Arriva la seconda ondata di raffiche. Sono costretto ad appiattirmi sul terreno, perdendo di vista il gruppo. I sibili delle pallottole vengono ben presto accompagnati dal rumore sordo dei colpi in partenza dei mortai che lacerano l'aria per schiantarsi qualche centinaio di metri più a valle, in cerca del resto del gruppo. Dopo una dozzina di boati una calma irreale torna ad avvolgere la foresta della morte. Si scende verso valle, con il cuore in gola, mentre calano le prime ombre della sera. A un certo punto si sente il ringhio di un cane, subito zittito dal padrone, un soldato serbo, probabilmente sceso in elicottero per rastrellare la zona.
Così Sally Becker, Hani Hiseni, di 30 anni, e i suoi due bambini Drita e Doruntina, di 10 anni e 14 mesi, vengono catturati. Per fortuna i serbi, dopo aver sparato deliberatamente su donne e bambini, rilasceranno la famiglia albanese, mentre l'inglese sta ancor oggi scontando una pena di 30 giorni nel carcere femminile di Lipljan, vicino a Pristina, il capoluogo del Kosovo.
La strada giusta viene indicata dal lancio dei bengala bianchi e rossi nella valle sottostante, dove guerriglieri e armata jugoslava si affrontano da marzo. Verso le tre del mattino l'ultima avventura. Provo a prendere sonno, avvolto nel sacco a pelo, in un luogo che sembra coperto e isolato. Mezz'ora dopo arriva ringhiando una faina o una volpe. L'animale passa di corsa sopra la mia testa per far capire che ho impropriamente utilizzato la sua tana. All'alba raggiungo il primo villaggio controllato dai ribelli albanesi, finalmente in salvo.
Un guerrigliero da Roma
Il viaggio è cominciato all'inizio di luglio da Tirana, la capitale albanese. Obiettivo: raccontare la guerra dimenticata, esplosa dall'altra parte dell'Adriatico, che da febbraio ha già provocato 45 mila sfollati e centinaia, forse migliaia di morti. La prima tappa è il Nord dell'Albania, una terra senza legge al confine con il Kosovo. E una via obbligata per la guerriglia dell'Esercito di liberazione (Uck), che si rifornisce di armi nel gran bazar del paese delle aquile dove lo scorso anno i civili avevano preso d'assalto i depositi dell'esercito. L'aspetto curioso è che nei paesetti come Tropolja, degni delle scene di un film di Emir Kusturica, si presentano ogni giorno una valanga di emigrati kosovari in Europa. Almeno 70 al giorno giungono fin quassù grazie a un vetusto traghetto. Alcuni vestono all'americana con scarponcini da montagna o zaini ultimo modello. Acquistano il fucile e si incamminano lungo il pendio della montagna di Derovica alta 2.600 metri. Vengono soprattutto dalla Svizzera, dalla Germania, dai paesi scandinavi e anche dall'Italia.
Come Filippo, «Pippo» per gli amici, kosovaro «de Roma». Nella capitale italiana ha vissuto e lavorato sei anni come muratore. Ventiquattrenne, alto, con la barba scura e i riccioli, assomiglia a Raoul Bova. Vuole tornare dalla famiglia che vive in un villaggio non ancora martoriato dalla guerra. «Mia moglie deve partorire e il paese si sta preparando a difendersi, quindi porto le armi ai miei e accompagnerò la consorte in una clinica sicura in Montenegro» spiega in italiano con un forte accento romanesco. Diventerà la nostra guida assieme a una ventina di guerriglieri-turisti, che utilizzano le ferie e i soldi dello stipendio per venire a combattere in Kosovo. Alcuni rimangono due settimane, altri un mese. In luglio ne sono passati 4 mila. E noi con loro dopo due giorni di bivacco all'addiaccio con poco da mangiare. Attraversiamo il confine di notte, in mezzo alle postazioni serbe arroccate sui picchi più alti. Con la sola luce di una luna rossastra il cammino, fra gli alberi e sulle rocce, è un incubo. Dopo 6 ore di marcia si arriva in un agglomerato di povere case, non lontano da Junik, un grande villaggio del Kosovo, al centro di una zona «liberata» dai ribelli al confine con l'Albania, che conta 30 mila persone e 15 paesi.
Il poeta soldato
Ad attenderci, nella roccaforte della guerriglia albanese, c'è Lum Haxhiù, 40 anni, divisa mimetica svizzera e kalashinkov sempre a tracolla. La barbetta e gli occhiali quadrati tradiscono un passato da intellettuale. In realtà assomiglia di più a un personaggio dei fumetti. «Sono stato io a incontrare l'inviato americano Richard Holbrooke (oggi ambasciatore all'Onu, ndr). Eravamo proprio qui. Gli ho spiegato che per noi dell'Uck l'unica soluzione è l'indipendenza totale del Kosovo» spiega nel suo inglese a scatti. Tiene a sottolineare che ha scritto numerose liriche prima della guerra, compreso il Folle destino pubblicato anche in italiano.
Non osiamo immaginare che impressione abbia potuto fare a Holbrooke un simile rappresentante dell'Uck. La realtà, è che la fazione più rigida dell'Esercito di liberazione (fondata in Svizzera negli anni Settanta-Ottanta con l'aiuto di Enver Hoxha, l'allora dittatore comunista dell'Albania nemico di Belgrado) ha snobbato il mediatore statunitense.
Lum fa spalla con Gani Sheu, 30 anni, altro ospite di Holbrooke, che ha buttato la toga di avvocato per indossare una tuta da pilota militare color verde oliva. Rappresenta i moderati della guerriglia, ovvero la Lega democratica del presidente Ibrahim Rugova votato nelle elezioni clandestine dai kosovari. La sua fazione sembra essere succube del nocciolo duro dell'Uck, che per gli atteggiamenti di segretezza e sospetto ricorda i khmer rossi. Fra i due gruppi sta iniziando a giocare un ruolo importante Bujar Bukoshi, il primo ministro del governo del Kosovo in esilio, che tiene i cordoni della borsa. «Da sette anni chiediamo una specie di tassa ai nostri emigrati, come fa, d'altronde, qualsiasi governo. Questi soldi servono anche all'autodifesa del popolo» ha spiegato il premier a Panorama.
La trincea dimenticata
A Junik non ci abbandona la sensazione di trovarci di fronte a un'armata Brancaleone, che si sforza di darsi un'organizzazione militare. Dal villaggio è fuggita oltre la metà della popolazione, che contava 8 mila persone prima della guerra. In mezzo alla strada principale, vicino alla moschea, alcuni pneumatici da camion costringono le poche automobili a una serie di gimcane da posto di blocco. I guerriglieri difendono più che altro le loro case, perché a 200 metri in linea d'aria un gruppo di coloni serbi provenienti dalla Krajina (Croazia), «punzecchia» gli albanesi con cecchini e mortai.
Nece, invece, all'estremità meridionale dell'area «liberata» dà l'impressione di trovarsi in un avamposto di uomini perduti con gli elicotteri che svolazzano sopra le punte degli alberi.
In prima linea ci sono poche decine di persone guidate da un ex sergente dell'armata jugoslava, Gezim Biblekaj. Un bel tipo sui quaranta con i baffetti. Si fa fotografare sotto le immagini della Madonna, appese in tutte le case. Lui stesso porta al collo una croce d'oro, perché Nece ha la caratteristica di essere abitato da albanesi tutti cattolici. Il vero leader politico del gruppo è il paffutello e simpatico, Frank Niki, 46 anni, che da piccolo si è visto uccidere il padre in una retata dei serbi. «Per 500 anni abbiamo convissuto con il nemico. Adesso è il tempo di batterci per la libertà, oppure morire» sottolinea in buon inglese l'ex maestro elementare.
Le case sono inesorabilmente segnate dalle granate e talvolta le bombe hanno costretto gli albanesi a una fuga precipitosa lasciando perfino il brodo di carne sul fuoco. In un altro appartamento abbandonato solo un orsacchiotto rosa è miracolosamenterimasto intatto in una stanza completamente distrutta. Sul bordo della strada che porta nella zona serba gli albanesi hanno costruito una trincea. Un po' poco per fronteggiare i carri armati serbi.
KLA, FERIE AL FRONTE (Agosto 1998) >Fausto Biloslavo e-mail the writer
52022 Una colonna di volontari KLA accorsi da tutta Europa per raggiungere il Kosovo attraverso il confine albanese
Lo sgangherato traghetto arranca fra le gole di un affascinante lago artificiale, che è l'unico passaggio per raggiungere la terra senza legge nell'Albania nord occidentale, al confine con il Kosovo. Ammucchiati sotto il sole cocente, decine di albanesi, originari della turbolenta provincia meridionale della Serbia: sono le nuove reclute della rivolta contro Belgrado. Affrontano un lungo viaggio, che dalla Germania, la Svizzera, l'Austria, l'Italia, il nord Europa, gli Stati Uniti e l'Australia li porta a combattere part time. Un paio di settimane, o un mese di ferie, a cui hanno diritto come lavoratori emigranti. Se in Kosovo vivono due milioni di albanesi, all'estero la diaspora conta almeno 400mila persone, molte delle quali hanno risposto alla mobilitazione indetta dall'Uck, l'Esercito di liberazione del loro paese che da febbraio scorso ha dato vita a una guerriglia in grande stile contro i serbi. «Da giugno abbiamo registrato una media di 70 arrivi al giorno via traghetto e calcoliamo che siano ancora tremila i guerriglieri in attesa di passare il confine per infiltrarsi in Kosovo», ammetteva a metà luglio Bill Foxton, responsabile degli osservatori europei in questo sperduto angolo dei Balcani.
I guerriglieri-turisti sono facilmente individuabili: indossano scarpe Nike, magliette di foggia occidentale e occhiali scuri all'ultima moda. Alcuni sono organizzati con scarponi da montagna delle migliori marche e zaini militari, come un marcantonio sui 35 anni che ostenta un tatuaggio sull'avambraccio della Jna, la dissolta armata della vecchia Jugoslavia. Altri provano impunemente, sulla tolda del traghetto, la portata di moderni mirini telescopici acquistati in Occidente o di binocoli nuovi di zecca. Un kosovaro con i capelli grigi svela la sua provenienza grazie al cappellino, che lo ripara dal sole, di una ditta tedesca di Stuttgart. Accanto ai combattenti part time c'è chi ha scelto di abbandonare definitivamente il lavoro e la vita agiata per la causa del Kosovo. Non amano parlare con i giornalisti, ma fra i giovani, che sono la maggioranza, un ventenne con i capelli a spazzola e il fisico da guardia del corpo battezza tutti come «combattenti per la libertà».
52111 Il gagliardetto KLA
La prossima tappa è Tropolja, una sorta di piccola e povera Casablanca dei Balcani, dove si trovano tutti i tipi di armi, dalle vecchie mitragliatrici dei partigiani di Tito con il caricatore rotondo, agli arsenali dell'esercito albanese saccheggiati dai civili durante i disordini dello scorso anno. I guerriglieri-turisti investono i sudati risparmi per acquistare un kalaschnikov a 300mila lire e un po' di munizioni, che magari hanno visto usare solo nei film. Nella base di Hoxhaj, alle pendici dei monti che separano l'Albania dal Kosovo, indossano l'uniforme mimetica, solitamente acquistata in Svizzera, e si appuntano lo stemma dell'Uck, l'aquila bicipite nera su sfondo rosso.
«Ho lasciato un buon lavoro in Germania per venire qui a organizzare la resistenza», spiega un ragazzone di 28 anni con barbetta nera e basco verde, che si presenta come "comandante Rugova" responsabile del campo dove bivaccano un centinaio di ribelli. Pur di sbarazzarsi in fretta dei giornalisti ci fa partire.
Ci accodiamo alla prima colonna di una ventina di guerriglieri diretta al confine. Sono quasi tutti emigranti, che spediti a marciare nelle gole delle Alpi albanesi tengono con difficoltà il passo. C'è chi lavora al ristorante "Roma", vicino a Losanna, e chi fa il muratore in Germania, ma il personaggio più pittoresco risulta l'autonominato comandante del gruppo.
52011 "Rambo"
Lo chiamano Rambo per la faccia da pugile suonato, i capelli lunghi e le bandoliere con la mitragliatrice pesante a tracolla. In realtà è un soldato da operetta anche se giura di essere stato arruolato per due anni nell'esercito tedesco.
Passare il confine ed entrare in Kosovo è un terno al lotto. I serbi sono appostati sui picchi delle montagne e non fanno altro che aspettare al varco le colonne di guerriglieri-turisti. A valle la luce dei bengala illumina a intermittenza la prima linea nella cosiddetta zona "liberata" attorno al villaggio di Junik. Da fine luglio la roccaforte della resistenza è stritolata dall'assedio serbo e quotidianamente bombardata.
Fra il manipolo di indipendentisti si incontrano i personaggi più strani, come "Mister B", un corpulento kosovaro di 40 anni che oltre al kalaschnikov ama l'alcool. Ma alla mattina è sempre sobrio perché deve percorrere diversi chilometri in mezzo alla boscaglia per portare il pane, a dorso di mulo, ai difensori del suo avamposto. «Ai tempi di Tito ho chiesto asilo politico in Italia, appena maggiorenne - racconta in perfetto inglese - Poi sono finito male in Australia. All'ennesima rapina in banca mi hanno preso e ho dovuto scontare sette anni di lavori forzati. Ma ora sono qui a combattere per il Kosovo».
Molti dei civili rimasti in questo paese fantasma sono vecchi, donne e bambini, che dipendono dai familiari emigrati all'estero. "Kiki" Krasniqi, giunto dalla Svizzera, difende con la sua famiglia una bella fetta di prima linea dove si trova la loro casa. Ci mostra orgoglioso le ricevute dei versamenti mensili all'Uck di centinaia di marchi. Suo fratello Ramu ha il fisico del mastino della guerra, ma pure lui decide di abbandonare Junik per portare in salvo la moglie di "Kiki" ed i bambini. Lo straziante addio è rotto dalle lacrime di tutta la famiglia caricata sul cassone di un trattore che si dirige verso le montagne. Gli altri parenti, che hanno deciso di restare a combattere vengono a salutare l'improvvisata colonna, a cui si aggiungono altri guerriglieri-turisti. Ci vorranno 20 ore di marcia massacrante e pericolosa per raggiungere l'Albania, ma per tutti le ferie stanno finendo e bisogna rientrare a lavorare. Alle prossime vacanze torneranno puntuali ad imbracciare il kalashnikov per il sogno impossibile di un Kosovo indipendente.
LE SERPI IN SENO ALL' OCCIDENTE (1999) >Fausto Biloslavo e-mail the writer
52020 Alzabandiera con l'aquila bicipite per i combattenti KLA di Unik
Dai guerriglieri ai dittatori, gli occidentali sono sempre stati abilissimi nel nutrire delle serpi in seno. Oggi è il turno dellEsercito di Liberazione del Kosovo, che sta diventando pericolosamente ingombrante per loperazione Nato nella provincia albanese. Eppure è stato lOccidente a fare crescere ed espandere i ribelli, grazie ad un misto di colpevoli ambiguità e lo zampino dei servizi segreti.
Non è la prima volta che qualcosa del genere accade, come dimostra lappoggio degli Usa ai Talebani, prima vezzeggiati e poi bombardati, perché ospitavano nei campi di addestramento afghani i terroristi di Osama Bin Laden. Per non parlare dei dittatori di comodo, come Desiré Laurent Kabila, messo al potere nello Zaire, con il beneplacito americano, da dove è riuscito scatenare una guerra panafricana, anziché pacificare larea comera nei piani.
Tornando al nodo del Kosovo bisogna fare un passo indietro per capire le mosse dellOccidente. «LUck? Non esiste», si ripeteva nelle ambasciate occidentali a Belgrado, a cominciare da quella italiana, fino al 1997. La verità era unaltra, secondo il New York Times, che descriveva i neonati reparti della guerriglia albanese. La Cia si era indispettita della prematura fuga di notizie, anche se sapeva bene che il saccheggio delle caserme di Tirana e Valona, durante la rivolta dAlbania nella primavera del 97, era servito a formare il primo arsenale dellUck. «Come forza militare sono ancora deboli, ma è vero che dei gruppi di albanesi vorrebbero "liberare" il Kosovo. Per il momento hanno degli uffici di copertura a Zurigo, Lubiana, Zagabria e sono in fase organizzativa» aveva alla fine ammesso un funzionario americano che operava nei Balcani nel novembre 97. Quattro mesi prima del massacro di Drenica, in cui le truppe serbe eliminarono brutalmente la famiglia di uno dei comandanti del neonato Esercito di liberazione, sconvolgendo il mondo e dando il via allescalation del conflitto.
In realtà la Cia monitorava, fin dal 1993, la rinascente attività del Movimento popolare per il Kosovo, unorganizzazione fondata da patrioti kosovari, che avevano creduto nella stella del dittatore albanese, Enver Hoxa. Ai tempi di Tito erano stati tutti arrestati con laccusa di complottare contro la Jugoslavia. Alcuni sopravissuti al carcere sono andati in esilio, mettendo radici in Svizzera, dove hanno fondato il nucleo storico dellUck. Soprannominati i "kmer rossi" dei Balcani, per le loro mai sopite tendenze maoiste, erano troppo poco presentabili per una vera rivolta armata e allora la formazione guerrigliera si è allargata, grazie alla Slovenia e alla Croazia, i nuovi alleati della Nato nello schacchiere dellex Jugoslavia. A Lubiana viveva Naim Mailoku, 41 anni, ex capitano dellesercito jugoslavo. Assieme a Janez Jansa, futuro ministro della difesa, aveva partecipato alla mini guerra dindipendenza della Slovenia, nel 91, ma subito dopo era andato a combattere con una neocostituita brigata di albanesi agli ordini degli indipendentisti croati. Sulluniforme avevano lo stemma dellaquila bicipite nera su sfondo rosso, lo stesso dellUck. Dopo aver battuto i serbi in Croazia, Mailoku è rimasto in sonno, fino a quando non ha potuto riorganizzare, con il tacito appoggio sloveno e quindi americano, la fazione moderata dellUck. Nel 98 è sbarcato armi in pugno nella provincia ribelle affermando: «Siamo pronti ad accogliere i soldati della Nato solo sui confini con Montenegro e Serbia, ma prima le forze di Milosevic devono ritirarsi dal Kosovo». Parole profetiche.
E proprio lo scorso anno la Cia ha discretamente finanziato la guerriglia, che oramai teneva impegnato un intero corpo darmata jugoslavo, con ingenti somme. Sulle "Alpi maledette" al confine fra Albania e Kosovo cominciavano ad apparire strani personaggi di madrelingua locale, ma con il passaporto degli Stati Uniti. Come il "cieco", soprannominato così perché portava sempre gli occhiali scuri. Si occupava di smistare i rifornimenti di armi e munizioni da Tropoje, nel nord del paese delle aquile, diretti in Kosovo a dorso di mulo. Inoltre iniziavano ad arrivare centinaia di volontari da mezzo mondo, armi più moderne e telefoni satellitari. Sul piano politico-diplomatico il superinviato americano nei Balcani, Richard Holbrooke si incontrava con i guerriglieri. Oramai era scattata la fase due, ovvero la massima visibilità dellUck.
Però non tutte le ciambelle riescono con il buco: i guerriglieri kosovari erano infiltrati da elementi islamici. I paesi arabi considerano il Kosovo la "Palestina dEuropa", ma non vogliono che la guerriglia ed il apese vengano controllati dagli occidentali. Nel contrastare linfluenza fondamentalista sullUck, la Cia ha messo a segno un buon colpo, quando è riuscita a far arrestare dai servizi segreti albanesi un nucleo di emissari del superterrorista Osama Bin Laden, che avevano messo radici a Tirana, sotto la copertura di unorganizzazione umanitaria.
Con i bombardamenti sulla Jugoslavia la Nato ha, in parte, gettato la maschera. Almeno 80 incursori delle Sas britanniche si sono infiltrate in Kosovo per indirizzare le bombe alleate, al fianco dellUck. I volontari giunti a frotte nel nord dellAlbania venivano addestrati in campi militari dove operavano istruttori americani, inglesi e propabilmente di altre nazionalità della Nato. Forse le armi moderne sono state concesse con il contagocce, ma gli stessi "osservatori" italiani, presenti in zona, caldeggiavano lopzione di armare i guerriglieri.
La svolta è avvenuta il 13 maggio scorso, quando lUck ha nnunciato la nomina di Agim Ceku, il suo nuovo comandante militare. Fino al febbraio di questanno era un pluridecorato generale dellesercito croato. Nel 1995 aveva pianificato loperazione Tempesta per la riconquista della Kraijna, occupata dalla minoranza serba. Si è trattato di un blitz vittorioso e spietato, grazie alle fotografie satellitari concesse gentilmente dagli americani. La nomina di Ceku è stata interpretata come una mossa ispirata da Washington per mettere in riga larmata Brancaleone della guerriglia kosovara e poter contare su comandanti ribelli fidati, una volta che le truppe Nato sarebbero entrate in Kosovo. Invece lUck si sta dimostrando una mina vagante, innescata dagli occidentali, che rischia di esplodere nel bel mezzo della polveriera balcanica.
martedi, 20 novembre 2001
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Maria Grazia la ricordo cosi'
Ci eravamo sentiti via telefono satellitare dalla valle del Panshijr, la roccaforte antitalebana. Lei era in Pakistan e scalpitava per entrare in Afghanistan. Allora abbiamo fatto una scommessa: vediamo chi arriva prima a Kabul. Maria Grazia Cutuli non vedrà mai la capitale afghana in mano ai mujaheddin, una banda di assassini ha fermato per sempre la sua corsa verso il servizio esclusivo, la storia dalla prima linea, il pezzo che ti inchioda al giornale.
Trentanove anni, trapiantata a Milano, aveva mantenuto un leggero e simpatico accento della sua terra, la Sicilia, che nel profondo del cuore amava.
L'ho conosciuta alla redazione di Epoca, un settimanale che non esiste più, ma mandava in giro i suoi giornalisti. Quando era costretta al lavoro di redazione soffriva e a lungo andare metteva il broncio. Per tornare a vederla sorridere il direttore doveva spedirla da qualche parte a raccontare una storia. Aveva iniziato il mestiere nel 1986 al quotidiano la Sicilia, per poi passare ad un settimanale regionale. Per il grande balzo a Milano aveva lasciato la famiglia, forse il suo unico punto di riferimento, a Catania. Al giornale della Mondadori, Cento cose, si è fatta le ossa, ma il balzo ad Epoca è stato l'inizio del suo sogno. Voleva diventare inviata di guerra, o comunque immergersi nei conflitti, attratta daal'umanità malata.
All'inizio ci guardavamo in cagnesco sospettosi l'uno dell'altro. Pensavo che fosse la solita lunatica giornalista con i paraocchi progressisti e lei mi considerava alla stregua di una mina vagante nei delicati equilibri di redazione. Mi sbagliavo e la prima volta che abbiamo cominciato a parlare seriamente ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d'onda. L'idillio è scoppiato in un ascensore della Mondadori e da quel giorno io ero "la mina vagante" e lei la "strafalaria" un termine delle sue parti per le ragazze un po' bizzarre, che mi aveva insegnato. Ovviamente lo usavo in senso affettuoso ed ero l'unico a poterlo fare senza ricevere un calcio negli stinchi.
Maria Grazia non era sempre una cascata di simpatia, ma nei momenti buoni diventava la giornalista più divertente della categoria. Più che il mestiere aveva nel sangue un'incomprimibile voglia di osare, scavare, vivere gli avvenimenti sulla propria pelle per poi raccontarli. Attraente, con un sorriso accattivante, quando cominciava ad agitare la chioma voleva dire che voleva qualcosa e l'avrebbe ottenuta a qualsiasi costo, nella vita, come nella professione. In Sierra Leone, dove era andata senza paura a raccontare uno dei peggiori inferni africani, si era fatta scattare una fotografia indimenticabile. In maglietta a maniche corte, con il volto stravolto, seduta a cavalcioni su una sedia nel giardino di un'ambasciata era l'esempio dell'inviata di guerra, con quel tocco di fascino che non guasta.
Una volta in Bosnia viaggiavamo assieme alla ricerca delle fosse comuni della spaventosa guerra fra serbi e musulmani. Gli esperti del tribunale de l'Aja avevano scoperto una delle più grandi, con centinaia di cadaveri. Maria Grazia stava male, con tanto di crampi allo stomaco. Per arrivare alla fossa bisognava marciare nel fango e la consigliai di aspettare in macchina, che poi le raccontavao tutto. Non l'avessi mai fatto: mi fulminò con un'occhiata offesa, si alzò a fatica e venne ad assistere al macabro spettacolo della riesumazione dei corpi dilaniati dalla guerra.
Quando Epoca iniziò a boccheggiare, piuttosto che piegarsi a lavorare in giornaletti di moda, che le garantivano una vita facile, ma poche soddisfazioni professionali, mollò tutto per la sua amata Africa. Andò in Ruanda con le Nazioni Unite, dove si era da poco concluso un terribile genocidio, sempre alla ricerca dell'umanità al limite.
Talvolta ha utilizzato le ferie per realizzare dei servizi che le piacevano. I talebani li conosceva bene, perchè coperta dal velo li aveva incontrati, durante un reportage in Afghanistan, che si era pagata da sola, prima ancora che conquistassero Kabul. Fino a quando l'ho frequentata viveva in un locale da single, ma la sua vera casa era la redazione. Da quando era entrata al Corriere faceva i turni massacranti serali, ma per gli Esteri, che erano la sua passione era pronta a sacrificare anche la vita privata. Si lamentava spesso della sua sfortuna negli affetti e Julio Fuentes, il collega ucciso con Maria Grazia, è stato uno delle croci e delizie della sua vita.
Ci eravamo persi di vista rincorrendoci, però, con gli articoli sulle stesse guerre, a caccia delle stesse notizie. Dovevamo vederci in Afghanistan, quando i fondamentalisti fecero a pezzi le statue dei Buddah, ma venni depistato in Macedonia. L'ultimo appuntamento, simile ad una sfida, era nella Kabul liberata, ma su una strada maledetta il sogno di inviata di guerra di Maria Grazia si è infranto per sempre.
mercoledi, 21 novembre 2001
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Un' esecuzione dietro le rocce
Fausto Biloslavo
SOROBI (Afghanistan) - Non l'abbiamo notata subito, rappresa nella polvere, ma la striscia di sangue che porta dietro ad una roccia è il primo macabro segnale di una barbara esecuzione. Sotto i colpi di assassini senza volto sono finiti i quattro giornalisti, che si erano avventurati lunedì mattina sulla strada da Jalalabad a Kabul. Seguiamo la traccia scura con il cuore in gola e scopriamo che in una rientranza della parete a picco sui tornanti ci sono tre laghi di sangue. I corpi di Maria Grazia Cutuli, Julio Fuentes, Harry Burton ed Hazizullah Haidari, uccisi ventiquattro ore prima, sono stati appena portati via dai mujaheddin in direzione di Jalalabad. Chiusi in quattro bare di legno chiaro, verranno trasferiti, oggi, in Pakistan. La quarta vittima è stata finita cinque metri di fronte agli altri, quasi fosse stata costretta prima di morire ad assistere alla mattanza.
Dalle tracce rimaste sul terreno la dinamica della strage è raccapricciante. Li hanno fermati all'imboccatura di un ponte, costruito con i fondi dell'Onu nel 1997, dove la gola è orrida, senza sbocchi e la strada corre a picco su un fiume. Qua e là giacciono ogni tanto le carcasse dei vecchi blindati dell'invasione sovietica degli anni ottanta caduti nelle imboscate dei mujaheddin. La piccola garitta ed una rudimentale postazione dall'altro lato del ponte sono abbandonate, ma all'arrivo delle due jeep dei giornalisti dovevano essere presidiate dagli assassini. Le prime gocce di sangue distano dalla strada 5-7 metri, segno che i poveretti sono stati tirati giù dalle macchine ed uno si è beccato immediatamente una fucilata. Subito dopo hanno allineato il ferito con altri due, dietro la roccia, falciandoli a raffiche di kalaschnikov. Tutt'attorno sono sparsi dei bossoli di AK47, il fucile mitragliatore russo adottato dalle guerre del terzo mondo. Probabilmente gli "infedeli", compresa la povera Maria Grazia, doppiamente colpevole in quanto donna, sono stati giustiziati per primi. Quasi sul greto del fiume si espande nella polvere un'altra macchia rosso scuro. Forse al fotografo afghano è stato dato il tempo di pregare prima di morire.
Il luogo della strage si trova a mezz'ora di macchina verso sud da Sorobi, un grande villaggio fra Kabul e Jalalabad. Per percorrere la strada maledetta assieme ad Andrea Nicastro del Corriere della Sera e Laurent Mamida dell'agenzia giornalistica Reuter i mujaheddin ci hanno nascosto dietro i finestrini oscurati di un mezzo del ministero degli Interni. Per non farci vedere dai locali, fra i quali si annidano sicuramente gli assassini, abbiamo dovuto addirittura mangiare dentro l'abitacolo. Nell'ultimo tratto di strada si ha l'impressione di entrare in una terra di nessuno e difatti la scorta è aumentata con ragazzotti pronti a tutto. I mujaheddin vanno a colpo sicuro, anche se quando ci fanno scendere cominciano a guardare oltre il parapetto, verso il fiume o sotto il ponte, prima di scoprire il luogo dell'esecuzione, invisibile dalla strada. Il comandante Gul Roz, un pasthun che sembra lo zio bonaccione con la barba bianca, è preoccupato e ci concede solo dieci minuti per capire cosa è accaduto. Lui, in realtà deve sapere tutto fin da ieri, perché è il poliziotto più alto in grado della zona. Fino ad una settimana fa portava il turbante talebano, ma oggi ha il pacul, il copricapo tradizionale dei mujaheddin del nord che hanno conquistato la capitale. Lo abbiamo incontrato al ministero degli Interni, dove si lamentava che "Arabi e pakistani continuano a girare impunemente armati a Sorobi e dintorni. Come faccio a cacciarli se non ho gli uomini sufficienti?. Il ministro degli Interni, Yunes Qanooni, che a Kabul ha assunto i pieni poteri gli ha promesso due brigate e a noi giornalisti un'adeguata scorta per recarci sul luogo dell'agguato. In mattinata era giunta una notizia che ci faceva ancora sperare: dei testimoni sostenevano di aver visto alcuni occidentali costretti a inerpicarsi sulle montagne prigionieri dei banditi. Purtroppo non era vero e secondo Qanooni non si è trattato di una mera rapina finita in tragedia, ma di di un'imboscata con tanto di segnalazione via radio dell'arrivo del convoglio. "In quella zona opera un criminale che si chiama Esad e controlla 200-300 uomini - spiega l'uomo forte dei mujaheddin - Faceva parte dell'Hezbi i Islami e poi ha sposato la causa dei talebani. Ora il Pakistan lo utilizza per continuare a minare la sicurezza del paese". Fin dai tempi dell'invasione sovietica i guerriglieri dell'Hezbi, fondato dal falco Gulbuddin Hekmatyar, avevano rapito giornalisti occidentali e pure ucciso un collega che lavorava per la Bbc, ma di nazionalità afghana. Fra i monti circostanti il luogo della strage vivono annidati degli arabi con le loro famiglie, ma il sospetto più atroce è che i giornalisti massacrati siano stati fermati da ex talebani passati con i mujaheddin, che magari controllano quella parte di strada maledetta e odiano gli stranieri. Questo, purtroppo, è l'Afghanistan.
Farewell, good ol' Marjan... The lone king of Kabul zoo succumbs to his age at 48, after surviving years and years of deprivations and symbolizing to kabulis the spirit of resiliency itself Well.....that's sad news, indeed. To my eyes, Marjan symbolized hope. However, in thinking about that dear old lion's death I choose to believe that when he heard the swoosh of kites flying over Kabul, heard the roars from the football stadium, experienced the renewed sounds of music in the air and heard the click-click of chess pieces being moved around chessboards....well, the old guy knew that there was plenty of hope around and it was okay for him to let go and fly off, amid kite strings, to wherever it is the spirits of animals go.
Peace to you Marjan and peace to Afghanistan.
[Diana Smith, via the Internet]